sabato 12 luglio 2014

6° Prima parte - IL REGIO CASALE DI CASAPULLA E LA FAMIGLIA " de Natale Sifola Galiani" LA PIU' ANTICA DI DETTO CASALE

Abate

Fra gli scrittori italiani del settecento, Ferdinando GALIANI è forse quello che, insieme a Beccaria e a Filangeri, ebbe più ampia notorietà in tutta Europa. La sua lunga permanenza a Parigi, la conoscenza e le relazioni che vi stabilì con i protagonisti dell'illuminismo francese e con i frequentatori dei più celebri salotti culturali della capitale, il suo intervento nella questione della libertà economica con i Dialogues sur le commerce des bleds, fecero di lui un personaggio quanto mai brillante sulla scena del mondo delle lumières. Furono poi le amicizie con i philosophes e con le colte dame che ne condividevano le idee, in primo luogo con Diderot e Madame d'Epinay, all'origine, nel successivo periodo del suo ritorno a Napoli, di quella fitta corrispondenza che resta tra i più preziosi documenti dei rapporti intellettuali del secolo. Cultore acutissimo della nascente economia politica e rappresentante tra gli originali e sommi della cultura napoletana, il GALIANI fin dal 1751 aveva scritto il Della moneta, il primo trattato di rilevanza scientifica nella storia del pensiero relativo al probblema del numerario e del valore di scambio: ne fa menzione anche Marx, a più riprese, nella sua opera. Negli anni, infine, vissuti a Napoli dopo il suo soggiorno parigino, dal 1769 alla morte avvenuta nel 1787, GALIANI svolse una significativa attività come consigliere in materia di economia del governo napoletano, mediante memorie, consulte, proposte. I dialoghi, il trattato, gli interventi tecnici ed impegnati del consulente, sono la rigorosa milizia mondana del nostro più illustre abate libertino, cui fanno corona numerosi scritti d'occasione nel senso della sua disponibile genialità. Pari onore conferiscono alla sua lucidità di scrittore ed anche qui, e forse più evidenzialmente, si coglie il piglio spregiudicato di questo spirito, che alla mancanza di rispetto per tutti gli idolo della tradizione[1], oppose tanta intensa realistica concretezza: immunizzatrice quant'altro mai da ogni ottimistica fiducia negli schemi eccessivamente razzionali delle soluzioni generali, e sia pur questa antiveggenza, in cui non poco si coglie della lezione di G. B. Vico, anche il limite della sua sostanzialmente scettica natura. Corredato da un apparato di note puntuali e stringenti che sono imprescindibile ausilio ad illuminare il fitto complesso di fatti, di occasioni e di personaggi che sottendono all'ambito culturale sociale e biografico delle singole opere, il volume ILLUMINISTI NAPOLETANI "OPERE DI FERDINANDO GALIANI a cura dei sopra indicati autori, intende fornire l'insieme più esauriente possibile degli scritti dell'abate napoletano, offrendo al lettore, sulla base delle edizioni originali, oltre a tutti i principali testi già editi, una larga scelta della corrispondenza, ed una raccolta molto significativa di inediti che, raccogliendo alcuni scritti giovanili, fanno spazio ai pareri ed alle memorie da lui presentate al governo napoletano, durante l'ultimo periodo della sua vita.
Benedetto Croce, che così efficacemente ci ha ammonito contro la storia dei "se", proprio riguardo a Ferdinando GALIANI sembra aver fatto una giustificata eccezione. Cosa sarebbe avvenuto dell'abate napoletano se fosse rimasto a Napoli, invece di essere destinato, nel 1759, alla carica di segretario dell'ambasciata del Regno a Parigi? Si sarebbe assai probabilmente perduto per mancanza di materia su cui lavorare, e di stimoli efficaci… scriveva Croce; si sarebbe lasciato andare all'ozio, ai giochetti accademici, agli scherzi leggeri, e perfino alle buffonerie triviali ecc. ecc. Insomma, senza il tuffo nell'ambiente spregiudicato di Parigi, senza la sollecitazione della discussione culturale e civile suscitata dalle Lumières nei salotti letterari e nei circoli durante i dieci anni del suo soggiorno parigino, Ferdinando GALIANI non avrebbe trovato 1e condizioni propizie a svolgere le migliori e più schiette forze del suo ingegno; soprattutto, intanto, non avrebbe scritto i Dialogues sur le commerce des bleds che restano pur sempre il suo capolavoro, che solo dalla diretta esperienza dell'insegnamento della scuola fisiocratica e delle discussioni e reazioni da esso provocate potevano prendere origine. E la pubblicazione dei testi raccolti nel volume citato sopra in calce, mostrando la produzione anche inedita del GALIANI funzionario borbonico negli anni che vanno dal ritorno in patria alla morte (1769-1787), non può che confermare un'impressione, che va oltre le parole del Croce, come di due GALIANI: quello che per molti aspetti egli fu sempre, in parte anche durante il soggiorno parigino, più strettamente aderente e al suo temperamento pigro e gaudente e alla tradizione culturale entro cui in patria si era formato e all'atmosfera intellettuale e politica piuttosto arida e stantia che regnava alla corte di Napoli e nelle stesse èlites di uomini di cultura e di alti funzionari della capitale; e quello invece che nel suo grande libro e nelle lettere al ministro Bernardo Tanucci e nella corrispondenza francese, echi contemporanei e postumi di quella conversazione spiritosa e intelligente che lo fece l'idolo dei salotti parigini, egli ci appare. Non senza che, ovviamente, i due personaggi s'intreccino e confondano di continuo, sicché ad un certo momento il GALIANI funzionario del Regno mostrerà di utilizzare proprio in queste sue mansioni i risultati migliori della sua esperienza parigina. Non sarebbe quindi giustificata una linea di ricostruzione biografica che, quasi dipartendosi da una qualifica precostituita, perseguisse il ritrovamento di due diverse personalità lungo una vita tutta siglata da tratti tanto originali d'intelletto e di temperamento. Ma, semplicemente, tener presente l'intreccio dei due distinti filoni varrà a rivelarci meglio la complessa vitalissima figura di chi, certo senza avere la sincera vocazione illuministica, la schietta adesione ai principi di rinnovamento e di riforma che caratterizzano altri nostri autori settecenteschi, in pochi anni seppe conquistarsi nel centro stesso delle lumières europee una fama e una considerazione che nessun altro italiano, salvo Cesare Beccaria, raggiunse. Del resto, molto sembra essere spesso riservato al caso nella vita di colui che gli amici francesi chiameranno Machiavellino. Fin dal luogo di nascita, avvenuta il 2 dicembre 1728 a Chieti, dove il padre Matteo GALIANI, gentiluomo di Foggia, si trovava allora in qualità di regio uditore. Di là passò a Trani con la carica di fiscale[2], Matteo GALIANI nel 1735 inviò a Napoli Ferdinando, perché venisse educato presso il fratello Celestino, che dal febbraio 1732 era divenuto Cappellano maggiore del Regno[3], e che già nello stesso 1732, anno in cui da arcivescovo di Taranto era passato all'alta funzione nella capitale, aveva preso con sé il fratello maggiore del nostro abate, Berardo (1724-1774), destinato a divenire archeologo e critico di architettura, traduttore e commentatore di Vitruvio. Sulla educazione dei due fratelli prima nella casa dello zio a Sant'Anna di Palazzo, poi, quando Celestino nel 1737 si trasferì a Roma per le trattative del Concordato, nel monastero dei Celestini di San Pietro a Maiella, sui maestri che essi vi ebbero, sulla élites di letterati e dotti che poterono frequentare nel salotto dello zio, ha scritto ampiamente Fausto Nicolini. Qui sarà da notare che la puerizia e l'adolescenza di GALIANI sono assai illuminanti sulla sua personalità futura. Adolescente sveglio e irrequieto, curioso di notizie erudite e di aneddoti civili e culturali, verseggiatore, presto versatissimo nel latino e poi anche nel greco e nell'ebraico, insieme al fratello Berardo divenne coltissimo in archeologia, e insieme a lui studiò diritto civile e canonico presso Marcello Cusano[4]. Sono gli studi che già nel 1747-48 consentirono al GALIANI di scrivere la Dissertazione sullo studio della moneta ai tempi della guerra troiana per quanto ritraesi dal poema di Omero[5]. Ma come andò che, invece di seguire ancora il fratello nel lavoro di erudizione, magari nell'ambito di quell'Accademia Ercolanese della quale anch'egli, nel 1755, sarà nominato socio, Ferdinando GALIANI, che nel 1745 aveva preso gli ordini minori divenendo abate di Santa Caterina a Celano, già nel 1751 compieva il suo primo eccezionale exploit pubblicando, anonimo, il Della moneta? Gli anni fra il 1744, quando tradusse dall'inglese Some Considerations of the Lowering of Interest and Raising the Value of Money del Locke[6], e il 1751, quando apparve la prima edizione del Della moneta, restano ancora i meno noti della biografia intellettuale del nostro autore. Naturalmente, c'è l'influsso di Bartolomeo Intieri e Alessandro Rinuccini, frequentatori, come l'ormai stanco Vico, e Giuseppe Pasquale Cirillo, Nicola Fraggianni, Alessio Simmaco Mazzocchi, Matteo Egizio, Giacomo Martorelli, Gioacchino Poeta, Agnello Fiorelli, Domenico Sanseverino, Nicola e Pietro De Martino, Francesco Serao, ecc., della casa di Celestino GALIANI. E chi rilegga le belle pagine di Franco Venturi[7] sull'opera di incoraggiamento degli studi economici svolta dall'Intieri fino alla fondazione della cattedra di «meccanica e commercio», che permise ad Antonio Genovesi la elaborazione delle sue Lezioni di commercio, si renderà conto di come, dal contatto con questo toscano entusiasta promotore della ricerca di tutti i mezzi atti a incrementare la vita economica, la produzione di beni e la circolazione delle ricchezze, Ferdinando GALIANI dovette essere spronato ad approfondire quei problemi economici cui già il suo talento lo inclinava. Ma il periodo del maggiore scambio d'idee fra l'ormai ricco e influente toscano e il giovane abate sembra essere stato quello successivo alla pubblicazione del Della moneta, la cui apparizione, come si vede dalla sua corrispondenza, colse di sorpresa lo stesso Intieri; e anche dopo la morte di Celestino GALIANI, può esser frutto della collaborazione tra Ferdinando e il vecchio amico dello zio la pubblicazione, nel 1754, del Della perfetta conservazione del grano, di cui GALIANI si è dichiarato autore in vari luoghi (cfr. ad esempio, in questo volume, Sull'annona di Genova, e anche in occasione della sua traduzione francese, nel 1770, venne attribuita al nostro abate. Pur se l'opuscolo, che descrive una stufa per la conservazione del grano ideata dall'Intieri nel 1728 e da lui fatta costruire nel 1731, ha nella impostazione robustamente tecnica e nello stile stesso del discorso un andamento tipicamente «intieriano», tale da far pensare a una partecipazione galianea di molto minor rilievo di quella che il vanitoso Ferdinando si attribuirà. Se dunque, nella casa di Celestino, e forse anche nella villa dello stesso Intieri a Massa Equana, GALIANI respirò l'atmosfera della fervida discussione di cose economiche che preparava nella Napoli di quegli anni il fiorire della lezione di Genovesi e il sorgere di quella che può chiamarsi la sua scuola, peraltro il cammino che dalle composizioni pur sempre umanistico-erudite, come la citata dissertazione sulla moneta all'epoca della guerra di Troia e il di poco precedente saggio Dell’antichissima storia delle navigazioni nel Mediterraneo (1746), conduce ad un lavoro eccezionalmente specialistico come il Della moneta, il nostro abate lo percorse in gran parte da solo, con quel caratteristico sbrigliarsi della sua mente, fecondissima d'improvvise intuizioni, di rapide assimilazioni e di lucide elaborazioni, che dovrà, appunto a cominciare dall'improvvisa comparsa del suo libro nel '51, meravigliare spesso i contemporanei. Certo, se c'è motivo per una contrapposizione dei due GALIANI, anche prima del periodo francese, in certa bipolarità del temperamento, degl'interessi, della dimensione intellettuale del nostro abate, questo ci è dato in maniera singolare dal periodo appunto che dalle sue prime esercitazioni in quella Accademia degli Emuli, che era poi un periodico riunirsi, per discutere argomenti letterari, nella casa del gentiluomo napoletano Girolamo Pandolfelli, va al 1751. Non che almeno nella «lezione accademica» più di rilievo tenuta in quella sede, che sia rimasta fra le sue carte, relativa all'amore (1746), non si ritrovino spunti che vanno al di là della mera esercitazione teorica, per impostare alcuni problemi di un certo impegno culturale e filosofico. Si ha già così un tema che tornerà spesso nelle meditazioni dell’abate, quello del valore della espressione linguistica, della sua influenza nell’articolazione e manifestazione delle idee. «Io ho sempre creduto» scriveva il giovane accademico «che se non tutte, almeno quasi tutte le quistioni che in ogni scienza ed in ogni cosa si fanno, siano questioni di voci, onde siegue che definite queste debbano esse necessariamente finire, o dilucidarsi. È ben vero però, che dopo più esatta ricerca io non saprei dire se sarebbe util cosa, o no che tante questioni e dispute si perdessero in tutto, e tante se ne dilucidassero, poiché molte scienze, alcune delle quali sono non poco utili alla bellezza, all’armonia, ed al gran giro di questo mondo, si perderebbero e sparirebbero affatto, ed il dilucidare alcune arrecherebbe forse non piccol danno a quanto credono aver di più caro gli uomini in questa vita». Che era per buona parte una sorta di nominalismo superficiale; ma al fondo spuntava il senso del valore creatore della elaborazione mentale in sé, qualcosa tra lockiano e vichiano, con un certo generico presentimento del rilievo che l’illuminismo darà al peso delle idee, della stessa discussione culturale nella globalità della vita umana. Altrove, poi, alcune notazioni di sapore materialistico e sperimentalistico, come quella circa la necessità di conoscere meglio la «struttura del cerebro», per discutere della volontà, del giudizio e delle passioni, o sull’origine puramente «machinale» di molti moti d’amore, che magari «taluni credono effetto della santità del sagramento», preannunziano il GALIANI realistico osservatore e spregiudicato analista delle concrete motivazioni delle azioni umane, che troverà fecondo campo di applicazione nell’esame della vita economica. Resta che la maggior parte di quella ventina di fogli fittamente manoscritti era dedicata alla piuttosto vana disquisizione circa le varie specie, forme, manifestazioni dell’amore, circa i loro incentivi e le loro conseguenze nella via civile, secondo una psicologia di maniera. Né certamente si poteva pretendere di più da un giovane di diciotto anni. Come, e ancor più, serbano il carattere di esercitazione retorica l’altro componimento Sopra la morte di Socrate non datato ma certamente, e per la collocazione fra le carte dell’abate, e per il tema e lo stile, da porsi tra iò 1746 e il ’50, e così quello Sull’amor platonico, che per la menzione fattane in una lettera del Conte di Punghino al GALIANI, del 2 dicembre 1748, dovrebbe appunto ascriversi a quest’ultimo anno. Si tratta di studi nell’ambito dell’apprentissage classico del giovane abate, secondo i canoni della cultura dell’epoca. Neppur qui manca certo quella vivacità d’ingegno che renderà famoso GALIANI. O che, in una lettera che si finge scritta da Atene, alcuni anni dopo la morte di Socrate, da un pitagorico (Eutrephon) a un suo amico residente nella Magna Grecia (Theognetes), l’esaltazione della grandezza del filosofo e della nobiltà della sua fine apra la via a un colorito tratto contro lo spirito di persecuzione e la bassa furbizia dei preti: «I preti nella general confusione, dopo il sacco dato da’ Lacedemoni alla città, corsero esclamando contro di Socrate, e tutte le pubbliche e private calamità attribuivano allo sdegno degli Dei, che pretendevano essi d’essere stato da lui mosso coi suoi continovi prosuntuosi discorsi contra di loro». O che la dissertazione sull’amore platonico, tenuta ancora all’Accademia degli Emuli e richiamantesi alla precedente sull’amore in genere, sbocchi nella presa in giro, gaiamente cinica, degli amanti platonici, qualificati come coloro che, disgraziati nell’amore reale, perché respinti da una donna o incapaci di trovar chi li ami, o li faccia felici magari con l’inganno, trovano un’altra sorta d’inganno beatificante nella esaltazione filosofico-poetica delle incredibili bellezze e virtù dell’amata: «quell’infelice che dalla sua donna non riceve altro che ripulse, disprezzo, crudeltà e rigori, che volete ch’ei faccia? La sua donna non vuole in cosa alcuna ingannarlo. Dunque dovrà egli restare sempre infelice perché non ingannarlo? No, la provvidenza e la natura stessa, che noi alla nostra felicità spinge sempre e conduce, fa che insensibilmente l’uomo che non trova chi lo voglia ingannare e rendere felice, s’inganni e si feliciti da sé medesinio. Quindi comincia egli a dire che nella sua donna egli ama le grazie, gli amori, le veneri tutte raccolte insieme, ma principalmente le virtù tutte, che in lei quasi in propria sede si posano e si annidano», Gaio, spregiudicato, un pò cinico realismo. Sotto le auliche sembianze dell’abatino studioso dell’antichità classica o cólto oratore in un’accademia letteraria appaiono già i tratti del futuro Machiavellino. Ma, al di là dell’intreccio delle inclinazioni di temperamento e delle componenti formative di GALIANI, il problema storico che qui si pone resta quello: come proprio negli anni in cui, pur con questi spunti originali di realismo anticonformista[8], egli sembra prevalentemente occupato intorno a temi della tradizionale cultura letteraria, filosofica, d’impronta umanistico-retorica, può invece anche preparare un saggio specialistico di economia monetaria? Problema, s’intende, di ambiente culturale e civile, oltre che di fonti e d’informazione personale. Ovvio il riferimento alle condizioni della vita economica e finanziaria a Napoli nel 1749 e ai testi da GALIANI stesso citati, Bernardo Davanzati, Antonio Serra, Carlantonio Broggia, Troiano Spinelli. E in fondo la storia migliore della genesi del Della moneta l'ha fatta GALIANI stesso nell’Avviso premesso alla seconda edizione del suo libro, del 1780, parlando dei timori che in quell’anno '49, tornata la pace col trattato di Aquisgrana, avevano fatto sorgere nel Regno l’aumento dei prezzi e insieme la scarsa disponibilitá di liquido, il calo di certe ricchezze mobiliari, ecc., e mostrando nel suo saggio la spiegazione in termini realmente economici di quei fenomeni, la risposta a quei timori, nel ricordare la dimestichezza con Rinuccini e Intieri, oltre che la conoscenza dei trattati di Broggia e di Spinelli, come gli antecedenti diretti del suo lavoro. Ma ove accolta così letteralmente, come ad esempio faceva il suo primo biografo, Luigi Diodati, questa ricostruzione fatta da GALIANI delle origini storiche e intellettuali del suo libro può peccare insieme per eccesso e per difetto. Per eccesso, perché forse, data la posizione complessivamente critica da lui assunta verso Broggia, ne può uscire diminuito il senso del valore degli studi di quest’ultimo, dell’influenza che essi dovettero avere nelle riflessioni di quel circolo di studiosi di cose economiche che si raccoglieva appunto intorno all’Intieri, e ai quali peraltro, come al nostro stesso abate, il nome del Broggia non tornava troppo gradito per la loro fondamentale divergenza d’idee, e forse, a causa della disgrazia in cui nel 1755 egli era incappato da parte di Carlo III e di Leopoldo Di Gregorio marchese di Squillace, non sembrava onorevole a mettere in evidenza. Per difetto, perché neppure GALIANI, in quel breve tratto autobiografico di trent’anni dopo, poteva aver piena consapevolezza di alcune linee distintive, caratterizzanti, del suo saggio rispetto ai precedenti e contemporanei lavori sull’argomento. Basta ancora leggere il Diodati per avvertire come fosse difficile ai contemporanei, almeno al superficiale biografo che scrive nell’anno stesso della morte di GALIANI, valutare più in profondità il significato della problematica economico-finanziaria che il Della moneta avviava. Altro che, schivate le conseguenze dannose che la pubblicazione dello scherzoso componimento sul boia Iannaccone avrebbe potuto provocargli da parte dell’avvocato Giovanni Antonio Sergio, presidente dell’Accademia presa in giro da GALIANI, pensare «di acquistarsi nel mondo letterario un’idea più nobile e vantaggiosa»! In realtà è attraverso i libri come il Della moneta che, più o meno consapevolmente, i nostri intellettuali del Settecento rompono le barriere di provincialismo, di gretta tradizione erudito-letteraria, cominciano a rivoluzionare il proprio atteggiamento culturale e civile, assumono una linea di condotta che, avvicinandoli ai philosophes i quali proprio negli anni cinquanta vanno dalla Francia imponendosi come protagonisti sulla scena non solo intellettuale ma politico-civile europea, tende a inserirli nelle strutture dello Stato, al vertice stesso della sua direzione, per un’opera di rinnovamento e di riforma. Se questo è il punto di vista essenziale per la comprensione e valutazione storica del Della moneta, può forse apparire meno significativa, anzi talora leggermente deformante la reale prospettiva storiografica, la ricerca dei precorrimenti che sul piano specifico delle teorie economiche il libro di GALIANI può recare. Rapporti fra «rarità» e «utilità» come elementi del valore[9], sottolineatura delle caratteristiche del «valore d’uso[10]», intuizione della «teoria della decrescenza della utilità dei beni[11]», soggettività «del rapporto di equivalenza fra la quantità di una merce e quella di un’altra merce» e «interdipendenza fra rarità della merce e consumo e quindi domanda[12]», e via seguitando. Sono tutti aspetti realmente presenti nel saggio, sbalorditivamente originale e maturo, del ventitreenne abate napoletano, e aspetti dei quali non si può certo disconoscere il significato, se si vuole d’intuizioni precorritrici, nel processo di formazione di moderni concetti dell’economia e della scienza monetaria. Ma sul piano della specifica interpretazione storica val certo più guardare, anziché al futuro, a ciò che effettivamente il Della moneta nel suo insieme rappresentò nel contesto della sua epoca, nello svolgersi della cultura, delle idee e dei propositi di riforma nella vita economica degli Stati, del Settecento italiano ed europeo. Un cólto corrispondente di Messina, il conte di Punghino, che in certi luoghi figura come il conte Toccoli[13], al quale GALIANI aveva inviato negli anni quaranta alcune sue composizioni rimaste inedite, come quella sull’Anticristo o quella circa gli «errori commessi sull’opinione del Messia», ci dà un vivo esempio, nelle lettere inviate fra il 1750 e il 1751, del distacco in cui la cultura tradizionale doveva venire a trovarsi di fronte a un libro come il Della moneta. Richiesto da GALIANI di un parere circa il valore, arbitrario o meno, e circa l’utilità e l’uso delle monete, il nobile amico in una prima lettera, del 7 dicembre 1750, sembrava venire incontro al corso dei pensieri del giovane autore. Al quesito se la moneta fosse da considerarsi una istituzione arbitraria o no. rispondeva, pur attraverso una discutibile escursione storica di un vichismo molto approssimativo, che le miniere d’oro e d’argento, per quanto casualmente scoperte dagli uomini, avevano ad essi offerto una merce di tale bellezza, comodità, ecc., che si era imposta come misura degli scambi: sicché «non è fuor proposito il dire che sia stato nella sua prima istituzione un uso economico, in quanto serviva all’cconomia della vita e dei commerci». Ma poi, stretto dal GALIANI a dare più preciso parere circa il valore e l’uso della moneta, il Punghino non mancava di ricadere in una dissertazione utopistico-moralistica, dove l’esaltazione settecentesca dello stato di natura, il mito della felicitá dei popoli primitivi si congiungevano con motivi della tradizionale retorica cattolica, di apologia della povertà e del disdegno delle ricchezze, per approdare a una conclusione abissalmente distante dalla impostazione economica del problema della moneta: «Ma le monete non veggono a quale degli umani sensi posson recare giovamento, e qual virtù abbiano in sé stesse... Il gusto, il tatto, l’udito, l’odorato, l’occhio, che gustano, che toccano, che odorano, che vedono, di grato, palpabile, odoroso, soave e vago, quando ad essi presenti si fanno le monete? In sé stesse che valore hanno! che uso potrebbe farne la medicina e tutta l’umana vita, se l’opinione del volgo non avesse attaccato ad esse un merito che in sé non hanno?». Si era, con questa lettera, al 18 gennaio 1751, e il gran libro del nostro abate doveva uscire di lì a pochi mesi. Non è da meravigliarsi se la corrispondenza del Punghino non rechi più traccia di richieste o notizie di GALIANI a proposito della moneta, fino a circa un anno dopo, quando il saggio galianeo ormai da tempo pubblicato è atteso anche dall’amico messinese, che fra l’altro così appare comunque uno dei pochi che conobbero fin dall’inizio chi ne fosse l’autore; e tuttavia il Toccoli, in una lettera del 7 febbraio 1752, mostra di non avere capito perché mai GALIANI, fra tanti temi che aveva da trattare, e alcuni anche preso a studiare, abbia scelto poi proprio quello della moneta, per «porre alla gran luce del mondo un’opera, che apparecchiata con così grande apparato, come avete fatto voi, saria stata bastante occupazione per la lunghissima vita del più vecchio di quegli stessi antichi vostri Patriarchi, se di quelli il più dotto avesse avuto la menoma parte della vostra erudizione». Mentre il Toccoli era rimasto impigliato in un discorso moralistico, ostentando il disprezzo dei filosofi per la moneta, il cui valore era solo effetto dell’opinione del «volgo», il GALIANI si era dedicato seriamente allo studio scientifico dei requisiti della moneta sull’unico piano dove di essa occorre parlare, quello economico. Ma, come si è visto già dall’Avviso della edizione del 1780, solo un uomo di cultura tradizionalistica, angustamente letteraria e umanistica, come doveva essere il Punghino, poteva meravigliarsi del tema scelto da GALIANI, a prescindere dalle inclinazioni fino allora manifestate da quest’ultimo nella sua attività intellettuale. Come nel suo bel volume sul Settecento riformatore Franco Venturi ci ha di recente illustrato, il Della moneta di GALIANI è solo un pezzo di un vasto mosaico, una voce di quell’ampio «dibattito delle monete» che il 17 agosto 1751 Beltrame Cristiani diceva esser penetrato in tutta Italia come «una specie di fanatismo». Sicché, davvero, a considerarlo ancora in sé, immersi nelle «rapsodiche volute» in cui ci conduce «l’intelligenza pieghevole e lucida di GALIANI», il Della moneta rischia di restare un «incantato labirinto». Nel quale, come suggerisce ancora Venturi, conviene quindi entrare solo se provvisti di una mappa, che è quella fornitaci «da tutta la discussione monetaria che si andava svolgendo» nel mondo culturale italiano di quegli anni «sui problemi del Regno napoletano e dell’Italia che stava uscendo dalla guerra di successione austriaca»; e solo «una rilettura di questo celebre libro alla luce di tale realtà potrà contribuire indubbiamente a chiarire il significato di queste pagine portentose e stupende», Toccherà certo al lettore rileggere il testo che si presenta nel volume nella sua prima edizione, del settembre 1751, alla luce delle suggestive pagine d’inquadramento e interpretazione storici di Franco Venturi. Qui ci è dato solo rivedere l’incidenza che il contatto con questo fervore di operosità intellettuale per l’esame di un problema tanto importante e concreto della vita economica ebbe nello svolgimento delle idee di GALIANI, nel suo immediato splendido frutto e oltre. Occorrerà anzitutto un po’ di cronologia. Colpisce la quasi contemporaneità di tutti questi scritti monetari. Se si eccettuano il Trattato de’tributi, delle monete e del governo politico della sanità del Broggia, che è del 1743, le Riflessioni politiche sopra alcuni punti della scienza della moneta dello Spinelli, la cui prima edizione non reca luogo né data, ma la cui composizione deve porsi fra il 1749 e il 1750, nonché il Del commercio di Gerolamo Belloni (Roma 1750), ai quali libri GALIANI stesso allude in alcuni passi del suo saggio, tutti gli altri appaiono esser stati composti proprio nel periodo stesso di elaborazione del Della moneta o comunque in circostanze da non poter essere stati consultati dal nostro abate per la stesura della sua opera: anche quel Dell’indole e qualità naturali e civili della moneta e de’principii istorici e naturali de’contratti, di Giovanni Fabbrini, pubblicato a Roma sui primi del 1750, ma di cui GALIANI, che mostra di ben conoscere il lavoro del Belloni, pur posteriormente pubblicato, non fa alcun cenno. Degli autori poi che pubblicarono i loro scritti fra il 1751 e il 1752, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, Giovanni Francesco Pagnini, Pier Giovanni Capello, René-Louis Voyer d’Argenson, Girolamo Costantini, nonché l’anonimo del Problema se meglio sia accrescere di prezzo la moneta reale, oppure minorarla ( 1750) incluso nel terzo tomo della raccolta De monetis ltaliae pubblicata a Milano nel 1750-52 in quattro volumi da Filippo Argelati, non appaiono certo tracce consistenti di reciproche influenze fra le loro opere e il Della moneta. Del Pagnini stesso GALIANI cita la traduzione dei Ragionamenti sopra la moneta, l’interesse del denaro, le finanze e il commercio di Loke (Firenze, Bonducci. 1751), ma non nomina invece il Saggio sopra il giusto pregio delle cose, la giusta valuta della moneta e sopra il commercio dei Romani, che pure era apparso, in appendice, in quello stesso volume. E anche il Costantini. il cui Delle monete in senso pratico e morale, pubblicato a Venezia sulla fine del 1751, sembra diretto proprio contro le idee del GALIANI circa l’inflazione e gli «alzamenti», non cita in questa sua opera il Della moneta, cui accenna invece solo nel successivo minore scritto Caso di monete imprestate (Venezia 1753). Infine il Broggia che nel 1754 tornerà sull’argomento, alla cui discussione aveva in certo senso dato il la col suo Trattato del 1743, nella Memoria ad oggetto di varie politiche ed economiche ragioni e temi di utili raccordi che in causa del monetaggio di Napoli s‘espongono e propongono ecc. (1754), pur sostenendo ancora in questo suo nuovo scritto la tesi, nettamente contraria a quelle di GALIANI, della necessità di una rivalutazione delle monete napoletane a spese dello Stato, non fa mai espresso riferimento al libro del nostro abate. Certamente, alcuni di questi uomini impegnati nel «dibattito delle monete» entrarono presto in contatto con GALIANI, insieme alla élite dotta di tutta Italia. Solo per fermarsi agli esempi di maggior rilievo, il Neri gli scriverà da Milano, il 13 dicembre 1753, assicurandogli di aver ricevuto il Della moneta, tramite l’amico comune Camillo Piombanti, di cui piange la recente morte; e nel 1754 il principe Trivulzio, che scrive da Milano firmandosi «Lucullus», gli comunicherà che l’Argelati ha intenzione di ristampare il suo «dotto» saggio in quel quinto volume del De monetis Italiae che non sarà poi mai pubblicato[14]. Ma soprattutto-e queste e altre lettere ne sono appunto l’eco-il contatto più efficace con gli esponenti qualificati della nuova cultura italiana, aperta verso i problemi dell’economia, e fra essi con i protagonisti della discussione sulle monete, GALIANI lo aveva stabilito nel viaggio compiuto attraverso la penisola, subito dopo la pubblicazione del suo libro, dal novembre 1751 al novembre 1752. Nelle sue annotazioni[15] ci sfilano così innanzi le figure di maggior rilievo di questa rinnovata vita intellettuale italiana, al tournant verso il riformismo della seconda metà del secolo. A Roma, dove alloggia presso il convento dei Celestini, GALIANI incontra Giuseppe Simonio Assemani, Giovanni Gaetano Bottari e Pier Francesco Foggini, che lo guidano attraverso la Biblioteca e il Museo Vaticano e lo intrattengono di argomenti di filosofia e di religione, di affari ecclesiastici e questioni economiche, frequenta i cardinali Silvio Valenti Gonzaga segretario di Stato di Benedetto XIV, Tiberio Carafa, Francesco Landi, Giuseppe Spinelli, l’ex-arcivescovo di Napoli, col quale, noto per l’atteggiamento d’intransigenza curialistica tenuto nella capitale borbonica, dice di aver «discorso molto di politica e di cose profondissime di stato». A Siena, dove suscitano la sua ammirazione i monumenti e la bellezza delle donne, fra gli altri letterati conosce Francesco Alberti di Villanova, autore di un dizionario famoso nel Settecento, e Guido Savini, membro dell’Accademia dei Fisiocratici e autore dell’Elogio di Sallustio Antonio Bandini. Più significativi i nomi che ricorrono nelle pagine relative al soggiorno di GALIANI nei maggiori centri del granducato, Livorno, Pisa, Firenze dal gennaio al maggio del 1752: Filippo Venuti e l’avvocato Giovanni Iacopo Baldasseroni, Tommaso Perelli. Gualberto de Soria, Odoardo Corsini, Leopoldo Guadagni, Gianlorenzo Berti, Gaspare Cerati, Anton Maria Vannucchi, Francesco degli Albizi, Giuseppe Pelli Bercivenni, Antonio Cocchi, Camillo Piombanti, Lorenzo Mehus: davvero il fior fiore dei professori dell’Università di Pisa e più in generale della élite culturale toscana. Magari un tipo di cultura ancora non sempre preparato al taglio degl'interessi per la vita economica e i problemi finanziari e monetari, da cui ormai sembrava prevalentente attratto il giovane abate : Bernardo Tanucci, scrivendo da Napoli il 2 maggio 1752 al suo agente Francesco Nefetti, a Firenze, nel rilevare che «il semplice, l’umano, il facile zio» aveva «formato un letterato ma non un uomo di mondo», aggiungeva che Ferdinando, ormai confessatosi autore del Della moneta, non era piaciuto a Pisa, «Paese provinciale e piccolo», ma sarebbe dovuto piacere a Firenze, dove era «maggiore e più vasta l’umanità, la sofferenza, il piacere[16]», in «Archivio general de Simancas, Secreteria de Estado. Reino de las dos Sicilias[17]»., Comunque, passato a Ferrara e Venezia, anche nella vecchia repubblica GALIANI incontrò uomini della nuova cultura, Marco Foscarini, Girolamo Costantini, Pier Giovanni Capello, nonché un uomo politico di primo piano, oltre che scrittore, come Andrea Tron. Ma particolarmente fecondi i due successivi soggiorni di Milano e Torino: il primo per la conoscenza che vi fece con Pompeo Neri, Filippo Argelati, Antonio Menafoglio, Alessandro Sormani, Ilario Corte, Francesco Carpani, ecc. (e vi ritrovò anche Piombanti); e il secondo particolarmente per il lungo colloquio che vi ebbe col re di Sardegna, Carlo Emanuele III cui fu introdotto da Francesco Garro e cui a un certo punto partecipò anche il duca di Savoia, il futuro Vittorio Amedeo III - e tanto il re quanto il principe gli si dimostrarono informatissimi dei problemi monetari e della letteratura in proposito, nonché competenti in materie economiche generali, in primo luogo l’agricoltura. Dopo essere ritornato il 19 settembre 1752 a Milano, dove si trattenne fino al 10 ottobre rivedendo le conoscenze fattevi e ampliandole, l’abate, attraverso Piacenza, Parma, Bologna, Loreto, Roma, giunse infine a Napoli, il 9 Novembre 1752. Da appunti successivi[18] risulterebbe anche che GALIANI incontrò a Siena Giovanni Lami, il redattore delle Novele letterarie e, come vedremo, critico non certo benevolo del Della moneta, e a Verona Luigi Pindemonti e Scipione Maffei, che gli parlò delle sue recenti dispute con Tommaso Maria Manachi e Daniele Concina sulle questioni delle streghe e dell’interesse del denaro. Come vedremo meglio nei nostri Preliminari, non fu comunque certo la risonanza, piena di curiosità e in complesso di favore, nelle lettere private e anche in qualche pubblicazione periodica, che mancò al Della moneta. Pur se gli entusiasmi che portano Intieri a ripetere fino alla noia che Ferdinando GALIANI è un vero portento, il suo eroe, le varie qualifiche di gran dottrina date al suo saggio, le lodi di elegantissimo ragionatore fattegli da Pietro Paolo Celesia, che lo vorrebbe anche compagno in un viaggio intrapreso nell’autunno del '53 in Francia, Olanda e Inghilterra, il desiderio di Niccolò Pagliarini di averlo a collaboratore, fin dal maggio 1753, del romano Giornale de’letterati, gli elogi di Gaspare Cerati, cui sembra di ritrovare negli scritti galianei le idee dell’amico Intieri. queste e altre reazioni di più o meno caloroso consenso vengono un po’ bilanciate dalle non infrequenti riserve mosse da altre parti, come quelle dell’anonimo corrispondente da Firenze, che fin dal 21 novembre 1751 rimprovera a GALIANI di non aver capito Montesquieu, o quelle più argomentate, e alla fine desisamente critiche, avanzate da Giovanni Lami nel secondo estratto dato del Della moneta dalle Novelle letterarie, nel numero del 29 dicembre 1752. Ma più che l’aspetto formale del consenso o meno incontrato dall’opera di GALIANI, interessa certo la sua collocazione nell’ambito dei motivi sostanziali del dibattito monetario di quegli anni. E qui indubbiamente si deve ricordare con Franco Venturi nel ritenere che il carattere peculiare e originale del gran libro galianeo sta nella sua decisa presa di posizione a favore di un trattamento del problema della moneta inteso a incrementare la disponibilità di denaro, la circolazione dei beni, la produzione e il consumo di manifatture anche di lusso, magari originando alti prezzi ed eventualmente, in caso di necessità, l’alzamento, cioè l’inflazione praticata con il dare alle monete, mediante prescrizione d’autorità o diminuzione dei metalli contenutivi, un valore nominale, ufficiale, superiore a quello reale. Che certamente erano elementi di una visione economica sotto molti aspetti moderna e aperta, tesa a trascurare le lamentele e le paure dei sostenitori delle grascie, dei vincoli annonari, dei bassi prezzi imposti per grida che fanno stagnare la produzione e il commercio, come avveniva allora nello Stato Pontificio, e non riluttante neppure a ricorrere alla svalutazione, che GALIANI giudicava da evitarsi, perché rovinosa per i poveri, nei tempi prosperi, ma indispensabile e di sollievo ad essi in quelli calamitosi, dimostrando con grande acutezza il segreto dell’alzamento nel profitto che il principe e lo stato ritrae dalla lentezza con cui la moltitudine cambia la connessione delle idee intorno a’prezzi delle merci e della moneta. Insomma, come ha scritto ancora Venturi, GALIANI aveva così tentato di sostituire al programma, che era quello della sua generazione, di stabilità monetaria, di tassazione riorganizzata e di riforme, l’espediente della inflazione controllata.
D’altronde, come i contemporanei e immediatamente successivi scritti monetari dimostrano, la soluzione più generalmente seguita, di ovviare agl’infausti effetti della guerra di successione austriaca con la stabilizzazione monetaria e certe riforme di fondo della vita economica, aveva la sua plausibilità. E anche le idee specifiche sulla moneta che i loro autori manifestavano possono spesso apparire fondate e stimolanti almeno quanto quelle di GALIANI. Belloni, con le sue proposte di una svalutazione controllata per ristabilire il cambio alla pari, ma seguita da riforme interne dello Stato romano, per accrescere le esportazioni e riportare a un equilibrio la bilancia del commercio, in primo luogo riforme dell’ingiusto sisterma tributario e riacquisto degli appalti di riscossione delle imposte, al fine di «dilatare la circolazione del denaro», specie fra le classi meno abbienti. Carli, con la sua dura denunzia degli effetti dell’alterazione delle monete. come appunto esemplarmente mostrato dall’esempio dello Stato della Chiesa, e con la sua insistenza per il drastico rimedio della nuova monetazione, secondo la strada indicata da Locke. Neri, con la sua intuizione della importanza essenziale del rapporto di valore reale fra i due metalli pregiati e della opportunità di disciplinarlo con accordi interstatali, pur nel rispetto di quelle leggi naturali che regolano la misura del valore allo stesso modo che la misura della lunghezza, dell’estensione cubica, della gravità ecc., e con la conseguenza della rigorosa esclusione di tutte le manipolazioni della moneta, perché ogni alzamento è solo frode, sostituzione di un arbitrario e interessato calcolo contingente al calcolo inesorabile che regge l’andamento del valore della moneta, e che va rispettato non solo per le monete d’oro e d’argento ma anche per quelle di rame e quelle di bassa lega che partecipano più del rame che dell’argento. Pagnini, con la sua esaltazione del mondo moderno, del commercio e delle industrie, in cui la moneta assume quella funzione regolatrice, normativa della produzione e del mercato, che in Roma e nelle società antiche aveva svolto la legge. Costantini, con la sua analisi delle dannose conseguenze avute a lungo andare sulla vita economica europea dall’eccesso di afflusso di metalli preziosi dall’America, un’analisi che conduceva a mostrare i rovinosi sviluppi dell’inflazione per i proprietari detentori di rendite in denaro e per i salariati, tanto più in quanto gli Stati per ovviare allo scarso potere d’acquisto della moneta avevano accentuato il male con le tosature e gli alzamenti - di qui le sue tesi regolamentazionistiche, per un energico intervento del governo a disciplinare il commercio e a risanare la moneta. Erano gli anelli di una linea che, pur non senza interni dissensi e contrasti - ad esempio fra le proposte di Neri per un regolamento mediante accordi tra gli Stati italiani del rapporto del valore fra oro e argento, e la decisa ripulsa di esse da parte di un Costantini, fautore dell’autonomia del chiuso sistema economico della sua Venezia -, si definiva per l’obbiettivo comune di respingere in ogni caso la svalutazione e gli alzamenti, e di fare affidamento non già sul libero gioco delle iniziative private, sulla lotta d’interessi che le muovono, sull’espandersi della circolazione del denaro e dei consumi anche di lusso, ma sull’intervento dello Stato per riformare certi aspetti della produzione, del consumo, del sistema fiscale e rivalutare la moneta, magari con nuove coniazioni. Che era poi quello che muoveva le sole critiche espresse rivolte a GALIANI da alcuni protagonisti di quella discussione delle monete: Pompeo Neri che, nella, Appendice al suo importantissimo lavoro Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete e le difficoltà di prefinirlo e sostenerlo, presentate a Sua Eccellenza il signor conte Gian-Luca Pallavicini ... sotto il dì 30 settembre 1751, obbiettava all’autore del Della moneta di non aver tenuto conto della natura effimera dei benefici dell’alzamento, seguiti da danni immensi per i creditori rovinati da mali...più estesi, più importanti, più casualmente gettati sopra il popolo e specialmente sopra i poveri, come sono tutti i creditori delle proprie fatiche, e più durevoli; Girolamo Costantini che come massima giustificazione delle idee erronee di GALIANI circa l’alzamento indicava l’aver voluto egli sostenere con argomentazioni teoriche la politica di necessità svolta dal suo governo; Giovanni Lami che, come preciseremo nei Preliminari, compieva una disinvolta sterzata dal primo al secondo estratto dato del libro nel suo periodico, finendo per criticare piuttosto duramente il Della moneta per quelli che gli sembravano i suoi paralogismi, le sue prolissità in cose ovvie, e soprattutto per il suo favore per la svalutazione che, pure, aveva mostrato i suoi rovinosi effetti trent’anni prima nella Francia di John Law, nonché per l’apologia che GALIANI aveva fatto dei consumi di lusso in quanto suscettibili di stimolare la produzione e la circolazione della moneta, e per la sua posizione riguardo al problema dell’interesse del denaro, giudicata dal recensore piena d’incertezze e di tergiversazione; e infine per la sfiducia che l’abate dimostrava verso le riforme, i miglioramenti, le nuove istituzioni promosse dai governi. E certamente proprio qui il suggestivo libro del nostro autore svelava il suo punto più debole, nello scetticismo delle sue conclusioni verso ogni energia politica di riforma e di risanamento, in quel privilegiare la situazione precaria e la politica economico-finanziaria di espedienti e di temporeggiamento del Regno di Napoli in confronto a quello che egli considerava il maggior sintomo della crisi che a suo parere doveva invece continuare ad attanagliare il resto d’Italia, e cioè l’infinito discorso e l’innumerabile quantità di riforme, di miglioramenti, di leggi e d’istituzioni sul governo, sul traffico e sopra tutti gli ordini dello stato civile, fatti da per tutto, ed a gara intrapresi. Non era certo la professione di fede di un riformatore e tanto meno di un illuminista. La splendida intelligenza di GALIANI» ha scritto Franco Venturi si era bruciata in queste pagine, lasciando infine la cenere del suo scetticismo. Aveva penetrato i meccanismi della moneta, dell’inflazione, aveva illustrato in modo nuovo i rapporti tra diritto, economia e politica. Ora vedeva un segno di morte nei dibattiti dei suoi contemporanei, in quella volontà di riforma che affiorava appena nelle discussioni che s’andavano svolgendo a Venezia, a Milano. a Firenze. Eppure, ovviamente, la via per superare la crisi che ancora in quell’anno 1750, in cui GALIANI scriveva, paralizzava l’Italia non era certo quella dell’inerzia, del temporeggiamento, dell’espediente effimero, magari destinato a pesare sulla vita e sull’attività dei ceti inferiori della popolazione. Era piuttosto la via di riforme, magari non di effetto immediatoeli nel campo monetario, ma destinate a rinnovare l’economia d’interi paesi, la via indicata a Milano e in Toscana da Gian Luca Pallavicini,da Neri, da Pagnini, e che porterà alle notevoli trasformazioni dell’epoca di Firmian e di Pietro Leopoldo, dei Verri, dei Beccaria, dei Longo, di Angelo Tavanti, di Francesco Maria Gianni, di Ferdinando Paoletti, ecc. Con tutto questo, il Della moneta va preso per quello che è, che volle e riuscì a dire come espressione di una determinata situazione storica, da cui peraltro la mente acuta e spregiudicata di GALIANI seppe ricavare una serie d’intuizioni specifiche valide indubbiamente anche per futuri sviluppi, per certi aspetti del configurarsi del problema teorico e pratico della moneta anche in avvenire: oltre quei certi «precorrimenti» rilevati, come si è visto, dagli cconomisti, la rigorosa confutazione della tesi del carattere meramente arbitrario, di convenzione, del valore della moneta e l’insistita affermazione della sua natura intrinseca, derivante dal valore del metallo di cui la moneta è fatta, secondo i tre requisiti della utilità, della rarità e della fatica, con i conseguenti attributi di uniformità e semplicità della sua stima e valuta, di durata, di comodità del trasporto e dell’impiego, ecc; e poi tutte quelle riflessioni, così efficaci nella forma lucida e suggestiva e sostanziose nella acutezza di analisi sperimentale che le nutrisce, circa i valori proporzionali fra le monete di diverso metallo e di vario tipo, circa il valore del denaro rispetto alle merci, circa i cambi, il corso e l’interesse di esso - tutto ciò insomma per cui fra i tanti altri scritti sull’argomento, che in parte si è citato, il Della moneta doveva restare come il capolavoro uscito da quella discussione sulle monete che alla metà del secolo si era così prepotentemente imposta alla riflessione di molti autori italiani di cose economiche.
Uno specialismo non angustamente tecnico, un realismo empirico eppure sorretto da uno sguardo lucidamente competente. Era questo uno dei pregi maggiori del Della moneta, che gli consentiva sempre d’inserire l’analisi puntuale del fenomeno moneta, delle condizioni, delle caratteristiche, degli sviluppi del suo valore, del suo uso, della circolazione, in una visione, ancora un pò implicitamente e certo alla fine scettica, troppo relativisticamente aderente alla situazione empiricamente constatata, ma pur sempre ricca di spunti, di intuizioni geniali, di consapevolezze sorprendentemente mature della intera vita economica. Un economista come Ernst Kauder ha potuto rilevare che GALIANI, se ripete la formula tradizionale che il valore dipende dalla utilità e dalla scarsità, peraltro ampia il campo di applicazione di questa formula, e adopera nella individuazione del valore d’uso concetti che anticipano la teoria dell’utilità marginale, stabilendo una graduazione nella soddisfazione dei bisogni, secondo una gerarchia determinata da considerazioni sociali e fisiologiche e non da decisioni personali: in prirno luogo la conservazione della vita, il desiderio del cibo, vesti, abitazione ecc., poi i segni di distinzione sociale, titoli, onori, utilità, autorità, in terzo luogo la ricerca della bellezza, adornamento delle donne e dei fanciulli con gemme e monili d’oro e d’argento o godimento delle opere d’arte[19]. Anche se, rispetto a più moderne formulazioni di queste teorie, la intuizione di GALIANI rimase piuttosto grossolana, ritenendo che il consumatore soddisfaccia tutta una classe di bisogni prima di passare a soddisfare il gruppo di necessità di ordine inferiore, e non vedendo che in ogni classe di beni può essere raggiunto un simile grado di soddisfazione[20], sul piano più generico della concezione del valore in rapporto al prezzo delle cose, la sua opera cominciava a cogliere il punto nodale del trasporsi del problema della moneta nel più vasto tema della circolazione dei capitali e dello sviluppo della produzione, del commercio, dei consumi. Val la pena di ricordare in proposito un frammento autografo, rimasto inedito, senza data ma conservato fra lettere e scritti dell’epoca della pubblicazione del Della moneta o degli anni immediatamente successivi[21]. Lì infatti GALIANI impostava su larghi presupposti di concezione economico-politica la prefazione che intendeva fornire a una progettata ristampa.……di alcuni rarissimi libri usciti verso il principio del passato secolo la prima volta alla luce per rimedio ai disordini della moneta e del cambio, onde era afflitto oltremodo il Regno di Napoli ed impoverito. Dove le difficoltà monetarie che avevano afflitto il Regno fra gl’inizi del secolo XVI e quelli del XVII erano ricondotte a una serie di motivi politici ed economici, dei quali i contemporanei, e gli autori stessi di quei trattati, non avevano potuto rendersi ben conto. Mancanza di una dinastia propria, e situazione del Napoletano come provincia di quell’accozzamento disperso e stravagante di stati, che formarono la monarchia di Carlo V; gravezza dei tributi imposti da Filippo II al paese, per sostenere la guerra nei Paesi Bassi o contro i Turchi; noncuranza del governo spagnolo per le industrie e arti di economia, sicché la maggior parte delle rendite e dei dazi del Regno erano passati in mano ai forestieri, provocando una grandissima estrazione di denaro, potenza dei baroni, i quali proteggendo gente scellerata avevano reso impossibile una reale amministrazione della giustizia nel paese, con la conseguenza sul piano monetario che i banditi, sparsi nelle campagne e sui monti, per vivere tosavano le monete, e le monete così adulterate avevano invaso Napoli e le altre città, provocando la fuga di quelle buone, il rialzo innaturale dei prezzi, il dissesto economico e finanziario. Erano i pezzi di un quadro assai esauriente della decadenza economica sociale e politica del Regno di Napoli sotto gli Spagnoli. Un quadro che rivelava nell’autore già nel corso degli anni cinquanta, cui con quasi assoluta certezza può farsi risalire il frammento, una notevole informazione storica e un occhio sicuro nel valutare gli elementi economici della vita napoletana nel loro nesso con gli aspetti più marcatamente politici. Come ribadiva la riassuntiva descrizione della situazione del Regno agl’inizi del Seicento, dopo quasi un secolo di quell’andazzo: In tale infelice stato era dunque il Regno di Napoli nel cominciamento del secolo decimosettimo: poco curato dal suo re e dalla corte lontana; tiranneggiato dai baroni; distrutto e desolato nel suo interno da’banditi, nelle sue coste da potenti squadre de’Turchi; interrotto ogni commercio per terra e per mare; i fondi della corona alienati e i dazi, che ogni dì più crescevano, venduti agli stranieri, che gli amministravano con non minore energia che crudeltà; sempre costretto a mandar gente e denari, senza niuna cura per le manifatture e per la coltivazione, altro non ricevevano i Viccré che nuovi donativi.... C’è davvero da rimpiangere che proprio con questa descrizione il frammento s’interrompa. Ma qui s’entra di nuovo nel campo di quella vena di scetticismo e, sul piano del temperamento, di pigrizia un pò cinica, che, come si è visto, aveva ispirato a GALIANI la stessa conclusione del Della moneta, Non lo sarà negli anni sessanta, nel fervore delle lumières parigine, non lo sarà dopo il 1770, quando le cariche presso il governo di Ferdinando IV gli offrirono l’opportunità di tradurre in provvedimenti concreti la sua conoscenza delle teorie e dei fatti economici nonché l’esperienza del movimento illuministico che scuoteva l’Europa: fíguriamoci se Machiavellino può sentirsi l’animus del riformatore illuminista ora, che la crisi italiana conseguente alla guerra del ’40-48 e la fase di riflusso e d’incertezza dell’azione di governo di Carlo III lo hanno condotto a inaridire in una proposta attesistica, scetticheggiante, dilatoria se non proprio immobilistica, le lucide intuizioni economico-finanziarie del suo saggio monetario! Non è dunque da meravigliarsi che GALIANI lasci interrotta e inedita la ricostruzione di storia economica del sopracitato frammento, e neppure forse può apparire troppo strano che, con tutta la competenza nei problemi economici che aveva ormai rivelato e con la notorietà che si era procurata in seno a questo ambito della cultura italiana, di ritorno dal suo viaggio per l’Italia, risiedendo a Napoli egli restasse in fondo estraneo a quel movimento d’idee e di riflessioni sulle materie economiche che faceva capo ad Antonio Genovesi e al suo magistero dalla famosa cattedra napoletana di meccanica e commercio. Certo, come abbiamo visto, il nostro abate era stato in strettissimi rapporti con Intieri e col suo circolo, dal quale erano anche usciti il Genovesi economista e il suo insegnamento: ma a quel più vasto corso di discussioni e meditazioni che a Napoli prese avvio dalla conoscenza dei testi della scuola di Vincent de Gournay, dagli Élémens du commerce di François-Louis Véron de Forbonnais alle Remarques sur les avantages et les désavantages de la France et de la Grande-Bretagne par rapport au commerce et aux autres sources de la puissance des États del Plumard de Dangeul, all'Essai sur la police générale des grains di Claude-Jacques Herbert, ecc., e che anche prima di scrivere per l’Università le sue Lezioni di commercio, il Genovesi impostò col Ragionamento sul commercio in universale(1757), a tutta la significativa Bewegung di idee economiche che apparirà dar vita a una vera e propria scuola genovesiana GALIANI non partecipò certo attivamente. Il suo stesso atteggiamento culturale ritorna piuttosto quello del letterato che non dell’economista: nel corso del suo viaggio, a Firenze, è accolto in due Accademie di tipo letterario erudito, come la Colombaria e la Crusca, e poi nel novembre del 1752, appena tornato in sede, riceve da Luigi Valenti[22] la notizia che a Roma è stato ammesso in Arcadia col nome di Sterofante Pisindeo. E letteraria, o archeologica, continua ad essere sostanzialmente la sua operosità in tutti gli anni cinquanta: dalla partecipazione ai lavori dell’Accademia Ercolanese, di cui è membro fino dalla fondazione (1755) e al cui primo volume di pitture pubblicato nel 1757 dà il suo contributo, alle Lodi di papa Renedetto XIV, seritto poco dopo la morte del pontefice[23], allo stesso discorso Degli uomini di statura straordinaria, e de’giganti(1757-58); per non parlare della scherzosa orazione del capodanno 1759, in occasione di tirare in quel giorno i cicisbei e le cicisbee a sorte, Mentre. come si è detto, la sua rivendicazione di paternità del Della perfetta conservazione del grano, illustrazione di una scoperta a cui Intieri teneva tanto, non manca di suscitare fondati dubbi. Quindi, più che meravigliarsi sarà da ricordarsi qui ancora delle due anime di GALIANI.
Se a Pisa, fresco degli entusiasmi suscitati dal Della moneta, aveva manifestato l'intenzione di scrivere un De re tributaria, il Cerati, scrivendogli dalla cittadina toscana il 10 febbraio 1754, gli ricorderà invano la promessa. Ormai, in una lettera di circa un anno dopo, il Valenti[24] può rimproverargli la poltroneria nella quale lo vede ingolfato. E in una disposizione d’animo di questo genere, che, morto lo zio Celestino il 23 giugno 1753, vede il nostro abate alla caccia di firmani e benefíci[25] per vivere agiatamente e pigramente, è naturale che l’attività erudita svolta quietamente in seno all’Accademia Ercolanese o i componimenti letterari d’occasione gli apparissero cose meno impegnative e faticose che non la ripresa e l’elaborazione di temi economici, monetari o no.
È a questo punto che forse rischiò di prevalere definitivamente l’altro GALIANI. Certo pur sempre un letterato coltissimo, intelligente, originale. Basterebbe a mostrarlo il Degli uomini di statura straordinaria, e de’giganti, dove l’ispirazione occasionale fornita dalla curiosità suscitata in Napoli nel 1757 da un viaggiatore eccezionalmente alto, l’irlandese Cornelio Magrat, fu messa a partito da GALIANI per svolgere una serie di rilievi di chiara impronta vichiana sull’origine della società. Era, come ha notato il Nicolini, un vichismo che, nel discostarsi dal senso vichiano della provvidenza, non vi sostituiva alcun altro principio storico generale, ma se mai uno spicciolo pessimismo. Se anche per GALIANI i giganti, come tutte le altre cose mirabili, si rivelano un ornamento necessario e indivisibile delle origini d’ogni nazione, e se, sulle orme di Vico, egli osserva come via via la fantasia dei popoli abbia collocato questi esseri straordinari in regioni primitive. lontane e sconosciute, e si dimostra informatissimo sugli autori che presso le varie culture, e perfino nelle Scritture Sacre, ne hanno dissertato, la sua conclusione è che sempre e ovunque i giganti furono considerati uomini scellerati, superbi, crudeli e pieni d’ogni vizio e reato. Peraltro, nel suo abbandonare la distinzione vichiana fra questi giganti nefari ed eslegi, i violenti di Hobbes. e i giganti pii, fondatori di stati e di religioni, GALIANI sfoderava un tratto del suo realismo che, nel congiungersi all’influsso di alcuni motivi contrattualistici, forse lo portava più in là di Vico nella visione storica delle origini della società. Non solo la descrizione dei giganti fatta dai vari autori specie nelle civiltà più remote appare chiaro indizio dell’interno sentimento e conoscenza avuta da tutti che l’uomo, nella sua corrotta natura, tanto non fa di male quanto non può e non ha le forze, e che lo stesso sia accrescergli il potere che accrescergli la perversità. Ma, aggiungeva GALIANI in un frammento che Nicolini non sembra aver tenuto presente, nelle più rozze età gli uomini fisicamente più forti sottomisero e vessarono i più deboli, i quali, persuasi che la forza di molti uniti è sempre maggiore di quella di qualunque individuo...formarono quel consenso di forze e quella cospirazione d’animi a sostenersi, che dicesi società. Che forse è motivo hobbesiano più che vichiano: ma inserito nell’abbozzo di una interpretazione storica delle favole dei giganti che hanno costellato di sé la credenza e la letteratura dei popoli primitivi, assume un piglio settecentesco, dove il realismo hobbesiano viene assorbito in quella intuizione dell’originario consenso sociale che è qualcosa di ben più elastico e ottimistico, storicistico, che non la meccanica asserzione dello schematico pactum subiectionis di Hobbes. Posizione intelligente e originale, spunti di una visione storicistica dell’origine della società. che, in virtù di uno spregiudicato realismo derivato da Hobbes e di una fiducia già illuministica nel valore del consenso. potrebbe anche superare, sul piano del rilievo alla immanente concretezza dell’opera umana nella storia, il provvidenzialismo vichiano. Ma solo spunti disorganici e un pò contradditori, privi di mordente e di continuità, non destinati a una compiuta elaborazione. Ed è qui che appare quella frammentarietà, che dalla forma letteraria si estende a tutta ha concezione morale e politica di GALIANI, rimproveratagli anche dal Nicolini nel confronto con Vico. Soprattutto, a questo punto del suo sviluppo intellettuale, quel che manifestamente sembra mancare a GALIANI è il concentrato interesse per questi probblemi, che egli tratta più con la curiosità occasionale del letterato che non coll’impegno dell’approfondimento specialistico. Sicché è probabile che, anche ove non avesse ricevuto la nomina all’ambasciata di Parigi, questo lavoro, che pure aveva cominciato a far stampare nel '58, 1’irrequieto autore l’avrebbe lasciato frammentario, forse incompiuto, comunque isolato. Strano a dirsi, in un secolo di poligrafi, GALIANI che pure sostanzialinente aveva una spiccata inclinazione specialistica per i temi dell’economia, appare dapprima, e sotto certi aspetti resterà sempre, più dispersivo e disorganico di tanti altri, che magari scrissero di molto più disparate materie, in un’ancor più ampia gamma di «generi», primo fra tutti il Voltaire, ma che l’impegno di una lotta culturale e civile globale, come oggi si direbbe, fece concentrare intorno a una più raccolta e insistita trama ideale. È estremamente rivelatore di tutto l’atteggiamento intellettuale e pratico del GALIANI degli anni cinquanta l’opuscolo che egli dette alle stampe nel luglio del 1758, a commemorazione di Benedetto XIV, morto il 3 maggio precedente. Nella dedica al cardinale Lazzaro Opizio Pallavicini, nunzio a Napoli, è manifesto espressamente il rimpianto di non aver potuto servire in vita il papa defunto. Colpa della pigra fortuna: sicché, proprio per dimostrare quanto si sia sempre sentito vicino alla figura del Lambertini, il GALIANI afferma di essersi scosso dall’involontario ozio componendo l’orazione Delle lodi di papa Benedetto XIV. Che è tutt’altro che il solito componimento d’occasione; ma, piuttosto, davvero la rivelazione di una certa affinità elettiva, e l’indicazione di una prospettiva cui sinceramente GALIANI si sarebbe allora sentito incline più che ad ogni altra. Non sono solo gli aspetti di serena e quasi indolente pazienza che di Benedetto XIV, cardinale e pontefice, tanto piacciono all’abate napoletano: Così niuna porta chiudendo alla sorte, e per niuna tirandola, pazientemente quasi dormendo aspettavala, e non curante; e quel pregio d’indicibile valore, che, in un passo celebre di quella orazione, GALIANI chiamava di sapere anche a tempo non fare, conoscere quanto dalla naturale medicina del tempo sia da attendere, ecc. Come di recente ha ben messo in rilievo Mario Rosa, altri motivi, più positivi forse, della politica di papa Lambertini GALIANI sa congenialmente cogliere e lodare: quella tenace ricerca di concordati con i diversi Stati, che non rifugge da concessioni ritenute eccessive dai curialisti intransigenti, tendendo a far perdere alla Chiesa le sue antiche caratteristiche di corpo, e portarla ad inserirsi più duttilmente nella nuova dimensione civile e sociale che si andava formando; e poi quella generale disposizione al dialogo, all’interno dei problemi religiosi ed ecclesiastici come all’esterno, verso la vita civile e politica, che, al di là delle forzature che ne farà la storiografia gianscenisteggiante di poco successiva, è tratto reale dell’opera di Benedetto XIV, così protesa a un tentativo di liquidazione pacifica delle controversie in seno alla Chiesa, per riassorbire in un fronte di tranquilla serenità religiosa le diverse correnti del mondo cattolico, respingendo le punte eversive, sul piano filosofico e politico, del moto dei lumi e accogliendone le istanze di generica felicità e di moderato riformismo. Ma, nel sottolineare alcune tendenze della politica religiosa e statale di papa Benedetto XIV, il futuro autore dei Dialogues svela una sua propria inclinazionc, che orientamenti magari vistosamente diversi di altri momenti della sua vita non devono far perdere di vista. Quella lucida e penetrante adequatezza di mente, quel raro amore all’ordine, alla pace, alla verità, quella pieghevole bontà, quella dottrina non delle scienze, che chiamansi e sono di parole, ma delle rivelate verità, e delle grandi cognizioni del giusto e della regola delle morali virtù, e di quanto alla terrena ed all’immortale felicità può conferire: tutto quello che l’autore tanto elogia nel prelato bolognese corrisponde a un ideale di vita che, magari paradossalmente, non è poi troppo distante dalle sue proprie aspirazioni. Certo, Ferdinando GALIANI diverrà il causeur brillante e terribilmente razionale che le colte dame parigine ammireranno, il polemista feroce che i fisiocratici temeranno e odieranno, lo spregiudicato Machiavellino che talvolta susciterà una certa repulsione nei suoi stessi amici enciclopedisti. Ma quanto di questa sua professione di fede essenzialmente quietista, mirante a far convergere in superficie il vecchio e il nuovo, o magari a rivestire il vecchio di forme nuove, che egli esprime sulla fine del decennio successivo al Della moneta, idoleggiando nella erudita serenità, nella religione pacatamente umana eppure dogmaticamente ferma, nel sottile conciliatorismo del Lambertini tutto un modello di vita e di governo, quanto di tutto questo, anziché essere artificio retorico di un momento, è manifestazione di un filone profondo delle sue idee, che agirà, assumendo ormai l’allure polemica dell’illuminismo, al fondo di quelle stesse impennate critiche, forse razzionalistiche e nuove nella forma ma spesso conservatrici nella sostanza, che lo imporranno all’attenzione della più progredita cultura europea all’inzio degli anni settanta? Ovviamente, altro è scrivere un panegirico in morte di un pontefice, e altro sarà inserirsi nella polemica della nuova scienza economica - ma del resto anche il Della moneta aveva trattato ben altro tema da quello di un elogio funebre. Il fatto è che queste pagine in lode di Benedetto XIV, nel loro contenuto tutt’altro che convenzionale, mostrano una tendenza piuttosto costante, non solo psicologica ma anche culturale e politica, di GALIANI. Si guardi quanto egli dice circa il merito particolare del papa defunto, di aver saputo cioè reggere dolcemente, e insieme accuratamente salvaguardando le sue posizioni, la Chiesa universale...ma non in età fortunata, bensì allorché infinite nuove sette, e inauditi errori per qualunque lato pullulavano; allorché ardea d’intestine discordie il cattolichesimo; allorché il rispetto al supremo pontificato, i privilegi degli ecclesiastici, la sua autorità cominciavasi in molte parti con inimico animo a riguardare, e quando si diffondevano i lumi, nel maggior fervore della stampa, dello scrivere, delle controversie, degli studi, delle università, ma con i lumi anche l’incredulità e una lacrimevole corruzione: è già, nello spirito, un manifesto sostanzialmente anti-illuministico, preoccupato di ben altro che delle riforme sostanziali della vita economica e civile per cui in quegli anni Antonio Genovesi fervidamente si batteva, e per cui tanto si era adoperato Bartolomeo Intieri, scomparso circa un anno prima della pubblicazione di questo scritto galianco. Non c'è dunque da meravigliarsi se, dopo il Della moneta, per tanti versi nutrito degli interessi, e delle discussioni che dominavano nel circolo intieriano, Ferdinando GALIANI si sia come allontanato dall’intendente toscano che era stato grande amico di suo zio, e ancor più dall’inquieta, ansiosamente tesa verso radicali innovazioni, scuola di Genovesi, e si sia ancora per qualche anno rifuggiato in studi letterari umanistici e di erudizione. Il suo orientamento ideale e politico, sulla soglia degli anni sessanta, mentre in Francia si apriva la grande contesa per l’Encyclopédie, era espresso piuttosto in quella convinta apologia dell’intelligente, bonario, anche illuminato, operato di Benedetto XIV, di quel suo cautissimo riformismo che sul piano religioso è stato intelligentemente definito dal Rosa di tendenze muratoriano-tridentine e che su di un piano più vasto, intellettuale e civile, non poteva non risultare proclive piuttosto all’abile riassorbimento immobilista che non alle rotture e alle battaglie proprie del secondo tempo delle lumières. E probabilmente sarebbe stato in tale direzione che anche Ferdinando GALIANI avrebbe preferito muoversi, ove le circostanze gli avessero consentito di entrare al servizio della Curia romana, come nella dedica di questo suo scritto rimpiange di non aver potuto fare, invece di dover chiedere al suo nuovo protettore Tanucci qualche incarico che potesse soddisfare alla sua notevole ambizione e la sua costante avidità di guadagno. Comunque, è proprio qui, a questo punto della vita e delle prospettive di lavoro di GALIANI, che il trasferimento a Parigi ebbe il suo effetto sensibile e fecondo, dando consistenza, può dirsi prevalente, alla tendenza pur sempre più costruttiva del suo temperamento, rendendo insomma possibile, almeno a tratti, il raccogliersi dei suoi talenti, vivi e acuti ma venati di pigrizia e inclini al generico divertissement culturale, intorno a un filone d’interessi abbastanza omogeneo e organico. D’altronde, la vicenda intellettuale di GALIANI non può essere vista al di fuori della situazione generale, civile economica sociale, del Regno durante e dopo la guerra di successione austriaca. Che davvero, come gli scritti di Genovesi, di Giuseppe Maria Galanti e di Gaetano Filangeri e poi di Lodovico Bianchini e di Pietro Colletta ci ricordano, potrebbero chiamarsi gli anni del fallimento, della liquidazione di quella che all’inizio era potuta apparire la grande impresa riformatrice di Carlo III. Eliminate fin dal 1742-44 quelle prammatiche del 1738 sugli omicidi e sulla giurisdizione baronale in rapporto a quella regia, che avrebbero potuto costituire l’inizio della riaffemazione dell’autorità dello stato e di un’equa amministrazione della giustizia contro la sopravvivenza feudale del potere nobiliare, esautorato a cominciare dal 1746 quel Suprerno Magistrato del Commercio il cui funzionamento, iniziato nel 1739, aveva introdotto snellezza. rapidità, competenza nella soluzione delle controversie e nella emanazione delle norme relative all’attività economica, risoltosi nel 1752 il Codice caro1íno, affidato a Gioseffo Pasquale Cirillo, nella inutile raccolta che tutti sanno, già all’inizio del decennio il tentativo del nuovo sovrano per un rinnovamento della infrastruttura giudiziaria del Regno, un rinnovamento d’importanza preliminare e determinante per ogni azione negli altri settori della vita napoletana, poteva dirsi fallito. Particolarmente, il consuntivo cominciava a farsi pesante proprio in quel campo dell’economia, dove più l’opera del nuovo governo aveva all’inizio destato speranze, suscitando fra l’altro l’interesse e l’iniziativa intellettuali che fanno capo a Genovesi. Già nel 1746, quasi al passo con l’esautorazione del Magistrato del Commercio si era avuta la revoca dell’editto del 1740 che coraggiosamente aveva consentito agli ebrei di risiedere e commerciare nel Regno e anche d’intraprendere alcune attività professionali senza sottostare alle antiche discriminazioni. E quell’impulso che l’afflusso di mercanti ebrei aveva dato all’investimento di capitali in imprese commerciali e manifatturiere era così venuto a cessare. Nel 1753 appariva ormai chiaro il fallimento di un altra delle prime iniziative di Carlo III, dalla quale si era atteso gran beneficio per le finanze napoletane: il riscatto delle rendite, censi, privative, dazi, ecc. dati in «arrendamento» ai privati, un’operazione per la quale si era creato anche un apposito organo, la Giunta delle ricompre. E nel 1754 Carlantonio Broggia denunziava i pessimi risultati del catasto generale onciario, iniziato con tante speranze nel 1740, che aveva finito per consentire ai ricchi di esimersi da que’soccorsi e da quelle contribuzioni ordinarie e straordinarie per le quali per ogni legge e specialmente ne’straordinari ed urgenti bisogni sono strettamente tenuti, colpendo invece i beni mobili, i capitali, i redditi dell’industria e del commercio e insomma riuscendo a tener avvilita la gente povera, affaticata e industriosa.….per mezzo de’tributi mal situati. Si aggiunga che nel 1756 si interrompeva definitivamente l’impresa di ricerche minerarie in Sicila e Calabria, una iniziativa di cui il regno borbonico si era vantato, in polemica con il governo austriaco che non era riuscito pur attraverso tre successivi tentativi a raggiungere risultati concreti. E si sarà portati a condividere il quadro piuttosto fosco che fra il 1786 e il 1790 Giuseppe Maria Galanti faceva dell’abbandono dell’agricoltura, del ritorno di molti terreni allo stato selvaggio, della decadenza stessa di manifatture e commerci dopo il periodo iniziale del nuovo regime. Ecco, con riferimento proprio agli anni cinquanta,l’accostamento fatto da Genovesi fra i contadini del Napoletano e gli ottentotti, del resto ribadito in quel passo di una anonima relazione ufficiale a Carlo III, dove gli abitatori delle campagne del Regno vengono paragonati ai selvaggi d’America o dell’Africa meridionale, tanto che chiunque per poche miglia si allontana dalla città di Napoli.….ad ogni passo quasi non vede altro che persone dell’uno o dell’altro sesso o in gran parte nude o prive di coperture necessarie a difendersi dall’ingiurie de’tempi o mal coperte da schifosissimi cenci, con espressi nel sembiante gli evidenti segnali del pessimo e scarso nutrimento che prendono, riducendosi il lor perpetuo cibo a poche oncie di una focaccia composta di semplice farina di quella biada che il volgo chiama grano d’Italia, e che altrove serve quasi unicamente per alimento alle bestie.…, ecc.ecc.
Eppure, come gli studi di Pasquale Villani vanno dimostrando, dopo il disastro gravissimo della guerra, gli anni cinquanta non possono da un punto di vista generale considerarsi come di crisi economica; anzi, nel Napoletano come un po’ in tutta Europa, segnano una ripresa, la ripresa del resto di quella tendenza di espansione che prende inizio nel secondo decennio del secolo e entrerà realmente in crisi solo con gli anni sessanta. Deve piuttosto dirsi che la crisi è del riformismo del primo re borbonico di Napoli, delle sue intenzioni di trasformare buona parte dell’apparato giuridico e amministrativo dello stato, di eliminare molti abusi e vessazioni intrinseci all’ordinamento statale e alla prassi civile del Regno; e che lo spengersi di quelle intenzioni di fronte alla resistenza baronale, forense ed ecclesiastica, l’abbandono o lo svuotamento di quei mutamenti istituzionali e amministrativi che erano usciti dal fervore legislativo dei primi anni di governo di Carlo III, avevano ribadito le condizioni di miseria e di sfruttamento delle classi inferiori del Regno, specie delle plebi campagnole e cittadine, coll’aggravante che il crollo delle speranze suscitate da quei provvedimenti faceva sentire, specie alla ristretta élite riformatrice, più dura. più inesorabilmente radicata una struttura politico-sociale basata sulla più assurda disuguaglianza e sul più oppressivo malgoverno. Sono gli anni in cui lo stesso Carlo III, oltre che disgustato da tante resistenze incontrate ai suoi progetti di riforma, è tutto preso dal gioco diplomatico, per modificare quella clausola del trattato di Aquisgrana che prevedeva, al momento della sua successione al trono spagnolo,l’insediamento a Napoli non già di un suo figlio, ma di suo fratello Filippo, duca di Parma, e degli eredi di lui. Sicché le maggiori energie del re e dei suoi ministri appaiono dedicate alle molteplici e intricate trattative con Francia, Austria, Inghilterra, Savoia, ecc., tanto più complesse e avviluppate dopo lo scoppio della guerra dei sette anni, cui la Sicilia non prese parte, e nell’attesa della morte di Ferdinando VI, ormai prevista sempre più prossima. Forse una tempra di vero illuminista. di riformatore illuminato da forti ideali, avrebbe tratto proprio dalla sempre più degradante situazione della via napoletana. dopo tante velleità di riforme, da una serie di mali e storture che non potevano sfuggire al suo occhio ormai fattosi esperto nella meditazione per il Della moneta e nella consuetudine col circolo Intieri-Genovesi, l’impulso ad affrontare con impegno ancora maggiore lo studio dei probblemi economici. E fu il caso appunto di Genovesi. Ma, per il momento, in GALIANI invece quel che di superficiale, di pigro, di mondano era peculiare del suo temperamento. aveva avuto evidentemente la meglio nel determinare la direzione della sua attività. Certamente più facile e comodo gli era parso rifuggiarsi in un’operosità erudito-letteraria, talvolta salottiera e meramente giocosa, talora più seria e feconda, come avvenne con la rapida ma intelligente incursione nel problema della concezione della società e della storia, così suggestivamente derivato da Vico, e come del resto, dal suo angolo visuale, è impostato, nel senso di una certa scelta intellettuale e politica, l’elogio di Bededetto XIV. E perché non anche una forse più gradevole e continuativa incursione in quell’attività diplomatica che ora, appunto nell’attesa dell’imminente passaggio di Carlo III sul trono spagnolo, affaticava tanto la.Corte napoletana e il Tanucci, succeduto a Giovanni Fogliani al ministero degli Esteri fino al 1755, e col quale GALIANI era in rapporto di buona amicizia? Non è quindi un caso che l’autore del Della moneta, sia pure con qualche iniziale perplessità, accetti la carica di segretario dell’ambasciata napoletana a Parigi, offertagli dal Tanucci nel gennaio del 1759, circa sei mesi prima della morte di Ferdinando VI di Spagna. Degl’inizi francesi di GALIANI partito da Napoli a fine aprile e giunto a Parigi, attraverso Roma, Firenze, Genova e Nizza, dopo circa un mese, sono stati tracciati specie dal Nicolini i tratti prevalentemente psicologici: rimpianto per il sole e il mare di Napoli, fastidio per il clina parigino, irritazione per l’ottusità e la vuota gravità dell’ambasciatore, Giuseppe de Baeza y Vicentelo, conte di Cantillana, grande di Spagna, difficoltà ad ambientarsi nei salotti e nella vita culturale della capitale francese, irritazione per il carattere superficiale e un pò sprezzantemente ironico dei parigini, insofferenza per il ruolo modesto e la parte piuttosto oscura che a lui sembrava destinata, al punto che, in una lettera del 1º ottobre 1759 al fratello Berardo, Ferdinando era giunto a definire Parigi il più fottuto paese che disonori la faccia della terra. Ed è stato anche garbatamente sottolineato dal Nicolini come la svolta in questo andamento delle cose, che nelle lettere dell’abate al suo superiore e protettore Tanucci vede il passaggio dalle continue recriminazioni e richieste di esser richiamato in patria alla sempre più trasparente soddisfazione per il soggiorno francese e le cose che là fa e dice, la svolta dunque che fece di GALIANI uno dei protagonisti della conversazione letteraria e politica di Parigi fosse determinata dal periodo in cui, recatosi in Spagna il Cantillana per questioni personali, il nostro autore rimase solo, per circa un anno dal principio del 1760, a reggere l’ambasciata napoletana a Parigi. Ma quale, al di sotto della divertente trama psicologica e aneddotica della vita parigina di GALIANI, il processo di sviluppo dei suoi pensieri, quali i motivi e il senso di questa esperienza per molti versi innovatrice nella sua opera intellettuale? Sembra caratteristico che anche nei primi mesi del soggiorno in Francia, così per lui sgradevole che ogni sua lettera a Tanucci reca o una dichiarazione di essere incapace delle mansioni affidategli o una richiesta di richiamo o addirittura, come ad esempio quelle del 14 e del 28 gennaio 1760, il compiacimento per la decisione che crede essere stata presa di farlo ritornare a Napoli e la notizia dei suoi preparativi in merito, GALIANI rivolga uno sguardo tutt'altro che disattento ad alcune vicende significative della vita culturale e civile europea, che a Parigi gli si presentano con ben maggior spicco di quel che fosse potuto avvenire nell’ambiente in fondo periferico e arcaico di Napoli. Già nello stesso Cantillana può subito ritrovare qualcosa di diverso da quel che si «era figurato»: una esperienza, scrive al ministro Tanucci fin dal 25 giugno 1759, che lo rende forse il più istruito della vita pubblica e dei costumi francesi fra tutti i ministri esteri e quasi il loro magazzino. E presto arrivano anche le testimonianze del più qualificato discorso culturale dell’età dei lumi: magari, come annunzia nella lettera del 4 febbraio 1760, quelle poesie di Federico II di Prussia, che non erano certo un capolavoro letterario, ma meravigliavano per il possesso che quel re straniero vi dimostrava della lingua francese - onde si vede commenta GALIANI l’ammirazione e lamore ch’egli ha per una nazione con cui fa tanta guerra. Poi, sulle prime appena percepibile, in lui stesso forse poco consapevole, comincia l’interessamento ai problemi dell’attività diplomatica, agli avvenimenti della vita interna e della politica estera francese, della guerra dei sette anni, dei rapporti fra il Regno e la Francia con quelle visite compiute dai Francesi a danno delle navi napoletane che comportano di continuo sequestri di merce e lunghe detenzioni di marinai del Regno, ecc. È un interesse che aumenta ovviamente quando, partito Cantillana, GALIANI resta a dirigere l’ambasciata napoletana, ricevendo il titolo d’incaricato d’affari[26]; e per questa via l’abate letterato, un pò provinciale e accademico ch’era stato fino allora, entra a contatto con certi aspetti di primo piano delle contese civili francesi e della politica delle grandi potenze dell’Europa in guerra: resistenze del Parlamento di Parigi e di quelli delle province a provvedimenti regi in materia di tasse e di religione, vicende dei convulsionari giansenisti, contrasti fra i grandi nobili francesi per le più alte cariche militari, sviluppi in senso democratico del regime inglese, dibattiti in seno al clero francese e più o meno celato favore del Parlarnento parigino per i convulsionari, svolgimento dei fatti di guerra in Europa e sul mare, difficoltà finanziarle di Luigi XV, evolversi della questione della Corsica, accenni a prospettive di pace generale, ecc. ecc. Piano piano il neo-diplomatico si crea una coscienza, un’esperienza, un gusto, e non solo in questioni diplomatiche. Se forse i temi che più lo interessano sono quelli economici, dove le sue esperienze dei problemi e contrasti della presente vita francese, e delle teorie che li esprimono, possono ricollegarsi alle sue precedenti riflessioni, al Della moneta e ai lavori abbozzati e lasciati interrotti, ormai GALIANI, che in fondo era per carattere e disposizione mentale piuttosto alieno dallo spirito dei lumi e che sarà considerato spesso addirittura un anti-illuminista, si trova a contatto con i motivi essenziali delle lotte dell’età delle lumières, dei loro sviluppi sul piano interno e internazionale, e finisce per respirarne sempre più la suggestiva atmosfera. Si tratterà magari delle contese fra speziali e Gesuiti circa la proibizione a questi ultimi di vendere spezierie, o delle difficoltà che ancora i Gesuiti incontrano con i parlamenti e con lo stesso primate di Francia, o della posizione di predominio che, come mostrano anche le vicende del contrabbando napoletano, delle visite e dei sequestri, hanno nel regno di Luigi XV i fermiers généraux, o anche delle incertezze della politica estera e della condotta di guerra della Francia, col rilievo delle difficoltà economiche di varie ragioni e del diffuso desiderio di una pace generale. Ma, fra le notizie di vicende giudiziarle, religiose, diplomatiche o militari, riferite ancora con un certo distacco cronachistico, venato magari della curiosità dell’osservatore stranicro, si fa luce a un certo punto la partecipazione alle discussioni che nel pamphlets come nel salotti delle dame colte, nei periodici come nei giudizi di philosophes e di uomini di governo, affrontavano quelle vicende e quei contrasti, con un criterio di valutazione pur sempre in un senso o nell’altro influenzato dalle polemiche che il fermento critico dell’illuminismo alimentava. Ecco così, fin dal 14 luglio 1760, GALIANI trovarsi a prendere posizione nei confronti dei messieurs del Parlarnento di Parigi impegnati in aspra lotta contro la corona, in difesa dei loro colleghi di Besançon spediti in esilio; e una posizione che consapevolmente o meno echeggia i motivi della polemica antiparlamentare di molti philosophes: se il re ha dato una dura risposta alle rimostranze del Parlamento di Parigi, questa risposta degna della maestà del trono è anche di soddisfazione della nazione. Il Parlamento non è più, come fu già un tempo, l’idolo della nazione. Pieno di giovinastri presuntuosi ed ignoranti si vede nelle maggiori urgenze dello Stato tutto occupato delle sue private brighe, proteggere i giansenisti, che il fanatismo ha resi ridicoli, e luttare colla Corte più per difendere gl'interessi de’finanzieri loro parenti, che per soccorrere a’bisogni della nazione. Farebbero scappare la pazienza a Giobbe, annota in altra lettera di poco successiva; mostrando una già precisa informazione delle condizioni politiche ed economiche francesi, rileverà (11 agosto) che il parlamento di Rouen è quasi più pericoloso di quello stesso di Parigi, nella sua opposizione alla corona, perché ha sede in una regione povera, vicina all’Inghilterra e con popolazione in buona parte ugonotta. Finché, di fronte all’opposizione del Parlamento di Parigi contro l’editto regio imponente una imposta sulle imprese gentilizie, esce (1 settembre) in un giudizio d’impronta illuministica, reso disinvolto e sicuro dalla competenza nella materia tributaria: Fa pena a tutti i buoni il vedere che un’imposizione in gran parte volontaria, che cade sulla gente più agiata e che ferisce solo la vanità e non i bisogni reali dell’uorno, sarà facilmente impedita nel tempo stesso che poca resistenza si è fatta a que’ventesimi e capitazioni, che cadono su’poveri e su’contadini. In poco più di un anno l’iniziazione del provinciale abate letterato, ma già esperto di problemi finanziari ed economici, alla più ampia, varia e fervidamente critica mentalità dei lumi, ha fatto grandi progressi, pur tra le sue inclinazioni più scettiche e pigramente conformistiche. E il processo, di sempre maggiore interessamento per la scena culturale e civile dell’Europa settecentesca, non si arresta certo ormai per il ritorno del Cantillana, avvenuto ai prirni di settembre di quello stesso 1760. Anzi, nonostante qualche oscillazione, qualche ritorno di sconforto, la presenza dell'ambasciatore, che lo solleva dal gran peso di dirigere la rappresentanza napoletana, permette a GALIANI di dedicare maggiormente la sua attenzione alla battaglia delle idee, così viva e feconda nella Francia degli anni che videro la pubblicazione della Encyclopédie, pur non tralasciando di esercitare con cura e capacità le sue mansioni, sì da essere negli stessi ambienti del governo francese e delle ambasciate estere sempre più considerato il vero cervello della legazione napoletana, retta da un diplomatico in fondo fatuo e superficiale, davvero vecchio stile, come il Cantillana. Certamente la corrispondenza con Tanucci, così fitta di minute informazioni circa gli affari napoletani con la Francia, in particolare le questioni delle visite e dell’eventualità di un trattato commerciale, non può essere fonte del tutto esauriente per rendersi perfettamente conto dell’evoluzione delle idee e della mentalità di GALIANI nei dieci anni che precedono la stesura dei Dialogues sur le commerce des bleds. Se mai, alcuni passi della sua corrispondenza confidenzìale con il capo effettivo della Reggenza napoletana mostrano in GALIANI quel senso realistico dei rapporti politici che indurrà gli amici francesi ad accostarlo un pò scherzosamente alla figura del Segretario fiorentino. Come nella impennata arguta e singolare della lettera al Tanucci del 18 ottobre 1762 dove, dopo aver espresso la sua diffidenza verso il Patto di Famiglia[27], e anche verso gli accordi politici in generale, finiva per manifestare così la sua predilezione per la libertà d’iniziativa dei diversi paesi: guadagnerà la Spagna, guadagneremo noi, e forse guadagnerà anche la Francia, che non ci siano trattati. Ogni trattato è un taccolo. Ogni privilegio fa più invidia che bene, e la reciprocità distrugge sempre i profitti. Trattati col Turco e col Papa, potenze deboli e disordinate. Con altri non trattati. D’altronde, può pur dirsi che le altre fonti di cui, in mancanza di scritti dell’abate di questo periodo, possiamo disporre, e cioè le corrispondenze e i giudizi contemporanei o successivi dei suoi amici francesi, le d’Epinay, Diderot,
Denis Diderot

Grimm ecc., sembrano confermare il quadro, che dalle settimanali lettere al suo ministro esce, dell’attività e dell’indirizzo di vita del nostro autore in tali anni: un’operosità in fondo intensa, ma disorganica e disordinata, tutta tesa alle cure della sua carica, e specialmente a quella sua mansione di corrispondente diretto del Tanucci, alle spalle, si può dire, del suo ambasciatore, e anche, progressivamente, alle relazioni mondane, alla partecipazione alle discussioni dei salotti letterari parigini, in cui sempre più la sua verve ma anche la sua non comune cultura lo rendono ricercato ed apprezzato; una crescente e via via più scaltrita e matura curiosità per gli sviluppi della vita politica, religiosa, istituzionale della Francia, e un interessamento più in profondità per le sue vicende economiche e le discussioni dottrinali che le accompagnano; un giudizio sempre più esperto e acuto su principi, governanti, diplomatici, scrittori, ecc.; ma poche tracce di una elaborazione d’idee in qualche modo pianificata verso determinati obbiettivi culturali o, tanto meno, civili. Ritorna qui quella carenza d’impegno morale, che già il Croce rilevava. Le cose in cui si sente che GALIANI è davvero più profondamente interessato, nei dieci anni del suo soggiorno francese, sono pur sempre quelle relative ai suoi emolumenti, alla dignità della sua carica, ai suoi successi presso il duca di Choiseul e la Corte di Versailles, o presso i gens de lettres e le dame intellettuali dei suoi amati salons, al conseguimento di prebende e cariche che per il momento del ritorno in patria gli assicurino la vita agiata e piacevole di cui non può fare a meno. Le grandi lotte dei philosophes, degli enciclopedisti, per la libertà civile e di opinione, per la tolleranza, contro i privilegi sociali e civili, gli abusi giudiziari, l’insufficienza o la arretratezza delle leggi, e via seguitando, lo interessano certamente, ma in superficie, attirano la sua attenzione di osservatore e di relatore, ma sfiorano appena la sua sensibilità; i contrasti fra corona e parlamenti, la campagna contro i Gesuiti fino alla loro espulsione, le vicende stesse in seno alla corte e al governo di Luigi XV, i rapporti internazionali e le questioni diplomatiche, occupano molto spazio nelle sue lettere al Tanucci, ma sono fatti più visti con intelligente curiosità e narrati con vivace arguzia che valutati in profondità nel quadro di una concezione d’insieme della vita politica e delle strutture della società e dello Stato. Perfino il tema che finirà per appassionarlo tanto e che gli fornirà lo spunto per il capolavoro della sua maturità, il commercio dei grani, GALIANI sembra accostarsi come occasionalmente, empiricamente, senza un coerente e meditato impegno di studio e di lavoro. In fondo sono questi gli anni della grande Bewegung fisiocratica, stimolata, nel suo sforzo di passare dalle idee ai fatti, dalla carestia europea del 1764. Victor Riqueti de Mirabeau, ultimato l’Ami des hommes, pubblica le sue opere di precisazione ed elaborazione dei princìpi della «scuola»: Théorie de l’impôt (1760), Philosophie rurale (1763), Lettres sur la dépravation, la restauration et la stabilité de l'ordre légal[28]. François Quesnay sviluppa il vangelo del Tableau économique in alcuni scritti, apparsi per la prima volta nelle Éphémérides, dove le concezioni economiche fisiocratiche vengono poste in relazione all’ideale di un governo di illuminato dispotismo: Analyse du gouvernement des Incas du Pérou (1767), Despotisme de la Chine[29]. Pierre-Paul Le Mercier de la Rivière elabora il gran testo della teoria politico-istituzionale della nuova scienza con L’ordre naturel et essentiel des sociétés politique[30]. Le Éphémérides du citoyen infine, oltre a pubblicare a puntate, come si è visto, gli scritti dei leaders della scuola, oltre a sostenere, per le penne dei Baudeau, Roubaud, Dupont de Nemours, Le Trosne, Baesnier de l’Orme, ecc., una continua battaglia per il mantenimento e lo sviluppo delle norme di libertà del commercio dei grani[31] contro gli attacchi che verso la fine del decennio cominciano da varie parti a bersagliare, ad opera del loro direttore, Pierre-Samuel Dupont de Nemours, svolgono un’argomentata rassegna di storia delle dottrine economiche nel corso del secolo[32]. E due anni prima lo stesso Dupont aveva pubblicato una raccolta degli scritti più significativi della «nuova scienza», premettendovi un Discours de l'éditeur che doveva costituire come il manifesto della consacrazione dei suoi principi a norme naturali, indiscutibili, della vita economica[33]. Quale traccia tutta questa produzione fisiocratica, scientifica o pubblicistica che fosse, lasciò, man mano che vedeva la luce, nelle riflessioni affidate alla propria corrispondenza da GALIANI, il quale nel 1769, al momento di partire definitivamente da Parigi, lancerà contro uno dei capisaldi dottrinali della scuola quell’attacco che doveva colpirla così duramente, proprio nel bel mezzo della gravissima crisi della sua influenza e del suo prestigio in Francia? In realtà è una traccia molto inconsistente, sul piano dottrinale poi si direbbe addirittura inesistente. Lasciamo andare che, nella corrispondenza col ministro degli Esteri del paese di cui GALIANI era segretario di legazione, quantitativamente dovessero essere gli argomenti di più diretta pertinenza del suo ufficio ad aver la netta prevalenza: «visite» ai battelli napoletani, sequestri, esosità dei fermiers généraux e dei tribunali francesi contro i sudditi delle Sicilie, rapporti di commercio tra il Regno e la Francia, resistenza napoletana all’ingresso nel Patto di famiglia, problemi connessi alle vicende della Corsica, informazioni sulla struttura del governo francese e sulla maggiore o minore autorità dei vari ministri, aneddoti della Corte di Versailles, e, ovviamente, quelle vicende, interne della Francia o internazionali, che gran rilevanza avevano o potevano avere per la politica europea in genere e anche per quella napoletana, come il procedimento contro i Gesuiti o le vicende della guerra dei sette anni e le trattative per la pace generale[34]; o magari questioni diplomatiche minori, ma direttamente interessanti il governo di Napoli, come l’eventualità, suggerita dalla Spagna, di un’occupazione di Castro e Ronciglione ad opera delle truppe napoletane; o infine la poco pulita storia dei grani di Marsiglia, acquistati a condizioni esose dal console napoletano Francisco Hombrados[35]. E si può dire che nei riguardi di tutti questi punti GALIANI si mostra diplomatico informato ed intelligente. Non a caso, solo per fare qualche esempio, fin dal 1763 pone in rilievo al suo ministro l’entità del volume delle esportazioni napoletane in Francia, implicitamente accorgendosi di quella inversione di tendenza che dalla metà circa degli anni cinquanta aveva cominciato a rendere favorevole alle Due Sicilie la bilancia del commercio con la Francia; o, col cinico realismo del Machiave11ino, così, nel 1761, commenta i successi inglesi nella guerra dei sette anni: «Il bel secolo d’una Nazione è quello in cui essa commette più cattive azioni. Tali erano i Romani quando fecero l’ingiustissima terza guerra Punica; tali erano i Francesi cento anni fa. Tali sono oggi gl’Inglesi. Ora è il loro bel secolo, dunque è quello in cui mancheranno più disonestamente di fede.…»; e nella febbre speculativa sulla Compagnia delle Indie, sa vedere la malsana e precaria situazione economica della Francia nel 1769: La folla con cui si son portati in tre soli giorni gli 11 milioni alla Compagnia pruova il periodo di corruzione in cui è questo paese, perché mostra la somma inegualità delle ricchezze. Nell’anno in cui mezza Francia languisce di miseria, in Parigi si vede un lusso e una ricchezza incomprensibile.... Il curioso, e significativo per la storia delle idee economiche di GALIANI, è il tono generico, aspecialistico, da osservatore empirico, del suo approccio alle questioni che daranno vita alla seconda delle sue celebri opere di economista. Il suo iniziale favore per la libertà del commercio dei grani non si argornenta di riflessioni e giudizi sulle dottrine economiche fisiocratiche, quasi non sembra neppur collegare gli editti di libertà del 1763-64 ai princìpi della nuova scienza o magari alle sollecitazioni liberistiche delle scuola di Gournay, nonché agli effetti della carestia esplosa nel '63-64. Certamente gli scritti dei fisiocrati, di cui in quegli anni la Francia era inondata, l’abate napoletano li conosceva, piú o meno di prima mano: lo dimostrerà nei Dialogues. Ma per ora il suo apprezzamento si rivolge ai risultati che gli sembrano emergere dai fatti, con appena talora un generico riferimento alle convinzioni in favore della libertà del commercio granario ormai maturate nei Francesi. Non che anche qui GALIANI non si rivelasse osservatore acuto. È del 25 giugno 1764, pochi giorni prima del celebre editto liberistico di Clément-Charles-François de L’Averdy, la sua lettera a Tanucci con cui la libertà del commercio dei grani viene valutata nei suoi benefici effetti per il paese che l’applica, a tutto danno di quelli ancora soggetti a vincoli: La libera esportazione de’grani di Francia sarà un danno grande del nostro commercio se noi non c'ingegneremo d’imitarla. Qui hanno conosciuto questa gran verità, che l’unico preservativo delle carestie è il libero commercio ed estrazione, perché questo aumenta la coltivazione, e quando molto grano si semina, sempre molto o poco se ne raccoglie, ma chi poco ne semina, talvolta non raccoglie nulla, Sembra un’eco della Philosophie rurale pubblicata dal Mirabeau l’anno prima. E numerose sono ancora almeno fra il '64,e il '67 le prese di posizione del nostro abate a favore del sistema di libertà introdotto in Francia, sia nel commercio dei grani che nella produsione e nel prezzi della farina e del pane. Un interessamento che sembrerà avere un carattere ancora collegato ai suoi compiti di ufficio nella posteriore Istoria vera della controversia de’grani di Marsiglia scritta da persona ben informala, col parere sulla giustizia delle pretensioni delle parti litiganti[36]. Già prima tale interesse di GALIANI aveva toccato invece l'argomento nel suo aspetto generale, pratico e teorico, nella memoria consegnata al Tanucci sulla fine del 1765, Storia dell'avvenuto sugli editti del libero commercio de’grani in Francia promulgati nel 1763 e 1764[37], e nelle due lettere allo stesso Tanucci del 21 settembre e del 2 novembre 1767, sui persistenti buoni effetti in Francia della libertà granaria e di panizzazione. Peraltro proprio questi scritti dimostrano una certa superficialità del procedere di GALIANI sui temi che diverranno oggetto del suo grand ouvrage. Prima di tutto è spesso male informato. Nella Istoria vera della controversia de’grani di Marsiglia scrive che, mentre tra il dicembre del '63 e il gennaio del '64 la carestia desolava Napoli, si sapeva benissimo aver la Francia avuta il quell’anno ubertosissima raccolta, ed aver, non che il modo, anche grandissima voglia di esitare i suoi grani. Ora, si sa bene che la crisi del 1764 non fu fenomeno locale napoletano, ma di molti paesi d’Europa, compresa la Spagna e appunto la Francia. Sicché la disponibilità di grano sui mercati francesi non doveva considerarsi tanto effetto di abbondanza, quanto piuttosto delle misure liberalizzatrici adottate, anche in dipendenza della crisi, dal governo francese con l’editto L’Averdy, che fu registrato al Parlamento di Parigi il 18 luglio 1764, ma che del resto allargava al commercio con l’estero le norme di libertà già introdotte per la circolazione interna del grano dal provvedimento del precedente contrôleur général, Henri Bertin, del 25 maggio 1763. In secondo luogo, nella Storia dell’avvenuto sugli editti del libero commercio de’grani in Francia promulgati nel 1763 e 1764, GALIANI fa confusione attribuendo a L’Averdy anche l’editto per lo libero commercio del grano soltanto nell’interiore, che invece è la dichiarazione del Bertin or ora citata. Infine, con riferimento troppo esclusivo agli anni iniziali dell’esperimento liberistico, '63-'64, GALIANI sembra ridurre tutto il contrasto che esso suscitò in Francia all’ostilità degl'attendenti, che dalla concessione di permessi per l’uscita del grano dalle loro province traevano utili, e al favore invece dei parlamenti, i cui membri dal regime vincolistico non solo non ricevevano nulla di profitto, ma anzi, essendo gente ricca e possessori di molte terre, ricevevano danno, e che per di più, alla introduzione delle misure liberistiche, egualmente esultarono per odio contro gl’intendenti, usurpatori della loro antica autorità ed esecutori degli ordini assoluti della Corte. In realtà chiunque abbia esaminato un po’ da vicino la storia dell’esperienza di liberalizzazione iniziatasi in Francia nel '63-'64 e fallita nel '68-‘69, per riprendere poi, ma con effimera fortuna, nel breve periodo del governo Turgot, sa che la questione è assai più complessa. Per dirla in breve, non fu solo l’opposizione della maggioranza degl’intendenti o degli échevins di Parigi a ostacolare le norme di libertà, ma l’opposizione e il crescente sabotaggio di tutti gli elementi conservatori della vita francese, oltre i grandi negozianti, accaparratori, ecc., anche proprietari terrieri, timorosi di eccessive novità, e, presto, molti dei parlamenti stessi, in primo luogo quello di Parigi, ma anche quello di Rouen, ad esempio, i quali, a differenza di altri, come quello di Tolosa e quello del Delfinato, che sostennero fino in fondo il tentativo liberistico, si allarmarono invece delle possibili conseguenze nel campo dell’ordine pubblico di una politica che lasciava liberi i prezzi del grano e del pane e dava al popolino l'impressione che, in caso di cattivi raccolti, la mancanza di vincoli e di riserve nei magazzini di abbondanza avrebbe potuto portare a morire di fame i meno abbienti. Su tutto questo GALIANI sorvola, distratto e male informato. E le sue affermazioni a pro del regime liberistico nella chiusa della Storia dell’avvenuto o nelle lettere al Tanucci del '67 appaiono piuttosto generiche e un tantino superficiali. Da questa storia si conosce aveva scritto nella prima che il non volersi il libero commercio de’grani o la tratta fissa, perpetua, irrevocabile in forma di dazio doganale - che è lo stesso che libertà-, non è effetto d’ignoranza o di pregiudizio o di timor panico o di vecchia abitudine; ma è malizia, interesse proprio, mira privata di lucro. Tutti conoscono il bene della libertà, ma a chi può essere privilegiato, mentre gli altri sono inceppati, non è bene la libertà comune. E nella lettera a Tanucci del 21 settembre 1767 scrive: Certamente il regolamento di Francia è ottimo, come il nostro è il pessimo. Poi nella stessa e in una successiva lettera, del 2 novembre 1767, insisteva a sottolineare la diversità di condizioni, per cui nella libertà ormai ìnvalsa in Francia non si possono nemmeno concepire le assise, i calmieri, i prezzi di voce, i monopoli, gl’importatori privilegiati, gl'incettatori: Qui né Parigi, né alcuna città grande o piccola fa annona, non tiene magazzini, non ha dritto proibitivo, non ha obbligo di vender a prezzo fisso...; Manca adunque qui quell’intermedia persona che è da noi, ed è o il mercante, o la Città, o l’incettatore, che compra da’villani, e vende ai fornari, e fa l’enorme e ingiusto guadagno : in Francia sembrava dominare il sistema opposto al regime vincolistico imperante nel Regno di Napoli. Quel che manca, pur nell’intelligente confronto e nell’adesione al nuovi principi operanti in Francia, è uno sforzo di approfondimento del problema nei suoi aspetti più generali, al di là della relazione informativa o dell’osservazione empirica di certi risultati e delle divergenti realtà dei due paesi. Eppure i testi che circolavano in materia GALIANI li doveva leggere proprio in quegli anni: oltre gli scritti già celebri dei principali fisiocrati, gli opuscoli più di occasione, come quelli di Louis-Paul Abeille e di André Morellet, che segnalava al ministro marchese Tanucci nelle sue lettere. Eppure, d’altra parte, proprio il tentativo di stabilire un nesso fra la teoria e la realtà effettuale, le peculiari condizioni economiche e sociali dei vari paesi, sarà il gran punto dei Dialogues. Ma, negli anni precedenti al 1769, nel GALIANI tutto indaffarato nelle sue relazioni diplomatiche e nelle lusinghiere vicende della sua conversazione salottiera, a contatto con i più celebri gens de lettre di Parigi, lo studio specifico degli elementi e dei materiali che avrebbero potuto aver rilievo in quel tentativo, non compare - e un certo che d’improvvisazione, di frettolosità, e quindi talora di superficialità, sarà pur sempre il neo dei Dialogues, anche se il subitaneo richiamo a Napoli varrà a fornire all’autore un incontestabile alibi per quanto riguarda i tempi della stesura del suo saggio. Empirismo, realismo rifuggente da troppo schematiche elucubrazioni dottrinali, atteggiamento mentale di poligrafo. Interpretazioni ripetutamente e da varie parti date, e pur sempre valide. E poi è un fatto che le convinzioni filofisiocratiche di GALIANI si mutano, come per altri, di fronte proprio allo svolgimento dell’esperienza francese. Ma, rispetto alle possibilità di lavoro che aveva in questi anni, c'è pur sempre forse la deficienza del suo impegno intellettuale in direzione di una scelta decisa e organica. È stato giustamente notato da Giuseppe Giarrizzo che sia per GALIANI sia per Domenico Caracciolo fu l’esperienza francese vissuta in un momento di grave tensione politica e intellettuale a determinare, a definire lo schema interpretativo» della realtà economica e sociale circostante, lo schema che per il secondo sarà di base ai tentativi di riforma intrapresi in Sicilia durante la sua carica di viceré; pur dovendo riconoscersi a GALIANI «ben altra autonomia culturale e originalità intellettuale. Ma è anche appunto rilevante che una simile esperienza portasse nell’uno a una decisa volontà riformatrice, che nell’altro in fondo sempre mancò. E già nella corrispondenza di Caracciolo con GALIANI degli anni sessanta, quando il futuro viceré di Sicilia era ministro napoletano a Londra, i numerosi suoi riferimenti alle questioni istituzionali e politiche del sistema inglese, ai problemi posti nel Regno delle Sicilie dalla carestia del 1764, alle conseguenze stesse nell’ordine dei rapporti fra gli stati e la Chiesa della distruzione dei Gesuiti avviata in Portogallo, Francia e Spagna, ecc, sembrano suscitare nel abate GALIANI un’eco intelligente e in fondo concorde, ma sempre più di curiosità cautamente relativistica che di slancio attivo verso un personale impegno riformistico. Nella stessa celebre lettera al Tanucci con l’accostamento fra Diderot e Genovesi, la figura di Diderot è colta in fin dei conti nelle cognizioni di varia letteratura, di cui Denis è fornito più di alcun altro francese conosciuto da GALIANI, nella passione per la metafisica, nella vaga rassomiglianza fisica con Genovesi, nell’attività di commediografo mediocre, nella gaiezza del carattere e nella simpatia per gl’italiani: ma, e siamo nel novembre 1764, neppure un anno prima del compimento dell'Encyclopédie, di quell’impeto critico, di quel radicalismo eversivo nella sua ansia di riformare il mondo, che, appunto dalla grande impresa del Dictionnaire al suoi tanti arditissimi scritti editi e inediti, è il motivo fondamentale di Diderot philosophe, non si ha traccia nel ritratto galianeo. Certo nel GALIANI del decennio francese non c’è alcun atteggiamento positivo che giustifichi le motivazioni, sostanzialmente reazionarie, con cui tanto plauso daranno ai suoi Dialogues due autori non a caso presto trascorsi da un moderato, freddo, utilitaristico riformismo a un indirizzo chiaramente conservatore, per non dire retrogrado, Gian Rinaldo Carli e Paolo Vergani. Anzi non solo il suo favore per il liberismo frumentario è assoluto, come si è visto e come molte altre sue lettere a Tanucci fra il '64 e il '68 vengono a confermare, ma non manca nelle sue riflessioni in proposito la tendenza a stabilire un nesso fra la libertà del commercio dei grani e altri aspetti della vita sociale e politica. Per la Francia stessa fin dal '64 sa rilevare che la presa di posizione dei parlamenti sulla questione dei Gesuiti, come su quella della produzione e del commercio dei grani, spinge i Francesi a occuparsi degli affari pubblici, tanto che il Parlamento diviene un’augusta assemblea e «i nomi, prima ignotissimi, de’capipuopolo del Parlamento ora sono noti e celebrati». Torno a dire: concludeva quella lettera, del 5 marzo 1764 non so se durerà quest’aurora; ma i primi effetti sono belli. Questo libero commercio interiore de’grani e l’esterno che tra breve si stabilirà, questa fissazione d’una cassa d’amortissement, questi colleghi d’agricoltura, questa guerra alla taille arbitraire sono tutte gran cose fatte. Dalla Francia a Napoli. Le informazioni che da Tanucci stesso e da altre fonti riceve sull’imperversare della carestia nel Regno portano già GALIANI all’esame comparativo, che ora nella cognizione della molto maggiore arretratezza della situazione napoletana gli suggerisce rilievi duramente critici e proposte relativamente audaci. Dopo aver ripetutamente incitato Tanucci ad applicare anche nel Regno norme liberistiche e suggerito nuove culture, dal granturco alle patate, per incrementare la produzione agricola, propone che per aumentare la disponibilità e la circolazione di denaro si imponga alle chiese e ai conventi un prestito forzoso dei loro argenti all’interesse del 4%, evitando invece di gravare con simili misure sui banchi: Comincisi da’frati, e non da’banchi. Perché se ai frati si manca di fede, meno male. Se ai banchi, male gravissimo e sommo, e che sarebbe la nostra totale ruina[38]. E la diagnosi che sta alla base di queste proposte potrebbe essere uscita dalla penna di un Genovesi, il Genovesi più pugnace e radicale degli anni appunto successivi alla carestia del '64, gli anni della pubblicazione dei suoi maggiori scritti di economia civile: anche passato il culmine della carestia, scrive GALIANI il 14 maggio, resta il prezzo caro, che non è male medicabile da altro che da commercio e industria che s’introduca in un popolo. Ma, quando il succo e la sustanza d’una nazione è bevuta tutta da’frati, baroni e paglietti, gente oziosa e cattiva, difficile impresa è il metter denaro in circolo. E d’altronde, nel sottofondo di queste informazioni e osservazioni particolari, talora spicciole, maturava l’eccezionale padronanza della materia frumentaria che i Dialogues mostreranno. Forse è però proprio in alcuni temi più politici, meno connessi ai problemi della vita economica, che in questi anni francesi si avverte una certa istintiva resistenza di GALIANI a seguire le linee progressive, a intonarsi alla del resto multiforme, e non sempre univoca, critica dei lumi. Magari, sulla questione dei Gesuiti l’abate segue la corrente ormai predominante contro l'Ordine, una corrente che era poi scaturita dalle iniziative delle stesse corti di Portogallo, di Spagna e di Francia. E tuttavia, quando in Francia si giunge alla cacciata, questa espulsione totale gli sembra cosa dura e ancor più duro giudica il comportamento del popolo francese, del tutto immune da compassione verso i reverendi padri sfrattati; pur se aggiunge che la compagnia sconta così l’aspra persecuzione mossa contro i giansenisti, l’avere avvezzati gli animi alla crudeltà. Ma sono comunque notazioni e riflessioni tenute su di un piano cronachistico e psicologico: alle grosse questioni di politica religiosa e culturale, di battaglie d’idee, che proprio in quel '64 venivano splendidamente ricapitolate nel celebre opuscolo di d’Alembert su La destruction des Gésuites, GALIANI sembra restare completamente estraneo. E anche il punto della posizione dei parlamenti e dei loro contrasti con la corona, verso cui pure si mostra assai attento, lo vede in fin dei conti un po’impacciato e incerto, nell’estrema cautela di cui forsanco talvolta per ragioni diplomatiche circonda i suoi giudizi. Alla indipendenza e al peso politico dei parlamenti era certo ostile, come aveva mostrato già nel celebre passo del Della moneta su Montesquieu e sulla teoria dei corpi intermedi. Ora, nella prima metà degli anni sessanta, si trovava di fronte a quel rinvigorirsi dell’azione dei parlamenti di Francia, che dalle procedure contro i Gesuiti andava all’intervento nelle questioni frumentarie, e che, passando attraverso i contrasti che i messieurs  delle supreme magistrature ebbero con il governo ancora sui rifiuti di sacramento ai giansenisti imposti al suo clero dall'arcivescovo di Parigi o sui provvedimenti autoritari adottati dal re contro le resistenze in singole contese fiscali e finanziarie dei parlamenti di provincia o sulla questione del processo del duca Charles de Fitz-James, sfociata poi in una presa di posizione dei diciotto Pari di Francia sui loro diritti di giurisdizione, doveva esplodere infine nella prova di forza suscitata dall’affare La Chalotais. E qui, su di un terreno specificamente politico, dove i problemi della crisi dell'ancien régime venivano in evidenza con tutte le loro implicazioni sociali e istituzionali, si scopre l’oscillazione, l’incertezza, la sostanziale debolezza delle concezioni di GALIANI. Neppure la posizione avversa ai corpi intermedi del Della moneta viene mantenuta con nettezza, come si è visto nel compiacimento espresso dalla lettera del 5 marzo 1764 per l'effetto di più vasta partecipazione agli affari pubblici avuto dall’intervento dei parlamenti nelle questioni dei Gesuiti e del commercio dei grani. Ma poco prima, nella lettera al Tanucci del 28 novembre 1763, GALIANI aveva considerato con preoccupazione, pur nell’apparente accordo fra corona e Pariamento di Parigi nell’azione contro i Gesuiti, l’essersi il Parlamento impadronito per sempre degli studii, dell’Università e di tutto ciò che concerne questo importantissimo oggetto dell’opinione pubblica. Salvo elogiare, già in altra lettera al Tanucci, del 30 gennaio 1764, il vigore delle rimostranze indirizzate al re dal parlamento di Tolosa, proprio come manifestazione di libertà di parlare. E le oscillazioni continuano senza sosta: il 9 luglio 1764 GALIANI era assai poco edificato del decreto del Parlamento di Parigi che aveva ribadito la nota tesi secondo la quale i parlamenti di Francia costituivano un corpo unico, e mostrava poca fiducia che la corte, la quale pure sentiva il pericolo di queste posizioni, venisse a capo di arrestare i progressi della nascente potenza parlamentare; ma, in una successiva lettera non datata, rilevava che i parlamenti potevano aver torto nella forma della loro opposizione, ma avevano ragione nella sostanza; e in seguito, il 15 ottobre 1764, scriveva al Tanucci che non si doveva affliggere della potenza dei parlamenti. perché è potenza ad aedificationem e non ad destructionem, aggiungendo che una rottura non era da temersi sotto questo buon Re[39]. Non che fosse cosa semplice addentrarsi negl'intricati andirivieni delle dispute fra parlamenti e corona, con il loro continuo richiamo alle misteriose leggi fondamentali della monarchia francese, con l’indeterminatezza della teoria dei corpi intermedi, la cui istanza di difesa delle libertà antiche della nazione ormai appariva alle richieste di più sostanziale e generale libertà avanzate dai lumi una mistificazione, la difesa del privilegio e dell’abuso, oppure nell’attuale condizione del sistema continuava ad essere considerata da molti, anche da alcuni philosophes. l’estrema barriera contro il dispotismo. Sicché non era facile orientarsi in quel dedalo di spinte e di reazioni, di forze e controforze, di teorie che a volta a volta potevano sembrare favorevoli alla libertà e al progresso o meschini artifici a sostegno d’interessi costituiti. Non era facile per francesi e scrittori di politica, figuriamoci per l’abate napoletano un po’economista un po’diploniatico e ancora molto letterato. Peraltro, questi anni sessanta sono appunto gli anni in cui i nodi dell’intreccio vengono al pettine, gli anni in cui matura il colpo di Stato di René-Nicolas de Maupeou, che cercherà di annientare la potenza politica dei parlamenti. Ed è questo uno dei punti in cui più sensibile si verificherà una divisione all’interno del partito filosofico, fra coloro che, come Voltaire, riterranno opportuno appoggiare un assolutismo, pur da loro stessi ormai screditato e odiato, contro le pretese dell’aristocrazia di toga, retrograda, nemica dei lumi e della libertà di coscienza e di pensiero, e coloro invece che, come Diderot, riterranno giusto difendere contro il colpo di forza dispotico dell’ultimo governo di Luigi XV la tela di ragno parlamentare dietro cui i francesi adoravano una «grande immagine di libertà. Ebbene, a questa discussione, che permea ormai di sé gli ambienti illuministici parigini e che nel 1769 avrà il suo più celebre pamphlet storico-politico nella Histoire du Parlement de Paris di Voltaire, GALIANI resta estraneo, si direbbe che anzi divenga sempre più indifferente. Nel 1765 (29 aprile). in procinto di partire per Napoli, per il periodo di congedo di cui parleremo, tornerà sulla diatriba dei diciotto Pari, capeggiati da Paul-François de Quélen, duca di Lavauguyon, sorta, sorta in seguito al processo Fitz-James, per notare che tutta questa storia...in sostanza si riduce a frivolità e a zero e che invece il Palamento acquista autorità, e autorità ad aedificandum, non ad destruendum. Come, in una lettera di poco precedente[40], gli era parso che l’agitarsi dei Pari non avrebbe fatto altro che rafforzare il Parlamento: sarà l’ultimo tracollo della potestà assoluta...tanto è vero che despotismo e Gesuiti vanno insieme. Ma sono notazioni episodiche, impressionistiche. Un meditato giudizio suo GALIANI non mostra di averlo. E al ritorno a Parigi nel novembre 1766. il grande affare del La Chalotais, che sarà quello che condurrà alla crisi del '70 e alla riforma Maupeou, attira la sua attenzione solo un momento, quando comunica, un po’ per inciso, al Tanucci[41] che Choiseul, di temperamento talora troppo vivace ma non certo ostinato, non esiterà a riconoscere che il processo è stato condotto troppo sbrigativamente, se così gli apparirà, e, rimediando agli errori, a concludere la cosa col contenuto universale. Ormai GALIANI non s'interesserà più a questa vicenda, che pure porterà la Francia alla maggior crisi istituzionale che abbia attraversato dopo la Fronda e prima della Rivoluzione. Anche dei parlamenti in genere, nelle sue lettere al Tanucci farà d’ora in avanti brevissimi accenni, come il 22 agosto 1768, per rilevare che, osteggiando il Grand Conseil, il Parlamento di Parigi mostra di considerarlo una giunta straordinaria, che come tutte le congregazioni. ecc., è cosa odiosa in un paese dove si vogliono tribunali antichi, eterni, regolati, conosciuti; o come il 30 gennaio 1769, per inviare al Tanucci il processo verbale del recente lit de justice tenuto dal re nel Parlamento, ma trascorrendo subito ad altri argomenti che ora gli sembrano maggiormente occupare l’attenzione del pubblico francese, la Du Barry e i suoi amori col re, la Corsica, la caduta da cavallo di Luigi XV, ecc. E saranno appunto i temi diplomatici, Corsica, questioni delle visite ai bastimenti mercantili, di Castro, ecc., o le notizie circa le vicende di corte, intrighi, malattie. morti, dissensi e amori, o il grande affaccendarsi al suo progetto di una carta geografica del Regno, a occupare completamente ormai la sua corrispondenza col ministro napoletano Tanucci. La stessa vicenda della Corsica, che in Inghilterra suscitò l’ammirazione e il sostegno di John Wilkes, di John Symonds e di James Boswell per la causa della libertà del piccolo popolo e per il coraggio del suo condottiero, Pasquale Paoli, e variamente stimolò l’interesse e la riflessione politica degl’illuministi francesi, Voltaire e Deleyre, Mably e Raynal e Tissot, fino al Projet de Constitution di Rousseau, fu guardata da GALIANI escusivamente sotto il profilo dei rapporti internazionali, degl’interessi della diplomazia napoletana. Anche i riformatori italiani si commossero, e non certo per spunti di un nazionalismo letterario o più o meno ... anticipatore. Dalmazzo Francesco Vasco scrisse il suo Progetto di legislazione e Giuseppe Gorani nella primavera dei 1764 visitò l’isola, forse alla ricerca di una terra vergine per la sua maturante idea di un vero dispotismo. Ma l’abate GALIANI non colse nell’affare còrso quel grande argomento di controversia politica dell’Europa illuminata, che Stelling-Michaud ha finemente sottolineato. S’investì esclusivamente, come ha minuziosamente puntualizzato Walter Maturi, delle esigenze della diplomazia napoletana, che profondamente interessata al problema del Mediterraneo occidentale, sorvegliava con diligenza tutte le mire delle potenze europee ed italiane sulla Corsica[42]. Secondo questa linea, tutte le soluzioni strumentalizzabili ai fini di mantenere la Corsica al di fuori del dominio di una potenza che potesse valersene contro i veri o supposti interessi napoletani gli parve buona: repubblica indipendente, magari con formale soggezione a Genova, sottomissione ai genovesi, attribuzione al Papa, che in cambio avrebbe potuto dare Avignone alla Francia. E, perfino, nel sostenere questa prospettiva il cinico ma imprevedibile GALIANI si sentiva ispirato dallo spirito di Giulio II, un Giulio II formato diplomatico: Non è bene che la disperazione degli uni o degli altri chiami i barbari in Italia, oggi che tutta ha i principi suoi, o designati o istallati. Giulio II ci spese assai più sangue inutilmente che non ci ha messo inchiostro V. E. con felice successo[43]. Salvo poi, come spesso avviene ai freddi realisti, ingannarsi proprio nella previsione, che il suo osservatorio diplomatico avrebbe dovuto facilitargli, delle reali intenzioni francesi nell’isola; e, ancora nell’aprile e nel luglio del 1768, ritenere che le truppe francesi non sarebbero andate in Corsica, perché la nazione non aveva piacere né di questa guerra né di conquista di quell’isola, tanto che se i Corsi ostinatamente non vorranno sottomettersi, la Francia per rabbia ordinerà loro di seguitare a vivere come facevano prima.... Resterà, di tutto l’affaccendarsi di GALIANI intorno a un problema di cui gli sfuggiva o non gl’interessava la funzione nello sviluppo delle idee politiche della philosophie, il guizzo di spirito con cui inquadra il suo errore di calcolo nella difficoltà del rapporto fra la rappresentanza diplomatica di un piccolo Stato italiano e il ministero piuttosto altezzoso di una grande potenza europea: Quando i dettami di V. E. mi hanno incoraggito, ho ripigliato il discorso, e con maggior calore, giacché si era vista la vergogna e il danno che proveniva ai Francesi da questa guerra. Mi è stato sempre risposto con parole d’oracolo, che io non sapeva tutto; non sapea quali idee avevano indotta la Francia a questo partito, quale oggetto, quali futuri erano nelle ginocchia di Giove, e che perciò parlavo, ma parlavo a caso, e con idee ristrette misere da italiano...[44]. Ma resta anche che di un episodio che la sensibilità illuministica seppe forzare magari oltre le sue reali proporzioni per farne un modello e un campo di prova per le sue aspirazioni politiche più innovatrici, GALIANI non vide che l’aspetto diplomatico, di una politica internazionale in cui , fra l’altro, c’era appunto poco da agire e da guardare per il paese che rappresentava. Sono gli anni dell’Encyclopédie in Francia, del «Caffè» in Lombardia; e nella Napoli di GALIANI vengono ora (1766-67) pubblicate le Lezioni di commercio di Antonio Genovesi; da Livorno (dove nel 1764 esce la prima edizione) il Dei delitti e delle pene conquista l’Europa e nel 1766 Beccaria compie la sua celebre visita a Parigi, Ora. nella corrispondenza con Tanucci, dell’Encyclopédie GALIANI parla due volte: la prima nella famosa lettera del 12 novembre 1764, quando, prima di tracciare i profili letterari di Diderot e d’Alembert, fornisce al suo ministro notizie puramente informative delle caratteristiche e delle vicende del grande Dictionnaire; la seconda nella lettera del 24 novembre 1766, quando ormai la distribuzione della intera pubblicazione è in pieno corso, semplicernente per dichiarare inesatta la notizia secondo cui l’articolo Peuple avrebbe procurato ai redattori nuove noie dalla censura, informando che si era solo voluto evitare che l’articolo in questione si vendesse pubblicamente a Parigi e a Versailles, proprio affinché in reatà l’invio dell’opera ai sottoscrittori, potesse continuare regolarmente, senza lo strepito che i retrogradi avrebbero fatto a Parigi. Di Beccaria, del Dei delitti e delle pene e di tutto il gruppo del «Caffè» le lettere al Tanucci recano traccia una sola volta, quando, in viaggio per ritornare a Parigi, nell’ottobre del 1766, GALIANI si ferma a Milano, accolto molto cordialmente dal Firmian, e insieme alla floridezza del paese, specie nell’agricoltura, crede di indicare il movimento dell’Accademia dei Pugni come uno dei risultati della buona amministrazione del governatore: «A traverso al burro milanese sono sbocciati gl’impegni ed i pensieri. Si è visto il libro de’delitti e delle pene, e vi è già un crocchio di molti giovani nobili, che studiano e pensano, e che il popolo perciò crede increduli, come secoli fa gli avria creduti stregoni». Su Genovesi, poi, silenzio - e sì che, a parte il rilievo che l’opera genovesiana andava ormai prendendo in Italia e all’estero proprio fra il '64, anno della grande carestia, e il '68, l’anno della seconda edizione del primo volume delle Lezioni di commercio, fra Tanucci e Genovesi si era stabilito un legame stretto di consenso e di appoggio.
Appare ovvio che a questo punto il riferimento al temperamento di GALIANI, alle sue inclinazioni fondamentalmente di letterato, al suo lato di pigrizia e di superficialità non è più sufficiente. Certo, ove si pensi anche al brusco voltafaccia che, caduto in disgrazia il Tanucci nel 1766, farà contro colui che ora come principale ministro del Regno tanto adula in ogni sua lettera, si deve pur dire che qualcosa di quel «genio maligno» che, anche a seguito della personale esperienza in occasione della censura della Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Galanti gli rinfaccerà, GALIANI lo va mostrando nel tono piuttosto cinico, indifferente, quasi svagato con cui. da un osservatorio così favorevole come un’ambasciata a Parigi, attraversa le vicende cruciali di tante battaglie ideali e politiche dell’età dei lumi. Ma proprio il confronto con Beccaria, con Verri, con gli uomini del Caffè da un lato, con Genovesi dall’altro, suggerisce qualche ulteriore motivo d’interpretazione e di valutazione. Temperamento a parte, altro era stato il processo formativo delle idee e degli interessi del figlio di piccoli proprietari terrieri del paesino di Castiglione, del prete povero che faticosamente si era fatto una ricca, eterogenea ma profonda cultura nella capitale, e che negli studi di economia aveva trovato un elemento di rottura con le chiusure e i tormenti della riflessione metafisica e teologica, verso le prospettive di un lavoro intellettuale teso all’azione, verso l'intervento nelle cose del mondo a favore dei ceti inferiori da cui era uscito e che continuava a guardare con curiosità e dolorosa simpatia dalla villa del suo protettore Intieri; e altro quello dell’abatino figlio di un funzionario regio, educato in uno dei migliori istituti napoletani, a cura e sotto la guida dello zio titolare di una delle più alte cariche del Regno, presto inserito nell’ambiente culturale raffinato ma tradizionalista delle accademie erudite, spinto a studi letterari e archeologici e a divertimenti arcadici: tanto che l’incontro con i problemi della produzione e dello scambio in occasione del geniale intervento nel dibattito monetario era sembrato rimanere un episodio a sé, un intermezzo in un’attività prevalentemente accademico-letteraria; mentre anche il soggiorno parigino, pur nel porre GALIANI a contatto col fulcro della vita dei lumi da una posizione fertile di relazioni e d’informazioni, proprio nel genere di attività, di conoscenze, di rapporti offerti da un’ambasciata, e un’ambasciata settecentesca, recava un altro motivo di mondana superficialità, di distacco un po’frivolo da una più approfondita e impegnata opera intellettuale. Questo impegno culturale e civile, reso tanto deficiente in GALIANI dalle sue origini e dalla sua formazione, aveva d’altra parte costituito il motivo dominante della vita e dell’opera dei giovani nobili dell’Accademia dei Pugni, i quali, proprio da un punto di partenza così distante da quello di Genovesi, avevano trovato nella loro ribellione all’ambiente famigliare angusto e autoritario e al mondo di conformismo, di tradizionalismo di feticismo giuridico, di privilegio sociale di cui le loro famiglie facevano parte. L’incentivo alla contestazione, alla ricerca di quelle stesse vie di rinnovamento della vita economica, delle istituzioni e della struttura politico-ammiministrativa del proprio paese, che a Napoli avevano costituito l’obbiettivo della riflessione e dell’insegnamento di Genovesi. Già ora, perciò, nel corso degli anni sessanta e del suo brillante soggiorno parigino, GALIANI, che pure in termini cronologici è esattamente contemporaneo di Pietro Verri, nonostante la sua vivace intelligenza lo renda aperto agli echi di molte polemiche illuministiche e dei fermenti economico-sociali che ne stanno al fondo, appare quasi uomo di diversa generazione, certo assai più distante di Genovesi, se non proprio per modernità per il tipo specifico d’interessi culturali e d’ideali civili, dagli scrittori e riformatori milanesi del Caffè.  Eppure il pensiero economico e civile di Genovesi era maturato fra quei problemi posti in primo piano negli anni cinquanta dalle conseguenze della guerra di successione austriaca, i quali ora nel vivo degli sviluppi politici e culturali di tutta Europa dopo la guerra dei sette anni, in quell’età densa di contrasti d’idee e di proposte riformatrici, in cui GALIANI, come Verri come Beccaria, vive la sua maturità intellettuale, non potevano non essere un po’sbiaditi, per molti aspetti superati. Potrebbe dirsi che GALIANI va in questo periodo affinando il suo realismo critico, la sua inclinazione per le cose concrete. Nello stesso soggiorno a Napoli dal maggio 1765 all’ottobre 1766, inizialmente motivato da un congedo per ragioni di salute, poi in realtà dal suo impiego nella «giunta» che, sotto la presidenza del ministro delle Finanze Juan Asensio de Goyzueta, avrebbe dovuto elaborare il progetto di Trattato di commercio con la Francia, la sua attività è interamente rivolta appunto ad analisi particolari, a proposte relative a questioni specifiche: oltre al Trattato commerciale con la Francia, su cui naturalmente condivise l’atteggiamento temporeggiatore di Tanucci iniziando la collaborazione di quelle Considerazioni sul Trattato di Commercio tra il Re ed il Re Cristianissimo, di cui è stato pubblicato il testo[45] e che si riproduce parzialmente in questo tomo, la questione dei Gesuiti e quella frumentaria, ma sempre nel loro riflesso diretto sulla politica che il governo napoletano avrebbe dovuto seguire. È prevalentemente improntata a realismo spicciolo, a una considerazione di buon senso, anche se certo risente della polemica illumistica contro il formalismo giuridico, la propensione mostrata dalle citate Considerazioni per forme naturali di commercio tra le nazioni, regolate dai soli principi di libertà e protezione e non da specifici trattati. E sono più che altro sulla linea di questo realismo, che ricerca l’utilità immediata del proprio paese, il favore che GALIANI mostra per la libertà del commercio dei grani e i consigli che rivolge al Tanucci d’introdurla a Napoli, finché essa sembra dare buona prova nella Francia di L’Averdy, mentre dagli arcaici sistemi vincolistici in vigore nel Regno derivano manifestamente solo scarsità di produzione, abusi di speculatori, scompensi nella distribuzione, nel consumo, in tutta la vita economica. Così infine per i Gesuiti. In fondo probabilmente GALIANI non ha davvero simpatia per l’Ordine, in linea con la tradizione di suo zio Celestino. Cappellano Maggiore del Regno di Napoli. Ma, a parte le oscillazioni che abbiamo visto nei suoi commenti all’azione contro la Compagnia di Francia, quello che gli preme soprattutto è trarre dall’esempio francese indicazioni utili per i provvedimenti da adottarsi dal governo di Napoli, una volta che anch’esso ha deciso l’espulsione dei reverendi padri. Dopo la nota lettera del 5 ottobre 1767 al cardinale Orsini, nella quale invita il prelato, decisamente incline a difendere la Compagnia, a prendere atto del fatto compiuto della soppressione di essa nelle maggiori monarchie europee e convincersi che la via migliore per la Santa sede è quindi ormai la secolarizzazione dell’Ordine intero[46], ecco il promemoria inviato da Parigi al Tanucci il 4 gennaio 1768, poco dopo aver ricevuto la notizia che anche la Corte di Napoli aveva, nel novembre 1767, adottato il provvedimento di espulsione. Si tratta per GALIANI di trarre il maggior partito possibile per lo Stato dall’abolizione dell’Ordine, sul duplice piano della istruzione pubblica e delle finanze. Adibire quindi i palazzi della Compagnia a una destinazione uniforme, quella della pubblica educazione della gioventù. Si eviteranno le beghe e le spese che s’incontrerebbero ove si volessero distribuire gl’immobili e le chiese dei Gesuiti fra altri ordini religiosi. E insicine si riuscirà a utilizzare i beni gesuitici rapidamente, senza troppi contrasti e indugi, per uno scopo di fondamentale importanza per ogni gran monarchia, l’educazione.…la prima delle cure del governo.…il primo di tutti i bisogni, se è vero che i giovani sono la speranza, e il rinovellamento d’una nazione. Subito Machiavellino abbandona questo tono lirico, per consigliare le vie a suo parere più pratiche ai fini di questo disegno: i sei collegi dei Gesuiti nella città di Napoli assegnarli alle province del Regno, in modo che a ogni gruppo di due di esse ne toccasse uno, dei centoquattro poi distribuiti nelle altre città fare altrettanti collegi pubblici d’istruzione; porre alla testa di questi nuovi collegi amministrazioni sul tipo di quelle che reggevano i monti, gli ospedali, i luoghi pii laicali, che in questo caso, secondo GALIANI avrebbero dovuto risultare composte da un delegato regio, da un barone e da due dottori in diritto per ogniuna delle province cui il collegio fosse assegnato. Era un piano piuttosto semplice e pratico, che GALIANI accompagnava con varie indicazioni circa i corsi di studio, la possibilità per gli allievi dei collegi di Napoli di frequentare l’Università, le rette da far pagare alle famighe, i diplomi cui la frequenza per tre anni in ogni convitto avrebbe dovuto dar diritto, ecc. Due sole considerazioni di carattere più generale sul carattere e gli obiettivi dell’operazione. La prima, in perfetto stile di realismo galianeo, sul vantaggio di ottenere un risultato positivo agli effetti dell’educazione e del risparmio di spesa, introducendo le minori novità possibili: Le regole, i metodi, le leggi, gli usi ai quali un popolo è già avvezzo impediscono la confusione, l’imbarazzo, l’incertezza, che è il male delle novità. L’altra, di sapore illuministico, relativa all’opportunità che il provvedimento proposto offrirebbe di diminuire l’eccessivo stuolo di preti e di frati, togliendo ai seminari vescovili e ai collegi degli ordini regolari il monopolio che in tutto il Regno essi detengono dell’educazione. Qui GALIANI trova parole degne di un convinto riformatore nel denunziare il male del sistema consistente nel fatto che molte famiglie, per l’impossibilità di tenere in casa i figli assicurandogli una minima educazione, li mettono in seminario in giovanissima età, e devono poi subire lo scandaloso e crudele abuso introdotto dai vescovi di far pagare alle famiglie stesse tutte le spese del periodo di alunnato, nel caso che i seminaristi giunti all’età conveniente non vogliano prendere gli ordini ecclesiastici: con il risultato che lavarizia, o l’impotenza de’padri lascia ingaggiar per forza tanta gente nello stato ecclesiastico. Abuso che diminuirebbe di molto se le famiglie potessero collocare i propri giovani nei collegi regi, mentre d’altra parte si rinnovassero i divieti canonici di consacrare i seminaristi prima dell’età consentita per il noviziato. Nel suo avviso ai lettori dell’Encyclopédie dell’agosto del 1765, in occasione del compimento dell’opera e della sua distribuzione per intero, Diderot aveva scritto: Puisse l’instruction générale s’avancer d’un pas si rapide que dans vingt ans d’ici il y ait à peine en mille de nos pages une seule ligne qui ne soit populaire. Niente di simile potrebbe trovarsi nelle idee sull’educazione del petit abbé che pure per il suo spirito e la vivacità del suo dialogo Diderot stesso tanto ammirava. Anche l’istruzione generale è in fin dei conti per GALIANI un instrunentum regni nel quadro del sistema vigente: meglio se si può perfezionarlo nell’interesse dello Stato, diminuendo il prepotere che vi esercita il clero, grazie anche all’occasione offerta dalla soppressione nei vari paesi dell’ordine dei Gesuiti. E la fragile vena illuministica della riprovazione per lo scandaloso e crudele abuso dei vescovi reclutatori a forza di novizi viene assorbita subito in lui nel filone, generico e in fondo tradizionale nella cultura napoletana, del giurisdizionalismo. Niente, nel segretario della legazione di Ferdinando IV a Parigi, di quella dimensione di rottura con tutta la struttura politica e culturale del vecchio regime secondo cui la «istruzione generale» è considerata dal grande autore dell’Encyclopédie. GALIANI e Diderot frequentano in questo periodo lo stesso ambiente di salons intellettuali della Parigi dei lumi, stanno divenendo amici, hanno molti giudizi in comune sulla letteratura e sull’cconomia. Ma quel Diderot c’était toute autre chose[47]. Nello spirito profondo dei lumi, e particolarmente in quello più radicalmente eversore degli enciclopedisti che pure gli furono più vicini, GALIANI non entrò mai, neppure nel periodo di stretto contatto e di reciproci trasporti amichevoli che furono gli anni parigini dell’abate.
In fondo gli entusiasmi dei suoi amici francesi appaiono all’inizio rivolti piuttosto alla sua verve di conversatore che non a più solide qualità. Anche delle sue celebri barzellette Diderot riferiva a Sophie Volland: Tout cela n’est pas trop bon; mais l’à-propos, la gaieté, y donnent un sel volatil qui se dissipe et ne se retrouve plus quand le moment est passé[48]. L’epicureismo dell’abate era nell’interpretazione di d’Holbach una tendenza all’ozio, che probabilmente (come poi avvenne) non gli avrebbe consentito neppure di portare a termine il suo commento a Orazio. Insomma, come diceva ancora Diderot a Sophie Volland, l’amore di GALIANI per Parigi dipendeva essenzialmente dal trovarvisi perpétuellement en spectacle. Contatto continuo e strettissimo, certo, quello fra il petit abbé e i suoi amici illuministi: proprio André Morellet, cui il ricordo della polemica aspra avuta con lui circa i Dialogues non doveva essere gradito, ricorderà nei suoi Mémoires che durante gli anni sessanta i membri della coterie a Parigi passavano la vita insieme a GALIANI. Ma cogliere un rapporto effettivo di comuni interessi culturali e civili fra i philosophes e il loro bizzarro amico napoletano riesce difficile. Tanto più sorprendente può quindi apparire l’improvviso intervento di GALIANI nella discussione sulla libertà del commercio dei grani, che in Francia aveva già avuto tanti illustri protagonisti, e il grande effetto che il suo libro ebbe, accentuando se non provocando il distacco di alcuni dei più famosi enciclopedisti, in primo luogo Diderot, dai fisiocrati. Sulle prime sembrava anche quella una querelle presa quasi per il gusto dialettico della conversazione nei salotti della Parigi illuminata: a cena dal barone d'Holbach per la prima volta GALIANI, a quanto appare dalla corrispondenza di Diderot, aveva interloquito sul problema[49], mescolando interventi seri, come la difficoltà di abolire le leggi anche cattive, quali potevano essere quelle vincolistiche, quando non si hanno ministri capaci di fare eseguire quelle buone, a bizzarrie, come la sortita che l’agricoltura, la più importante delle condizioni, era stata ormai avvilita grazie a quattromila anni di sforzi, sicché cercare di tirarla su equivaleva a ridurre a niente i duchi e i pari e a condurre il re in seno al parlamento accompagnato da dodici fornai. Ed era la stessa serata in cui l'abate aveva compiuto un’appassionata apologia di Caligola! Ma, solo pochi giorni dopo, la più meditata critica antiliberistica che doveva d’un colpo conquistare Diderot: Enfin, l’abbé GALLIANI s’est expliqué net. Ou il n’y a rien de démontré en politique, ou il l’est que l’exportation est une folie. Je vous jure, mon amie, que personne jusqu’à présent n’a dit le premier mot de cette question. Je me suis prosterné devant lui pour qu’il publiât ses idées. Voici seulement un de ses principes: Qu’est-ce que vendre du bled? - C’est échanger du bled contre de l’argent. - Vous ne sçavez ce que vous dites; c’est échanger du bled contre du blé. A présent, pouvez-vous jamais échanger avec avantage le bled que vous avez contre du bled qu’on vous vendra?.... Ma questa famosa lettera di Diderot a Sophie Volland del 22 novembre 1768 niente ci dice in sostanza sulla genesi delle nuove idee di GALIANI sul commercio dei grani. L’avevamo lasciato, nelle lettere al Tanucci fino almeno agl’inizi del '68, decisamente favorevole alla libertà frumentaria: e ora già nel novembre di quello stesso 1768 il piccolo abate sbalordisce gli amici illuministi con l’originalità e la nettezza della sua presa di posizione antiliberistica. La storia di questa genesi l’ha delineata da par suo Franco Venturi nel suo articolo Galiani tra enciclopedisti e fisiocrati. Fra il '64 e il '68 l’abate ci appare di sovente piuttosto un riflesso. sia pure un brillante riflesso, di questi dibattiti e problemi più che non l’assertore d’una concezione tutta sua e personale. Lo vediamo cambiare con i tempi, mutare col mutare delle situazioni, sensibilissimo testimone e lucidissimo spettatore d’un dramma che lo circonda. Particolarmente sensibile, in linea con il suo realismo empirico, egli fu dunque alla crisi che proprio nel corso del 1768 si verificò in Francia: crisi dei principi fisiocratici, con gli editti del '63-'64 sempre più violati dal governo e dalle autorità locali, attacchi di pubblicisti e di alcuni parlamenti contro la stessa legislazione di libertà, crisi economica, con penuria di grani e rialzi dei prezzi che provocarono tumulti in Normandia, nel Maine, nella Touraine, con la conseguenza infine della sostituzione, al Contrôle général, del L’Averdy con Étienne Maynon d’Invault, un cambiamento che non migliorò le cose. Certo, a parte l’esperienza diretta, su GALIANI particolarmente influente, di fatti come le difficoltà francesi attuali e la carestia napoletana del '64, cui le timide iniziative liberistiche del Tanucci non avevano portato davvero efficace rimedio, il dibattito d’idee in Francia fra il '67 e il '68 si era arricchito di sintomatiche punte antifisiocratiche: del '67 sono i Principes et observations œconomiques del Forbonnais, forse il più importante e significativo scritto diretto contro i fisiocrati in quel momento[50], e del '68 è L'homme aux quarante écus di Voltaire, che all’approfondita discussione di teorie economiche sostituiva, talora con effetti più distruttivi sul piano dell’opinione pubblica, l’inimitabile vena satirica del patriarca di Ferney. Ma il curioso e significativo è che di simili letture non si ha traccia espressa nelle lettere di GALIANI a Tanucci di questi mesi[51]. Le avesse o no fatte, è comunque probabilmente appropriato al nostro abate il giudizio negativo della Réfutation del Morellet su quelli qu’on appelle gens sages, réservés, modérés; mais dont la sagesse, la réserve, la modération ne sont souvent que l’art d’écarter tous les mouvemens qui pourroient troubler leurs tranquilles jouissances, et, puisqu’il faut le dire, une véritable indifférence pour le bien de leur nation et de l’humanité; e a quel giudizio, con diretto riferimento a GALIANI, faceva eco la precisa valutazione di Turgot, nella sua celebre lettera a Mademoiselle Julie de Lespinasse del 26 gennaio 1770: Je n’aime pas non plus à le voir toujours si prudent, si ennemi de l’enthousiasme, si fort d’accord avec tous les ne quid nimis, et avec tous ces gens qui jouissent du présent et qui sont fort aises qu’on laisse aller le monde comme il va...Oh! tous ces gens-là ne doivent pas aimer l’enthousiasme, et il doivent appeler enthousiasme tout ce qui attaque l'infaillibilité des gens en place, dogme admirable de l’abbé, politique de Pangloss, qu’il étend à tous les lieux et à tous les temps. Ed è conclusivamente valido il giudizio di Venturi sulla differenza di fondo fra GALIANI e gli economisti, secondo cui mentre l’abate napoletano ritornava alla ragion di Stato, ai ragionamenti d’opportunità, all’analisi sagace delle nuove forme di governo, i fisiocrati ed i loro amici insistevano sulla distinzione sempre più netta tra il potere e le leggi economiche, tra le varie forme di governo e la società civile, ribadendo, approfondendo quella che era la loro grande scoperta, l’autonomia cioè della scienza e della realtà economica. Ma lo stesso Venturi aggiunge che in GALIANI, al di là della Lucida maschera di empirismo e magari di scetticismo, stava una importante scoperta: la differenza di strutture economiche e sociali fra paesi agricoli e paesi manufatturieri, fra paesi arretrati e paesi progrediti, e quindi la necessità di tener conto di queste diversità di situazioni ambientali, naturali, climatiche, economiche, di non ritenere ovunque applicabile la ricetta schematicamente liberistica dei fisiocrati, di tener conto che il loro assoluto e dottrinario privilegiamento dell’agricoltura come fonte di ricchezza poteva non andare affatto bene per paesi dove l’agricoltura aveva ormai, nelle condizioni dell’epoca, assai poco da offrire e dove quindi il gran punto dello sviluppo economico sembrava la protezione e l’incremento delle manifatture. Che sono i inotivi più essenziali e persuasivi dei Dialogues, ripresi da Diderot, dunque da colui che rappresenta tutto il contrario della insensibilità all’esigenza delle riforme o dell’ossequio verso i gens en place, nella sua appassionata Apologie de l'abbé GALIANI. Eppure, restando valide anche le finissime analisi che Venturi dedica al significato e ai limiti delle divergenze che seguirono in merito fra gli enciclopedisti, per GALIANI il discorso deve essere ripreso nel quadro di quello che ci si è configurato fino ad ora tutto il corso del suo pensiero e il tono della sua personalità. Certo inappuntabile il discorso del quinto dialogo sulla condizione più progredita dei paesi manufatturieri rispetto a quelli agricoli. Ma in questo inno di GALIANI alle manifatture come fonte di «una circolazione rapida e uniforme delle ricchezze», di una maggiore costanza della produzione di un paese attraverso le vicende del clima e delle circostanze naturali, come lievito civile e sociale che spazza via soprusi. anarchie, pregiudizi, superstizioni, non tutto è progressivo» come potrebbe apparire. Al fondo circolano idee legate a tutto un sistema economico vincolistico, che, nonostante le affermazioni del «cavalier Zanobi a favore dei princìpi di libertà, suonano arcaiche, probabilmente contrarie a quello stesso sviluppo generale della produzione e della circolazione dei beni che mediante le manifatture si vorrebbe promuovere. Soprattutto, l’idea che lo sviluppo delle manifatture provochi anche l’incremento dell’agricoltura, fornendo ai coltivatori capitali che li mettano al sicuro dalle perdite provocate dalle circostanze atmosferiche e gli consentano di portare migliorie ai propri terreni, è settorialmente limitata al ricambio di capitali nell’ambito di una stessa famiglia, di cui alcuni membri siano agricoltori e altri lavorino nell’industria, e prescinde quindi dalla reciproca, cioè dall’impulso che un’accresciuta produzione agricola, stimolata da maggiore domanda del prodotto, può su di un piano più generale dare all’industria, fornendo maggiori quantità di mezzi di sussistenza, aumentando essa stessa la circolazione dei belli, la formazione di capitali ecc. Ne conseguono, anche nei successivi dialoghi, considerazioni che sotto la brillante crosta di persuasività, di realistico buon senso demolitore degli schemi fisiocratici, celano quella cautela, quella paura del nuovo che Turgot già notava come l’elemento essenzialmente conservatore del pensiero di GALIANI. Per giudicare se l’esportazione è utile, accertare ogni volta - con i mezzi statistici dell’epoca! - se c’è un eccedente di grano rispetto al consumo nazionale. Alla certo frettolosa assolutezza del liberismo fisiocratico, contrapporre che l’esportazione del grano fu in genere praticata con successo da paesi la cui popolazione era diminuita a seguito di guerre esterne o intestine, come la Francia dopo le guerre con gli Asburgo o l’Inghilterra dopo la guerra delle due Rose, e presentare questa tesi come risultato di concreta esperienza, in confronto al dottrinarismo fisiocratico. E giù fino al VII dialogo, con la sua dimostrazione che il commercio del grano non è vantaggioso, per una serie di ragioni che vanno dalla pesantezza e dall’ingombro alle difficoltà di conservazione e di magazzinaggio, al fatto che esso si svolge solo dopo la raccolta, la battitura e l’immagazzinamento, cioè in quella stagione poco propizia che è l’autunno, alle esigenze di fretta e alle possibilità di perdite che lo caratterizzano ecc.: ma in fondo per un motivo centrale, enunziato fin dall’inizio, e collegato all’antica paura di carestie, sommosse popolari, ecc., il motivo riassunto nella formula che il grano non è oggetto di commercio ma di amministrazione. Forse è più in queste argomentazioni che non nella geniale descrizione della situazione dei paesi arretrati, a economia quasi esclusivamente agricola, in confronto ai paesi progrediti, con manifatture ad alto livello di sviluppo, o nella in fondo sensata e realistica proposta finale di consentire esportazione e importazione dei grani ma con una determinata imposta, è piuttosto in quelle motivazioni di teoria economica che appare il contrasto più netto fra GALIANI e i fisiocrati: quel contrasto che, se vide Diderot dalla parte del primo, quasi sedotto dal suo buon senso e dal suo spirito, suscitò a Ferdinando GALIANI la indignata reazione dei Dupont de Nemours, dei Baudeau, dei Roubaud e anche del Morellet. Se infatti la contrapposizione delle condizioni dei paesi poveri agricoli a quella dei ricchi manifatturieri era inoppugnabile, contro l’innegabile schematismo settario dei fisiocrati[52], peraltro respingere di nuovo tutta la materia granaria sotto l’impero dell’amministrazione, sottraendola al commercio, considerare il commercio del grano sotto il solo punto di vista dell’interesse di chi lo effettua e non sotto il più ampio angolo visuale della circolazione del prodotto e dello stimolo alla coltivazione, limitare la considerazione del rapporto agricoltura-manifatture al punto della possibilità di disporre di certi capitali da parte degli agricoltori, e non estenderla alla questione di un più ampio e libero ricambio e di un reciproco incremento fra le due branche della produzione, era indubbiamente porsi sulla linea di una certa resistenza a quei motivi di rinnovamento di tutta la vita economica che erano comuni al pensiero riformatore settecentesco, non solo quindi dei fisiocrati ma anche dei più avanzati discepoli di Gournay, Herbert, Véron de Forbonnais, Plumard de Dangeul.
Naturalmente sono posizioni che non vanno viste e giudicate in assoluto: né GALIANI né i suoi avversari, come nessun economista di qualsiasi tempo, possono essere catalogati come più o meno avanti sulla scala di valori di una perennemente valida scienza sulla economia, ma devono esser considerati e valutati per il significato delle loro idee in rapporto alle condizioni e alle tendenze della vita economica della loro età. Ora, da questo punto di vista, certo né l’engouement dei fisiocrarti per l’agricoltura, né la loro teoria del prodotto netto, né la loro proposta dell’imposta unica fondiaria, e neppure il loro assoluto liberismo si riveleranno mai suscettibili di completa attuazione. Eppure queste loro idee nel rompere con il vecchio sistema vincolistico, con gli arbìtri e le bizzarrie dei regolamenti, con i privilegi, spesso contrari all’interesse economico della produzione, in base ai quali da Colbert in poi si erano sviluppate le manifatture in Francia, nel richiedere libertà di traffici, d’investimenti, di scambi interni e internazionali, nel promuovere un laissez faire che rispettasse le esigenze naturali della iniziativa economica, corrispondevano alle tendenze di una fase di sviluppo della società, del suo passaggio da un sistema per molti aspetti ancora feudale-corporativo a un sistema di proprietà e d’iniziativa individuale, tipico dell’ascesa della borghesia. Vi corrispondevano certo più che con le cautele, i «distinguo, le nostalgie vincolistiche, i riguardi per la ragion di Stato di GALIANL e perfino più che non le sue preoccupazioni umanitarie, riconducenti alla vecchia prassi antieconomica e piena di abusi dei «magazzini di abbondanza» e delle grascie contro le carestie. E quindi lo sviluppo stesso della nuova economia industriale dei primi dell’Ottocento all’insegna del liberismo manchesteriano sarà certo più da ricollegarsi alle arditezze schematiche dei filosofi agricoli, al loro dottrinarismo volto a fissare le leggi specifiche dell’economia, che non al timido realismo, al buon senso composito e in fondo consevatore di Ferdinando GALIANI. Aveva ragione il Dupont de Nemours a deplorare che un italiano che era sul punto di andarsene pretendesse di liquidare tutto lo sforzo di rinnovamento teorico nell’analisi specifica dei fenomeni della produzione dello scambio del consumo, portato dalla «nuova scienza» degli economisti, con poche considerazioni brillanti, e spesso sensate, ma pur sempre ispirate per buona parte alla critica spicciola, al realismo contingente dell’uomo qualunque. D’altronde, non aveva torto Diderot nella sua Apologie a lodare GALIANI per aver ragionato sulla base degli esempi, Ginevra come Stato piccolo, l’Olanda come medio, la Francia e l’Inghilterra come grandi Stati agricoli e manifatturieri insieme; per aver contrapposto alla fiducia illimitata dei fisiocrati negli effetti taumaturgici della libertà del commercio di far giungere immediatamente le quantità di grano necessario nelle province colpite da carestia, il calcolo di tutti i dettagli di paure, avidità, speranza, che all’atto pratico potevano intralciare l’afflusso dei grani dove ci fosse bisogno e provocare la fame e la morte fra le popolazioni; per essersi mostrato scettico circa il generale arricchimento che libertà di commercio, aumento della domanda e del prezzo avrebbero prodotto nelle campagne: non sono i fittavoli agiati notava l’enciclopedista a costituire la società delle campagne, ma la massa dei braccianti; e io chiederò se i primi, divenuti più agiati, faranno rifluire sugli ultimi la loro ricchezza e li trarranno dalla loro miseria. Il fatto è che ai tempi lunghi dei fisiocrati, miranti a un generale rivoluzionamento della produzione, sotto la spinta dell’accresciuta circolazione conseguente all’assoluta libertà commerciale, all’aumento della coltura dei terreni, alle migliorie agricole, agl’investimenti produttivi sia nell’agricoltura che nelle manifatture, GALIANI contrappone il tempo corto del periodo di crisi e di transizione che ha sotto gli occhi, con gli scompensi che gli esperimenti di liberalizzazione provocavano, fra persistenza di vecchie mentalità e di vecchie abitudini, malvolere di autorità intermedie e locali, difficoltà dei trasporti, scarso sviluppo manifatturiero e quindi scarsa consistenza capitalistica di molti paesi, miseria delle masse cittadine a un livello limite, difficoltà finanziarie di quasi tutti gli Stati, incapaci di assicurarsi le entrate necessarie mediante sistemi di una qualche giustizia fiscale, e portati quindi a fare affidamento sulle dogane e a lasciar sussistere i vecchi abusi e ruberie di funzionari e di privati, pur di avere in caso di bisogno l’effimero rimedio contro la carestia. Su queste basi si fondava il suo libro, intelligente ed eloquente, la sua brillantissima critica degli eccessi dottrinali del liberismo fisiocratico. Se a un uomo come Dupont de Nemours, che aveva dedicato tutta la sua vita alla elaborazione e alla diffusione dei principi della setta, i Dialogues potevano apparire solo un pamphlet malvagio e frettoloso, una spiritosa ma superficiale diffamazione delle idee fisiocratiche, sul piano immediato le critiche di GALIANI contro lo schematismo della scuola e i pericoli che ne seguivano nella pratica applicazione delle norme di libertà avevano pure una loro giustificazione. La storia delle principali reazioni che i Dialogues suscitarono nei periodici francesi e in specie tra i fisiocrati, delle prese di posizione dei principali illuministi, da Voltaire nell'articolo Blé delle Questions sur l’Encyclopédie a Diderot con la sua Apologie, della diatriba fra GALIANI e Morellet, cui questultima si riferiva, degl’interventi più o meno appropriati e competenti di pubblicisti generici, come Simon-Nicolas Linguet, Louis-Sébastien Mercier, Élie-Catherine Fréron, è stata delineata da Nicolini nelle sue Appendici ai Dialogues, da Venturi nel citato articolo,e da me Furio Diaz in Filosofia e politica nel settecento francese. Qui interessa ricordare quello che di questi echi può valere a illustrare il significato che ai più avvertiti dei contemporanei il libro di GALIANI sembrò avere. Della discussione diretta dei fisiocrati contro GALIANI abbiamo sentito sopra l'accorata ma in fondo non ingiustificata accusa del Dupont de Nemours contro la facilità sbrigativa di una critica volta contro certi aspetti appariscenti della politica di libertà, non approfonditi nel loro fondamento teorico né oltrepassati da uno sguardo che sapesse cogliere le loro più mediate implicazioni. Ma GALIANI poteva controbattere che quegli aspetti, che egli dipingeva nei loro effetti immediati con un realismo spregiudicato che non si lasciava mettere in soggezione dall’apparato sistematico della nuova scienza, erano capaci di provocare conseguenze di fatto rovinose per la vita di milioni di persone. E, rischiava di restare un dialogo fra sordi. Come appariva nella forma più sintomatica dal fondamentale motivo con cui il Le Mercier de la Rivière nel suo L'intérêt général de l’État, ou la liberté du commerce des blés e il suo recensore sulle Éphémérides du citoyen, Jean Vauvilliers, confutavano le argomentazioni dell’abate napoletano. La libertà economica, essi dicevano, è un tutto armonico, conforme alle leggi naturali della produzione e dello scambio, che non si può scalfire in un punto senza rovinare tutto il resto; devono usufruirne agricoltore e produttore industriale, perché ciascuno vuole essere pagato per i frutti del suo lavoro, senza farvi partecipare altri: Tous deux sont également maîtres de leurs travaux, tous deux également libres d’offrir et d’accepter l’échange qui leur est le plus avantageux; égalité de travaux, égalité de liberté, égalité d’intérêt[53]. Solo la proporzione naturale e spontanea deve allora regnare fra i prezzi di tutte le cose commerciali: intervenire con privilegi, vincoli, imposte limitative, come quelle proposte da GALIANI, significa produrre innaturali abbondanze o scarsità, le prime delle quali rovinano i venditori, le seconde i compratori. Già: ma GALIANI, sulla base di esperienze più o meno esaurienti, ma spesso più effettuali della legge naturale dei fisiocrati, aveva annunziato il pericolo che fosse l’assoluta libertà a generare la scarsità, e, nel caso dell’importazione, anche l’eccessiva abbondanza. Di fronte a questa incomunicabilità fra i fisiocrati e il loro critico, Voltaire, che stava scrivendo allora le Questions sur l'Encyclopédie, non si lasciò sfuggire l’occasione per un frizzante quadretto: Des gens de beaucoup d’esprit et d’une bonne volonté sans intérêt avaient écrit avec autant de sagacité que de courage en faveur de la liberté illimitée du commerce des grains. Des gens qui avaient autant d’esprit et des vues aussi pures écrivirent dans l’idée de limiter cette liberté; et monsieur l’abbé GALIANI, napolitain, jouit la nation française sur l’exportation des blés. Il trouva le secret de faire, même en français , des dialogues aussi amusants, que nos meilleurs romans, et aussi instructifs que nos meilleurs livres sérieux. Si cet ouvrage ne fit pas diminuer le prix du pain, il donna beaucoup de plaisir à la nation, ce qui vaut beaucoup mieux pour elle. Les partisans de l’exportation illimitée lui répondirent vertement. Le résultat fut que les lecteurs ne surent plus ils en étaient.... Ma non era soltanto dello spirito. Con la sua solita acutezza la brillante ironia di Voltaire individuava un carattere reale di tutto il contrasto; e poteva farlo proprio mettendosi dal punto di vista un po’distaccato e moqueur del filosofo illuminista. Venturi ha mostrato come la stessa svolta di Diderot dalle idee fisiocratiche a quelle di GALIANI non fu così rettilinea e decisa come potrebbe sembrare dalla redazione finale dell’Apologie. Per lungo tempo esaminando la querelle fra i due comuni amici, GALIANI e Morellet, Denis fu portato a veder torto e ragione in entrambi, a gettare dell’acqua sul fuoco dei suoi vecchi entusiasmi fisiocratici, sulla base delle critiche sperimentali del petit abbé, ma non trascurando di rilevare che anche questi aveva spesso sbagliato, per mancanza d’informazione e per gusto polemico. E anche nella redazione definitiva del suo scritto a difesa di GALIANI contro Mords-les, proprio sul punto fondamentale del rapporto fra manifatture e agricoltura manifestava una profonda perplessità circa la sicurezza mostrata dal primo della superiorità delle manifatture nella vita economica di un paese e quindi della necessità di subordinare al loro incremento tutta la politica economica relativa all’agricoltura e ai grani: Mandate un milione di uomini a Lione e vi produrrete la miseria, gettate un milione di agricoltori in più in qualsiasi posto di Francia a vostra scelta, e vi produrrete pure la miseria; perché bisogna che l’accrescersi della manifattura proceda poco a poco affinché lo segua l’accrescersi dell’agricoltura. Perché c’è un punto che l’abate GALIANI e l’abate Morellet hanno trascurato entrambi; a gara l’hanno scavalcato in senso contrario, e, fatto il salto, si sono trovati l’uno e l’altro ugualmente lontani dalla verità. Il fatto è che la discussione tenuta sui binari della contrapposizione di due concezioni della economia, della produzione, dello scambio non poteva certo trovare allora la sua soluzione. Se GALIANI colpiva giusto quando soffiava negl’ingranaggi lucidi ma dottrinari dell’argomentazione fisiocratica i granelli piccanti delle sue osservazioni realistiche, delle sue considerazioni sensate, della sua intuizione della fondamentale diversità di condizione fra paesi agricoli e paesi manifatturieri, egli stesso cadeva in una sorta di schematismo, e per di più arcaico e contradittorio, quando si faceva prevalente nel suo discorso l’impostazione mercantilistica stretta, quando di fronte al blocco dei princìpi fisiocratici affioravano in lui le tradizioni di un protezionismo preconcetto, per larga parte fondato sulle vecchie paure e sui vecchi abusi e privilegi dell’assolutismo e dalla ragion di Stato seicenteschi. Diveniva allora facile ritrovare nei Dialogues incertezze, angustie, contraddizioni, come ad esempio faceva l’ufficioso Mercure de France nella sua recensione dell’aprile 1770. Se molte contraddizioni di GALIANI apparivano al recensore giustificabili con la forma dialogica del suo scritto, diverso, apertamente ironico suonava il giudizio circa le conclusioni dell’ottavo e ultimo dialogo: Le dialogue couronne ce pénible travail par deux impôts, l’un de 50 sols sur chaque septier de bled exporté, droit destiné à repousser le grain dans l’intérieur, et dont l’effet naturel en sera de le faire tomber à vil prix; l’autre, de 25 s. sur chaque septier de bled importé, droit imposé pour que le grain éntranger ne fasse pas tomber à vil prix le grain du crû, et dont l’effet nécessaire sera de faire payer les secours plus cher aux consommateurs lorsquils seront dans le besoin. Il est évident que l’auteur veut faire le bien. - Nous n’avons exposé que les résultats de chaque dialogue; mais ils suffisent pour faire sentir l’art prodigieux que M. l’abbé G...doit avoir employé pour y avoir tranquillement amené ses lecteurs. Se il dibattito d’idee economiche fra GALIANI e i fisiocrati era quindi in fondo il riflesso, nella forma di un contrasto certo per allora insolubile, di una situazione di crisi e di transizione della struttura economico-sociale, i Dialogues costituivano insieme un nuovo eccezionale exploit letterario dell’abate e una conferma delle tendenze della sua personalità e del suo intelletto. GALIANI stesso nel suo libro aveva fatto affermare al cavalier Zanobi di non aver avuto tempo di leggere i molti scritti dei fisiocrati, lasciando la parte di informato relatore dei princìpi della setta al marchese di Roquemaure: e su questo punto era stato punzecchiato dai suoi avversari, in primo luogo dal recensore del Mercure de France. Era stata certamente quella un’ostentazione polemica, una delle trovate che avevano consentito all’autore di presentare il suo scritto come opera spregiudicata, ispirata dal buon senso, l’antidoto insomma del dottrinarismo fisiocratico. Ma se le dottrine della «nuova scienza» le conosceva certamente anche per la lettura diretta, di assicurare che GALIANI avesse fatto uno studio organico e approfondito dei testi fisiocratici non si può dire. Anche qui la vivacità del suo ingegno gli aveva evidentemente consentito d’impadronirsi dell’essenziale delle dottrine che intendeva criticare; magari spesso un po’a orecchio. E la sua polemica, brillante, intelligente, acuta, ne aveva tratto peraltro qualcosa come di superficiale e d’improvvisato. Ciò che non era sfuggito certo al Dupont de Nemours, nel pezzo stesso in cui aveva deprecato l’arditezza aggressiva di questo italiano qui s’en allait tout à l’heure: En général, il est bon de rire, sans doute: mais rire aux dépens des gens à qui l’on raviroit le pain et la liberté, seroit une chose bien cruelle. Nous croyons avoir montré...par l'extrait fidèle du Livre de M. l’abbé G. combien ses plaisanteries sont déplacées, et combien sa législation vacillante et les impositions onéreuses dont il propose de charger le commerce des grains produiroient de funestes effets[54]. Il fatto stesso che i fisiocrati si risentissero tanto delle plaisanteries di GALIANI mostra come fossero da tutti avvertiti quel vigore polemico e quella vivacità espositiva dei Dialogues, che avevano incantato anche un Voltaire nei primi giudizi che egli aveva dato, con l’occhio prevalentemente ai pregi letterari del libro. Ma non sarebbe giusto, oggi, lasciarsi trasportare completamente dall’ammirazione per l’arguzia e l’abilità dialettica che facevano dell’opera galianea un vero piccolo capolavoro, fino a disprezzare, come allora Grimm nel suo Sermon del gennaio 1770 o come di recente il Nicolini nella sua edizione dei Dialogues, tutta la produzione contrapposta dei fisiocrati, magari con l’argomento che in codesta preannunziata tenzone di plaisanteries il noiosissimo abate Roubaud fa piuttosto la figura dell’orso che balla[55] e che quindi la profezia delle Éphémérides secondo cui i Dialogues sarebbero presto passati mentre le polemiche dei fisiocrati contro GALIANI sarebbero rimaste, doveva poi verificarsi del tutto alla rovescia. A prescindere dalla verve letteraria, non potrebbe certo dirsi che le teorie e le polemiche fisiocratiche abbiano lasciato meno traccia nella storia delle idee e delle vicende economiche che non la vivacissima, ma pur sempre un po’frettolosa e superficiale sortita dell’abate napoletano.Il quale non a caso proprio in quel 1769-70 in cui con tanta ansia curava presso gli amici Diderot e Madame d’Épinay la pubblicazione del suo scritto, cominciava a manifestare fastidio verso Beccaria e il suo grande manifesto di radicale umanitaria riforma, deridendone anche con gusto assai discutibile le supposte disavventure coniugali. Quasi a ribadire che al fondo della pur spesso sensatissima critica antifisiocratica dei Dialogues serpeggiava una vena di conservatorismo, di sfiducia nelle idee di riforma, nelle novità cui, da diversi punti di vista, sul piano economico o su quello filosofico-politico, fisiocrati e uomini dei lumi aspiravano. Perfino quando in un successivo mémoire sulla carestia in Francia e i danni dell’editto del '64, inviato ad Antoine-Raymond de Sartine tramite la d’Épinay nel dicembre 1770, GALIANI sembrava fare appello ad una norma naturale per giustificare le sue tesi, era una natura intesa in senso conservatore, di ammonimento a rispettare la tradizione, ciò che era sempre avvenuto in quanto doveva appunto esser conforme alle condizioni naturali dei paesi, che egli faceva scendere in campo contro le leggi di libertà di esportazione del grano. Laddove si hanno paesi davvero produttori di grano, scriveva, la libertà di esportazione si è stabilita da tempo immemorabile, senza bisogno di legislazione apposita, come ad esempio da oltre duemila anni si è praticato in Africa e in Sicilia: Ni les vers, ni les arabes, ni les espagnols des trois Philippe, encore plus arabes que les arabes, concludeva n’ont jamais pu déraciner de la Sicile une loi naturelle inhérente au sol; elle subsiste toujours, parce que opinionum commenta delet dies, naturae iudicia confirmat. Ed era un ragionamento abile. apparentemente fondato su di un’inoppugnabile risultanza della stessa struttura naturale della produzione e dello scambio, ma in fondo capzioso: in quanto i fisiocrati partivano dall’idea che far trionfare le leggi naturali dell’economia comportava cambiare molte cose, che le avevano distorte o compresse, e concepivano quindi la libertà naturale come fonte di novità, di miglioramenti crescenti per il presente e più ancora per il futuro; mentre GALIANI fissava la legge naturale economica in ciò che era sempre avvenuto, magari durante secoli di estrema decadenza della ricerca di mezzi tecnici e produttivi, di pregiudizi grossolani circa la ricchezza, la produzione e il commercio. E pretendeva che per sistemare il problema del commercio e della distribuzione dei grani, per evitare carestie e fame, occorresse una legge perpetua sì da impedire a coltivatori e mercanti di speculare sui prevedibili cambiamenti imposti dalla forza delle cose, e addirittura che questa legge perpetua fosse quella della esportazione limitata da imposte, quale egli stesso l’aveva delineata nell’ottavo dei suoi Dialogues!. Non bisogna mai dimenticare che, come sempre nella storia, le tendenze e i mutamenti più notevoli del trend nel XVIII secolo non solo si differenziano a seconda delle stesse peculiarità naturali, climatiche e socio-economiche dei molti paesi in cui l’Europa è divisa, ma hanno andamento e sviluppi diversi in base alla volontà politica che in essi interviene. E questa volontà è a sua volta la risultante di motivazioni diverse e complesse, ideologiche, civili. culturali, oltre che economiche e sociali, sì da non potersi certo ricondurre meccanicamente a espressione del trend stesso. Tipicamente, in quei grossi fenomeni che in tutta Europa, dal piano demografico a quello economico, caratterizzano gli anni 1760-65, le reazioni dei gruppi dirigenti appaiono estremamente varie, in conseguenza della situazìone della produzione e dei diversi ceti cconomici, come della maggiore o minore penetrazione delle idee e teorie politiche ed economiche peculiari del secolo dei lumi. Ad esempio alla carestia del’63-64, che colpì all'incirca tutta l’Italia, Napoli e la Toscana, che ne risentirono gli effetti con eguale intensità, reagirono in modo completamente diverso. Il Regno, come ha anche recentemente illustrato Venturi attraverso l’esame della inedita Economia del commercio del Regno di Napoli, che il magistrato e letterato Giovanni Battista Maria Jannucci finì di scrivere verso il 1768, non solo si sentì debole e impreparato per affrontare allora la via del liberismo, ma, attraverso incertezze e contraddizioni, finì per puntare ancora, proprio in quel momento, sulla carta di una politica mercantilistica, di sviluppo della marina e delle manifatture. Il gran ducato di Toscana, invece, sospinto dalle convinzioni fisiocratiche, o comunque di libertà frumentaria, di alcuni fra i consiglieri del nuovo principe, in primo luogo Pompeo Neri, s’incamminò proprio allora, e come rimedio agli stessi disastrosi effetti della carestia, per quella strada delle norme di libertà che doveva seguire per tutto il ventennio successivo. Potrebbe apparire interessante, significativo anche per la posizione assunta alla fine del '60 da Ferdinando GALIANI, stabilire quale delle due reazioni fu più giustificata, chi «ebbe ragione», fra Napoli e Toscana. Ma la storia non è mai così semplice. Né i vanti che, al termine del regno leopoldino, i superstiti ispiratori della politica liberistica del gran duca meneranno circa gli splendidi risultati di essa, l’aumento di produzione, di popolazione, di benessere che le sarebbero andati uniti, sono del tutto probanti o del tutto riferibili alle norme di libertà frumentaria; né, se come va mirabilmente mostrando Pasquale Villani, nel Napoletano, dopo un lungo periodo di espansione avviatosi al termine dei primi due decenni del secolo, con gli anni sessanta incomincia un marcato processo di decadenza della produzione e di crisi dell’economia e della società in genere, la colpa di questo può dimostrarsi imputabile in misura sensibile alla mancata adozione di misure di libertà del commercio dei grani. Dall’uno e dall'altro caso e dal loro raffronto non sembra dunque possibile trarre alcuna decisiva indicazione a favore o contro l’adeguatezza del liberismo granario a risolvere i fondamentali problemi della produzione e distribuzione dei generi di prima necessità nella fase finale del secolo XVIII. Certo, peraltro, GALIANI, nonostante gli espliciti riferimenti dei Dialogues, non guardava soltanto alla sua patria d’origine, o in genere ai paesi agricoli e poveri come il Regno di Napoli, ma teneva anche presente l’esperienza del paese dove per dieci anni aveva, salvo breve interruzione, risieduto, la vicenda della Francia governata dagli editti di libertà del 1763-64. E questa esperienza appunto alla fine degli anni sessanta appariva in grave crisi, sembrava dar ragione, ai tenaci fautori del vincolismo che sempre l’avevano avversata, e stava per essere liquidata, fra il dicembre del '70 e il febbraio del '71, dall’abate Joseph-Marie 'I'erray, successo nel Contrôle général al filofisiocratico Maynon d’Invault. Proprio nella Francia che negli anni sessanta non aveva sofferto la carestia come i paesi italiani, proprio nel paese dove le idee fisiocratiche sembravano esser nate dalle esigenze stesse di una produzione agricola estremamente progredita e dai suoi rapporti con un’attività manifatturiera in via d’avanzato sviluppo, la politica di libertà del commercio dei grani appariva non aver funzionato. D’altronde, come si è visto, i fautori della libertà adducevano molti motivi a giustificazione di quelli che ad essi parevano solo parziali ed effimeri insuccessi; le misure vincolistiche ancora in vigore in molti settori, l’ostilità di molte autorità amministrative e giudiziarie ad applicare gli editti liberali, contingenze climatiche e naturali, necessità di lasciar agire i nuovi princìpi per un tempo più lungo, ecc. E in certo senso le condizioni della Francia dopo il ripristino delle regolamentazioni ad opera del Terray non daranno loro torto, pur se l’azione di Turgot per risollevare l’cconomia francese con nuove e più generali misure di libertà sboccherà, certamente attraverso le solite resistenze e i veri e propri sabotaggi di funzionari e organi intermedi ma ovviamente non solo a causa di questi, addirittura nella guerre des farines! Forse solo la nuova storia economica con la sua applicazione al passato di categorie economiche scientifiche, con i suoi rilievi quantitativi e seriali, potrà fornire indicazioni valide e impostare un giudizio più documentato e panoramico sulla incidenza delle due diverse politiche economiche nelle congiunture dei diversi paesi, fra le carestie degli anni sessanta e la Rivoluzione e i suoi contraccolpi in tutta Europa. Per ora, tornando a GALIANI e alla sua accanita diatriba con i fisiocrati, può solo dirsi che né l’uno né gli altri poterono certo penetrare a fondo la struttura economico-sociale della loro età e su questa fondare prospettive esaurienti di teoria e di politica economica; ma, semplicemente, che sia l’uno sia gli altri espressero tendenze di forze produttive, di ceti sociali in un periodo di crisi e di trasformazionc, sempre ovviamente con un riferimento alle loro particolari esperienze di formazione culturale, d’impegno sociale e ideologico. E, su questo piano, se i fisiocrati possono apparire più legati a forze e settori in movimento, verso innovazioni di capitalizzazione agricola e di liberismo borghese, non per questo GALIANI deve apparire in tutto arcaico conservatore, nei confronti, visto che certe preoccupazioni da lui espresse circa i pericoli della rigidezza dottrinaria della scuola, degli effetti dannosi che l’applicazione di molte sue teorie poteva avere per ceti e gruppi situati ai gradini più bassi della scala sociale, e di riflesso su tutta la vita economica di un paese, contengono in fondo l’intuizione di fenomeni che si verificheranno realmente, e non solo nelle vicende francesi, fra la fine degli anni sessanta e la guerre des farines o la crisi degli anni precedenti la Rivoluzione. E poiché nella pubblicistica non da ora l’arma della preterizione è di uso comune, può valere a illustrare il significato della posizione di GALIANI nelle stesse reazioni suscitate dal suo libro, l’atteggiamento del periodico italiano più decisamente filofisiocratico, le Novelle letterarie di Firenze, diretto, dal gennaio 1770, da Marco Lastri. Fin dal fascicolo del 13 aprile del 1770 il foglio fiorentino, chiaramente per la penna del suo direttore, aveva colto l"occasione di una entusiastica recensione alle Lettres à un ami sur les avantages de la liberté du commerce des grains (1769), del fisiocrate Guillaume-François Le Trosne, allora tradotte in italiano e pubblicate dalla stamperia Allegrini[56], per fare un riservato e perplesso accenno ai Dialogues: Con la data di Londra sono usciti a Parigi in quest’anno in un libretto in 8º alcuni Dialoghi sopra il commercio dei grani, nei quali si sostiene per vero che questo commercio in grande deve quanto può esser reso libero, ma non già a minuto, perché senza che il governo sia sopra di questo vigilante, non è possibile che accada qualche istantanea giornaliera carestia con estremo danno del pubblico, a cui l’elaterio della libertà non possa nel momento riparare. Il sentimento è prudente, e forse vero, ma noi non abbiamo avuto il comodo fin qui di vedere in fonte questi Dialoghi, onde non ci azzarderemo a pronunziare se sia appoggiato a incontrastabili ragioni[57]. Il Lastri, che non mancava di chiudere il suo articolo sottolineando ancora, nell’implicito confronto, la superiorità di pensieri del Le Trosne e gli effetti di prosperità ottenuti dalla legislazione liberistica toscana sul commercio dei grani, ritornava, pochi fascicoli dopo, sull’argomento, nel dare notizia de L’intérêt général de l’État, ou la liberté du commerce des blés del Le Mercier de la Rivière, appena uscito a Parigi[58]: il fisiocrate francese, come già aveva fatto l’altro esponente della scuola, l’abate Pierre-Joseph-André Roubaud, nella parte finale del suo libro confutava drasticamente le tesi di GALIANI; dal canto suo, il recensore asseriva di essersi ripetutamente spiegato in queste Novelle circa il suo giudizio nella materia. aggiungendo peraltro di essere desideroso di sviluppare delle nuove ragioni a fávorc della libertà appena avesse avuto alle mani gl’indicati libri, non potendo parlarne con cognizione di causa affidandosi alle sole notizie dei giornali[59]. Evidentemente, procurarsi i non certo rari Dialogues dovette restare molto difficile al direttore delle novelle letterarie: se nelle successive annate 1771, 1772, 1773, pur fra le numerose recensioni di scritti sull’economia in genere o sul commercio dei grani in particolare[60], del libro di GALIANI il suo giornale non fece più alcuna menzione. Solo nell’annata 1774 le Novelle letterarie trovavano l’occasione di tornar a parlare dei Dialogues; ma era di passaggio, nella seconda Lettera.….di un nostro amico scritta al sig. N.N. sopra le scienze economiche[61], per una rapida frecciata: dopo le grandi lodi tributate nella prima lettera[62] a Genovesi a Beccaria a Verri, per il loro liberismo frumentario, l’anonimo corrispondente[63] rilevava la resistenza che i buoni princìpì fisiocratici incontravano a diffondersi in Italia, argomentando che, se i libri degli economisti francesi erano studiati nei gabinetti dei sovrani, non si poteva negare che certi Dialoghi scritti da un Napoletano per combattere il libero commercio hanno fatto del male, ed hanno ritardato il trionfo di sì bel sistema in alcuni paesi[64]. l'avversione per il libro di GALIANI, preferibilmente manifestatasi con il silenzio o con l'accenno polemico occasionale, mostra nel periodico italiano più decisamente filofisiocratico l’impegno ostinato in una battaglia che, con riferimento alle vicende francesi, dalla sconfitta del '69-70 alla effimera portata del tentativo di rilancio dei princìpi della scuola da parte di Turgot, va ormai diventando davvero una battaglia di retroguardia. E Ferdinando GALIANI poteva compiacersi, come non mancava certo di fare nelle lettere agli amici francesi di questi anni, di avere tra i primi. e certo primo per vivacità di idee e abilità di scrittore, mosso guerra a quel sì bel sistema, che il giornalista della Toscana leopoldina insistentemente difendeva, ma che gli sviluppi della situazione economica francese facevano sempre più vacillare. I tempi sembravano dar ragione al prudente empirismo dell’abate napoletano, magari proprio perché, in dipendenza della variazione del trend, che dagli alti e bassi degli anni settanta sfocerà nella crisi degli ottanta, prodromi della Rivoluzione, erano tempi propizi appunto al ripiegamento dalle idee novatrici, al ripensamento conservatore. È del resto un fatto che la vita e l’opera di Ferdinando GALIANI dopo il suo definitivo ritorno a Napoli si snodano secondo una linea che sembra prevalentemente ricondursi a questo filone, di un cauto realismo conservatore, ormai quietisticamente intonato all’ambiente. Non certo che l’abate ritorni nei confini della cultura tradizionalistica, letterario-crudita, e un po’ provinciale nei quali per lo più, salvo l’improvviso gioiello del Della moneta, si era mosso prima dell’invio a Parigi. Della capitale dei lumi e della eccezionale atmosfera dei suoi circoli intellettuali restano in lui vivissimi il ricordo e il rimpianto, che quasi fino agli ultimi giorni della sua vita animano le sue lettere agli amici francesi. E lo stesso genere di attività che GALIANI ormai svolge a Napoli come segretario del Supremo Magistrato del Commercio si richiama piuttosto ai temi economici che aveva abbordato per la prima volta col Della moneta, largamente recepito dai dibattiti francesi degli anni sessanta e poi, sotto un particolare angolo visuale, splendidamente condensato nei Dialogues, che non alle disquisizioni archeologiche o alle esercitazioni letterarie che avevano costituito la sua prevalente occupazione dai componimenti dell’adolescenza al 1759. Ma indubbiamente, come da quella parte della «corrispondenza francese» che si è potuto pubblicare risulterà, il contatto epistolare, con le tante amicizie lasciate a Parigi rivela rivela una vena via via più stanca, di prevalente bavardage, e sempre più dominata da preoccupazioni di carattere personale, tornacontistico. Durante il primo anno di residenza napoletana, è il diluvio di lettere alla d’Épinay, a Diderot, a Grimm, a Jean-Baptiste Suard, ecc., tutto mosso dall’ansia per la stampa dei Dialogues prima, per il loro successo e per la confutazione delle critiche e polemiche che il loro apparire aveva suscitato, poi. Ma anche qui GALIANI, ormai staccato dal vivo dell’ambiente che gli aveva ispirato il suo capolavoro, non è più in grado di offrire molto di significativo per lo sviluppo del dibattito frumentario: non solo non compose mai i due dialoghi che varie volte aveva annunziato come necessari a concludere il suo libro, ma neppure nella corrispondenza privata, pur diffondendosi molto a chiarire ciò che aveva detto nei Dialogues e a controbattere le critiche e le posizioni dei suoi avversari, un ulteriore sostanziale sviluppo delle sue idee giunse in sostanza a esprimerlo. La stessa «interpretazione autentica» data alla d’Èpinay nella lettera del 27 gennaio 1770, secondo cui nei Dialogues non si era voluti giungere a definitive formulazioni di teoria economica, ma quel che più contava era la critica, la discussione che, anche nella forma dialogica, rifuggiva da ogni esplicita conclusione, era in fondo risaputa, accennata diverse volte nel corso stesso dell’opera, pur se ora, forse per smontare l’ostilità del Morellet che sapeva dedito a scrivere la Réfutation, GALIANI sottolineava il suo scetticismo, il suo gusto per la discussione in sé, da uomo che ne croit rien, en rien, sur rien, de rien. E magari, su questa linea, era piuttosto cattiva la rivendicazione indirizzata al Sartine lieutenant de police, dei meriti della propria critica, come quella che aveva fatto découvrir que des gens que j’estimais pour la pureté de leurs intentions économiques, et qui paraissaient philosophes, sont une véritable petite secte occulte, avec tous les défauts des sectes, jargon, système, goût pour la persécution, haine contre les externes, clabaudement, méchanceté, et petitesse d'esprit. Una specie di denunzia assai astiosa, anche se seguita dalla dichiarazione che i testi di quel dibattito economico, dell’una come dell’altra parte, non erano pericolosi, non foss’altro perché letti da poche persone: e del resto sempre più violenti diverranno i termini in cui nelle sue lettere l’abate napoletano parlerà dei suoi avversari, i fisiocrati e lo stesso Morellet, quando la sua Réfutation, pur non potendo esser diffusa, sarà stampata. Neppure poteva dirsi nuova, perché già avanzava più o meno implicitamente nei Dialogues stessi, la tesi che la libertà di esportazione assoluta è naturale e infallibile in una democrazia, perché governanti e governati sono gli stessi, ma è inconcepibile in un governo misto e temperato, dove anche la libertà commerciale non può essere altro che moderata e temperata. Anzi, proprio la sottolineatura che ora GALIANI nelle sue lettere dà a questa considerazione piuttosto stramba e comunque non economica, fino a dire che mantenere la libertà di esportazione dei grani in Francia porterebbe a mutare la costituzione politica del paese, con la conseguenza di tracasser rudemente due o tre generazioni, mostra che purtroppo quel che più ormai importa al nostro abate non è tanto continuare a discutere e a elaborare riflessioni economiche, quanto il successo del suo scritto e l’accettazione delle proprie tesi anche da parte delle autorità di governo francesi. La revoca disposta dal Terray nel '70 dell’editto del 1764, la carestia che nel '69-70 affligge la Francia, il divieto della pubblicazione in Francia della Réfutation del Morellet, il declino del credito dei fisiocrati e l’ostilità che ormai le loro pubblicazioni incontrano nelle sfere ufficiali, la difficoltà che la Francia trova ad approviggionarsi di grano presso le stesse nazioni governate da dinastie imparentate con quella francese, come l'Austria, le restrizioni all’esportazione di grano di recente adottate dalla stessa Inghilterra. antesignana delle misure liberiste, la penuria dei cereale perfino in Egitto: tutto questo, nonostante le ostentazioni di dispiacere per il disagio prodotto dai cattivi raccolti in Francia, viene avidamente registrato e ampiamente divulgato da GALIANI nella sua corrispondenza. a prova di aver avuto partita vinta. Je ne sais malheureusement que trop scrive alla d’Épinay que j’ai gagné mon procès, et que des provinces entières de la France l’ont perdu avec dépens. D’altronde, seguire l’attività di GALIANI nell’ormai definitivo soggiorno in patria prevalentemente sulla scorta della sua corrispondenza francese porterebbe certo a un errore di prospettiva. È in un’atmosfera un pò rarefatta di rimpianti e di nostalgie, di risentimenti e di affetti che le sue lettere agli amici parigini si mantengono fino agli ultimi tempi della sua vita, nel naturale decrescere della loro frequenza. Certo tralucono ancora in esse quell’acuto intuito sperimentale, quel realismo spregiudicato che avevano fatto la forza dei Dialogues. Ora è all’abate Baudeau, alla sua tendenza al sermoneggiare per persuadere gli onesti dei vantaggi della libertà frumentaria, che egli contrappone la considerazione realistica che non sono molte le persone oneste e che in economia bisogna ragionare e pensare così: beaucoup de calme, beaucoup d’arithmétique, point d’infini, point d’immense. E quella stessa ansia di veder confermate dai fatti le tesi del suo libro trova presto una giustificazione teorica, sulla linea del politico machiavelliano: …..comme les hommes jugent toujours par l’événement, si le blé est cher à Paris, j’aurai raison, et je serai un grand homme, un grand politique…. Le prix des halles sera le thermomètre de mes louanges. Anche il malcelato compiacimento per la carestia che sembra essere stata la conseguenza dell’esperimento francese di liberalizzazione, può adonestarsi sotto il manto dell’approvazione per l’opera del nuovo controllore generale Terray, che sta per liquidare l’editto del '64: Il n'est plus temps de disserter, il est temps que vous songiez au pain et à la cruelle disette qui vous menace, en rétractant une mauvaise loi que vous avez faite. Ah! Que j’ai été Cassandre! On ne m’a pas cru, et mes prophéties sont accomplies. Ma alla lunga questi ripetuti squilli di vittoria, i consigli che con un certo tono di sufficienza GALIANI dà alle autorità francesi per porre rimedio agli errori passati, ad esempio comprando grano all’estero e immettendolo in perdita sul mercato francese, la rivendicazione della sua antica competenza nella materia, per cui gli offre lo spunto la pubblicazione alla fine del '70 della traduzione francese del Della perfetta conservazione del grano - Comme ces bêtes[65] m’ont cru un intrus et un nouveau venu dans leur bercail, je suis bien aise qu'ils sachent que c’est bien à moi à les en chasser, et à rester où je suis depuis vingt ans -; insomma tutto questo ricantare i temi della sua polemica alla luce dei recenti fatti che sembrano convalidarla può apparire personalistico, monocorde, e in fondo sterile. Nel corso degli anni settanta, mentre la Francia cambia di sovrano, la riforma Maupeou, che sembrava aver fatto piazza pulita dei residui corpi intermedi della monarchia di San Luigi, tramonta rapidamente per lasciare il campo a nuove insoddisfazioni e a ben più fondamentali irrequietezze, le velleità di riforma di Luigi XVI si bruciano nel breve esperimento del passaggio al potere dell'enciclopedista Turgot, e le speranze dei philosophes nel riformismo dei sovrani si estenuano definitivamente nelle reazioni di Diderot al suo viaggio in Russia, l’angolo visuale di GALIANI, isolato nella sua Napoli e legato alla Francia da una corrispondenza per lo più intrattenuta con la superficiale e presuntuosa d'Épinay, non può non divenire sempre più inadeguato. Se mai, l’influenza del più omogeneo dispiegarsi di certe sue inclinazioni e dell’ambíente cortigiano, di arrìvismo e opportunismo, in cui vive, si manifesta in una maggiore estensione e durezza del suo realismo di Machiavellino. Nel marzo del 1771, a pochi mesi di distanza dal colpo di Stato Maupeou, s’investe dello spirito profetico di Nostradamus per predire alla d’Épinay che Ce remuement durera Iongtemps; cependant, au bout du compte, le pouvoir absolu deviendra plus fort qu’auparavant, et la liberté sera perdue à.jamais. E se queste previsioni, che l'autore stesso definisce ben contraddittorie in apparenza, possono venir giustificate dalla constatazione che qualsiasi paese, il quale non ha magistrature o in parte elettive per voto popolare e in parte ereditarie nelle famiglie, o venali, è schiavo, e che la Francia, dove da tempo gli Stati Generali non esistono più, se viene a perdere la venalità delle cariche giudiziarie, si troverà in questo caso, è sempre più un discorso interno alle angustie dell'ancien régime quello in cui GALIANI s’involge. Con in più una sorta di distacco e d'insensibilità che il suo crescente egoismo, in una vita personale in fondo solitaria e arida di affetti, gli va suscitando. Tanto che le vicende dolorose di singoli, dalla morte di Claude-Adrien Helvétius a quella del marchese de Croismare, con i quali era stato negli anni francesi strettamente legato, lo lasciano, per sua stessa confessione, piuttosto freddo. Mentre gli eventi, così pieni di tensioni e di fermenti, della vita pubblica francese gli suggeriscono, oltre le solite battute ironiche, quasi un sufficiente distacco scettico, qualunquista si direbbe oggi, e se mai orientato verso l’immobilismo e la conservazione. Nel quadro di una politica che, in una lettera alla d’Épinay, si picca di definire geometricamente come una curva, una parabola, dove le ascisse saranno i beni e le ordinate i mali, la sola cosa importante appare sempre più a GALIANI la soluzione effettuale dei singoli problemi. E se, a proposito di una carestia del Piemonte nel 1773, questa linea, nel campo frumentario, lo conferma ancora una volta nella indicazione della norma elastica di esportazione e imporazione limitate, fornita dai Dialogues, come l’unica vera soluzione, aumenta proporzionalmente la sua avversione per le novità audaci, per i tentativi di riforma basati sui princìpì generali. Non solo la libertà granaria gli appare fomite di tumulti e origine di governi democratici ‑ Tout pays qui établira et soutiendra la liberté indéfinie des blés sera bouleversé. Sa forme deviendra entièrement républicaine, démocratique… ‑; il fatto è che, nonostante un omaggio di sfuggita al secolo che può vantare Montesquieu, Voltaire, Diderot, d’Alembert, Boulanger, La Chalotais e la soppressione dei Gesuiti, al di là di quella superficiale adesione intellettuale, letteraria, GALIANI non va nei confronti dei lumi, specie quando essi tendono a calarsi nei fatti. Il mondo è un giraspiedo, e quel che in fondo lo muove è un contrappeso nascosto che si chiama destino, scrive alla d’Èpinay nel luglio del 1774. Naturale quindi che chi s’illude di muovere con le sue sole forze il meccanismo, finirà per essere sconfitto. Gia nel settembre Machiavellino predice che Turgot, da appena un mese contrôleur général, resterà poco in carica, perché un posto come il suo in una monarchia come la francese non è adatto a un homme très vertueux et très philosophe. Comunque, ancora, «la libre exportation du blé sera celle qui lui cassera le cou». E in fondo, nonostante tutte le espressioni di rispetto e di stima per la persona, GALIANI pensa che la rovina di Turgot sarà meritata. Non solo perché il contrôleur odia i Dialogues, ma per tutto ciò che il suo ministero sembra voler portare di liberale: la libertà di stampa, ad esempio, è un male enorme, niente più del quale contribuisce à rendre une nation grossière, détruire le goût, abâtardir l’éloquence et toute sorte d’esprit... La contrainte de la décence et la contrainte de la presse ont été les causes de la perfection de l’esprit, du goût, de la tournure chez les Français. Gardez l’une et l'autre, sans quoi vous êtes perdus -; e poi grazie a Turgot ha potuto circolare in Francia la Réfutation del Morellet, che è un opuscolo così assurdo e noioso che a GALIANI cadde di mano; e infine la guerre des farines è la giusta conseguenza della politica liberistica di Turgot, il quale, insicnie al suo amico e ispiratore Morellet, avrà così imparato à connaître les hommes et le monde, qui n’est pas celui des ouvrages des économistes e avrà visto che les révoltes occasionnées par la cherté ne sont pas impossibles, comme il croyait. Magari GALIANI, continuando nella sua ostentazione di stima per la persona di Turgot, può il 10 giugno del '75 scrivere alla d’Épinay che se luigi XVI non sacrifica il suo ministro aux caprices ou à la terreur panique de son peuple, il mérite d’acquérir, par ce seul trait, le surnom de Grand; ma per predire ancora poco dopo[66] che les économistes casseront le cou à M. Turgot», dato che «ils ne méritent pas d’avoir un ministre dans leur secte absurde et ridicule;- e, soprattutto, per finire con l’avversare e deridere tutte le opérations Turgotiennes, anche al di fuori della materia frumentaria e dell’influsso fisiocratico, in primo luogo proprio i celebri editti liberatizzatori del gennaio 1776, il più importante dei quali, quello della soppressione delle corporazioni di arti e mestieri e delle giurande, gli senibra aver portato il colpo fatale alle manifatture della Francia! Qui, nel giudicare a distanza una situazione complessa come quella della struttura economico-sociale francese messa in crisi da una spinta ormai incontenibile nel vecchio ordine, il tenace mercantilismo che aveva sempre circolato al fondo delle geniali intuizioni economiche di GALIANI si afferma in forme più scoperte e grossolane: c’est une bêtise, une faute, une absurdité... Les habiles artistes en partie sortiront; d’autres se négligeront; et au lieu d’établir l’émulation, il [Turgot] aura cassé tous les ressorts vrais du cœur de l’homme. Ma, appunto, sarebbe ingiusto e sbagliato considerare l’opera di GALIANI dal'70 alla morte dando del tutto preminente rilievo a questa corrispondenza con gli amici francesi; la quale è sì cara al suo cuore specie nei primi annì, piena dì rimpianti per la vita parigina e di deprecazione per la solitudine, l’isolamento, la mancanza di amici del suo livello intellettuale, di cui soffre a Napoli; ma è pur sempre una manifestazione parziale della sua attività, una prima effusione di sentimenti non senza concessioni all’ambizione letteraria dello spirito brillante e polemico, secondo la moda epistolare dell’epoca, e dominata poi da passioni e giudizi formatisi nel periodo della sua residenza a Parigi, e quindi inevitabilmente presto non più aggiornati da un contatto diretto con l’evolversi della situazione francese - al punto che nel luglio del 1776 l'ossessione antifisiocratica lo porterà a scrivere alla d’Épinay aspre parole sull’amico Caracciolo, allora ambasciatore a Parigi, reo di aver manifestato un certo favore con i princìpi degli economisti, forse più semplicemente per l’opera di Turgot, che a GALIANI sembrava ormai guasta e corrotta dalle idee fisiocratiche. Paradossalmente potrebbe forse invece dirsi che, nei quasi vent’anni che ormai passerà nel Regno, il miglior GALIANI, anche nel senso dclla messa a partito di idee ed esperienze acquisite nella capitale dei lumi, il GALIANI di una maturità in cui le sue capacità e inclinazioni naturali, la sua originale formazione di ampia erudizione e di lucida vena letteraria si mediano con certi princìpi d’impegno civile che il contatto con i philosophes aveva certo contribuito a suscitargli, è quello della assidua operosità di consulente economico del governo napoletano, quale segretario del Supremo Magistrato del Commercio, nonché, s’intende, di qualche tratto geniale delle sue ultime produzioni letterarie. Com’è noto, negli anni fra il '70 e la morte GALIANI pubblicò solo quattro suoi scritti: il Socrate immaginario (1775), la Spaventosissima descrizione dell'eruzione del Vesuvio (1779), il Del dialetto napoletano (1779), e il De’doveri de’Principi neutrali (1782). Scrisse inoltre, inviandolo manoscritto alla d’Épinay nell’aprile del 1772, il Croquis d'un dialogue sur les femmes, portò avanti gli studi sopra Orazio già iniziati a Parigi e che lasciò incompiuti[67] e compose anche quel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che sarà pure pubblicato postumo, e del quale il Del dialetto avrebbe dovuto costituire la semplice introduzione, mentre in effetti si ampliò fino alle dimensioni di un libretto a sé stante. Il Dialetto napoletano e il Socrate immaginario sono due composizioni letterarie, brillante scherzo teatrale il secondo, ricerca interessante per lo sforzo di approfondire certi elementi dell’origine del linguaggio e della sua evoluzione il primo: ma, se rivelano il mantenersi di una fresca vena di scrittore, erudito e spiritoso insieme, un persistente interesse per i fenomeni del formarsi delle idee e dei loro mezzi di espressione, che ci fa ricordare le inclinazioni vichiane già in gioventù manifestate da GALIANI, non sono produzioni che dicono molto di nuovo sulla personalità e sul corso dei suoi pensieri. Così come, del resto, la piacevole divagazione manoscritta alla d’Epinay sulle donne, sul loro carattere, sulle loro abitudini, sulla loro influenza reciproca con gli uomini[68],.. Il De’doveri de’Principi neutrali invece rientra nell’ambito dell’attività di GALIANI come segretario del Supremo Magistrato del Commercio, e precisamente della sua opera di consulente relativa all’adesione del Regno di Napoli alla Lega dei neutri, in occasione del conflitto anglo-francese conseguente alla insurrezione dei coloni americani. Ma, come altrove si è cercato di documentare[69], non è quel volume del 1782, nel suo andamento verboso e prolisso di giustificazione pseudo-teorica di un atto di politica estera, a costituire il meglio della produzione di GALIANI nella sua qualità di funzionario, sia in rapporto a quella specifica questione del patto di neutralità lanciato da Caterina II, sia in generale. L’opera di GALIANI come segretario del Supremo Magistrato del Commercio[70] si svolge in inolti settori. Per quanto concerne i rapporti commerciali con altri Stati, di nuovo la questione annosissima delle visite doganali sui battetti mercantili fra Regno di Napoli e Francia, e poi quella relativa al riconoscimento e, alle qualifiche-dei viceconsoli, nonché la vicenda, dove ebbe una parte di notevole rilievo, delle trattative per accordi commerciali con la Francia stessa, con la Russia, con gli Stati Uniti d’America, e i problemi dei rapporti con Venezia e della possibilità di ottenere dalla Turchia la libertà di navigazione per le navi napoletane attraverso gli Stretti fino alle foci del Danubio, o varie altre minori questioni. Nell’ambito dei problemi economici interni al Regno, le consulte di GALIANI investono una grande varietà di argomenti, dal modo di utilizzare le pensioni godute dal m.se Primo Ministro Tanucci, che alla morte di questi ritornano nel Tesoro reale, all’esame dell’annona di Genova, come esempio della situazione frumentaria di un particolare tipo di Stato, dalle importantissime considerazioni e proposte circa le conseguenze del terremoto di Messina e della Calabria del 1783 alle osservazioni sulla natura e l’ammissibilità dei contratti alla voce, ai pareri circa casi e vertenze particolari. Per non parlare delle molte consulte collegiali rese dal Magistrato del Commercio, in cui appare evidente la mano del GALIAN1 come quella su di un progetto Ortolani per le poste, sul commercio del sale da Trapani e da Barletta verso Venezia e la Lombardia, sopra l’editto dei Savi della Mercanzia di Venezia circa i bastimenti carichi di marmi e agrumi che capitano nei porti veneziani, e via seguitando. Può da questa operosità piuttosto eterogenea di GALIANI alto funzionario del Regno di Napoli ricavarsi una linea abbastanza univoca, fornita di significato nel connotare le sue idee economiche e politiche del periodo che va dal ritorno a Napoli alla morte, la loro collocazione nel quadro degli svolgimenti di quegli anni, nonché la loro incidenza nella politica del governo napoletano, cioè il senso e i risultati del lavoro di Ferdinando GALIANI nel passare dalla teoria alla pratica? Come Consigliere di Commercio Estero GALIANI seguì una direttiva di cauto movimento, promovendo tutti gli sviluppi dei traffici napoletani, nelle più varie direzioni in Europa e fuori d’Europa, che non gli sembrassero pregiudicare alle esigenze di una bilancia commerciale tendenzialmente attiva, secondo la tradizione mercantilistica, né d’altronde involgere conseguenze troppo compromettenti sul piano politico. Sintomatici in proposito i suoi interventi nella questione dei rapporti con la Francia. Nonostante il poco edificante voltafiaccia che, dopo la caduta del Tanucci, lo vide sposare tutta l’ostilità della regina Maria Carolina contro l’ex-ministro e suo benefattorc, GALIANI continuò sostanzialmente l’indirizzo del già onnipotente uomo di governo toscano: rivendicazione di autonomia nei confronti della maggior corte borbonica, l’adozione di tutte le misure atte a favorire quella tendenza a una inversione a favore del Regno di Napoli della bilancia degli scambi commerciali con la Francia che aveva cominciato a manifestarsi alla metà degli anni cinquanta, resistenza amichevole ma ferma nella questione delle visite doganali, riluttanza a vincolare il Regno delle Due Sicilie in un trattato commerciale con la corte di Versailles, che avrebbe certo comportato la concessione di disposizioni favorevoli al più potente Stato del parente borbonico, a tutto danno degli intensi rapporti commerciali con paesi che, come l’Inghilterra e l’Olanda, nell’una o nell’altra forma godevano della clausola della nazione più favorita. Dalle Considerazioni sul Trattato di Commercio tra il Re e il Re Cristianissimo (1766-76) al Breve racconto di quel che è a mia notizia rispetto al Trattato di navigazione e commercio colla Francia (1784) la posizione del Segretario del Magistrato del Commercio mantiene una notevole coerenza, pur nell’apprezzamento delle circostanze maturate con l’evolversi dei tempi. In complesso chi ha cercato di far pesare motivazioni extraeconomiche, di politica di potenza, nei rapporti commerciali franco-napoletani, è stato naturalmente, il governo di Versailles. Spetta dunque al governo delle Due Sicilie resistere, con tutti i mezzi a sua disposizione, a tali pressioni, eludere con tattica dilatoria e controversistica l’insistenza francese per la conclusione di un trattato[71], e lasciar fare al corso naturale, economico, degli scambi fra i due paesi, che si presenta di per sé assai vantaggioso al Regno di Napoli, intervenendo, ovviamente, quando sia in gioco la necessaria protezione di qualche attività produttiva del paese o la difesa degl’interessi di commercianti o operatori economici napoletani in Francia. Ormai, da uomo tutt’altro che incline ai sistemi o anche soltanto alle grandi generalizzazioni, GALIANI mostra di trovarsi perfettamente a suo agio nel consigliare, in veste di funzionario, per ì rapporti commerciali con gli altri paesi una linea di realistica elasticità, che salvaguardi, tuttavia, certe antiche convinzioni della sua riflessione economica. Contro le pressioni di natura politica del governo francese per la conclusione di un trattato di commercio può anche valere il richiamo ai principi della legge naturale, che consente di trafficare con tutti, senza il bisogno di stabilire, con solenni formole e sopra scritte tavole, quelle nude verità che la natura ha già scritte su’nostri cuori, e che formano il codice universale delle genti. Ma con la Russia è bene far di tutto, anche a prezzo di qualche concessione formalmente tutt’altro che irrilevante, per giungere a un trattato di commercio che consenta lo sviluppo di scambi i quali altrimenti, per il peso della tradizione, le concorrenze da vincere, la lontananza, la diversità dei costumi, la scarsezza di conoscenza reciproca fra i due paesi, certamente non avrebbero preso avvio. Talvolta il Segretario del Magistrato del Commercio disserta in linea giuridica, dimostrava di sapersi muovere con una certa disinvoltura in quel campo del diritto internazionale che allora poteva dirsi davvero ai primordi: come, per fare solo due esempi, quando nel De’doveri de’Principi neutrali colloca l’astensione dal commercio con i cittadini di Stati belligeranti, che un principe neutrale dovrebbe imporre ai propri sudditi, sotto la categoria giuridica, che egli stesso conia nel quadro dell’idea di neutralità, dell’imparziale rifiuto; o quando cerca di dimostrare che la concessione, che si dovrebbe cercar di ottenere dalla Porta, di libera navigazione nel Mar Nero per i bastimenti napoletani, potrebbe farsi discendere in linea giuridica dal trattato fra Napoli e la Turchia del 7 aprile 1740, il quale all’articolo primo stabiliva che fra i sudditi delle due potenze sussistesse pace per mare e per terra e fosse lecito il commercio trafficando con la stessa libertà e modo che fanno tutte le altre potenze amiche. Ma, in realtà, al fondo sono motivazioni di politica, e in specie di politica economica, a costituire il nerbo delle argomentazioni dell’abate: pur se nel saggio dell’82 le considerazioni che, a parere di GALIANI, devono spingere il Regno di Napoli a chiudersi in una rigorosa neutralità, che gli consentirà di guadagnare alcuni dei traffici persi dalle due potenze belligeranti, sfociano infine nella retorica contrapposizione alla ragion di Stato, cotesta insidiosa e malnata scienza, della virtú, che fedelmente dà all’uomo, nel corso d’una breve e caduca vita, il maggiore dei beni, la più grande delle ricchezze, l’intera contentezza e l’assenza d’ogni rimorso; e se, nelle consulte del 1784, egli diplomaticamente consiglia di far valere negli approcci con il governo del Sultano per la libertà di navigazione, oltre ai buoni uffici dell’imperatore, l’antichità e la lunga durata della pace conservata tralle due Sicilie e la Porta... la scrupolosa fede e lealtà colla quale S. M. si è astenuta da dar neppure ombra di dispiacere o di sospetto al Gran Signore in tutte le circostanze o di guerra dichiarata o di minacce e sospetto di guerra in cui si è trovato, la certezza in cui quel Sovrano può essere delle pacifiche ed amichevoli intenzioni di S. M. in ogni incontro ... , ecc. Moralista o diplomatico che appaia, Machiavellino porta in tutte le questioni che tratta il suo lucido senso dell’opportunità, la sua realistica valutazione delle condizioni entro cui deve svolgersi l’azione politica ed economica. E sotto questo punto di vista le mansioni ufficiali che dopo il suo ritorno in patria ricopre sembrano avere irrobustito le sue capacità di analisi e di giudizio. Perciò la sua attività di Consigliere di Commercio Estero del suo governo in complesso, come altrove si è rilevato, appare impeccabile, piena di utilissimi suggerimenti, anche in direzione di iniziative nuove, atte a svincolare il commercio estero napoletano da una relativa stagnazione dovuta più per inerzia e incapacità di governi che a mancanza di possibilità naturali. Certo anche qui la vena di cautela un pò scettica della sua mentalità rende più convincenti le prestazioni di GALIANI dove c’è da conservare, difendere diritti e necessità del Regno contro pretese di Stati stranieri, che non dove c’è da prendere iniziative del tutto nuove, da avviare indirizzi completamente diversi dalla prassi e dall’ambito d’interessi finora predominanti presso il governo napoletano. Più, ad esempio, nella diatriba per l’abolizione dell’esenzione dalle visite doganali negli scambi franco-napoletani, che non nella prospettiva di stabilire un trattato commerciale con la nuova potenza, apparsa sulla scena mondiale, degli Stati Uniti d’America. In questo secondo problema, come si è messo in rilievo nell’articolo sopra citato, GALIANI si rivela consapevole delle risorse naturali del nuovo Stato americano, ma, preoccupato dei rischi materiali e delle implicazioni politiche di un accordo formale che regolasse gli scambi fra i due paesi, finisce per suggerire che la maggior parte dei prodotti di cui l’America settentrionale abbonda possano continuare a giungere a Napoli dai fornitori tradizionali, Inghilterra e Olanda, lasciando poi al corso naturale delle iniziative private dei rispettivi cittadini, specialmente degli statunitensi come più diretti interessati, lo stabilirsi di eventualmente proficui rapporti economici. Nell’altra faccenda invece, la difesa contro la prepotenza e l’ambiguità del governo francese, il quale non si pronunzia esplicitamente circa l’abolizione dell’esenzione dalle visite, perché ha solo la mira di far godere di questo privilegio i suoi bastimenti presso le autorità napoletane, che rispettano gli antichi accordi franco-spagnoli, mentre i fermiers généraux francesi continuerebbero nei porti della Provenza a esercitare le visite sulle navi napoletane, ignorando ogni patto o prassi di esenzione, suscita in GALIANI una messa a punto di notevole abilità diplomatica oltre che fondata su di una soda argomentazione economico-giuridica[72]. Laddove la prospettiva della grande funzione economica che per il futuro gli Stati Uniti avrebbero avuto nel mondo resta nebulosa a Machiavellino, nella particolare vicenda delle visite doganali tra Francia e Napoli molti degli elementi tipici dei rapporti economici fra due Stati ancien régme - dalle difficoltà di far rispettare accordi diplomatici agli esecutori fiscali di un sistema finanziario in regime di appalto. come quello francese, all’intersecarsi di questioni economiche con questioni di prestigio e di riguardo fra dinastie parenti - sono lucidamente presenti alla sua analisi critica. Sono solo due esempi, indicativi della disposizione mentale e del prevalente interesse di GALIANI in questo periodo della sua vita, di quella sua assimilazione dei compiti e dello stile di funzionario che ben poté armonizzarsi con il filone prevalente delle sue capacità naturali. Senza che ciò debba sorprendere, come potrebbe ove si pensi all’estro burlesco del componimento in morte del boia Iannaccone e dello stesso Socrale immaginario, appartenente proprio a questi annì della vita di GALIANI, o anche all’originale impegno di ricerca teorica del Della moneta o alla inimitabile verve critica dei Dialogues. Non è certo il caso di insistere sui due GALIANI, in una contrapposizione di trame psicologiche che a questo punto della sua vita non avrebbe più senso. Il fatto è che, come l’inserimento nell’ambiente parigino dei lumi, con il congiunto interesse per l’attività diplomatica cui era chiamato, segnò una svolta decisiva nel corso dell'esistenza di GALIANI, strappandolo all’atmosfera erudito-letteraria, accademica, della sua giovinezza, dove il suo temperamento portato alla pigrizia e al divertimento avrebbe potuto lasciarsi andare in una poco feconda e facile attività da letterato di secondo piano, e facendogli invece ritrovare il talento e gl’interessi del Della moneta nelle vivaci discussioni dei salons illuministici e nella conseguente querelle antifisiocritica del suo capolavoro; così ora l’impegno in una funzione di governo, a diretto contatto con i principali ministri napoletani e con la stessa Maria Carolina, in fondo salvò GALIANI dal disorientamento disgregatore in cui la noia, il fastidio per l'anibiente napoletano tanto più angusto e provinciale di quello parigino, l’isolamento dal più vivo ricambio culturale in cui era vissuto nei dieci anni francesi, potevano farlo cadere. Ne uscì questo GALIANI, non più certo portato alle geniali produzioni dei suoi momenti migliori. sempre più condizionato da calcoli tornacontisti e da non buone condizioni di salute, sempre più privo di vero interesse per i grandi motivi del riformismo illuministico, per non dire della critica eversiva della raison diderotiana e holbachiana: ma pur sempre un GALIANI assai efficiente, che riesce senza troppi sforzi o doppiezze a inserire certi elementi portanti della sua originale visione cconomica negl’ingranaggi non certo splendenti di modernità e di energia produttiva della politica napoletana. E non solo nel campo dei rapporti commerciali con l’estero. Può dirsi anzi che alcuni dei migliori contributi che nelle sue consulenze l’abate apportò, quelli dove più la sua carica, se non di riformatore, di spirito spregiudicato e critico, esperto di tutti i problemi e di tutte le tesi della moderna economia, accennò a combattere efficacemente vecchi abusi e pregiudizi della struttura economico-sociale del Regno, concernono appunto argomenti di politica interna. Sempre sulla linea di una certa moderazione conservatrice. Tipico ad esempio il suo atteggiamento sui contratti alla voce, cioè quei contratti dove il proprietario o un mercante anticipava al contadino cereali o denaro con la condizione di ricevere la restituzione in generi al momento della raccolta, al prezzo stabilito appunto dalla voce decretata dalle competenti autorità locali. Nel Della moneta GALIANI aveva esaltato questo sistema, il quale, dato che il prezzo alla voce una specie di prestito o di acquisto con anticipato versamento del prezzo, era sensibilmente inferiore a quello del momento dell’anticipazione, costituiva compensati da un interesse: a questa istituzione aveva scritto allora noi dobbiamo tutto il giro del nostro commercio, il quale dovendosi fare quasi senza moneta, poiché di questa il Regno non è abbondante, senza la voce non si potrebbe raggirare. E, nella nota XXI apposta all’edizione del 1780 del suo scritto, aveva solo ribadito la necessità di fissare con giustizia le voci e deprecato la negligenza dei magistrati provinciali nell’assolvere a questo delicato compito, rilevando che le voci e i contratti su di esse fondati erano indispensabili alla vita economica del Regno quando il Della moneta era stato scritto, per la deficienza di circolante e la scarsità stessa di produzione agricola in quegli anni, mentre si poteva anche pensare a una loro abolizione per un’epoca in cui il paese avesse raggiunto un grado notevole di opulenza. Poi, in una consulta del dicembre 1782, tornava sull’argomento, raccomandando con energia anche maggiore la giustizia e la onestà nella fissazione dei prezzi alla voce, e consigliando anche di abolire i ricorsi per la revisione di essi, prassi che aveva introdotto la Camera della Sommaria non seguendovi peraltro le regole, ma il solo capriccio. Ma nella sostanza GALIANI continuava a ritenere il sistema delle voci utilissimo e degno da mantenersi, essendo stato guastato da malizia o da inconsideratezza... altro non vi è da fare se non che ristabilirlo nel suo pristino antico vigore. Stabilire dunque pene severe contro quei magistrati che per negligenza o corruzione favorissero con i prezzi delle voci indebite speculazioni, e limitare anche tassativamente la usufruibilità del prezzo di voce solo per quei contratti di anticipazione di denaro e di accaparramento, ne’quali spontaneamente si è convenuto di ricever in contracambio del denaro dato generi al prezzo della voce», vietando di avvalersi del prezzo di voce «in ogni altro contratto o valutazione qualunque. È un po’curioso che nel 1782 GALIANI dopo tanti anni di dibattito sui principi fisiocratici, e dopo che al liberismo del commercio interno aveva anch’egli ripetutamente mostrato di aderire, pur respingendo la totale libertà di esportazione dei grani e ovviamente dissentendo circa la posizione dell’agricoltura rispetto alle manifatture, manifestasse un così deciso favore per un sistema tipicamente vincolistico come quello dei prezzi di voce. Anche ove si tenga conto della funzione strumentale, e in fondo provvisoria, che assegnava a quei contratti nel promuovere scambi di beni mediante anticipazione a interesse, il pronunziamento dell’autore dei Dialogues per la fissazione di autorità dei prezzi dei generi agricoli ad un valore che egli stesso definiva dell’8-10% inferiore al prezzo medio effettivo non mancava, negli anni ottanta, di suonare lievemente arcaico, di rivelare forse un’oscillazione fra le tendenze della più moderna riflessione economica, che GALIANI aveva pur largamente recepito e discusso durante il soggiorno parigino e in parte trasfuso nello stesso suo libro del '70, e il contatto con una situazione economica nettamente arretrata quale quella del Regno di Napoli, che egli sentiva e teneva in considerazione con l’abituale realismo. Del resto questa sensibilità al carattere specifico delle singole situazioni, alle particolari strutturazioni delle varie economie, sembra in GALIANI accrescersi a seguito della conferma, che egli pensa di aver ricevuto dai fatti, delle tesi antifisiocratiche dei Dialogues. Già nel 1773[73] aveva scritto alcune considerazioni sull’annona di Genova. E aveva insistito appunto su questa necessaria specificazione della considerazione economica. In primo luogo, riprendendo la polemica con i quondam economisti, aveva asserito che le teorie generali di questa scienza che i moderni Francesi per somma ignoranza hanno chiamata economica, quando dovevano chiamarla politica sono semplicissime, mentre l’applicarle domanda una scienza immensa, profonda, sminuzzata di quel paese, a cui si voglia dar consiglio. Poi, più costruttivamente, aveva parlato di Genova, non senza premettere che i tre mesi in cui aveva risieduto nella città non erano forse stati sufficienti a fargli acquisire appunto quella specifica conoscenza delle sue condizioni che era necessaria per parlare e dar norme circa la sua economia; ma in sostanza aveva teso a sottolineare che la situazione del Genovese, paese non produttore di grano, che riceve integralmente dall’estero, importa due fondamentali esigenze per quanto concerne il suo sistema frumentario: in primo luogo l’assoluta libertà del commercio esterno dei grani, che qui davvero non può nuocere alla produzione interna, che non esiste, e può solo favorire quell’attività di traffici marittimi cui peculiarmente i genovesi sono dediti; in secondo luogo la istituzione di quello che GALIANI chiama magazzino di provvisione, ma non accompagnato da ciò che ordinariamente va sotto il nome di annona, cioè la proibizione ai privati di esercitare la vendita e l’acquisto di grano. A Genova tale magazzino, che nel suo scritto GALIANI, facendo nella improvvisata stesura una certa confusione fra i due termini, chiama anche di precauzione, dovrebbe essere solo una vasta quantità [di grano] che il principe... incetta senza idea di guadagno, senza dritto esclusivo, e solo ammannito per far fronte a’casi inopinati. L’utilità di questo magazzino, diciamo così d’emergenza, sarebbe stata per GALIANI notevole in un paese non produttore di grano come Genova, sia per portar sollievo immediato in caso di carestia, sia per combattere i monipoli de’mercanti, che nasceranno infallibilmente subito che cesserà il monipolio che faceva il principe per mezzo dell’annona e che sarà accordata una intera liberta. Certo, poco di nuovo sul piano della teoria portano queste consulte di GALIANI in materia di economia e di amministrazione, come del resto si è potuto vedere anche da quelle sul marco generale dell’oro e sui dazi della seta, pubblicate da Alberto Caracciolo in appendice alla sua edizione del Della moneta. Nel senso così acuto dei diritti del particolare, delle esigenze delle singole situazioni effettuali, ancor più acuto che nei suoi due più notevoli trattati economici, l’empirismo di GALIANI si rivela ormai decisamente più adatto alla prassi della politica economica e dell’amministrazione che alla fondazione della scienza. È già sintomatico il tipo di questioni più minute in cui l’abate in questi anni molto si affaticò, come le singole vertenze economico-giudiziarie su cui fornì il suo parere, o come la proposta[74] che alla morte del primo ministro Tanucci, nel 1783, fece, di destinare i proventi delle pensioni di cui il ministro aveva goduto in vita al finanziamento della istituzione di due nuove ruote del Tribunale della Vicaria, composte di tre giudici ciascuna - che in sé era certo una proposta corrispondente alle necessità della sempre più carente amministrazione della giustizia nel Regno -; ma il fatto è comunque che progressivamente la vena inventiva di GALIANI nel campo della nuova scienza, e sia pure in quel senso critico che gli era stato proprio, appare estenuarsi. Al posto dell’economista, empirista, critico, financo talora bizzarro nel suo esasperato realismo, ma pur sempre portatore e discussore di teorie economiche, troviamo sempre più l’amministratore. E, non c'è ormai bisogno di sottolinearlo, un amministratore moderno e illuminato, aperto alle esigenze di rendere più efficienti le norme regolantí la vita economica e cìvile del Regno, ma non certo illuminista e, nel senso specifico della sua età, riformatore. Non che Ferdinando GALIANI debba ormai considerarsi chiuso in un ambito di funzionarismo praticista, lungi da ogni contatto con una vita culturale di ampio respiro. A parte la curiosità. i rimpianti, le brillanti divagazioni, le richieste d’informazione della corrispondenza francese, basterebbe il secondo capitolo del Dialetto napoletano con la sua problematica di filosofia del linguaggio per mostrare quanto quella immagine sarebbe indeguata, quali aperture l’abate GALIANI continuò ad avere in direzione della più progredita vita spirituale dei suoi tempi. Ma certo ormai questo filone diviene in lui un pò secondario, quasi una evasione letteraria da quello che egli in fondo sente essere il suo mestiere. E qui allora, su questo piano di consulenza e suggerimento di una politica economica, non può negarsi che nell’attività di GALIANI qualcosa ci sembra difettare nei confronti di un ben noto quadro, una carenza che impedisce certamente a collocarlo anche qui sul piano di un Genovesi e di un Verri, di un Beccaria e di un Filangeri, o anche più modestamente di un Galanti: appunto lo spirito del riformatore, la sintesi cosciente fra l’analisi critica e la proposta del nuovo. Convinto di aver tracciato nei suoi principali scritti le linee di una politica economica originale, moderna e insieme realisticamente flessibile, di nuovo ormai GALIANI propone e discute ben poco. Non solo sul piano della politica generale e di riferimento al moto ormai radicalmente eversivo delle lumières francesi, ma anche proprio in rapporto al riformismo concreto, volto appunto alla vita economica, e alle strutture amministrative dello Stato, che allora produceva in Italia alcuni dei suoi maggiori frutti: non si trova eco nei suoi scritti, in queste memorie e riflessioni inedite come nella corrispondenza, né del riformismo leopoldino inToscana né nella dinamica, sommovitrice e spesso controversa, ma comunque sempre altamente significativa azione del riformismo asburgico in Lombardia al passaggio del potere da Maria Teresa a Giuseppe II. Non è quindi sui problemi, che tanto in questi anni affaticano Filangeri e Galanti, della feudalità, degl’intralci ch’essa apporta allo sviluppo economico e alla libertà civile, dell’amministrazione della giustizia, del sistema fiscale, insomma non è sulle più gravi piaghe della vita del Regno che possiamo cercare analisi e suggerimenti nelle consulte di GALIANI. Ma piuttosto in quelle questioni di attuazione di una politica d’incremento economico nell’ambito del sistema stabilito, di cui si è visto alcuni esempi sia sul piano esterno che su quello interno, o in altre controversie più minutc, dove il sottile intuito di Ferdinando GALIANI sa fornire pareri assai fini. È un GALIANI ben diverso dall’originale conversatore e scrittore, di cui ancora in questi ultimi anni la «corrispondenza francese» ci serba qualche traccia; un GALIANI pignolo e pedante nella cura della pubblica amministrazione, quasi quanto lo conosciamo avaro e noioso nella gestione del proprio peculio: non certo, peraltro, senza giustificazione se si pensa alla trascuratezza e corruzione delle amministrazioni centrali e periferiche napoletane, delle quali una consulta GALIANEA ci sa tracciare un esauriente quadretto nell’esempio della Università di Castellamare, dove sembra che non si tenessero distinte le spese ordinarie e obbligatorie da quelle straordinarie e facoltative, il cassiere non presentasse regolarmente i conti, e il sindaco non volesse avere tra i piedi il sovrintendente mandato dal governo, mentre proprio i sovrintendenti son quelli che impediscono ai sindaci di rubare, e dilapidare il peculio pubblico. Una sola volta, in queste sue consulte di pubblico funzionario, si trova GALIANI portato a estendere il suo sguardo a una considerazione più generale delle condizioni del paese: ed è in occasione di una pubblica calamità che aveva colpito grandemente governo e popolazione del Regno, e cioè il terremoto di Messina e della Calabria Ultra, del febbraio 1783. Di fronte al disastro il segretario del Magistrato del Commercio non solo dà gli ovvi suggerimenti di misure di emergenza per il ricovero e l’alimentazione dei sinistrati, la tutela della salute pubblica, l’aiuto agli agricoltori in bestiame, sementi ecc.; e non solo propone norme per la riedificazione delle case di abitazione e per facilitazioni ai terremotati che avessero occupato parti di castelli o altri grandi costruzioni pubbliche o baronali; ma arriva a consigliare di profittare del momento per tracciare le linee di un nuovo sistema, il quale ponga rimedio, oltre che ai danni contingenti del terremoto, alla miseria e all’abbrutimento degli abitanti della Calabria Ultra. E fra le cause di questi mali pone in primo luogo la prepotenza de' baroni e la soverchia ricchezza delle mani morte. Una sensibilità riformatrice spunta così in Machiavellino sull’eco tragica del grande sinistro naturale: anche se l’ottimistica premessa secondo cui, nel 1783, dalla prepotenza de’baroni[75] sono in gran parte liberate le altre province meno che questa Calabria Ulteriore, fa apparire subito i limiti di tale riformismo galianeo. Comunque è ancora un tratto della spregiudicata intelligenza di Ferdinando GALIANI questo porre il dito sulla gran piaga del baronaggio, almeno quando l’esame diretto di una particolare situazione gliene pone in evidenza i contorni: fra Reggio e Catanzaro, sei soli baroni, i quali posseggono più di settanta luoghi, ed un pezzo di paese, che ha quasi cinquanta miglia di lunghezza sopra trenta e più di larghezza, tanto che ristretti in così poco numero, e imparentati tra loro, è naturale che cotesti sei baroni sian tanti regoli, essendo oltracciò di famiglic illustri antiche in que’feudi, e decorate de’ primi onori della Corte. Non molto radicali e significativi erano invero i provvedimenti proposti da GALIANI per porre rimedio a questa situazione: come istituire una nuova udienza regia in Calabria, oltre quella di Catanzaro, per tenere a freno le usurpazioni dei baroni e controllare la giurisdizione dei loro tribunali, mettere ostacolo alla ricostituzione delle manimorte, profittando dei danni che il terremoto ha portato a chiese, abbazie, canoniche, nella cui ricostruzione il potere regio deve riserbarsi il potere d’intervenire e dettar norme, facilitare con atto di governo l’estinsione delle cambiali emesse nei luoghi terremotati, ecc. ecc.  Non era evidentemente neppure un accenno di eversione della feudalità, ma, al solito, un insieme di piccoli atti amministrativi o legislativi, qui destinati ad attenuare i mali di una provincia, esasperati ora dalle rovine del terremoto. Tale è Ferdinando GALIANI nella veste che in fondo diviene la sua più vera e importante nei venticinque anni conclusivi della sua vita: non gli si può chiedere la fede razionalistica o lo slancio riformatore di molti suoi contemporanei, e fra essi in posizione eminente vari suoi compatrioti, i quali dallo studio appunto dell’economia trassero l’insegnamento della immediata necessità delle riforme; una fede e. uno slancio quali Machiavellino non ebbe mai, neppure negli anni di quel soggiomo parigino che certo molti nostri riformatori gl’invidiarono come fonte di esperienze uniche. E tuttavia, nella linea coerente del suo personaggio, anche gl’insegnamenti del periodo francese non andarono certo dispersí, proprio in questo finale sovrapporsi del funzionario attento e acuto all’estroso letterato e al brillante causeur. Un GALIANI che aveva passato dieci anni nel bel mezzo dello scontro fra le lumières e i loro nemici e aveva autorevolmente interloquito nella contesa fra i fisiocrati e i loro avversari, non poteva certo, rientrato in patria, essere ancora soltanto un abate erudito, membro di varie accademie, o limitarsi a scrivere un Socrate immaginario o anche un Del dialetto napoletano. Se, con la sua mentalità e ormai sulla cinquantina, non poteva divenire quel riformatore che non era stato un decennio prima in mezzo ai suoi amici philosophes, peraltro la sua equilibrata intelligenza, il suo gusto empirico per la concreta realtà ne fecero un consigliere aperto e in fondo progressista, un suggeritore di quel po’ di ammodernamento e snellimento della rugginosa economia del Regno che il governo di Maria Carolina e di Acton poteva decidersi ad abbozzare. Così, nell’ambito di questa linea ormai dominante della sua vita, GALIANI, il pigerrimo abate di tanti quadretti letterari, evitò precisarnente di cadere nella inerzia e pigrizia tipiche della tradizionale burocrazia napoletana del non si può, che verso la metà del secolo Antonio Genovesi aveva tanto efficacemente combattuto. La corrispondenza stessa con amici italiani, se non ce lo rivela attento al significato d’insieme delle eccezionali esperienze riformatrici toscana e lombarda, ce lo mostra peraltro informato di singole iniziative o di particolari provvedimenti, che più potevano piacere al suo gusto del tentativo graduale ed empirico. Da Celesia, da Genova, negli anni settanta riceve continue informazioni circa gli esperimenti agricoli che Domenico Grimaldi vuole effettuare nelle sue terre calabresi. Nel 1783 tiene una serrata corrispondenza col Mehus a Firenze, con Benedetto Stay a Roma, con Giovan Battista Grimaldi a Genova, per seguire le reazioni al De’doveri de’ Principi neutrali da parte dei governi e dei pubblicisti dei diversi Stati italiani. Nel 1786-87 ecco Andrea Memmo informato ripetutamente, da Venezia, delle vicende della propria carriera pubblica e del proprio personale patrimonio. Insomma, pur nel diradarsi dei contatti epistolari, per naturale effetto del corso degli anni, non è certo un GALIANI isolato, chiuso nel suo ambiente ufficiale, nel suo piccolo mondo di cortigiani e di burocrati, quello che i suoi carteggi ci mostrano fino agli ultimi anni della sua vita, anche dopo che nell’83 la morte di Madame d’Épinay ridusse a ben poca cosa la sua corrispondenza francese. Se la sua vita appare in complesso arida di elevati affetti e sprovvista di grandi slanci ideali, la vitalità di Ferdinando GALIANI, il suo interesse curioso per le cose del mondo, nelle loro particolarità fascinose, furono motivi ben reali del suo temperamento, al di là della crosta di pigrizia gaudente. Così, pur alla sua maniera bizzarra, egli trovò sempre in sé l’energia per lavorare efficacemente alle cose che l’interessavano, in questo non inferiore, per impegno e rigore critico, agl’illuministi suoi contemporanei. E l’exploit della rapidissima stesura dei Dialogues è solo un episodio, il più noto e sorprendente. della sua capacità di lavoro, quando era realmente stimolato da tutta la vivacità del suo carattere e dalla smania della sua ambizione. Anche in questo, nei limiti che abbiamo minuzziosamente cercato di ritrovare, GALIANI, spesso antilluminista e, dal '70 in poi, sempre antifisiocratico, fu però moderno, in linea con l’ansia di conoscenza e di azione del secolo delle lumières. Quasi a conferma del suo attaccamento alla vita e a ciò che in essa c’è da fare, perfino quando nel 1785 fu colpito da apoplessia, Machiavellino reagì alla sua maniera: l’anno dopo si recò in Puglia e nel successivo 1787 compié un lungo viaggio a Venezia, Modena e Padova. Era da poco ritornato da questo soggiorno in alta Italia, gravemente infermo per il gonfiore delle gambe e l’idropisia, e già smaniava per raggiungere la Corte a Portici, per essere presente, per non restare indietro nel favore di Maria Carolina e dell’Acton, sempre più padroni del governo. Ma GALIANI non poté trattenersi nella residenza vesuviana di Ferdinando IV: subito il male lo costrinse a tornare a Napoli, esortato in una lettera dalla ostentatamente devota regina a riscattare i suoi errori con una fine cristiana. Mori il 30 ottobre di quel 1787.



[1] La bella letteratura inclusa.
[2] E nel 1736 sarà trasferito alla fiscalia di Lecce.
[3] Una carica che univa attribuzioni da ministro dell’Istruzione, in primo luogo la direzione dell'Università di Napoli, ed altre da ministro dei culti, sia per le cerimonie religiose della corte sia per i rapporti con la Curia di Roma.
[4] Ma Ferdinando conseguì il dottorato nella materia solo in età matura, nel 1766, durante il suo soggiorno a Napoli, in licenza dall'incarico diplomatico parigino, quando la laurea in diritto gli fu necessaria per la carica a consigliere del Supremo Magistrato del Commercio.
[5] Che di recente è stata interamente pubblicata, valendosi anche del precedente lavoro del Nicolini Fausto, da Alberto Caracciolo in appendice alla sua edizione del Della Moneta.
[6] Ma il lavoro rimase inedito, forse anche perché GALIANI seppe che si stava preparando la traduzione di Giovanni Francesco Pagnini.
[7] Nel tomo V degli Illuministi italiani, nella collana LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI Riccardo Ricciardi Editore Milano-Napoli.
[8] E tipico in questo senso è lo scherzo antiaccademico dei Componimenti varii per la morte di Domenico Iannaccone Carnefice della Gran Corte della Vicaria, raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio Avvocato Napoletano, composto nel 1749 insieme a Pasquale Carcani.
[9] Loria.
[10] Graziani.
[11] Einaudi.
[12] Schumpeter.
[13] O anche, come egli stesso si firma, Toccolino de’Lapi.
[14] Fra l’altro l’Argelati morì nel 1755 e il Dell’origine e del commercio della moneta e dell’instituzione delle zecche d’Italia dalla decadenza dell’ Impero sino al secolo decimosettimo del Carli, la cui prima parte era stata pubblicata nel 1751, ma il cui completamento l'editore voleva stampare appunto insieme al libro di GALIANI, sarà terminato solo nel 1761.
[15] B.S.N.S.P., XXXI, C. 22.
[16] Copia della lettera nei «Libros copiadore de la correspondencia» del Tanucci, Marchese e primo ministro di Carlo III di Borbone.
[17] XVIII, 211, ff. 196r.-197v.
[18] Conservati nello stesso fondo della B.S.N.S.P..
[19] Cfr. E. Kauder, A History of Marginal Utility Theory, Princeton 1965, pp.24-5 e 38-40.
[20] ibid..
[21] E’ in B. S. N. S. P., XXXI, C. 8, nel quale sono raccolti scritti, frammenti, biglietti che vanno dal Dell'arte del governo, 1750 circa, alla dissertazione Degli uomini di statura straordinaria, e de‘giganti, 1757-58
[22] Prelato della Curia, che avrà incarichi in Romagna.
[23] 3 maggio 1758.
[24] Da Roma, 7 febbraio 1755.
[25] Come gli scriveva il Valenti nell’agosto 1754.
[26] Di cui, in una lettera del 7 aprile 1760, ringrazia molto il Tanucci, salvo poi, fin dal 2 giugno di quell'anno, iniziare una geremiade perché non gli è stato corrisposto l’aumento di stipendio fin dal giorno della partenza dell’ambasciatore.
[27] Concluso l’anno prima tra Francia e Spagna, e dal quale Tanucci tanto fece per tener lontano il Regno di Napoli)
[28] Nelle Éphémérides du citoyen, a partire dal numero IX del 1767.
[29] Idem.
[30] 1 edizione, giugno 1767.
[31] Inaugurate in Francia dai celebri editti del 1763 e 1764.
[32] Notice abrégée des différents écrits modernes qui ont concouru en France à.former la science de l'économie politique, a partire dal numero 1 del 1769 del periodico.
[33] Phisiocratie ou Constitution naturelle du gouvernement le plus avantageux au genre humain, 1 edizione, 1767-68.
[34] Nella quale ultima materia, poi, da parte del re di Sardegna si manifestava l'aspirazione, assai gradita a GALIANI e al suo ministro Tanucci, a fungere da mediatore nell’accordo delle grandi potenze.
[35] Che il Nicolini ha ampiamente narrato nella sua edizione dei Dialogues.
[36] Relativa alla celebre fornitura di grano francese curata truffaldinamente, come sopra si è accennato, dal console napoletano a Marsiglia Hombrados, in occasione della carestia che colpì il Regno nel '64; scritta nel 1772 e dall'abate lasciata inedita, ma parzialmente pubblicata dal Nicolini nell’Appendice seconda della sua edizione dei Dialogues.
[37] Pubblicata dal Nicolini nella Appendice terza dei Dialogues.
[38] lettera del 7 maggio 1764.
[39] Luigi XV.
[40] 1 aprile 1765.
[41] 22 dicembre 1766.
[42] In La Corsica nei carteggi del Tanucci, del GALIANI e del Caracciolo, estratto da Archivio storico di Corsica, nn. 3-4, luglio-dicembre 1927, p. 6)
[43] Lettera a Tanucci del 14 maggio 1764.
[44] GALIANI a Tanucci, 23 gennaio 1769.
[45] In Rivista storica italiana, LXXX, 1968, IV, pp. 854-909.
[46] Non è questo un uccidere, un estinguere il corpo gesuitico, è anzi un seppellire decentemente un morto, che giaceva per le strade esposto ai corvi e ai cani.
[47] Viene spontaneo al ricordo il giudizio comparativo che l’ambasciatore olandese presso Carlo II d’Inghilterra aveva dato di Cromwell rispetto allo Stuart
[48] Lettera del 26 settembre 1762.
[49] Siamo nel novembre 1768.
[50] Venturi.
[51] Eppure quella indirizzata al suo ministro è pressoché l'unica sua manifestazione epistolare di questi anni
[52] Così come del resto gravare di limitata imposta i grani in uscita e quelli in entrata poteva già apparire la conquista di un moderato realistico liberismo.
[53] Éphémérides du citoyen», 1770, II, p. 179.
[54] Éphémérides du citoyen, 1770, I, pp. 27-8.
[56] Firenze 1770.
[57] Novelle letterarie, n. 15, 13 aprile 1770, coll. 225-7.
[58] Desaint, 1770.
[59] Novelle letterarie, n. 51, 21 dicembre 1770, col. 816.
[60] Meditazioni sulla economia politica di Pietro Verri, Les économiques del Mirabeau, Première introduction à la philosophie économique di Nicolas Baudeau, ecc.
[61] Una serie di lettere più o meno fittizie datate da Pistoia.
[62] Novelle letterarie, n.18, 6 maggio 1774, coll. 276-9.
[63] Ma forse si tratta di un camuffamento del Lastri stesso.
[64] Novelle letterarie, n.19, 13 maggio 1774, col. 293.
[65] I fisiocrati.
[66] 19 agosto 1775.
[67] Da essi Fausto Nicolini ha tratto la sua edizione parziale del 1909.
[68] Con uno sguardo filosofico sul fondamento della religione.
[69] In Rivista storica italiana, LXXX, cit., pp. 854-909.
[70] Ma dal 1777 avrà anche la carica di Presidente del Consiglio del Regio Demanio e dal 1784 quelle di Assessore del Consiglio Supremo delle Finanze e di Sopraintendente al Fondo di separazione.
[71] Tanto più che quando circostanze favorevoli per un accordo sembravano maturare è stato proprio Charles Gravier, conte di Vergennes, ministro degli esteri francese, a lasciar cadere le trattative.
[72] ... è errore il credere che il solo oggetto di evitare i contrabandi, che si commettono nelle Sicilie, e l’interesse delle Reali Finanze, sia stato quello che ha mosso il Re a proporre l’abolizione totale dell’esenzione delle visite. Tutt’altro ne è stato il motivo. Sua Maestà ha veduto il costante impegno de’Fermieri di Provenza di attraversare e distruggere certo privilegio della sua bandiera in Provenza. Ha veduto quanti e quanti uffizi di doglianze è convenuto passarne alla Corte di Versaglies [sic]. Or niente è più contrario a quella felice armonia e cordiale corrispondenza, che il Re vuol conservare col Re cristianissimo suo cugino, quanto l’esser obbligato continuamente a passar uffizi di querele e domande di raddrizzamenti di torti ricevuti. Un diritto che non è fondato in altro che nella reciprocità non esisterebbe, non si può sostenere senza esser forzati ogni volta ad intimare un reciproco trattamento, e questa intimazione con qualsiasi giro di raddolcite parole si faccia, ha sempre un tuono di rottura e di rappresaglia, disgustosissimo per il cuore di S. M ....
[73] Il documento non è datato, ma l’epoca della sua composizione può ricavarsi da una lettera con cui l’autore lo inviò a Giovan Battista Grimaldi il 27 aprile 1773.
[74] Non immune dal finale sfogo di un astio alimentato dalla cattiva coscienza.
[75] Che fu un tempo lagnanza generale di tutto il Regno.

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