sabato 12 luglio 2014

1° IL REGIO CASALE DI CASAPULLA E LA FAMIGLIA "de Natale Sifola Galiani" LA PIU' ANTICA DI DETTO CASALE



La Saga dei m.si
“de Natale Sifola Galiani”
Capuani di Casapulla
discendenti dall’imperatore Carlo Magno
Fatti ed avvenimenti storici nel grande Sud d’Italia



COLLANA

STORIA D'ITALIA

Fatti e personaggi nella famiglia
Marchionale


de NATALE SIFOLA GALIANI
detta anche
NATALI GALIANI
NATALE GALIANI
Discendente per la linea di Odolina di Chiaromonte (Clermont)
dall’imperatore
CARLO MAGNO
Discendente per la linea di Lucrezia d’Anicia

da Consoli ed Imperatori Romani

Marchesi dal 1595, Patrizzi di Trani del Seggio di San Marco, baroni di Ormeta, patrizi di Casapulla, marchesi di Palazzo Reale di Napoli per successione Galiani, dei marchesi Colonna Romano di Altavilla (Silentina) e, baroni di Palizzi e Pietrapennata in Calabria già grandi feudatari in Sicilia.
Con riferimenti alle famiglie nobili:
Menicillo di Macerata (CE),
Marzano duchi e principi di Sessa Aurunca e Caserta,
de Ruth conti di Caserta,
Barile duchi
Buonpane nobili ,
Chiaromonte conti e feudatari
Colonna Romano marchesi di Altavilla sul Silente
Anicia di Roma
Studi e ricerche
di
Ferdinando de NATALE SIFOLA GALIANI
A

Stemma
della casata
de NATALE GALIANI
posto su di un drappo antico


                                                                                                             A mio padre Giovanni

Avendo il desiderio di entrare a far parte dell'Ordine dei Cavalieri di Malta, come lo fu già il mio avo Bernardo, alcuni anni fa, andai all'Aventino per chiedere delucidazioni per l'ammissione a tale ordine: come persona appartenente a famiglia patrizia. In questo luogo stupendo da cui si gode una bellissima veduta della città eterna con una meravigliosa inquadratura della cupola di San Pietro, incontrai il marchese Serlupi, il quale, con molta affabilità e cortesia, dopo un breve colloquio, mi disse che quanto chiedevo sarebbe stato possibile preparando una attenta documentazione probatoria. Questa fu l'opportunità che mi spinse a visitare ed a mettermi in corrispondenza con chiese, biblioteche, archivi di stato e archivi diocesani, dove ho potuto fotocopiare: pubblicazioni, documenti e richiedere persino fotografie di ritratti di alcuni miei avi e parenti conservati presso il museo di San Martino di Napoli. Per la realizzazione di questa opera ringrazio il mio amico casapullese don Felice Provvisto, parroco della Parrocchia di S. Tammaro (San Tammaro) diocesi di Capua, per la genealogia de NATALE, de NATALE SIFOLA, de NATALE SIFOLA GALIANI e per la Dissertazione Istorica di Casapulla; mia zia Teresa, prof. di lettere e pianista sorella di mio padre, che mi fornì la fotocopia del libretto La famiglia dell'abate Galiani ed alcuni spartiti di musica del Barone Celestino Galiani di Montoro Superiore(SA), dove sono riportate le dediche di detto barone alle sorelle di mio nonno Carminio, Rosa, Margherita e Giovanna[1]; padre Goffredo dell'archivio Diocesano di Napoli per alcuni processetti pre matrimoniali di miei avi; i funzionari degli archivi di stato di Roma-Eur e di Trani per i documenti ivi conservati; i funzionari dell'Archivio di Stato di Parigi per la loro cortesia e disponibilità. Da questo lavoro ho compreso che dando un significato ai valori ed ai simboli delle famiglie, si riscopre la storia e la cultura, e ci si riappropria del passato.


…è nei ricordi che troviamo noi stessi e quelle parti di noi che ci hanno fatto diventare quel che siamo…Ed è nell'amore per il passato che troviamo l'impegno per il presente e la speranza per il futuro…
                                                                                                                 (M.Shain 

L’AMBIENTE

La culla, del ramo maschile, della mia famiglia de NATALE (Natalis), è stata dal XIII al XX secolo il casale di Casapulla presso Capua. Questi sorge sul territorio che fu interessato alla realizzatione della centuriazione dell’agro campano che avvenne in epoca immediatamente posteriore alla fine della seconda guerra punica, quando l’agro campano divenne ager publicus. Detta centuriazione dovrebbe risalire almeno al 173 a.c. , quando fu inviato il console L. Postumio Albino per ridefinire i confini dell’ager publicus, o al 65 a.c., quando il pretore P. Cornelio Lentulo riscattò 50000 iuger di terreno abusivamente occupato e redasse una forma agri campani (Gran.Lic., Ann.28).


Di questo villaggio ne parlano vari autori antichi tra cui l’abate Vincenzio Maria NATALI-SIFOLA[2], dottor di Leggi de' Marchesi di questo cognome, nel libro: Dissertazione Istorica sull’Antica Esistenza di un Tempio di Apollo in Casapulla[3].



Lo studio monografico di questa opera inizia con l’

AVVERTIMENTO DEL MARCHESINO

Dott.
Don BERNARDO NATALI SIFOLA GALIANI[4],

Cavaliere di divozione del sacro Militare Ordine Gerosolimitano

ALL’ERUDITO E BENEVOLO LETTORE.
Don Bernardo ci informa in che modo è riuscito a convincere lo zio a produrre la seguente opera:
Era già scorso qualche anno, dacchè l’illustre mio zio paterno l’Abate di Corte D.Vincenzio Maria NATALI GALIANI, dottor dell’una, e l’altra Legge, avea composta questa Istorica Dissertazione col disegno di pubblicarla per compiacere alcuni Amici, siccome scorgerassi dalla lettura del di lei proemio, quando sì per le sue passate letterarie applicazioni, sì per la forte, ed innata sua ipocondria essendo stato sopraffatto da una nojosa languidezza la barbara risoluzione da lui presa di non volerne saper più nulla, con una dolce, e rispettosa violenza gliela cavai di mano, e di proprio pugno mi posi a trascriverne i due primi capi, ed a distrigarli dalle molte cassazioni, che gli rendeano quasi inintelligibili. A questo egli si scosse alcun poco, indi deliberò di compiacermi, a patto però che io da lui non dovessi sperar note né fatte, né da farsi, ma soltanto una superficiale limatura del nudo testo; e perchè al dir di Orazio nel Lib.I. Epist.1.:
Est quadam prodire tenus, si non datur ultra;
Io accettai la sua promessa; Laonde Egli misesi a limarla, e ad aggiugnervi, e scemarne quelche più credette necessario. Eccovi dunque, mio benevolo Lettore, la dissertazione, di cui finora vi ho parlato; nella quale fra le altre cose interessanti ritroverete alcuni punti di Storia patria messi dal suddetto mio zio in maggior lume, ed in chiarezza maggiore di tutto il corpo, e da un gran mancamento di forze fisiche, né quella ritrovandosi peranche da lui limata e corredata delle molte note, che egli in parte avea distese, ed in parte divisava di distendere, l’avea perciò già condannata ad esser pascolo di tignuole, e ad una eterna dimenticanza. Io, a cui forte rincresceva il veder perire le non picciole fatiche da lui durate nel comporle, lo pregai più volte a volerla limare a poco, a poco secondo che le sue fisiche indisposizioni gli permettevano; perché poscia io mi avrei preso il pensiere di farla imprimere; ma egli immobile nel suo proposito:
Quam fi dura filex, aut stet Marpesia cautes;
Nè punto, nè poco prestava orecchio alle mie preghiere: dicendo, che la Repubblica letterata non avrebbe alcun danno risentito dalla suppressione di questa sua Opericciuola: per la qualcosa veggendo io non potere espugnarla (MANCA LA PAGINA N°5)  quelche han fatto gli altri Scrittori Capuani. Gradite intanto l’impegno, che ho avuto di porgervi alcun pascolo non disgradevole di divertimento per qualche ora dopo il pranzo; e vivete felice.

Verisimilia partim movent suo pondere, partim, etiamsi videntur esse esigua per se, multum tamen (movent) eum sunt coacervata.

Cicer. Partit. Orator.


In rebus tam antiquis si quæ similia veri sint, pro veris accipiantur, satis habeam.

Liv. lib.V. Cap. XII. Num. 21.


……Si quid novisti rectius istis, Candidus imperti; si non; his utere mecum.

Horat. 1. I. epist. 6.


Maxima de nihilo nascitur istoria.

Proper. 1. 2. ad Mæcen.


In tenui labor, at tenuis non gloria……..

Virg. Georg. 1. IV. Vers. 6.    
                                 

                                     PREFAZIONE Dell’ Autore

Nel sontuoso ristoramento intrapreso sin dall’anno 1789 dal Comune di Casapulla della sua antichissima Chiesa Parrocchiale sotto il titolo del Glorioso S.Elpidio,

Parrocchia di Sant'Elpidio
in
Casapulla
la quale e per la sua magnificenza, e pel nobile, e delicato gusto di architettura, onde è stata già rabellita, apparisce di quante sono in queste Capuane Contrade la più vaga, e la più leggiadra, venni io richiesto da chi per pubblico decreto con generosa e fervida cura all’opera intenda, che una qualche iscrizione composta avessi, che secondo il costume la di lei origine, il rifacimento, e ‘l nome del Santo Titolare ne additasse. di fatto essendosi quella debolmente da me composta sulla maggior porta della medesima Chiesa così scolpita in marmo si legge:


                                               TEMPLVM. HOC
                                       OLIM. FANI APOLLINIS
                    FICTI. NVMINIS. RVDERIBVS SVPERSTRVCTV
                                                    D. O. M.
             IN. HONOREM. DIVI. ELPIDII. ANTISTITIS, AFRICANI
                                  SÆC. CHR. V. DIVINA. AVRA
        NAVIGIVM. ARMAMENTIS. DESTITVTVM. GVBERNANTE
             AD. CAMPANIÆ. LITTORA. CVM. SOCIIS. APPULSI
                       PATRONI. PRÆSENTISSIMI. DICATUM
    TEMPORIS. POSTEA. VETVSTATE. SQVALENS. ET. RVINOSVM
                DECVRIONES[5]. POPVLVSQVE. CASAPVLLENSIS
                          ÆRE. PVBLICO. RESTITVENDVM
           ET. AVGUSTIORI SPECIE. DECORANDUM, CURARUNT
                                    ANNO. CI)I)CCLXXXIX.[6]

Alcuni amici stranieri di gran riguardo avvenutisi per ventura in così fatta iscrizione, si son mostrati bramosi di sapere, onde costi, che in Casapulla ci sia stato ne’ tempi antichi un tempio di Apollo, sulle cui rovine innalzata si fosse la detta Chiesa Parrocchiale. Or io veggendomi di onorato comandamento, per poter farlo nella miglior maniera, che le dense tenebre dell’antichità, e la piccolezza del mio ingegno mi permettono, e per disviarmi nel tempo stesso non senza qualche utilità dagli studj più severi, ho preso volentieri il partito or che mi trovo in Casapulla, di distendere la presente, qualeche sia, istorica dissertazione, nella quale appunto m’ingegnerò di raccorre tutti quegli argomenti, che possono indurci a credere senza difficultà, che qui nel vero esistette un Tempio ad Apollo dedicato. E perché inoltre da quel tempio questo villaggio ebbe il suo nome; proccurerò altresì di dare un breve non disgradevole ragguaglio di tutto ciò, che non solo il nome, ma i principj, e lo stato ancora del villaggio medesimo risguarda, distribuendo ne’ seguenti capi questa mia opericciuola; Nel primo de’quali io proverò l’antica esistenza di un tempio d’Apollo in questo luogo, e propriamente ove poi surse la Chiesa Parrocchiale di S.Elpidio; Nel secondo, che da quel tempio questo Villaggio ritrasse il nome: Nel terzo, che fu ad esso eziandio contemporaneo; Nel quarto, in che tempo, e da chi probabilmente fuvvi abolito il falso culto di Apollo, e quando edificovvisi la cennata Chiesa di S.Elpidio: Nel quinto, a quale giurisdizione sì Ecclesiastica, che Civile il medesimo appartenne ne’tempi andati, ed appartiene tuttavia: E nel sesto, ed ultimo farò vedere il pregio, che esso ha con tutti gli altri Villaggi Capuani di costituire insieme colla Città[7] un corpo solo, e di esser quindi considerati come una sola Università, godendo degli stessi insigni e numerosi privilegi, che quella gode, e donde vien contraddistinta fra le Città più ragguardevoli del nostro Regno: e finalmente conchiuderolla con una brieve descrizion del sito, e degli altri pregi più speciali di questo medesimo Villaggio. Ma faccianci dal primo Capo.

                                                                        CAPO I
                                        Dell’antica esistenza d’un Tempio di
                                            Apollo nel luogo stesso, ove poi
                                                    si edificò la Chiesa 
                                               Parrocchiale di S. Elpidio.


Tra i falsi numi, che dalla cieca Gentilità riscossero culto, e adorazioni, non ve n’ha forse alcuno, che tanto universalmente sia stato venerato, quanto Apollo, in guisa che, come leggiamo nelle storie, quasi in ogni Città cospicua del Mondo allora conosciuto vi erano de’ Tempj dedicati alla stessa falsa divinità; quindi è, che in Roma dentro, e fuori delle sue mura, e molto prima di Roma nell’antica Capua, fin dacchè non ancora avesse questa cominciato ad essere una delle più grandi repubbliche del Mondo, come poi divenne, ebbe Apollo eziandio de’Tempj; ma siccome è certo per testimonianza di molti antichi scrittori, e delle antiche medaglie Capuane, che in queste nostre contrade sia stato Apollo tenuto in culto, così da nessuno Capuano scrittore ci si addita altrove orma, o vestigio di alcun Tempio di lui fuorchè in Casapulla. E nel vero che qui negli antichissimi tempi ci sia stato un superbo Tempio ad Apollo dedicato, e propriamente nel luogo, ove poi surse la Chiesa Parrocchiale sotto il titolo di S. Elpidio, non puossi a buona equità negare da chi voglia por mente agli incontrastabili indizj, che ne rimangono, e che io qui sono per rapportare.Primamente adunque ci si offre ad osservare un ceppo, ossia marmo terminale, che mostra avere un’età di molti secoli, situato nel lungo, e largo atrio della cennata Chiesa, in cui si legge questa doppia voce scolpita: Casapollo, che vuol dire Tempio d’Apollo, siccome appresso si farà chiaro; la qual voce leggesi benanche su due antiche lapidi sepolcrali della stessa Chiesa, che appartenevano al Comune; e che adesso nel di lei rifacimento sono state fuori di essa situate. Secondariamente usa il villaggio di Casapulla un antichissimo stemma, che si vede anche scolpito a basso rilievo sulle due cennate
lapidi il qual consiste in un





Stemma
 del Comune di

 CASAPULLA  CETempio, che ha sembianza di Castello sovra di cui assiso il Sole spande intorno i suoi raggi, val quanto il dire, che dinota appunto un tempio di Apollo; poiché a tutti è ben noto, che Apollo fu da’Pagani per lo stesso nume che il Sole comunemente tenuto, siccome attesta Cicerone nel lib. 3. de nat. Deor. §. 20., laddove scrive: Solem Deum esse, Lunamque, quorum alterum Apollinem Græci, alteram Dianam putant. E Platone nel Cratilo osservando i nomi dati ad Apollo, e la ragione di essi, pruova evidentemente non essersi simboleggiato in questo Nume, se non il Sole. Perciò dunque egli fu chiamato E'χαεργος, cioè che opera di lontano; non essendo mai i raggi solari per la distanza debilitati, e Λοξίας, perché ha obliquo cammino nell'Ecclittica, e Фоϊβоς, dallo splendore della sua luce; e Δήχιος, perché le cose occulte ci manifesta; e fu creduto autore delle pestilenze, e della sanità, perché col suo calore promuove in alcuni luoghi le pestifere esalazioni della terra, ed in altri la feconda, e le fa produrre delle erbe medicinali, e tutto ciò, che al sostentamento della vita si richiede; e Dio della musica, come centro del sistema planetario, e della celeste armonia, che sognò Pitagora ne’movimenti delle sfere, la di cui Scuola Italica, ed in essa spezialmente il celebre Filolao di Cotrone, che fiorì 450 anni avanti l’Era Cristiana, coltivò l'antica ipotesi, detta ora Copernicana, che suppone fisso il Sole nel centro del sistema planetario, e che la Terra prima giri nello spazio di 24. ore intorno al suo asse, e poscia nello spazio di un anno giri con moto spirale intorno al Sole. Questa ipotesi colla dismissione della cennata Scuola Italico Pitagorica andò in oblio; ma poi fu rinnovata dal Cardinal di Cusa nel suo libro De docta ignorantia; indi da Niccolò Copernico, e dal Galilei. E per tornare a noi, fu creduto anche Apollo inventore della cetra di sette corde, cioè regolatore dei sette pianeti, che soli allora erano conosciuti; e finalmente giovane di lunga, e non mai tosata capellatura, per ispiegar la forza de’raggi solari. In quanto poi al Tempio, che nello stemma sopraccennato ha figura di Castello, non s’ignora dagli Eruditi, che tralle altre forme, che davano gli antichi a tempj de’ loro Dei nel costruirli era quella di un Castello, o di una torre.  E di fatto in Cuma Città un tempo alla nostra antica Capua sottoposta, nel lato orientale di un cole sorgeva appunto un Tempio d’Apollo, a guisa di una rocca, di cui parla Virgilio nel lib. VI. dell’Eneade, laddove canta:


                         ….Arces, quibus altus Apollo Praefidet.


Il qual tempio era formato del sasso stesso della Rupe, e come nella medesima incavato, siccome si ricoglie dall’orazione Parenetica di S. Giustino Martire che fiorì circa a cento sessant’anni dopo Virgilio sotto l’Imperatore Antonino Pio, e che afferma aver veduto questo Tempio; e come da Agazia nel lib. I. della storia, ne’di cui tempi sembra che sia stato distrutto, o ad uso di Rocca soltanto destinato. Né fa meno al profitto, che in Troja aveva Apollo un altro Tempio nella Rocca stessa, ossia Castello della Città, dove finge Omero, che questo nume avesse posto in sicuro Enea, e che da Latona sua Madre, e da Diana sua sorella gli avesse fatto curar le ferite, che ricevute aveva nel combattimento con Diomede. Ed in Atene Minerva ancora aveva un tempio nel Castello di essa; onde leggesi presso Livio nel lib. XXXI. Cap. XXVI. Num. 30. Eodem scelere Urbem colentem hos Deos, præsidemque ARCIS Minervam petitam. E Giunone altresì ne avea un altro nella Rocca Vejentana, come scrive lo stesso Livio nel. Lib. 5. Cap. 12 n.21. Cuniculus delectis militibus eo tempore plenus in æde Junonis, quæ in Vejentana ARCE erat, armatos repente edidit. Similmente in Alessandria di Egitto il Tempio di Serapide, che non ceda in grandezza, e magnificenza, se non al Campidoglio di Roma, e secondo alcuni eziandio l’uguagliava, era pur formato a mo’ di rocca, o cittadella, e come tale appunto servì a quei sediziosi Idolatri, che si sollevarono contra i Cristiani, essendo Imperadore Teodosio il Grande, e Vescovo di quella Città di Teofilo, siccome narra il Cardinal Orsi nel tomo IX. Della sua storia Ecclesiastica § XVII. Pag. 54., e ‘l Signor Le Beau nel tom. VI. Della continuazione della storia del Basso Impero tradotta dal francese in italiano idioma lib. 24. pag. 20. e 27. dell’edizione Nap. E in Apamea, una delle principali Città della Siria, anche il Tempio di Giove esser doveva a modo di Castello, mentre il lodato Signor Le Beau nel citato luogo pag. 40. così brevemente lo descrive: “Questo era un solido, e magnifico edificio, fabbricato di grosse pietre, legate insieme con ferro, e con piombo; per demolire il quale secondo gli ordini di Teodosio non vi volle meno di un miracolo del Vescovo S. Marcello, come attesta Teodoreto, dopo esservisi impiegati con poco frutto, ed i sudori di molta gente.  Finalmente in Atene, oggi detta Sertines, esiste tuttavia la celebre Torre di Andronico, che appellavasi il Tempio de’ Venti, i quali erano colà tenuti, piucchè altrove, in rispetto, e venerazione nella sommità della qual Torre vi sono a basso rilievo mirabilmente, e con leggiadria, fantasia, e greco gusto rappresentati gli otto principali venti, sei dei quali si distinguono assai bene, ma gli altri due sono ricoperti da un muro di un contiguo edificio fabbricatovi da Turchi, che nulla prezzano, né conoscono la veneranda antichità. Di questa Torre favellò Vitruvio nel lib. I. Cap. VI le cui parole piacemi qui rapportare secondo la nobile traduzione fattane dal Marchese D. Berardo GALIANI[8], suocero del Marchese D. Marcello NATALI-SIFOLA[9] mio fratello. Ei dunque così traduce a pag. 35., «I più esatti (di coloro che indagarono i venti) ne danno otto, frà quali specialmente Andronico Cireste, il quale eziandio ne eresse in Atene per esemplare una Torre di marmo, a otto facce, in ciascheduna delle quali fece scolpire l’immagine di ciascun vento dirimpetto alla sua propria direzione: terninava la Torre in un lanternino di marmo, sopra del quale situò un tritone di bronzo, che stendea colla destra una verga, accomodato in modo, che dal vento era girato, e fermato dirimpetto al soffio, rimanendo colla verga sopra l'immagine di quel vento, che soffiava:” Veggasi la Mitologia dell’ab. Banier tradotta in italiano com. I. part. II. Lib. II. Cap. V. pag. 427. dell’edizione nap. Annot. (a).

   Oltre a quello che fin qui è divisato, si conferma, che d’Apollo il Tempio, della cui antica esistenza in questo luogo or ora molte altre pruove si addurranno, esser dovea costruito a modo di un Castello, o di una Torre, qual si ravvisa nello stemma, di cui ragioniamo, dall’essersi lo stesso tempio con tutta probabilità qui edificato dagli antichi Tirreni, o sieno Etrusci Campani; giacchè di caratteri etruschi, o sian tirrenici si veggono fregiate le antiche medaglie Capuane, appartenenti ad Apollo, che in queste contrade si sono rinvenute, e si rivengono tutto dì. Ora i Tirreni aveano il costume di fabbricare delle Torri, che essi i primi introdussero nell’Italia, onde munivano le lor Città, dalle quali Torri trassero appunto il loro nome; come avverte il Capaccio nel lib. 1. della storia Napoletana Cap. III. Laddove scrive: Ad Tyrrhenorum mores fortasse Lycophron resperit, qui turribus Civitates more græco munibant, hinc quod Τύρσις, turris est, Tyrrhenos dictos asserit Dionysius: E ‘l dottissimo Mazzocchi nella sua I. Tirrenica dissertazione rapportata nel tom. II. degli opuscoli, pag. 83. alla nota (I) anch’egli scrive così: Tirrhenos ipsos ab Turribus suum nomen mutuatos scimus: mostrando nella pag. 90. alla nota (I) che lo avessero preso dall’Ebraico vocabolo,

הרוט Tira, sive דוט Tur, che significa Arcem, Turrim……. . En quo Turris Latinorum, Græcorum autem Tύρσις nata sunt :

Per la qualcosa egli è ben verisimile, che i medesimi Tirreni essendo usi picchè ogn’altro Popolo di costruire quella sorta di edificj, avessero eziandio a mo’di Torre, o di Castello il suddetto Tempio, ed altri ancora edificati. Ma torniamo al nostro stemma. Or, che questo ci somministri una delle più forti congetture, che qui fosse stato un Tempio ad Apollo dedicato, d’intorno al quale ab antico esistito avesse questo villaggio, come appresso meglio dimostreremo, non può recarsi in dubbio, se col lodato Mazzocchi noi riflettiamo, che allorchè le Città, ed altre culte Comunità cominciarono a far uso di siffatte insegne, ebbero in mira il farle alludere alle proprie antiche origini, come di fatto la Città di Cadice, quantunque Cristiana, usa tuttavia nel pubblico sigillo un Ercole con questa iscrizione. Hercules Cadium fundator dominatorque: siccome leggesi nel tom. XI. Biblioth. Selectæ Clerici, pag. 3. Dal che deduce il lodato Mazzocchi, che lo stemma della Città di Capua, che rappresenta una tazza con entro sette serpenti ritti in sulla coda, voglia significare che i primi abitatori della nostra Campania (di cui Capua divenne la Capitale) furono gli Opici; poiché colla razza s’indica la Campania, che un tempo era appellata CRATER cioè tazza per la curvatura del suo littorale in forma di cratere, e con quei serpenti si dinotano gli Opici, così detti quasi Opbici dal greco őφις, che vuol dir serpente. Riscontrisi, se così piace, la spiegazione, che il cennato scrittore fa del basso rilievo del Proscenio dell’antico Teatro Capuano in fine del suo coment. in mut. Camp. amphit. titulum pag. 159. della prima edizione. Gli altri indizj, che ne convingono dell’antica esistenza in questo luogo d’un superbo Tempio, sono tante selci di smisurata grandezza, parte delle quali compongono l’antichissimo muro settentrionale della suddetta Chiesa Parrocchiale, e parte veggonsi impiegate nel formare il primo ordine del di lei campanile, oltre ad un enorme piedistallo quadrato, che senz’uso nell’atrio della stessa Chiesa si osserva; le quali selci non furono certamente qua trasportate allorchè la medesima si edificò; poiché nella sua rimota origine fu meno ampia della terza parte di quel che è di presente, e fu di semplicissima architettura, la qual punto non era alla grandezza di quelle moli rispondente: Né un ristretto villaggio benchè antichissimo, quale era questo, dopo aver partecipato delle frequenti desolatrici calamità avvenute alla vicina antica Capua, siccome appresso si vedrà, potea soffrire l’esorbitante dispendio, che richiedevasi per l’acquisto, e trasporto di quelle, e di altre ancora, che inutili e senza uso vi si veggono; tanto più che con tenuissima spesa potea farsi condurre il tufo dalle vicine miniere.

Ed è ancor degno di riflessione, che nelle dette enormi pietre si veggono pur gli antichi incavi per incastrarvi col piombo i ferri, onde tenerle ben connesse, non altrimenti che erano unite insieme le pietre del Tempio di Giove d’Apamea da noi di sopra mentovato; anzi in alcuni di questi incavi osservansi peranche l’estremità de ferri, rotte nel piombo stesso, onde erano state incastonate; quindi è, che bisogna pur confessare che siffatti macigni esser doveano qui presistenti, e che pria formato avessero un gran Tempio degli Etrusci Campani ad onor di Apollo edificato.

Il che confermasi viemaggiormente dall’essersi anche osservati, molti anni addietro, sotto al pavimento della nave settentrionale della suddetta Chiesa nella profondità di palmi 6., o là intorno, parecchi altri grossissimi macigni, bene aggiustati, che ivi giaciono tuttavia sepolti; essendo stati gli antichissimi Etrusci usi appunto di adoperare si enormi pietre nella costruzione delle loro fabbriche, come quelli, che più badavano alla sodezza, e perennità di esse, che alle decorazini, ed agli ornamenti; usati poi da’Greci, e da’Romani; ond’è, che il primo de’quattro ordini di architettura il più semplice bensì, ma il più robusto, e forte si appellò poscia Ordine Toscano, siccome avverte il Mazzocchi nell’edizione al cennato suo comment. In Mut. Campani Amphit. Tit. not. (78), pag. 136. della seconda edizione, dove parlando del primo ordine di architettura del Capuano Anfiteatro, edificato dalla Colonia Capua scrive così: Ad haec præter Tuscanici Ordinis characteres, qui in ima columnarum serie deprebenduntur, ipsum etiam structuræ genus ad Etruscæ architectonices ingenium, atque indolem exigi posse mihi videtur: quippe cum non extimus tantum ambitus, sed e quodcumque in interiore fabrica marmoreum est sane plurimum, e tam grandibus vastisque saxis, seu verius rupibus compactum fuerit, ut nemo sit, qui non obtutu obstupescat. A qui eum structuræ modulum  Etrusci observarunt, quantum quidem e Leone Baptista Alberto discimus, qui prægrandibus quadratis lapidibus uti in publicis operibus vetusta consuetudine Tuscos consuevisse Lib. VII. Cap. II. Suæ Architecturæ docuit, exemplo ductus murorum Urbium Etruriæ nonnullarum, veluci Volaterrarum, Fesularum ec. Indi dando ragione perché la Colonia Capua nella struttura del suo Anfiteatro servissi ancora dell’Ordine Toscano nella bassa parte di quello, scrive in ultimo: Demum, si lubet, non temere hoc est, quod Tusco etiam Ordini, etsi raro ab aliis usurpato, suum esse locum Campani voluerunt, nam Tuscos sese esse origine probenorant. Veggasi altresì il Galanti nella sua descrizione geografica, e polit. Delle Sicilie tom. IV. Pag. 237 e 238. in proposito del costume sopraddetto degli antichi Etrusci di costruire i loro edifici con grandi e sode pietre vive. Simiglianti selci ed altri marmi scorgonsi tuttora nelle due antiche Chiese di S. Angelo,, detto in formis, e di S. Pietro Ap. Amendue un tempo appartenenti ai PP. Cassinesi, le quali furono edificate sulle due opposte pendici del monte Tifata, quella cioè di S. Angelo nella pendice, che risguarda l’Occidente di Verno, sulle rovine del famoso tempio di Diana, mentovato da Pausania nel lib. 5. Cap. XII., e questa cioè di S. Pietro, nella pendice, che volge all’Oriente estivo, sulle rovine del tempio di Giove. Or se egli è certo, che tali pietre erano avanzate alla distruzione di que’due celebri tempj; così certo, o almeno probabilissimo esser dee, che quelle ancora, che ora noi osserviamo nella Chiesa di Casapulla, sieno avanzi del destrutto tempio di Apollo. In oltre è da sapersi, che tempo fa, nello scovrirsi i fondamenti di alcuni pilastri della cennata Chiesa per fortificarli, si rinvennero là sotto tronconi di colonne, e capitelli di marmo d’ordine Corintio: Né fino all’anno 1724. son qui mancanti avanzi di marmi anche nobili, che pure servir dovettero d’ornamento a quel gran tempio; aggiuntivi forse da’Coloni Romani, dedotti in Capua, in qualche magnifico ristoramento, che poi ne fecero; giacchè dietro al maggiore Altare di questa Chiesa giaceano abbandonate, e neglette senza esser destinate ad uso alcuno due bellissime colonne di porfido, o piuttosto di persichino, le quali trovansi descritte in un inventario del detto anno 1724. dal Parroco D: Giovan Carlo Vecchio, da cui furono donate al Cardinale Arcivescovo di Capua D. Niccolò Caracciolo per adornarne la Cappella del Tesoro della nostra Cattedrale, che si stava allora riedificando; ed è da credere che altri marmi e colonne di maggior prestigio fossero state altrove pur trasportate per formarne altre Basiliche, come sappiamo essere avvenuto a più altri tempj gentileschi, e spezialmente al tempio di Giove Tonante, o di qual altro Nume, che egli fosse; situato nell’antica Capua, donde furono tolte cinquanta colonne per la costruzione della Chiesa di S. Vincenzio in Volturno, siccome leggesi nella Via Appia del Pratilli a pag. 287.

Tralascio poi di far parola delle altre grandi selci scorniciate, delle basi di colonne di bianco marmo, e degli spezzoni di gran cilindri di granito orientale, che fin’ora si son veduti dispersi in varj luoghi di questo villaggio, e che del tempio d’Apollo esser doveano ancor reliquie. Ma non sono da trasandare due rottami di fabbrica laterizia, che formano l’ingresso nell’atrio di questa Chiesa dalla parte di Settentrione, il quale ingresso era forse uno di quei, che al detto tempio introduceva; poiché egli è ben risaputo, che ove incontransi fabbrica a mattoni perpendicolari, o a scacchi, o a romboide, ivi sieno manifesti segni d’una rimota antichità. Né poi qui mancano, oltre alla tassellata; anche vestige di fabbrica romboidale, e propriamente nel suddetto muro settentrionale della stessa Chiesa, sebbene ora nella di lei rifazione sieno state inconsideratamente ricoperte di mistura di calcina, e sabbia insieme colla maggior parte delle enormi selci di sopra mentovate; e quel che è più da dolere, i cennati rottami non sono anch’essi per incontrare sorte migliore; Poiché già da parecchi anni in qua dalla non repressa licenza d’insolenti giovinastri appoco appoco disfatti, e malmenati attendono d’ora in ora la lor totale demolizione per darsi nuova simmetria al detto Atrio, e così perirà ben anche quest’altro antico monumento.

Finalmente per non ommettere un’altra osservazione, che molto giova al nostro intendimento, aggiugnamo, che intorno all’anno 1726. essendosi ritrovato trà lo sfasciume del Capuano Anfiteatro presso alla porta meridionale un mezzo busto di marmo, attaccato a una parte dell’arcale, rappresentante un bellissimo giovane crinito, e coronato di alloro, fu d’avviso il Mazzocchi nel suddetto suo comment. Pag. 132. della prima edizione, che fosse appunto un simulacro di Apollo προςατηίγ, cioè presidente; poiché siccome Diana era creduta presedere alla caccia, ed agli spettacoli de’gladiatori, e delle fiere, che sotto il nome pur di Venagione si comprendevano, così lo era benanche Apollo, che Euripide appella άγρευτάυ ond’egli argumenta, che il detto simulacro fosse stato situato sulla stessa porta meridionale, presso alla quale fu rinvenuto, non altrimenti, che quello di Diana dovea esser collocato sulla porta Boreale; e che siccome l’immagine di questa Dea era rivolta al suo tempio nella pendice occidentale del Tifata, così quella di Apollo dovea risguardare il tempio, che egli avea in Cuma: ma qui il Mazzocchi con sua buona pace non dovea far tanto stancar la vista ad Apollo, col fargli portar lo sguardo fino in Cuma per mirarvi il suo Tempio in così grande lontananza, mentre Diana non istancava molto la sua per mirar il suo Tempio Tifatino: Per la qual cosa è ben più verisimile, che Apollo col volgere un pochino i lumi a sinistra avesse risguardato un altro tempio più vicino, cioè quello appunto, che dovea avere in questo luogo, che pur era situato dalla parte di mezzo giorno del suddetto Anfiteatro, sebbene alquanto verso l’Oriente, non essendo neppur il Tempio Cumano situato perfettamente al cennato mezzo giorno; ma per l’opposito verso l’Occidente. Quel’ che sin ora abbiamo detto, viene avvalorato, da un altro avviso del medesimo Mazzocchi, il quale vuole, che la Colonia di Capua, che edificò l’Anfiteatro, adottato avesse  per suo Tutelare Apollo; or se è così, dovea esserci di necessità in queste parti qualche magnifico, e superbo tempio allo stesso Nume dedicato; ma in tutto il Contado Capuano non ven’ha orma, né memoria alcuna, fuorchè in questo Villaggio di Casapulla; adunque qui senza alcun dubbio, ed in si comoda vicinanza all’antica Città di Capua, doveva esistere questo Tempio.

Ma quello che finisce di convincerci dell’esistenza del medesimo in questo luogo, è appunto la proprietà del sito; per intendere la qual cosa è da por mente al costume degli antichi Idolatri d’innalzar de’tempj ad alcune false Deità in certi luoghi determinati secondo i varj loro attributi, che da quei luoghi venivano indicati. Ond’è, che ad Apollo soleano per lo più edificarglieli ne’boschi; poiché al par di Diana, come di sopra è detto, ei presedeva alla venaggione, ed altresì, perché Duce era, e maestro delle muse, che in luoghi ameni e solinghi amavano di albergare. Quindi è, che il Cellario Geograph. Ant. Lib. 3. Cap. III. Pag. 63. scrive, che nell’Eolia, e propriamente nella Città di Grine vi era un Tempio di Apollo con Oracolo in un antico sacro bosco: di cui facendo Virgilio menzione nell’Eglog. 6. v. 72. così canta:

                                His tibi Grynæi Nemoris dicatur  origo,
                            Ne quis sit lucus, quo se plus jactet Apollo.

E Strabone nel lib. 14. dal greco trasferito in latino idioma scrive similmente così.Colophon Urbs Ionica, e ante eam Clarii Apollinis lucus. E nel lib. 16. racconta che in Seleucia vi era un pago detto Daphne, divenuto famoso pel bosco, e per i Templi, che in quello erano di Apollo, e di Diana. Pel modo stesso il celebre Rueo nelle sue note al lib. II. dell’Eneade di Virgil. al vers. 785. osserva, che ebbe Apollo parimente un Tempio con un bosco nel Monte Soratte nella Toscana, oggi appellato Monte di S. Silvestro. E per qui tacere più altri tempj in altri boschi ad Apollo consecrati, accenno soltanto quello che era tuttavia in piede nel sesto secolo della Chiesa in Monte Casino nel Lazio Nuovo, cinto pure intorno intorno da boschi, il quale al riferir di S: Gregorio il grande nel lib. 2 de’suoi dialoghi Cap. VIII. fu cambiato in Chiesa da S. Benedetto, l’Idolo di Apollo fu fatto in pezzi, l’Ara distrutta, ed i boschi furono messi a fiamme; affinchè (credo io) non avessero gli Idolatri opportunità di fabbricarvi un nuovo Tempio.

Or ciò posto, era ben proprio secondo quel costume, che qui ad Apollo si fosse il Tempio edificato poiché questo luogo negli antichissimi tempi venia quasi da boschi circondato, cioè dalla parte dell’Oriente, e dal mezzo giorno, siccome costa da un antica tradizione, anzi residui de’suddetti boschi sino nei secoli a noi vicini son pur durati nella parte d’Oriente, come ben si ricoglie da un istromento in pergamena del Monistero di S: Giovanni di donne monache di Capua stipulato nell’anno 1408., in cui si fa menzione di un pezzetto di terra data a cenzo, sterile, e boscosa nel luogo detto Majano in pertinenza di Casanova:  qui si noti di passaggio che il campo di Majano, che ora è nel distretto di Casapulla, dovea essere più vasto, e giugnere fino a Casanova, che lo attraversa da Settentrione a mezzo giorno; o piuttosto era la via dell’entrarvi, e dell’uscirne mentovata nel diploma di donazione fattane al cennato Monistero da Roberto II. Principe di Capua, di cui appresso farem parola. Similmente da altri istrumenti del medesimo Monistero degli anni 1413., e 1450. rilevasi lo stesso, cioè che più porzioni del suddetto campo all’Oriente di Casapulla erano in quel tempo tuttavia boscose. Ma possiamo a vieppiù convalidare quanto sinora abbiamo detto intorno al Tempio di Apollo coll’antichissima denominazione, che ne trasse questo Villaggio di Casapulla, siccome nel seguente capo sì osserverà.

                                                        C A P O  II
                                              Dal Tempio d’Apollo, 
                                           che qui era, que
-

                                             sto Villaggio 

                                        fu denominato Casa

                                        -
pulo, Casapollo, 

                                        e Casapullo,
indi

                                         corrottamente

                                              Casapulla.

Uno de’molti e diversi fonti, onde i nomi delle antiche Città, e Villaggi derivarono, fu principalmente il pubblico culto de’falsi Numi, che quelle o aveano adottati per tutelari, ed a’quali innalzati aveano de'Tempj, o che si erano formate intorno a Tempj stessi, trovati già costituiti. Quindi è, che il Mazzocchi nel suo Comentario alle Tav. d’Eraclea, Part. I. Diatr. II. Not. (21), pag.79 così scrive:

Ηραχλέιον significationem templi Heraclei exhibet. A templis hujusmodi oppida circum coalescentia sæpe ortum e nomen traxerunt. Huc ergo e Heraclii hujus, e  aliorum ejusdem flexionis oppidorum origo referenda est; sicuti e Herculaneum in Campania, videtur antea, Graecis oram hanc obtinentibus, Ηραχλέιον fuisse dictum

Similmente in Francia la Città di Parigi detta in francese Paris, ed in latino Parisii, trasse il nome da Iside, che ne era creduta la protettrice, e che vi ebbe un Tempio, sulle cui rovine fu la Chiesa dell’Abazia di S. Germano de’Prati dal Re Childerico edificata sotto l’invocazione di S. Vincenzio. La Città di Dia nel Delfinato fu così chiamata, perché ivi si onorava Dia, che molti credono essere stata la stessa, che Cibele; ed altri secondo Strabone la medesima, che Ebe, Dea della gioventù. La Città di Feronia situata appiè del Monte Soratte acquistò il nome della Dea Feronia, che colà ebbe pure un tempio. Partenope, oggi Napoli, fu appellata così dal tempio, e dal sepolcro della Sirena Partenope, che quivi si venerava. Venosa fu così detta da un magnifico tempio, che ivi era a Venere dedicato, ov’era ancora un tempio d’Imeneo di lei figliuolo, che poi fu trasferito al culto del vero Dio. Massa Lubrense, situata sul promontorio, che prima in Greco denominata Α’θηναιον, cioè Minervino dal tempio, ossia Delubro di Minerva, ivi fabbricato al dir di Strabone da Ulisse, prese da un tal Delubro l’aggiunto di Lubrense. Ercole fu così detto dal tempio d’Ercole. Bellona dal tempio della Dea Bellona, e così tante, e tante altre Città e Villaggi, che delle antiche false Deità conservano ancora il nome.

Ma piucchè da ogn’altro Nume, da Apollo spezialmente trassero molti luoghi la lor denominazione. E nel vero nella Tebaide occidentale vien situata da Tolommeo geografo la Città, detta Apollonopolis Magna, cioè grande Città d’Apollo per distinguerla da Apollonopolis Parva, che era nella Tebaide Orienale. Nel lido del Ponto Eussino eravi similmente la celebre Città di Apollonia, colonia de Milesj, donde M. Lucullo estrasse il colosso di Apollo, che collocò nel Campidoglio, siccome attesta Strabone nel lib. 7. così leggendosi in latino: Apollonia est Milesiorum Urbs majore sui parte condita in parva insula, in qua Apollinis fanum est, unde M. Lucullus Colossum Apollinis sublatum in Capitolio collocavit. E Plinio parlando pure di un tal colosso, scrive così nel lib. 34. Cap. VII. Talis est in Capitolio Apollo translatus a M. Lucullo ex Apollonia, Ponti urbe, XXX. Cubitorum centumquinquaginta talentis factus. Vi furono, oltre a questa, altre Città dette Apollonie, che presso gli antichi geografi si possono riscontrare.

Or che dal tempio dello stesso Apollo, che qui era, come di sopra è dimostrato, abbia ancora questo Villaggio tratto il suo proprio nome, si scorge ad evidenza, dacchè il medesimo ne’tempi antichi fu appellato Casapulo, Casapollo, e Casapullo, le quali denominazioni tutte e tre suonano lo stesso; e di fatto che sia stato appellato Casapollo, il marmo terminale, e le due antiche lapidi sepolcrali, da noi recate nel capo antecedente, abbastanza ce ne assicurano, come lo provano altresì alcuni antichissimi istrumenti dell’età di otto secoli, cioè del fine del secol decimo, ne’quali questo Villaggio trovasi denominato Casa Apollinis, siccome attesta il Dottor di Leggi D. Tommaso Buonpane, Sacerdote d’intiera fede, in un suo picciolo Manoscritto di antiche notizie riguardanti questo medesimo Villaggio, e’l di lui Santo Protettore Elpidio, da lui raccolte nell’anno 1696.

In oltre che sia stato anche appellato Casapulo, si ricoglie dal diploma, ossia privilegio, che il Pontefice Alessandro III. Concedette ad Alfano, Arcivescovo di Capua nell’anno 1173., rapportato da Michel Monaco nel suo Santuario Capuano pag. 594 in cui leggesi così: In loco Casapuli Ecclesiam S. Nicolai, Ecclesiam S. Arpii. Che poi questo nome Casapulo sia lo stesso che Casapollo; ce ne convince fra le altre una patera di bronzo etrusca dell’illustre Museo Borgiano in Velletri, descritta da Arnoldo Heeren Bremense nell’esposizione, che egli fa del fragmento d’una tavola marmorea del Museo medesimo, e propriamente nella nota (c) pag.9. e seg., nella qual patera si osserva la favolosa nascita di Bacco dal femore di Giove, e fra gli altri personaggi, che ivi assistono vi si ravvisa Apollo, che ha il braccio destro inserito nella clamide; e tiene colla sinistra un ramoscel di alloro; ma quel che fa al nostro proposito, è , che si legge quivi il suo nome in caratteri etruschi così: V٧V٨A, Apulu, il qual nome nella stessa guisa si vede inscritto in un’altra patera etrusca presso il Dempstero tom. I. tav. 3., che rappresenta Giove, Mercurio, ed Apollo: Come altresì in molti altri vasi, e patere etrusche illustrate dal Guarnacci, e da altri Scrittori dell’Etrusche cose. E qui si noti di passaggio, che il Ch. Marchese Francesco de Attellis in una sua dotta Opera intorno alle cose sannitiche deduce ancora il nome Apulia dall’etrusco Apulu, come quella Regione, che dalle più lontane età essendo addetta alla pastura delle greggi, era ad Apollo, qual pastore un tempo del Rè Admeto, consegrata.

Quindi adunque si fa chiaro, che il nome Casapulo, sia lo stesso che Casapollo, anzi che il primo sia più antico del secondo; dal che viemaggiormente si conferma quel ch’è detto nel Capo antecedente, cioè che il tempio ad Apollo sia qui stato edificato dagli Etrusci Campani: e perciò dovette quello appellarsi da principio il tempio di Apulu, usando gli Etrusci, ossian Tirreni, invece della vocale O la lettera V, come avverte anche il Mazzocchi, collect.X. pag. 548. dove scrive: Pro O Tyrrheni V perpetuo usurparunt: Indi divenuta Capua Colonia de’Romani, ed avendo adottato Apollo per Tutelare; invece dell’ Etrusco Apulu cominciò a pronunziarsi il latino Apollo, ritenendo nondimeno il volgo, tenacissimo delle antiche denominazioni, la pronunzia di Apulu, onde poi questo villaggio fu chiamato Casapulo, e Casapollo, e finalmente confondendosi l’una, e l’altra pronunzia, Casapullo, e poi corrottamente Casapulla. E ciò tanto più si rende manifesto, che nel linguaggio del nostro volgo si scorgono tuttavia non dubbie tracce dell’antico Etrusco dialetto.

In ultimo, che sia stato questo villaggio ancor chiamato Casapullo, come testè accennammo, lo contestano molti autentici documenti di più secoli successivi. E nel vero in un istumento in pergamena, che conservasi nell’archivio del Monistero di S.Giovanni di Donne Monache in Capua stipulato nell’anno 1294., ove si fa menzione di un pezzo di territorio, che il detto Monistero dà a censo in pertinenze di S. Piero ad Corpus, si dice, che il medesimo confina col luogo, detto al Bagno, e colla terra di Giovanni Perrone de Villa Casapulli. In un altro istrumento in pergamena, che nello stesso archivio pur si conseva, stipulato nell’anno 1319. in cui una Congregazione della Chiesa di S. Andrea de Partuslamano dà l’assenso ad una vendita di un territorio, situato nel luogo detto Majano, che fa il suo censuario Guglielmo di Presbìtero, si dice, che questi sia del Castello di Casapulo, e due altre volte questo Villaggio pur Casapullo ivi si appella.

In oltre nell’antica tassa delle decime Papali, fatta d’ordine dell’Arcivescovo di Capua Stefano nell’anno 1375., dal sopraccennato Monaco riferita nel suo Santuario a pag. 602. è scritto così: R.E.S. Nicolai de Villa Casapulli in granis quindecim: Pel modo stesso in altri istrumenti del suddetto Monistero, stipulati negli anni 1413. 1452. e 1473. costantemente si legge de Villa Casapulli; Come similmente in un inventario solenne delle rendite, addette alla distribuzione del Capitolo Capuano, fatto per mano di Notar Antonio de Cæsis nell’anno 1424. a carattere semigotico pur si legge in più luoghi: In Villa Casapulli. E finalmente in un antico manoscritto di Notizie raccolte intorno a Capua dal Dottor Scipione Sannelli Capuano, che visse nel secolo XV., e ne’principj del XVI. Il qual manoscritto va sotto il titolo di Annali della Città di Capua; e si conserva ora dall’eruditissimo Canonico Antonio Cajanelli, trovasi nel fol. 2. a t. questo villaggio eziandìo denominato Casapullo, e vi si legge ancora, che fu qui un tempio ad Apollo edificato, onde acquistò un tal nome. Quindi è, che `l suddetto Michel Monaco nel suo citato Santuario pag. 69. scrive così: Audimus in Agro Campano retenta, etss corrupte, nomina Sacellorum Apollinis, Herculis, Cereris, e Bellonæ. Ed egli pure in tutti i luoghi della suddetta opera, e delle ricognizioni della medesima, ove gli occorre nominar Casapulla, l’appella sempre Casapullo. Veggasi altresì il Granata nella Storia Civile di Capua tom. I. pag. 19. e nella storia sacra tom. 2 pag.10. Il Rinaldi nelle Memorie istoriche di Capua tom.I pag. 275. E `l Galanti nella descrizione Geografica, e Politica delle Sicilie tom. 4. lib. 7. Cap. VII. Pag. 92. ed altri autori.

   Da ciò, che finora è divisato, ognuno vede a chiaro giorno, che il nome di Casapulla, che si dà ora a questo Villaggio, è un nome di epoca recentissima, così corrotto dal volgo dall’antica denominazione di Casapulo, Casapollo, e Casapullo, e quindi ancora si comprende quanto vadano ingannati alcuni, che deducono questo nome a Casa-pulla, seu Casa-nigra, quasi dir voglia, villa nera, interpretando la voce Casa secondochè suona presso i Latini per tugurio, villa, ed adducendo ancor gli esempj di Casalba, quasi villa bianca, di Casanova, quasi villa nuova, di Caserta quasi villa erta, perché sulla vetta di un monte edificata.

   Ma per isgannare vieppiù costoro è da avvertire, che non sol ne’secoli barbarici non molto lontani da noi, ma benanche nell’età più alte colla voce Casa spessissimo le Chiese, i Templi si appellavano, e che sia così, odasi primamente il celebre Ducange, il quale nel suo Glossario sotto il vocabolo Casa dice fra le altre cose: Apud Barbaro-Latinos……Casa Dei Aedes Sacra, Ecclesia. Chronicon Laurisbam. An. 779. Dum ipsa Dei vestita fuit ad præsens. Capitul. Caroli C. tit. 9. Ut missi nostri…requirant de Cappellis e Abbatiolis ex Casis Dei in beneficium datis: e poi conchiude, Occurri passim. E presso l’Autore della storia mutilæ expugnationis, pubblicata dal Mazzocchi nell’epist. Ad Jac. Castellum leggesi parimente: Excurrentes omni loco tamquam lupi rapaces, expoliantes etiam Casas Dei; dove notò il Tafurio: quo nomine usi sunt Veteres ad significandas Ecclesias. Che poi ancor ne’secoli più alti si ritrovi la voce Casa adoperata a significare una Chiesa, un tempio, si ricoglie spezialmente dagli atti della discolpa di Ceciliano Vescovo di Cartagine, e di Felice Vescovo di Aptonga, scritti ne’principj del quarto secolo contra le false imputazioni dei Donatisti, ove leggesì così: Numquid Populus Dei ibi fuit? Saturnius dixit: in CASA majore (i. e. Ecclesia) fuit inclusus. Veggasi il dottissimo Selvaggi antiquit. Christ. Instit. Lib. 2. Cap. I. §. IV. Num. 5.

Quello adunque, che nel secolo della purità della latina lingua si appellò Templum, Aedes, ne’secoli della sua decadenza si chiamò Casa, ond’è che Casapollo, e Casapullo vuol dir tempio d’Apollo, e non già villa nera: Ma Casalba che dir vorrà? Casalba ancora io son d’avviso col chiarissimo Rinaldi nel citato luogo delle sue memorie storiche di Capua, che voglia significare, Tempio Bianco; poiché con tutta verisimiglianza ivi dovea esser situato il Tempio Bianco mentovato da Livio dec. 4. lib.2. Cap. X. Che fu tocco dal fulmine: Aedes, quæ alba dicitur, veggendosi tuttavia in quell’antico Villaggio, benchè ora ridotto a poche case, molti antichi marmi qua e là dispersi, spezzoni di colonne, ed un rottame di fabbrica ancora in piedi di antichissima struttura; quindi è, che non deve menarsi buono a Monsignor Cesare Costa il sito, ch’egli dà nella sua topografia dell’antica Capua al cennato tempio bianco, dal qual fa trarre il nome di Albana ad una delle sei porte, che assegna alla medesima; poiché se la Porta albana, che poi comunicò il suo nome anche al contiguo foro Albano, fu così detta dal tempio bianco di Livio, questo tempio probabilmente dovea star fuori della Città, e non dentro, per darle il nome, conformemente agli altri luoghi, ond’erano denominate le altre porte, i quali luoghi non che erano al di fuori; ma alcuni molto lontani dalla medesima Città. Conciossiachè, come ben riflette il Mazzocchi nell’appendice alla sua disf. Ist. Cathedr. Eccl. Neap. ec. Pag.227. Viarum cuctibus (che sono propriamente le porte delle Città, per dove passano le vie, pigliando queste le mosse dal centro delle Città medesime) a termino, quo ducunt, nomen imponi consuevit. E di fatto la porta Atellana era così appellata da Atella, perché colà conducea: La porta Cumana, perché menava a Cuma: La porta Fluviale, perché era indiritta al fiume Volturno: La porta di Diana (che il Pratilli crede essere stata la stessa, che la Fluviale, o del Volturno) era detta così, perché incamminava al tempio di Diana Tifatina, ed indi al Volturno, che non lungo tratto erane al di là: E la porta di Giove, perché al tempio di Giove pur Tifatino era rivolta, e sebbene quest’ultima par che avesse preso il suo nome dal tempio di Giove, che secondo il Costa era anche dentro la Città, pur non di meno il dottissimo, ed accuratissimo Camillo Pellegrino nella sua Campania felice dell’edizione Gravieriana tom. I. pag. 384. avverte, che il luogo del lib. 27 di Livio, in cui fassi menzione di un tempio di Giove in Capua, e su cui si appoggia il Costa per situarlo dentro la Città, è un luogo da non farvisi fondamento; poiché il Lipsio nella quarta quistione epistolare del lib. 4. mostrò doversi aver gran dubbio di quella Liviana lezione; ond’è, che resta vero, che la suddetta porta dal tempio di Giove, che sorgeva sulla pendice orientale del Tifata, di contro al quale ella si apriva, tratto avesse il suo nome. Qundi possiam conchiudere, che anche la Porta Albana, fu così detta non da altro tempio bianco situato in Casalba, verso il quale essa menava, dividendosi immediatamente la strada, che ne usciva, in due rami, come si vede ora disegnata nella carta Corografica della campania del Pellegrino, uno de’quali conduceva a Galazia cisvolturnina, e a Benevento, e poscia a Brindisi per la via Appia, e l’altro a Suessola, e a Nola, e finalmente a Reggio, a fianco del qual altro ramo esser dovea quel tempio bianco, cioè dove adesso è Casalba. Ma passiamo a Casanova: questo Villaggio, siccome attesta l’eruditissimo Pratilli nella sua via Appia lib. 3. pag.277. si ritrova denominato nelle pergamene del XI. E XII. Secolo Casa-jove, ed è comune tradizione, che fosse stato anticamente così chiamato; ond’è, che esso dovea essere quel pago Giovio (pagus jovus) che trasse la sua denominazione dal tempio di Giove, che sorgeva, come testè dicemmo, sulla pendice orientale del Tifata, frà il qual tempio, e la porta di Giove dell’antica Capua veniva ad esser situato; siccome avverte il medesimo Pratilli nel citato luogo. Di questo pago si fa parola in una Campana iscrizione, rapportata dal Grutero pag. 59. 8., nella quale dopo i nomi de’Maestri del Tempio d’una Venere Giovia, che ivi era, si soggiunge:


                                      HEISCE MAGISTREIS
                                 VENERUS IOVIÆ MURUM
                          ÆDIFICANDUM COIRAVERUNT 

ec. ove Venerus in vece di Veneris si dice, siccome in altre due campane iscrizioni si legge Cererus. Questa Venere poi non fu detta Jovia da Giove; ma dal Pago Giovio, in cui ella si venerava.

  Il dottissimo Mazzocchi nella spiegazione, che fa del Pagiscito d’Ercolano nel suo coment. in mut. camp. Amph. Titulum pag.152. della prima edizione scrive, che sia incerto il sito, ove fu in Pago Giovio; ma che dovea essere nelle vicinanze del Pago Ercolaneo, con cui formava società; ma egli forse così scrivendo non ebbe sotto gli occhi le antiche pergamene accennate dal Pratilli, in cui Casanova vien appellata Casa-jove, né badò alla gran vicinanza, che questo villaggio ha con quello di Ercole, il quale certamente dovette essere l’antico Pago Ercolaneo, come ben osserva il chiarissimo Matteo Egizio nella sua lettera al Signor Langlet du Fresnoy pag. 62. ediz. Nap. E non già Recale, com’egli il Mazzocchi crede nel citato luogo pag. 149., appoggiato soltanto ad una leggerissima congettura; cioè, che, pechè il marmo contenente la legge pagana d’Ercolaneo, onde si stabiliva, che i Maestri del Pago Giovio, se rifacevano a loro spese il portico del Teatro Erculanense, ovrebbono ottenuto in quello il luogo più onorifico fra gli spettatori, perché, dice, questo marmo fu trovato in Recale, perciò Recale, nome distorto da Ercolaneo, dovette essere il medesimo Ercolaneo, e non già Ercole, non sembrando verisimle, che da uomini, non curanti di antichità, sia stato colà trasportato dalla distanza di due o tre miglia, quanto è lontano dal Villaggio d’Ercole quello di Recale, a solo oggetto di senciarne l’atrio d’una villa; ma con sua buona pace non v’ha cosa più facile, che dileguare una siffatta difficultà; poiché primamente quel marmo non fu trovato in Recale in qualche casa di contadino, che niente s’intendesse di cose antiche, ma in una magnifica villa dei Padri Gesuiti colà esistente, fra i quali ognuno sa, che vi fiorirono de’soggetti periti di ogni sorta di letteratura; ond’è che, siccome nel collegio che in Capua possedevano, si veggono per anche degli altri marmi contenenti altre antiche iscrizioni raccolte altronde, così alcun dotto Gesuita, amante di antichità, potè far trasferire il suddetto marmo da Ercole in Recale, che poi con l’andar del tempo qualche ignorante Laico, amministratore di quella villa, non conoscendone il pregio, impiegollo nel selciar l’atrio della villa stessa. Secondariamente essere ancor potè un accidente il trasporto di quel marmo da Ercole in Recale; perché dovendosi, quando facea mestiere, trasportare dai monti, prossimi ad Ercole, le selci in Recale per lastricarne pavimenti, non essendovi allora l’uso di tagliarle nel colle, detto di San Jorio presso il Volturno, i conduttori di quelle osservando per ventura il suddetto marmo abbandonato, e negletto in qualche angolo di Ercole, come suole avvenire, nel passare per di là poterono imporlo in qualche loro Carretta, e insieme con altre selci condurlo in Recale. Né poi abbiam bisogno di ricorrere a storcimenti di parole, come pretende il Mazzocchi, per formarne il nome di Recale, qualora evvi il nome di Ercole, che conserva pura, e pretta l’origine d’Ercolano; anzi al pari di questo ne’tempi antichi dovette usarsi per significare lo stesso pago, poiché presso Cicerone, ed altri Scittori di quest’età, i nomi primitivi egualmente che i lor derivativi si ritrovano adoperati a dinotare i medesimi luoghi, come Pompeii, e Pompejanum, che secondo Baudrando significano la Città stessa di Pompej, Trebula, e Trebulanum, Cales, e Calenum; veggasi il Pellegrino nella suddetta sua Campania tom. I. pag. 452. e 455. al che si aggiunga, che negli anni addietro si scovrì da alcuni contadini in un luogo vicino ad Ercole un’ara di enorme grandezza, in cui si leggeva scolpito, Herculi Sacrum la quale per la sua gran mole non potendosi cavar di sotterra, fu di nuovo ricopeta di terra, e restò ivi sepolta.

Oltrechè chi ci assicura che il nome di Recale sia distorto da Ercolaneo, e non sia piuttosto il nome di qualche ricca donna Longobarda, appellata Regale, la quale con qualche sua massa, o coorte, posseduta in quel sito, abbia dato l’origine, e ‘l nome a quel Villaggio? Non è nuovo in queste parti il nome di Regale, divenuto proprio di qualche donna ne’secoli trasandati; poiché nell’archivio del Monistero di donne Monache di S. Maria in Capua n.2. e 3. si conserva un diploma di Giordano II. Principe di Capua, spedito in Ottobre nell’anno 1126, e rapportato dal Rinaldi nel tom.2. delle mem. Ist, d Capua pag.126., in cui Giordano conferma al cennato Monistero il dominio di tutti i beni, ed oltre a ciò gli dona un territorio nel luogo detto Asinu lungo il Volturno, che pria si possedeva da una donna, chiamata appunto Regale, figliuola di Pandolfo de la Patriciu, e vidua di un certo Giovanni, detto Comitis Palatii. E in un altro istrumento che consevasi nello stesso archivio num.136. stipulato nell’anno 1305. si dà l’assenso dal detto Monistero ad un tal Giovanni…. Della villa di S. Tammaro sovra tre pezzi di territorio, situati nella villa di Arditella (oggi forse corrottamente detta Lardichella) fuori Capua per due once d’oro sotto la Badessa D. Regale.

Né poi mancano degli esempj, che dal nome di una donna qualche Villaggio abbia tratta la sua denominazione; poiché Michele Monaco nelle ricognizioni del suo fant. Cap. e propriamente in una annot. Alla Bulla di Sennete Arcivescovo di Capua, spedita nell’anno 1113. in persona di Ranulfo Vescovo di Caserta, dice così: Lefrede, nomen Pagi, vera nuncupatio Aldifreda, quod est mulieris nomen Longobardum.

Non è però qui da tacere, che il medesimo Mazzocchi nelle sue note latine alla Campania felice del Pellegrino, stampate dal Gravier nel fine del secondo tomo, con miglior consiglio si discosta alquanto dalla suddetta sua opinione, e si appiglia a quella, che è da noi già stabilita, cioè che il Pago Ercolaneo era appunto dove è l’Ercole presente, benchè non lasci d’inclinare più a Recale, che ad Ercole: Ei dunque nella pag. 279. così dice: Pagus Erculaneus in marmore, quod a me descriptum servatur, situs erat, credo, ubi nunc Ercole, Capuæ Pagus; Sed potius ubi nunc Recale. Ma ritornando là onde ci siamo dipartiti, conchiudiamo, che Casanova, non vuol dir Villanova, ma è piuttosto l’antico Pago Giovio, detto in latino Pagus Jovus, che trasse il nome dal tempio di Giove Tifatino; onde poi fu appellato Casa-Jove, indi corrottamente Casanova; e fu il compago di Ercolaneo, che è l’Ercole presente, con cui formava società.

Rimane adesso che indaghiam l’origine del nome di Caserta, che prima si pronunziava Casairta, come leggesi nella storia Longobarda del Monaco Erchemperto num. XXIIX., laddove per la prima volta se ne trova fatta menzione. Or questo nome non vuol dire certamente, siccome il volgo crede, Casa in erto luogo collocata; poiché la voce irtus non mai s’incontra in autore antico, o de’tempi di mezzo in significazione di erto, essendo questa assolutamente della volgar lingua, che a tempi de’ Longobardi non erasi per anche formata, ma è qui piuttosto una voce affatto barbarica, che dal Rinaldi nelle sue cennate memorie istoriche di Capua tom. 2. pag. 276. si vuole derivata dal tedesco Hirsch, che presso i medesimi Longobardi, da’quali usavasi quella lingua, dinotava il Cervo. Ed è ben plausibile la di lui opinione, poiché sappiamo da Silio, Italico nel lib. XIII.: Che nel contado Capuano si adorava una candida cerva, qual ministra di Diana Tifatina

                                           Numen erat jam Cerva Loci,
                                       famulam-que DianæCredebant,
                                     ac thura Deum de more da-bantur.

Il perchè probabilmente sul monte di Caserta, il quale insieme con tutta quella Giogaja che piegata in arco, da una parte giugne fino a Maddaloni, e dall’altra fino al monte, oggi detto di S. Nicola, è ancor compreso sotto il nome di Tifata, eravi un qualche Tempio alla Cerva dedicato, che poi i Barbari nel declinar del sesto secolo della Chiesa trovandolo forse peranche in piede al loro ingresso in quella Regione, diedero alla medesima con latina desinenza il nome di Casairta, cioè tempio della Cerva, onde ora con più dolce suono pronunziasi Caserta.

Ma quelche mette fuor di dubbio le fin qui divisate denominazioni, è un esempio tutto proprio, ed assai convincente, che s’incontra in queste medesime contrade, ed è, che all’occidente del monte Tifata nella pianura ad esso sottoposta, che dirittamente rigurda il sito, ov’era il tempio di Diana, sulle cui rovine s’innalzò l’antica Chiesa di S. Angelo in formis, fuvvi un Villaggio, appellato Casacerere, detto corrottamente dal Volgo Casacellora, e Casacellula, il quale poi essendo stato distrutto, lasciò il suo nome a tutta quella spiaggia.

Egli dunque trasse un tal nome da un tempio di Cerere, che ivi dovette essere; poiché attesta il Vecchioni ne’suoi Manoscritti nel lib. XIV. Che in quel luogo furono disotterrate di tempo in tempo colonne, basi, capitelli, cornici di bianco marmo, ed anche statue, ed intagli a rilievo, tra quali ve ne fu uno di scoltura assai gentile, che appunto Cerere rappresentava con spighe in mano, ed un paniere di frutta colla seguente iscrizione a lettere cubitali:

                                      L. MUNNIVS. L. F. FELIX
                                                   VOT. SOL
Il qual marmo fu cavato di sotterra nell’anno 1643. e dal Duca di Mignano fu fatto trasportare in Capua, ma ora non si sa dov’egli sia.
Il medesimo Vecchioni nello stesso libro XIV. Rapporta un altro marmo nella sua villa non lungi dal distrutto tempio di Diana Tifatina presso il Volturno nelle vicinanze di Casacellula, ossia Casacerere, in cui si legge:

                                                  D. M. SAVRELIÆ.
                           TI: F. BLOSIAESACERD. DIANÆ. TIFAT
                                      ET. CVSTODI. SACR. CERER
                   TI. IVLIVS. TI. F. BLOSIVSSORORI. PIENTISSIMÆ
                                       VIX. ANN. XXXVI. D. XVI.

Né è gran tempo, che nei contorni stessi si scavò un altro monco marmo, in cui fassi menzione di una certa Erennia Sacerdotessa di Cerere, trasferito dall’odierno D. Camillo Pellegrino nel suo Casino di Casapullo, dove esiste tuttavia, in cui leggesi così:
                      
                                                     HERENNIA. M
                                                        SACERDOS
                                                      CERERI. SAC
                                                            LOC. D


Ma passiamo al terzo Capo.


                                                          CAPO III
                                    Al Tempio d’Apollo questo Villaggio
                                            Fu ancora contemporaneo.

Credo, se ben m’appongo, che dopo aver provato abbastanza, che qui ne’tempi antichissimi ebbe Apollo un superbo tempio, e che da questo Villaggio fu appellato Casapulo, Casapollo, e Casapullo, e poi corrottamente Casapulla, di leggieri adesso mi si conceda, che insieme con un tal tempio dovette ancora fin da quella rimota età esistere il medesimo Villaggio; poiché se questo avesse avuto i suoi natali ne’secoli barbarici, non molto da noi distanti, non sarebbe stato verisimilmente così denominato; giacchè prima di questi tempi, cioè intorno alla metà del secol quinto dell’Era Cristiana credesi con sodo fondamento, che il tempio d’Apollo fu qui distrutto, siccome appresso si vedrà; e per conseguente da una cosa, che più non esisteva, non potea trarre il suo nome. Il che si rende tanto più manifesto, che non vi ha menoma memoria, o indizio alcuno del di lui cominciamento, come di altri Villaggi si ritrova; per la qualcosa dovendo noi la sua origine ricercare frà le tenebre de’secoli lontani, possiamo ben congetturare, che i suoi principj sieno stati contemporanei, e forse ancora antecedenti alla costruzione di quel tempio, il quale essendo stato con ogni probabilità qui edificato dagli Etrusci-Campani, come di sopra abbiamo già osservato, e più giù viemeglio osserveremo; perciò antichissimi a ragione sono essi da riputarsi.

E che sia così, nota l’Autore della storia profana, tradotta in italiano idioma da Selvaggio Canturani, nel tom. 3. pag. 356. che «I più antichi Tempj erano stati fabbricati in Campagna, in Pagis, ed erano questi i luoghi, ne’quali il culto de’falsi Dei era anticamente stabilito; onde vi si trovò più stabile, e per maggior tempo vi sussistette» Dal che chiaro si rileva, che intorno a questi più antichi tempj esistevano de’ Villaggi, ne’quali i Popoli traevano sparsamente i loro giorni, primachè si fossero uniti a fondare, o olmeno ad accrescere di abitatori le città; come ben leggiamo degli Ateniesi; e come dobbiamo intendere a giudizi del Pellegrino nella sua Campania tom. 2. disc. 4. pag. 188. e 189. ancor de’nostri Etrusci Campani. Or de’primi parlando Livio nel lib. 31. Cap. XXVI. Num. 30. introduce nell’adunanza degli Etolj i Rappresentanti di Atene, che lagnandosi delle crudeltà di Filippo Re di Macedonia, usate contro di loro, e contro de’tempj de’loro Dei, frà la altrecose dicono così: Delubra sibi fuissem quæ quondam pagatim habitantes, in parvis illis Castellis, Vicisque consecrata, ne in unam Urbem quidem contributi, Majores sui deserta reliquerint, cioè quando il Re Teseo da que’Villaggi raccolsegli in Atene. Lo stesso è pur da dirsi degli Etrusci Campani, i quali prima che nell’antichità Capua, così appellata dall’Etrusco Capi loro duce, si adunassero secondo l’avviso del Pellegrino per accrescerne la popolazione, e così darle una più giusta forma di città, viveano a simiglianza di quei di Atene d’intorno a’loro tempj costituiti: al che Diodoro di Sicilia, seguito da Eusebio Cesareense nella sua cronaca, e dall’Autore delle Olimpiadi, allude appunto nel lib. 12. dove dice: τò έθνος Кαμπαυώυ σνυέςη le quai parole, come osserva Gioseffo Scaligero ne’suoi avvertimenti sopra la Cronaca di Eusebio, in latino propriamente s’interpretano così: Gens Campanorum in unum locum convenit, oppure coiit, soggiugnendo egli, che in simil guisa anche lo stesso Eusebio avea parlato di Atene nel num. 789. In unam urbem coiisse ex omnibus Vicis Atticæ, Theseo colonos ducente.

Premesso ora tuttociò, che è fin qui divisato, egli è ben noto, che Diana fu il più antico, e principal Nume degli Etrusci Campani, e che il suo tempio nella pendice del monte Tifata, che volge all’occidente di verno, fu secondo chè si rileva da Silio Italico nel lib. 13., da essi appunto edificato; adunque ancora Apollo, come fratello della medesima Diana, doveva essere un altro loro antico Nume; e per conseguente il di lui tempio in questo luogo gli stessi Etrusci dovettero fondare; ed oltre a ciò, siccome intorno al detto tempio di Diana vi fu un antico Villaggio, che ne’secoli posteriori appellavasi Addiana, qual vien chiamato nelle Tavole Peutingeriane; e ne’tempi più alti Vicus Dianæ si dicea, come si può ricogliere da un’antica iscrizione rapportata dal Pellegrino nella sua Campania, e dal Rinaldi nelle sue memorie istoriche di Capua tom. I. pag. 248. donde forse porzione di quegli Etrusci, che anticamente vi abitavano, concorsero ad accrescere il popolo della Città di Capua, non per anche a giusta forma di città ridotta; così del pari intorno al nostro Tempio d’Apollo esserci dovea un simile Villaggio; che pur dovette contribuire a popolare la stessa Capua, allora quando, come di sopra è detto, Gens Campanorum, a simiglianza degli Ateniesi, in unum locum coiit; e siccome poi i medesimi Ateniesi dopo il loro adunamento in Atene, non lasciarono in abbandono i loro Pagani tempj; così neppure i nostri Etrusci, quando in Capua si raccolsero, dovettero del tutto abbandonare i tempj di Apollo, e di Diana; ma parte di essi più divota di tali numi insieme co’Sacerdoti, ed altri Ministri di questi tempj pur vi dovette rimanere. Indi renduta Capua dopo varie strepitose vicende Colonia de’Romani, tanto è da lungi il dover suspicare, che gli stessi tempj rimasi fossero deserti, che anzi quel di Diana ne divenne assai più celebre, e questo di Apollo dovette ancora vieppiù frequentarsi, e per conseguente anche il Villaggio, che gli era d’intorno; giacchè è d’avviso il Mazzocchi nel suo coment. in mutilum Camp. Amph. Tit. pag. 132. della prima edizione, che la stessa colonia Capua, come nel capo primo si accennò, adottato si avesse Apollo per Presidente, ossia Tutelare. E a questa età parimente sembra in gran parte convenire quel che scrive in quanto al tempio, ed al Villaggio di Diana Tifatina Gio: Pietro Pasquale Giesuita in una lettera pubblicata in Napoli nell’anno 1666. e intitolata: 

                              istoria della prima Chiesa di Capua antica

a pag. 25., e 26. dove leggesi così: Hoc tamen Fanum Dianæ (nunc ibi S. Michæli Archangelo sacrum) extitit adeo celebritate nobile, ut apud id urbem fere alteram rudera testentur. Amphitheatrum scilicet alterum ostentant, circum, thermas,balnea, fontes, aquas salubres, aliasque substructiones, ac moles, in cujus fani area præforibus explicata hinc inde, paucis abbinc annis, invisebantur, quæ ex antiquitate supererant, prægrandes ex pario lapide urnae duæ ad miraculum protensi crateris instar, itidemque pario ex lapide tornatili subnixæ basi. Nunc autem nescio quo sublatæ sint. Si conferma ciò che è detto da un’iscrizione illustrata dal Mazzocchi nel citato suo coment. in mut. Camp. amph. tit. pag. 46. della prima ediz. donde si rileva, che nel detto gran Villaggio, o Città che fosse, spedivasi dalla Colonia Capua un Prefetto a tenervi ragione, appellato perciò:


                                      Præfectus J. D. Montis Dianæ Tif.

Ma per tornare al tempio, ed al Villaggio di Casapullo, è ben da credersi, che viemaggiormente egli si accrebbe di abitatori allochè l’Imperator Costantino il Grande, data la pace alla Chiesa, proibì il pubblico culto de’falsi numi nelle Città, siccome fecero altri Cristiani Imperatori, tollerandolo soltanto ne’borghi, e ne’Villaggi; imperciocchè tutti gl’Idolatri, che abbandonar non vollero il pubblico esercizio della loro falsa religione, uscirono dalle Città, e trasferirono il di loro domicilio ne’Villaggi, che in latino son detti Pagi, per ivi continuarlo; onde poi trassero il nome di Pagani, siccome insegna il dottissimo Baronio nelle annotazioni al martirologio Romano, e propriamente agli atti di S. Metrano, martire in Alessandria sotto il dì 31. di Gennaro, nella nota (a) Ad jussionem Paganorum, ove dopo aver rapportata l’origine del vocabolo Paganus, e le prime sue significazioni venendo a spiegar quella, che il medesimo vocabolo ebbe poi, quando gl’Idolatri indistintamente si appellarono Pagani, scrive così: Opinor quidem a temporibus Christianorum Imperatorum eam vocem in eam transisse significationem, ut Pagani dicerentur Gentiles, ea nimirum ex causa, quod legibus Imperatorum clausis Idolorum delubris, sacrisque vetitis (in Urbibus), Gentiles sic sua ipsorum superstitione exclusi, Pagos adirent, illicque suos Deos colerent, ac clandestina sacra peragerent: in Pagis enim, e villis illorum superstionis cultum fuisse frequentem docet Cicero lib. 2. de legibus; erant enim illic celebria festa Paganalia dicta, FeriæquePaganicæ, quorum omnium meminit Varro lib. 5. de lingua latina. Indi dopo avere addotte varie pruove della sua opinione; conchiude similmente così: Sicque ex his omnibus jure dici posse videtur Paganos Gentiles homines sic a Pago esse dictos, quod exclusi Civitatibus, in Pagis adhuc idola colerent. E ‘l Ducange nel suo Glossario al vocabolo Pagani non altrimenti ne ammaestra con quelle sue parole: Qui rem attentius investigarunt, in hanc ferme sententiam concedunt a Pagis Paganos appellatos Deorum cultores, quod cum Constantini M. e Filiorum edictis proscriptus esset ab urbibus e civitatibus profanus Deorum cultus, eorumque fana passim in iis clauderentur, in Pagos se reciperent, ibique Deos suos colerent, e clandestina sacra peragerent, quæ est Baronii, e aliorum vulgatior sententia, quam fulciunt Glossæ MSS. Isidori e c.: Lo stesso leggesi in una dotta nota al proemio della Traduttrice della Mitologia del Banier nel tomo I. in questi termini: «Benchè noi chiamamo col nome di Pagani gli Antichi, non è però antica, né ideata da loro una tale denominazione: sembra essa più moderna, e data loro da primitivi Fedeli. Il Cardinal Baronio infatti suppone che derivi la voce Pagano a Pagis, perché quando i Cristiani divennero padroni delle Città, gl’idolatri furon’obbligati per l’editto di Costantino, e poi de’suoi figli a ritirarsi a vivere ne’Villaggi, detti Pagi da’Latini» ec. Veggasi altresì la Storia profana da noi sopraccennata tom. 3. pag. 356. Di qui adunque ognun comprende di leggieri, che al par degli altri Gentili, tutti que’Cittadini dell’antica popolatissima Capua, che la duravano ostinati nella loro idolatria, dovettero pure uscire di Città, e trapiantare il loro domicilio ne’Capuani Villaggi, ov’era qualche tempio gentilesco; ed è molto ragionevole il darci a credere, che in numero maggiore si fossero ritirati in Casapullo, sì perché qui era tenuto in culto uno de’falsi numi più antico, e di maggior ordine, qual era Apollo, e quel che è più, Tutelare, secondo l’opinione del Mazzocchi, dell’antica Colonia Capua, come anche perché non essendo questo Villaggio lontano dalla stessa Capua, che un sol miglio, ed anche meno, poteano nel tempo stesso ed esercitare la diloro superstizione, e maneggiare più agevolmente, quando occorreva, i loro negozj in Città. Anzi è ben da avvertire, che i medesimi Idolatri, che uscirono dalle città, non solo accrebbero il numero degli abitatori ne’Villaggi intorno a qualche profano tempio già esistenti, com’era questo di Casapullo; ma benanche, siccome puossi ancor dedurre dagli accennati Autori, e spezialmente da quel luogo del coment. del Mazzocchi alle Tav. d’Eraclea part. I. diatr. 2. not. (21) pag.79. che noi già rapportammo nel principio del Capo II. Antecedente, ne formarono de’nuovi intorno ad altri tempj, ove non erano, da’quali tempj que’Villaggi trassero poi il loro nome. Quindi è che il Pacichelli nel suo Regno di Napoli in prospettiva, part. I. pag. 83. favellando de’tempj gentileschi dell’antica Capua, scrive così: «Dentro, e fuori delle sue mura numerava intorno a mille settecento tempj, e particolarmente quel di Giove, di Marte, della Fortuna, di Diana, e ‘l più famoso di lei Tifatina, raccordato da Pausania: alcuni di essi cangiati ora in Casali, siccome il Pantheon, Capi, Apollo, Ercole, Bellona, Cerere, Camilla, Giano, Espero, Giove.» Essendovene più altri ancora non mentovati dal medesimo Pacichelli.

Or non c’incresca di osservare quali sieno questi Casali, ovvero Paghi, in cui i tempj de’cennati Numi si cambiarono, cioè che sursero d’appresso a sì fatti Tempj, e ne acquistarono ancora il nome; e per procedere con qualche ordine, facciam parola primamente di quei Casali, che si formarono di qua dal fiume Volturno per poi accennar quelli, che sursero di là. Adunque un Tempio di Capy sembra, che dato avesse i natali e ‘l nome al Casale, ossia Villaggio appellato Capitrisi non lntano da Casapullo verso mezzogiorno, che due miglia. Ma quì è di mestieri l’indagare se nel contado Capuano sia stato Capy venerato come Nume, e perciò se abbia avuto de’tempj. Noi ben sappiamo da molti antichi Scrittori, che un Capy abbia fondata l’antica Capua, e le abbia dato anche il suo nome. Virgilio vuole nel lib. 10. dell’Eneade, che questi fu quel Capy Trojano, che co’suoi compagni valorosamente difese contra i Rutoli la nuova Città fondata da Enea nel Lazio; ond’egli così canta:

                             Et Capys, hinc nomen Campanæ ducitur Urbi.

Che poi questo racconto non sia una poetica invenzione, ben si scorge dacchè Sallustio parimente afferma, che de’ Trojani, scampati dall’eccidio della loro Patria, Capy pervenne nella Campania, al quale Celio precisamente la fondazion di Capua attribuisce ; siccome nell’annotazione al detto verso di Virgilio avverte Servio, che così scrive : Cœlius Trojanum Capyn condidisse Capuam tradidit, eumque Aeneæ fuisse sobrinum: Altri Scrittori, come Eutropio nel Cap. III. del lib. I. ed Isidoro nel Cap. I. del lib.15. delle etimologie vogliono, benchè meno verisimilmente, che Capy Silvio Re d’Alba sia stato il fondatore di Capua, e che dal nome di lui venga denominata. Ma il Pellegrino nella sua Campania tom. 2. discor. IV. dopo aver rapportate le già accennate, ed altre oppinioni, e dimostratane la dubbiezza, e l’inverisimilitudine, dice, che sia più vicina al vero l’oppinione di quegli storici, che attribuendo agli Etrusci la fundazione di Capua, vogliono che questa dal loro duce appellato Capy, come già di sopra accennammo, abbia tratto il suo nome.

Posto ciò, veggiamo un poco, per venire al nostro intendimento, se questo Etrusco Capy abbia potuto esser quel nume, che da noi si cerca in queste contrade per farne derivare il nome di Capitrisi. Il Mazzocchi nella dissert. de Tyrrhenorum origine, rapportata nel tom. 2. degli opusc. e propriamente nella diatriba V. §. II. deducendo anch’egli il nome Capua da Capy Etrusco, scrive, che Capys così detto dall’ebraico ףב cap, che significa curvità, dinoti in lingua etrusca tanto il falcone per gli adunchi artigli che ha, quanto un uomo, che ha le dita de’piedi ricurve, come quelle del falcone, e che perciò all’etrusco capy, risponda il latino Voltur, ossia Vultur, colla qual voce ne’secoli più antichi della latina lingua esprimevasi il fulcone, e che da Voltur, ossia Vultur derivi poi Volturnus, e poi Vulturnus. Lo stesso presso a poco insegna il Pellegrino nel sovraccennato luogo della sua Campania, pag. 190. laddove così scrive: «Volturno, che dicesi dal volgere; dinota assai manifestamente quella tortezza, e curvatura significata nella lingua etrusca, e nella greca dal nome Capys».
Or premessa questa osservazione, noi troviamo, che nel contado capuano nelle rimote età si venerava il Dio Volturno, come rilevasi dal seguente marmo, rinvenuto non lungi dal sito, ove fu il tempio di Diana Tifatina, e rapportato ne’suoi MM. SS. Dal Vecchioni, tom. 14. fol.97

                                                    VOLTURNO
                                                       SANCTO
                                                          S A C
                                                   L. VETTIVS. L. F
                                                  C N. NOVIVS. Q. F
                                                     L. OPPIVS. L. F
                                                  M. MAEVIUS. M. F
                                                C. CAESELLIVS. C. F
                                                     A.PLOTIVS. A. F
                                                  DE. SVO. FACIVND
                                                              COER

Chi sa dunque, se questo stesso Nume non sia stato più anticamente adorato in queste parti sotto l’Etrusco, e greco nome Capy, ovvero Capie, come da Livio, e da Servio si pronunzia, e che non abbia avuto un qualche tempio nel luogo, ove di presente è Capitrisi? Poiché  egli è ben risaputo, che i Romani spesse fiate ai nomi Etruschi, e Greci surrogavano nomi latini a quelli rispondenti, come si può vedere presso il Mazzocchi nelle sue Tirreniche Diatribe, e presso il Pellegrino nella sua Campania, tom.I. pag. 164.Né dee punto imbarazzarci, che all’Etrusco Capy risponde in latino il nome primitivo Voltur, non già il suo derivativo Volturnus;  imperciocche i derivativi sogliono spesso negli antichi monumenti confondersi e scambiarsi co’loro primitivi; siccome abbiamo già osservato in altra occasione, e come avverte il medesimo Mazzocchi nel tom. I. del suo Kal. della Chiesa Napol. Pag.14. e 15. laddove più esempj ne rapporta, di cui per altro non ne abbisognamo, essendo noi appunto nel caso di questo scambiamento; giacchè quegli, che dagli altri Scrittori si appella Capys, da Livio, e da Servio, come testè accennammo, vien chiamato Capye, cioè Capua, che è il nome derivato da Capy, al quale propriamente risponde Volturnus, e non Voltur. Né qui pur voglio, che alcun si stanchi ad avvertirmi, che i nostri Capuani Scrittori rechino la suddetta iscrizione in rapporto al culto del fiume Volturno, che a simiglianza di altri fiumi dagli Antichi qual Deità si venerava; perché io lo so; ma so benanche, che in Roma si adorava il Dio Volturno, che ivi aveva le sue feste Volturnali, e ‘l Flamine Volturnale; e che Vatrone nel lib. 6. de ling. Latina scrive, che colà ignoravasi l’origine di questo Nume. Or non avrebbe così scritto Varrone, a cui per altro era ben noto il nostro fiume Volturno, e ’l culto, che volevasi dare a’fiumi, se quelle feste, e quel Flaminio avessero avuto piuttosto rapporto a questo fiume, che a qualche altra antica Deità Etrusco-Campana, di qui a Roma in tempi a Varrone ignoti trapassata, dalla quale il fiume istesso dovette poi acquistare il nome di Volturno. Comunque però la cosa vada, ed ancorchè si prescinda dalla recata iscrizione, egli sembra fuor di dubbio, che Capy fondatore dell’antica Capua, abbia potuto ottenere onori Divini, se si riflette all’antichissimo costume degl’Idolatri di deificare i primi Fondatori delle loro Città, del qual costume moltissimi esempj ne somministrano gli Egizj, i Greci, i Romani, ed i Tirreni stessi, o sieno Etrusci, che dalle parti settentrionali dell’Italia vennero ad occupare queste nostre Regioni.

Se dunque egli è così, la parola Capitrisi può ben essere originata dal nome Capy, e dal greco verbo Tριάσσω, che significa vinco, supero, quasi dir voglia: Capy victori sacrum: oppure da quell’altro verbo Ρύςάζω, cioè trabo, vel trabendo rapto, il che esprime assai bene il feroce costume di que’primi Conquistatori, che con  altro nome appellavansi Venatores, Latrones[10]. Oppure può esser detto Capitrisi da Capy, e dal nome pur greco Ρϋσιου, dinota presso Dionigi De situ orb. un dono, che si fa agli Dei per la salute restituita, o conservata; quasichè voglia significare, che il tempio a Capy consecrato, fosse stato un tempio votivo; o finalmente da Capy, e dal greco έίσω futuro  inusitato del verbo έίδω, da cui si forma l’σαώ ίσώ, e quindi poi ϊσημι, che vuol dire scio; onde l’σμευίος si chiamava Apollo, eo quod omnia sciret, la quale interpretazione, piucchè ogn’altra, può star bene a Capy Etrusco; giacchè credeasi dagli antichi Gentili, che fosse propria degli Etrusci l’arte d’indovinare, siccome avverte il Pellegrino nel suddetto luogo, pag. 180. anzi Svetonio nel Cap. 81. del lib. I. attribuisce a Capy sulla testimonianza di Cornelio Balbo un famoso vaticinio della morte di Giulio Cesare, avendo lasciato scritto, che nell’anno di Roma 709. quei della Colonia Giulia dedotta in Capua, mentre andavano diroccando antichi monumenti per avidità spezialmente di trovarvi de’vasi antichi rinvennero in un sepolcro, in cui dicevasi che Capy fondator di Capua era sepolto, una tavola di bronzo, nella quale a caratteri greci si leggeva così: Quandoque ossa Capys detecta essens, fore, ut Julo prognatus manu consanguineorum necaretur; magnisque mox Italiæ cladibus vindicaretur. Che se poi mi si domanda, perché quell’indovino Capuano Fondatore usò nel suo vaticinio piuttosto la lingua greca, che la sua Etrusca, io risponderò col Pellegrino, che non mancano qui fra noi degli esempj di antichissime iscrizioni in lingua greca, essendo certo, che in queste parti, e nel Lazio, ed in Roma anche in tempi rimotissimi quella lingua fu molto in uso; Anzi si vuole dagli antichi Storici, che Evandro Re degli Arcadi essendo stato discacciato dal Peloponneso, e venuto in Italia con pochi suoi seguaci, fu cortesemente accolto nel Lazio da Fauno Re degli Aborigeni, che vi dominava, ed a cui poi succedette, avendosi conciliata la stima, e la venerazione di quelle rozze Genti per averle insegnata l’arte di scrivere, e l’uso delle lettere greche, che furono appunto i primi caratteri, di cui gli antichissimi Latini si servirono: lascio intanto a’Savj il dar giudizio del suddetto vaticinio, cioè se da un uomo, qual era Capy, di superstiziosa religione, avesse Iddio permesso, che si facesse, oppure, come sembra più verisimile, fosse stata un’impostura di Cornelio Balbo; la qual però, anziché pregiudicare alla suddetta nostra interpretazione, verrebbe a confermarla; perché quindi si scorgesse, che credendosi in que’tempi superstiziosi esser propria degli Etrusci l’arte di far predizioni, il cennato Balbo per accreditare il falso vaticinio da sè inventato, l’avesse attribuito a quell’antico Etrusco.

Le fin qui esposte congetture intorno al nome di Capitrisi par, che possano bastare ad indursi a credere, che un tal Villaggio abbia avuto i natali, e l’nome da un qualche tempio di Capy in quel luogo edificato, se non che non è da trasandare l’oppinione del chiarissimo Marco Mondo, il quale per contrario dava al medesimo Villaggio un cominciamento assai recente, deducendone il nome da un altro fonte a noi vicino; poiché egli soleva dire, che Capitrisi sia così detto, quasi Caput Risonis; adunque al parer del Mondo è di mestiere per rintracciarne l’origine discendere a secoli barbarici, e supporre, che un tal Rifone, o Rifo abbia posseduto in quel luogo un qualche fondo, i di cui coloni moltiplicatisi poco a poco sul medesimo, abbian dato principio a quella società; giacchè è ben noto, che presso i barbarici Scrittori la parola Caput vale lo stesso, che Modus agri, modus possessionum; onde il Ducange sotto la stessa voce scrive così: «Caput modus possessionum, quibus collatio imminebat, jugum etiam dictum, quæ appellationes passim occurrunt in Cod. Theod. Iustin. Unde capitatio, e jugatio, quæ a possessionibus, e capitibus præstabantur». Indi rapportando la descrizione de’beni del Signor de Eska, tratta dall’archivio di S. Audomaro, così conchiude: Ubi si beno intelligo, Caput Modus agri est, in que seminantur tres raseriæ frumenti. E quindi è da avvertire, che quando i Feudisti dicono, che il tal fondo sia in capite Curiæ, non intendono dir altro, se non che sia tra fondi Fiscali. In quanto poi al nome Riso, o Risone non è egli un nome inudito in questa nostra Campania; poiché nella serie de’Vescovi di Sessa rapportata dal Masi nelle memorie istoriche di Aurunca, e Sessa, pag. 129 e dal Granata nel ragguaglio istorico della stessa Città in fine del tom. 2. della Storia Sacra di Capua pag. 214. si legge, che nell’anno 1160. fu Vescovo di Sessa un tal Risone. E nella Cronaca dell’Ignoto Barese, ossia di Lupo Protospapa leggesi benanche, che un tal altro Riso nell’anno 1112. fu fatto Arcivescovo di Bari. Ma troppo ci siamo trattenuti intorno alla doppia origine di Capitrisi, il perché scelga il Lettore qual delle due assegnargli più gli piaccia; mentre noi passiamo volentieri a far parola degli altri Villaggi Capuani, originati da altri Tempj gentileschi.

Non lungi da Capitrisi, che due tiri d’archibuso verso mezzogiorno, si ritrova il vasto Villaggio di Marcianisi, detto in latino Martianisium, e Martanisium. Alcuni Eruditi presso il Granata nel tom. I. della storia civile di Capua, pag. 21. si danno a credere, che Marcianisi sia così detto da un certo Marciano, cittadino Romano, il quale dopo la deduzione delle Romane Colonie nell’antica Capua, essendo forse divenuto Padron del fondo, su cui quello si vede edificato, i di lui agricoltori appellati Marcianenses, e poscia Marcianesi dato avessero il cominciamento, e l’nome al medesimo Villaggio. Sembra favorire questa oppinione Michele Monaco nel suo Santuario Capuano a pag. 592. nell’annot. 5. alla Bolla di Sennete Arcivescovo di Capua da noi nel Cap. II. mentovata, laddove scrive: Quando supra in hac Bulla dicitur ECCLESIAM SANCTI ANGELI IN LOCO MANCUSI, non bene aliqua exempla habent IN LOCO MARTANISII: imo tanto minus bene habent, cum nomen Martanisii sit recentissime introductum, e in antiquis nonnisi Marcianisi, e Marcianesi legatur. Ma, ciò non ostante, egli è più ragionevole l’opinare, che un tal Villaggio acquistato avesse l’origine, ed il nome da un qualche tempio di Marte in quel luogo edificato; poiché ivi si son veduti finora, come attesta il Granata istesso, molti pezzi di finissimo marmo, grossi cilindri di granito, e di Affricano, selci di enorme grandezza lavorate ad uso di tempio, più colonne di giallo, e di verde antico, ed altri simili monumenti; ed usa il medesimo Villaggio un antichissimo stemma, che rappresenta un Castello, e un guerriero, che gli è d’appresso, vestito d’elmo, di corazza, e di spada, che Marte appunto simboleggia. Nè poi punto debilita questa oppinione quel che dice il suddetto Monaco nel passo poco anzi addotto, poiché scambiandosi a vicenda, come ognun sa, le lettere consonanti C. e T. come Precium e Pretium, Leucius, e Leutius, dalla parola Marte può ben derivare tanto Martianisium, e Martanisium, quanto Marcianenses, Marcianesi, e Marcianisi; e di fatto lo stesso Monaco nel citato Santuario, a pag. 570. in un antico Calendario da lui prodotto nota così: S. MARCIUS. Ecclesia in monte Marsico (dovea dir Massico) seu dixerimus in Rocca Montis Draconis: MARTIUS videtur dici in supra relato privilegio Alexandri Papæ: in est Marcius solitarius, de quo S. Greg. Dial. Lib. 3. Cap. XVI. e Martyrologium Romanum 24. Ottobris. A Calenensibus dicitur MARTINUS, ut etiam legitur alias in Codicibus S. Gregorii; ergo MARCIUS est, de quo sub nomine S. MARTINI agitur in vita S. Bernardi Episc. Calenensis. Adunque per rirornare al nostro intento, forse parte di quegl’idolatri, che per l’editto dell’Imperator Costantino, e de’suoi figli, come di sopra è divisato, uscirono dalla Città di Capua per non lasciare l’esercizio, ivi interdetto, della loro superstizione, e che vennero per ventura a stabilirsi d’ntorno al tempio di Marte, di cui parliamo, poterono ben essere appellati da principio Martiani, e Marciani; indi ridotte le di loro abitazioni in forma di Villaggio, questo dal numero de’più potè chiamarsi in numero singolare Martianum, e Marcianum; a cui doveasi sottintendere Castrum, oppidum; e poscia coll’andar del tempo volendosene additare gli abitanti stessi, furono essi denominati coll’altro più lungo derivativo Martianenses, e Marcianenses, e finalmente in Italiano Martianesi, e Marcianisi, giacchè, come ben osserva il Mazzocchi dietro al suo coment. alle tav. d’Eracl. Nella pag. 599. Non ignota est in Italia locis ex derivativo breviore productior altera derivatio. Ma lasciamo un tal Villaggio, e rivolgiamo i passi indietro.

Dalla parte sinistra di Marcianisi tornando verso Casapullo, dopo il tratto di un mezzo miglio, o là intorno, incontriamo l’antico Villaggio di Musicile, un tempo molto popolato; ma di presente per la peste del 1656. ridotto a poche case. Questo Villaggio probabilmente acquistò il nome, e per conseguente ancor l’origine da un tempio delle Muse; poiché in latino è detto Musicilium, che val lo stesso, che Musicolium, a Musis colendis, non altrimenti, che Domicilium vogliono i Grammatici, che sia detto quasi Domicolium ab incolenda domo; sicchè è ben da credere, che ivi avessero le Muse avuto un qualche tempio non lontano da quel di Apollo, che era qui, se non un miglio, e mezzo, o anche meno. Ebbero le Muse un altro tempio nella Città di Taranto, appellato Musco, dove i Tarantini solevano adunarsi a festeggiare queste Deità con musica, e con banchetti, come scrive il Grimaldi ne’suoi Annali del Regno di Napoli, epoca I. tom. 5. pag.62. not. (a).

Ma passiamo avanti.

All’oriente di Casapullo in distanza di due terzi di Miglio, o poco più, ci si presenta il Villaggio di Casanova, il qual, secondo l’attestazione del Pratilli, nelle membrane dell’undecimo, e duodecimo secolo vien chiamato Casa-jove, originato probabilmente dal Pago Giovio, che in latino è detto Pagus Jovus, e che dal tempio di Giove Tifatino treva il nome, di cui già nel Capo II. bastantemente ragionammo; loddove si parlò anche del Pago Ercolaneo, oggi Ercole, che pur era in quelle vicinanze, ma più su verso l’oriente. Nello stesso secondo Capo facemmo eziandio parola di Caserta, situata nella medesima direzione sovra uno di que’monti, che susseguono, dopo il cammino di due miglia, detta ne’secoli Longobardici Casairta, forse così denominata da un qualche antico tempio della Cerva, che qual ministra di Diana Tifatina, al dir di Silio Italico si venerava in queste parti, giacchè il Cervo in lingua Tedesca, e Longobarda si appellava Hirsch, e con latina desinenza, hirtus, d’intorno al quale tempio, se lassù fu mai, surse l’antica Popolazione, che sotto lo stesso nome, di Casairta si vedea già nel nono secolo costituita in forma di Città, allorchè per le domestiche discordie, che bollivano fra i nostri Conti di Capua Zii, e Nipoti, come leggiamo nella storia di Erchemperto al num. 28. Landulfo fratel di Landone s’impadronì di essa Casairta, ma sopravvegnendo Pandone di lui Zio, il fece prigioniere insieme con quaranta Primati del Luogo, cioè coll’intiero ordine de’nobili, che, come attesta il Pellegrino in un discorso sul nome Porta, ed altri, erano allora al numero di quaranta, e lo sono sempre stati ne’secoli posteriori fino all’anno 1738. Ma non ci dilunghiamo dal nostro intendimento.

Dall’antica Casairta costeggiando con cammin retrogrado quella giogaja fino al monte, oggi detto di San Nicola, che dalla parte di occidente sollevandosi a guisa di piramide, le dà principio, e che alle volte dagli Scrittori vien additato in singolare col nome di Tifata del numero de’più, trovasi nella di lui pendice occidentale il sito, ove fu il tempio di Diana, come di sopra abbiamo divisato, e l’antico Villaggio, che eragli d’appresso; indi calando giù nella pianura sottoposta, s’incontra il luogo, ove sorgeva un altro tempio a Cerere dedicato, d’intorno a cui si formò il Villaggio, appellato Casacerere, e poi corrottamente Casacellula, che esisteva tuttavia nel decimo quarto secolo, ritrovandosi la di lui Chiesa Parrocchiale sotto il titolo di S. Maria, mentovata nell’antica Tassa delle decime Papali nell’anno 1375. in questi termini: R. E. Sanctæ Mariæ de Villa Casacellulæ in tareno uno, granis decem: ma che poi o dalle pestilenze, o da altra fatal cagione fu distrutto, siccome avvenne a tanti altri villaggi Capuani. Quindi proseguendo il cammino verso la nuova Capua, e passandole pel disotto, e sempre più inoltrando il passo verso l’occidente, lungo la sinistra riva del Volturno, entriamo nel vasto Campo, appellato il Mazzone delle Rose; laddove è situato il Villaggio di Grazzanisi, che in latino è detto Gratianisium.

Or che questo Villaggio abbia acquistato i natali, e l’nome da un qualche tempio delle Grazie, cel persuade spezialmente la natura del Luogo, tutta propria per la situazione di un tal tempio; giacchè quel campo è stato sempre, ed è ancora oggi fecondissimo di Rose, che sono di assai grato, benchè tenue, e delicato odore; e perciò con francese vocabolo ne’bassi tempi fu chiamato la Maison, cioè Maggione, o stanza delle Rose, come insegna il Pontano nella storia della Guerra Napoletana nel principio del lib. 5. laddove scrive: Campani nunc agri pars gallica appellatione Mansio Rosarum dicitur; dalla qual voce Maison, ossia Magione delle Rose derivò poi il corrotto nome di Mazzone: e sebbene Michel Monaco nella III. Parte del suo Santuario Capuano rifiuti questa etimologia, volendo piuttosto, che Mazzone sia lo stesso che Massone, cioè Massa grande,  e che perciò derivi da Massa, non da Magione, non di meno il più volte lodato Pellegrino nella sua Campania tom. 2. pag. 23 confuta assai bene la di lui oppinione, riconfermando la prima con soggiugnere così: «Fu, ed è tuttavia chiamato Mazzone delle Rose il Campo, di cui s’è parlato, non quasi gran Massa, che sarebbe stato a dir lo stesso, che un gran Casale di Contadini di condizion servile; ma quasi una Magione, ovvero stanza di quei fiori, che così prontamente egli produce. Non è però qui da tacere, che il Mazzocchi nel sovraccitato suo commentario alle tavole d’Eraclea, e propriamente nel Collettanèo I. Cap. VII. Pag. 510. si mostri anch’esso non molto pago della suddetta Etimologia del Pellegrino, volendo, che Mazzone derivi anzi, che nò, da Mansus, che ne’bassi tempi dinotava modus agri, donde sia stato fatto il vocabolo Mansonis, e di qui poi Mazzone in Italiano. Egli dunque parlando degli abbondanti roseti di Pesto nella Lucania, scrive così: Nec de tanto rosæ proventu mirir; nam ager Pæstanus, Strabone teste, palustris erat, eoque ferendæ rosæ aptissimus. Sicuti e prope Capuam Stellatinus ager, auctore Cam: Peregrinio, in eo palustri tractus fuit, ubi nunc dicitur il Mazzon delle Rose: quasi si meo judicio MANSUM ROSÆ appellaveris: E poi soggiugne nella nota (26) MANSUS ævo sequiore certum agri modum notabat. Ab eo factum videtur MANSONIS vocabulum (quasi dicas MANSORUM congeriem) quod postea in Italicum MAZZONE abiit. Duplex non longe a Neapoli immensa planities MAZZONIS (olim forte MANSONIS) nomen gerit, nimirum Li Mazzoni di Capua, li Mazzoni di Eboli. In his alteris est Pæstanus ager. Cam: Peregrinius aliam nominis originationem secutus fuit, cui parum adquiesco. Ma o che, il termine Mazzone derivi da Mansus, e Mansonis, come vuole il Mazzocchi, o che piuttosto derivi dal Francese Maison, ossia Magione, come vuole il Pontano, e ‘l Pellegrino, poco importa al nostro intento; poiché ci basta solo, che tanto il Mazzone d’Eboli, che il Mazzone di Capua sieno stati ne’tempi antichi feracissimi di rose, e lo sieno tuttavia, e che l’uno, e l’altro una perpetua primavera conservassero pe’loro erbosi pascoli sempre verdi, per poter noi in quest’ultimo situare con tutta proprietà un tempio antico delle Grazie, che dal nome di Gratianisium chiaramente ci si addita. E chi sa, che il campo stellate, o tutto, o buona parte in questo medesimo Mazzone contenuto, e che deriva dal nome Stella, che secondo le parole di Festo, signigicare ait Atheius Capito prosperum, e lætum, non sia stato dagli Antichi riputato Sacro, come il volle Svetonio, allorchè del procedere arbitrario di Cesare favellando, scrisse nel Cap. XX. Del lib. I., che Campum Stellatem Majoribus CONSECRATUM, agrumque Campanum ad subsidia Reipublicæ vectigalem relictum divisis extra sortem ec., chi sa, dico, che non sia stato dagli Antichi creduto Sacro non per altro motivo, che per questo appunto, cioè perché quivi era un qualche tempio delle Grazie, le quali all’erbe liete, e alle suavi rose, e ad altri fiori in esso di per se nascenti presiedevano; e che perciò stimata fosse un’empietà il distruggerle coll’aratro? Al che si aggiunga per maggior pruova di quanto è detto, che nell’anno 1649 si rinvenne nello stesso Campo Stellate non lontano dal sito, ove fu forse il tempio delle Grazie, una iscrizione, scolpita a grandi lettere in un’ara rotonda a modo di collinetta, la qual mostrava, che colà dovette essere un altro tempio dalla Colonia Giulia innalzato a Venere Genitrice, vicino a quello delle Grazie, che ivi per ventura già esisteva, ed è appunto la seguente:

                                               VENERI. GENITRICI
                                         ET GENIO. AVGVSTI. CAES
                                                          S A C R
                                    COLONIA. IVLIA. FEL. AVGVST
                                                PACE. COMPOSITA
                                                       DEDICAVIT
                                  IV. KAL. NOVEMBR. Q. FVSIO. ET
                                              P. VATINIO. COSS

Questa iscrizione dunque rende viepiù probabile l’antica esistenza di un tempio delle Grazie ne’contorni di Grazzanisi, da cui ritrar dovette i natali, e ‘l nome il medesimo Villaggio; giacchè è ben risaputo dagli Eruditi, che le Grazie furono da’Gentili compagne di Venere, e ministre riputate, e che perciò i Poeti, ed i Pittori sogliono insieme con Venere dipignerle; alla qual Dea erano ancor le rose egualmente, che il mirto consecrate:onde le stesse Grazie di lei ministre trovansi talor dipinte una con una rosa in mano, l’altra con un ramoscel di mirto, e la terza con un dado. Delle suddetta iscrizione dà contezza Michele Monaco in una lettera, che scrisse al suo caro amico Camillo Pellegrino, che allora stava in Napoli, rapportata dal Pratilli nella sua Via Appia a pag. 250. e 251. e dal Rinaldi nel primo tomo delle sue memorie istoriche di Capua lib. 4. Cap. VII. Pag. 251.

Ma valichiamo il Volturno per osservare al di là da esso gli altri Villaggi Capuani, che formaronsi d’appresso ad altri tempj gentileschi. Il primo Villaggio adunque che ci si presenta al di là del detto fiume, se lo trapassiamo nel luogo, ove si dice Ponte rotto, ovver la Scafa di Triflisco, a settentrione del monte Tifata ossia di San Nicola, è il Villaggio di Bellona, che surse in picciola distanza da un tempietto della Dea Bellona, donde acquistò l’origine, ed il nome: un avanzo del qual tempietto, ricoperto ora di terra, si ritrova pochi passi lontano dal cominciamento del monte Rogeto, detto volgarmente di Gerusalemme. Di questo avanzo, io per sapere di che materia composto fosse, avendone richiesta contezza dall’eruditissimo Canonico della nostra Cattedrale Stefano Gaeta, che per buona sorte lo avea veduto, egli gentilmente in una sua brieve lettera me ne fece una quanto succinta, altrettanto dotta ed elegante descrizione, da me già rapportata nella mia Lettera stampata in Napoli nell’anno 1793. sopra il Saggio Istorico della Città di Calvi, e di Sparanisi dell’ Ab. Mattia Zona, la qual lettera del Gaeta io qui reco di nuovo per illustrare queste carte, ed è quella, che segue: «Sono più di quarant’anni, che osservai il picciolo avanzo del tempietto della Dea Bellona in distanza di un terzo di miglio dal Villaggio, che ha preso il nome  dalla stessa falsa Divinità, e pochi passi lungi dal cominciamento del monte Rogeto, vulgo di Gerusalemme. Questo avanzo consisteva in un principio di muro di forma rotonda, il cui diametro, se la immaginazione non mi tradisce, non adeguava due canne e mezza: e lo stesso muro, che sorgeva meno di due palmi, era di tufo. Il che non dea far maraviglia; perché il Criptoportico, vicino a S. Angelo in formis, è tutto di questa materia. E così il picciol tempio, di cui vi parlo, era del numero di quelli, dove stava soltanto la statua della Divinità, e che avevano fuori l’altare, e dove il Popolo non poteva entrare; ma si fermava intorno al mentovato altare per assistere al sacrificio. Io dieci anni fa, ritrovandomi di nuovo in Bellona, andai per riconoscere il tanto quanto descritto muro: ma con mio disgusto lo trovai coverto di più palmi di terra seminata: Più di questo non posso scrivere a V. S. Illustrissima, di cui colla solita vera stima mi rassegno qual sempre sono stato:» ma camminiamo avanti.

A maestro di Bellona in distanza di tre quarti di miglio, o là intorno, evvi il Villaggio di Vitulaccio, che vuol Prospero Cappella nel tometto II. delle sue odi, lib. IV. od. V. pag.81.che abbia tratto il nome da un tempio di Giove, ivi adorato in sembianze di Vitello, sotto la quale si nascose, come favoleggiano i Poeti, allor che rapì la donzella Europa, figlia di Agenore, Re di Tiro, e di Sidone. Ma è ben più verisimile, che Vitulaccio abbia acquistato il nome e i natali da un qualche tempio della Dea Vitula, ossia Vittoria, che la Colonia Capua forse a ragion veduta edificolle in quel luogo, che non era molto lungi dal tempietto della Dea Bellona; poiché presiedendo questa alle guerre, e alle imprese militari, dovea esser creduta madre della Vittoria, che si appellava ancora Vitula per l’allegrezza, che produce; come avverte Macrobio lel lib. 3. de’Saturnali, al Cap. II. dove scrive: Piso ait Vitulam Victoriam nominari, eujus rei hoc argumentum profert, quod postridie nonas Iulias re bene gesta, cum pridie Populus a Thuscis in fugam versus sit, unde Populifugia vocantur, post Victoriam certis sacrificiis fiat Vitulatio, cioè una pubblica e solenne festa, che fu poi personificata da’Romani, e adorata qual Dea sotto il nome di Vitula, così detta dal verbo Vitulari, che vuol dir gioire giubilare, siccome attesta Illo de Diis, alla quale, divenuta una stessa divinità colla Dea Vittoria, si offerivano, come a questa, non già vittime sanguinose, ma bensì frutta della terra. Poco lungi da Vitulaccio verso Occidente seguono due apriche colline, appiè di una delle quali vedesi il Villaggio di Tutuni, che fu forse originato da un qualche tempio al Dio Tutuno, il quale al dir di Arnobio nel lib. 4. era lo stesso, che Priapo, detto così quasi hortorum Tutor. Indi fra le cennate due colline in picciolissima distanza dall’una, e dall’altra osservasi nel piano il Villaggio di Camigliano. Or il Mazzocchi nella sua dissert. istor. Cathedr. Eccl. Neap. Semper unicæ, pag. 211. pretende, che quel Villaggio abbia tratto il nome da qualche villa di alcun Camillo, presso alla quale formato si fosse ne’tempi antichi, appellato perciò in latino: Vicus Camillianus; ond'egli così scrive: Vicus Camillianus nunc quoque in agro Capuano satis amplus est, qui vulgo CAMIGLIANO vocatur: cui ab alicujus certe Camilli villa nomen quæsitum fuit. Il Pacichelli per contrario nel suddetto passo del suo Regno di Napoli in Prospettiva, e Prospero Cappella nella sovraccitata Ode vogliono, che Camigliano fosse stato così denominato da un qualche tempio di Camilla regina de’Volsci, e celebre guerriera, che secondo Virgilio soccorse Turno nella guerra contro di Enea, e de’Latini, in cui perì. Ma io non so, se una tal guerriera abbia qui ottenuti onori Divini, e per conseguente se vi abbia avuti de’tempj: Quel che è certo, si è, che nella vecchia Capua, ossia in Santamarìa maggiore[11] in un sotterraneo del palazzo della Famiglia Napoli si rinvenne negli anni addietro un alta antica statua di Camilla, che poi fu trasportata in Caserta per servire d’ornamento al Real Palazzo. Ma non ostanti le suddette oppinioni, egli sembra più verisimile, che Camigliano abbia acquistato il nome ed i natali da un qualche tempio del Dio Camillo, ossia Mercurio, deità degli antichi Etrusci; come insegna il Mazzocchi stesso nelle sue Tirreniche Diatribe, rapportate nel tom. 2. de’suoi Opusc. pag. 232. laddove leggesi così: Camillus apud Etruscos Mercurii nomen est; id quod ex orientis linguis manasse, ostendit Bochartus, idque optime idem interpretatur pag. 395. scq. Quem omnino videas, censeo.

E qui è ben a proposito il far parola d’un idoletto di bronzo molto raro, rinvenuto parecchi anni fa, in queste contrade; il quale venne interpretato per un Camillo degli Etrusci Campani dall’erudito, e diligentissimo antiquario nostro Concittadino, Giuseppe di Cristofano, da cui si conserva nel suo celebre Museo, donde poi fu trsferito nel Museo Reale. Nell’anno dunque 1753. un Contadino ritrovò in uno scavo, oltre ad un vetro di antica pasta torchina con egizia impressione, una curiosa figura di bronzo, la quale rappresentava un giovane vestito d’una fina e sottil veste a mo’ di tunica, strettamente affibiata alla vita, la qual veste cominciava dal collo, e terminava al di sopra del ginocchio, e vestiva il braccio fino al gomito; dagli omeri gli pendeano due grandi ali, e distese; da talloni gli sorgevano due altre piccole ali, i piedi eran calzati fino a mezza gamba d’un sottile stivaletto; avea le braccia sollevate colle mani aperte, che formavano un rilievo attaccato alle grandi ali degli omeri; e stava in atteggiamento di piegare un ginocchio; la testa era ricoperta di corti capelli, dalla cui sommità, e dall’una, e l’altra tempia sorgevano tre pezzetti dello stesso metallo, ond’era composta la figura, ma quel di mezzo era più grandicello, e appena nati, andavano a terminare colla medesima grossezza nella punta, che aveano nella base, (ornamento, per quel ch’io sappia, non ancora osservato in altre figure, né letto presso alcuno Scrittore); di dietro al collo sin sotto alle spatole gli pendea un lungo collare non molto differente da un corto ammitto de’nostri Sacerdoti; gli ornamenti erano minutamente tirati, ma il lavoro non era degli eccellenti; il peso era di once quattro, e la figura mostrava aver dipendenza dalle antiche figure Egizie. Egli dunque il Cristofano opinò, che i Fenici progenitori de’nostri Etrusci nel gran commercio, che esercitavano per ogni parte, avessero dall’Egitto qua recato il culto di Mercurio, ossia Camillo, e che nel rappresentarlo fatte vi avessero delle picciole mutazioni secondo il loro diverso genio; come avvenir solea a tutte le false Deità, che da Genti diverse si adottavano: sicchè essi quelle ali, che le immagini di Mercurio altrove aveano nel galero, gliele avessero agli omeri adattate; e perché a Mercurio frà gli altri ufficj, che gli si attribuivano, era quello di Messaggiere degli Dei, perciò i medesimi Fenicj, ovvero i nostri Etrusci lo avessero figurato colle braccia sollevata, e in atto di piegare un ginocchio per fare ossequio a colui, a cui recava un’imbasciata. Ma ritornando là, onde ci siamo dipartiti, conchiudiamo, che da qualche tempio di Camillo dagli Etrusci Campani edificato potè trarre anzi, che nò, l’origine ed il nome il Villaggio di Camigliano.

Fra ‘l Settentrione, e l’occidente di Camigliano sulla pendice di uno di quei monti, detti Callicola, che formano quasi un semicerchio alle spalle de’Villaggi, di cui parliamo, sta situato il Villaggio di Giano. Questo Villaggio ebbe il nome ed i natali da un tempio del Dio Giano, del qual tempio vi resta ancora un sol muro in piedi, e parecchi rottami, che gli giacciono d’appresso; ed era di forma quadrata, e composto di mattoni, e di altri materiali. Sì fatti avanzi si osservano sulla stessa pendice del suddetto monte al fianco occidentale del medesimo Villaggio, ma alquanto più in su, ed in distanza di tre quarti di miglio, o là intorno, da quello. In un tal tempio si rinvenne ne’tempi antichi il busto dell’Idolo, che è quasi due palmi alto, e tuttavia vi si distinguono assai bene le due fronti, e le due facce; giacchè si vede adesso incastrato per cura de’paesani in un pilastro di moderna struttura, che è distante dal disfatto tempio, dove fu trovato il detto simulacro, un miglio, e di vantaggio. Calando poi verso mezzogiorno di Giano alla parte occidentale di Camigliano, incontriamo il Villaggio di Pantoliano, che da Camigliano è discosto intorno a un miglio, e mezzo.

Il Cappella nella suddetta ode, e ‘l Pacichelli nel passo sopraccennato della sua Storia son d’avviso, che Pantoliano abbia avuta l’origine, ed il nome da un qualche tempio, appellato perciò Pantheon in greco, ed in latino; né mica è inverisimile la loro opinione; giacchè parecchi di sì fatti tempj si leggono nelle storie, e fra gli altri il famoso Pantheon, edificato in Roma da Marco Agrippa genero di Augusto, d’opera corintia, di forma rotonda, e ‘l più bello di tutti gli edificj della Città, e spezialmente de’tempj. Egli tuttavia osservasi formato da un continuo muro largo palmi 30.; ha una sola porta, e un solo spiraglio grande nel mezzo della volta, donde riceve il lume: la sua altezza è pari alla larghezza, che è di 144. piedi in giro; ed ha un portico sostenuto da 16. colonne. Era in oltre questo tempio incrostato sì al di dentro, che al di fuori di un marmo di color vario: avea il colmo ricoperto di lamine di argento, che poi l’Imperator Costantino fece levar via per trasportarle a Costantinopoli: Vedeasi nel di dentro di esso un gran numero di nicchie, corrispondenti ad altrettanti Dei, che ivi erano collocati. Fra queste statue si distingueva quella di Minerva, la quale era d’avorio, lavoro del famoso Fidia; e quella di Venere, che a ciascuna orecchia avea la metà di una delle due perle preziose, che già furono di Cleopatra Regina d’Egitto, e che servianle d’orecchini; conciossiachè questa prodiga Regina avea fatta discioglier l’altra nell’aceto per darla a bere al suo amante e sposo M. Antonio; ed Augusto avendo fatto acquisto dell’unica, che rimasta era, la fece tagliare in due; essendo impossibile, non che difficilissimo, il trovarne un’altra simigliante. Or per tornare al nostro intento, quantunque il detto tempio fosse stato a tutti gli Dei dedicato, pur non di meno diceasi spezialmente consegrato a Giove vendicatore. Fu ristorato dagli Imperatori Adriano, Antonino Pio, e Settimio Severo. Il Papa Bonifacio IV. dappoichè n’ebbe ottenuta dall’Imperator Foca la permissione, lo trasferì al culto del vero Dio in onore della SS. Vergine, e di tutti soltanto i SS. Martiri, avendosi trasportate dai Cemiterj di Roma molte loro insigni reliquie. In memoria di questo fatto cominciossi a solennizzare nel primo giorno di Novembre la festa di tutti i Martiri, fino a tanto che quel dì fu destinato da Gregorio IV. nell’anno 830. a celebrare indistintamente la gloria di tutti i Santi. Né qui è da trasandare, che Urbano VIII. fece togliere da un tal tempio, che adesso appellasi S. Maria della Rotonda, il bronzo che lo copriva, per impiegarlo nella fabbrica di quel superbo baldacchino, che sopra l’altare di S. Pietro, sostenuto da quattro alte, e grosse colonne, e di molte belle figure ornato.

Vi era in Roma un altro Pantheon dedicato particolarmente a Minerva medica; questo era internamente di figura decagona, ed avea ventidue piedi e mezzo di distanza da ciacun angolo all’altro; lo che fa 225. piedi in tutto: fra gli angoli vi erano cappelle rotonde in volta, fuorchè dalla parte della porta. Queste nove cappelle servivano per altrettante false Divinità. La statua di Minerva era di contro a la porta, ed occupava il sito più onorevole. Si vuole parimente, che’l tempio Nimes in Francia, che dicono essere stato a Diana consegrato, fosse pure un Pantheon. Ivi si osservavano 12. nicchie, sei delle quali sono ancora esistenti. Un tal tempio era dedicato a dodici Dei maggiori: e perciò detto altresì Dodecatheon. Ma qui è da rammentarsi di passaggio, che que’tempj, che a più Dei, ma non a tutti, erano consegrati, anzi che Pantheoni, chiamarsi debbano Delubri secondochè questa voce vien da Servio definita al 2. lib. dell’Eneade.

In S. Agata però de’Goti del nostro Regno vi era un altro vero Pantheon, ossia tempio sacro a tutti gli Dei, di cui esiste tuttavia un portico, che ha 84. palmi di lunghezza, e 25. di larghezza: ha tre grandi archi di fronte, e due ne’lati, sostenuti tutti da colonne, tra le quali assai pregevoli son le due di granito orientale, che sostengono l’arco di mezzo, avendo palmi tre di diametro, e quindici di altezza senza le loro basi, e capitelli di ordine jonoco; come eziandio pregevole del pari è un’altra colonna di marmo affricano, che vedesi in uno de’suoi lati: Ve ne erano benanche quattro altre, che adornavano il muro interiore, e tra queste due il verde antico, che per la loro eccellenza furono trasportate nella galleria del Real Palazzo di Portici. Il cennato portico forma di presente l’atrio della Chiesa Cattedrale, nella cui rifazione cavandosi nell’anno 1728. il fondamento d’un pilastro, si rinvenne ivi la seguente iscrizione:

                                                         I.   O.   M.
                                                        C.  O.  D.  I.

Cioè, Jovi optimo maximo, ceterisque omnibus Diis immortalibus. Veggasi la diss. Sull’origine, ed antichità di S. Agata de’Goti del Rainone a pag. 12. e 13.

Oltre poi ai tempj, sacri a tutti gli Dei, detti perciò Panteoni, i romani chiamavan Pantee certe statue, composte di figure, di attributi, e di simboli di diverse Deità insieme accolti; come le statue di Giunone, che sovente avevano rapporto a molte Dee, tenendo qualche attributo di Pallade, di Venere, di Diana, e di altre: anzi eravi una statua, che si appellava il Dio Panteo; perché rappresentava tutti gli Dei, o tutte le Dee unite insieme; quantunque non avesse di ognun di essi qualche simbolo. Di questa statua il Capaccio fa menzione nel lib. I. della sua storia Napoletana, tom. I. pag. 203. dell’ediz. Gravieriana, dove scrive: Cum Hercule, Mercurio, e Silvano Mediolani id signum est conjunctum:

                       HERCVLI. MERCVRIO. ET. SILVANO. SACRVM.
                                                ET. DIVO. PANTHEO

E poi soggiugne: Argenteum Pantheum in Hispania erectum Astigi inter Hispalim, e Cordubam hoc epigramma ostendit.

                                   P. NVMERIVS. MARTIALIS. ASTIGITANVS
                                            SEVIRALIS. SIGNVM. PANTHEI
                           TESTAM. FIERI. PONIQVE. EX. ARGENTI. LIBRIS.
                                      SINE. VLLA. DEDVCTIONE. IVSSIT

Ex quibus apparet PANTHEUM unam tantum fuisse statuam omnibus Diis dicatam.

Ciò però non ostante, trovasi questo nome Panteo dato ancora ad alcuni Numi particolari, come a Bacco, a Priapo, ed a Silvano, leggendosi in una iscrizione rapportata dal Doni cl. I. n. 64.

                                                                 L I B E R O
                                                             P A N T H E O
                                                                   S A C R

E in un’altra recata dal Grutero pag. LXXVII. 3 vien dedicata una statua: Liberi Patris Panthei alla Fortuna Primigenia. Per simil modo un’altra iscrizione dallo stesso Grutero riferita pag. XCV. I. attribuisce il nome Panteo anche a Priapo: come altrsì dassi a Silvano nel marmo rapportato dal Doni cl. I. n. 66. dove leggesi: SANCTO SILVANO PANTHEO S. M. FVLVIVS ERASTVS CVM SVIS D. D.

Adunque, ritornando a noi, conchiudiamo, che il Villaggio di Pantoliano con ogni probabilità potè ritrarre il nome, ed i natali da un qualche antico tempio ivi esistente, dedicato a tutti gli Dei, detto perciò Pantheon; oppure al Nume Panteo; o a qualche altra Deità particolare, la quale avesse pur di Panteo il nome, essendo stato per ventura il cennato Villaggio appellato da principio Pantheanum, a cui sottintendeasi Castrum, oppidum, e poi corrottamente detto Pantoliano.

Resterebbe ora, che io qui ragionassi del tempio d’Espero, dal Pacichelli erroneamente annoverato fra gli antichi tempj gentileschi del Contado Capuano; dal qual tempio, se mai vi fu, è assai probabile, che ‘l Villaggio di Sparanesi, ossia Sparanisi, al contado Caleno appartenente, abbia tratta l’origine, ed il nome, e del detto tempio ivi forse ad onor di Espero dagli antichi Caleni edificato, io di proposito favellai nella mia Lettera, stampata in Napoli nell’anno 1793. Sopra il saggio istorico della Città di Calvi, e Sparanisi dell’ab. Mattia Zona, ed al medesimo indiritta; perciò rimando volentieri il mio Lettore alla stessa Lettera, per far passaggio finalmente al IV. Capo di questa, qualunque siasi, dissetazione

                                              C A P O   IV
                                  In che tempo, e da chi probabilmente
                                    fu abolito in Casapullo il falso culto
                                          di Apollo: e quando edificov-
                                             visi la chiesa diS. Elpidio.

Per poter noi determinare con qualche precisione il tempo, in cui fu spento il profano culto di Apollo in questo luogo, che nel quinto secolo della Chiesa comunque si ritrovasse già proscritta l’Idolatria dalle Città maggiori, durava pur tuttavia ne’subborghi, e nelle ville: E di fatto S. Nilo, autore del cennato secolo nel lib. I. epist. 75. narra che i Gentili de’suoi dì non altrove sacrificavano a loro.


Stemma del Comune di Casapulla
tratto dalla dissertazione: “Un tempio di Apollo”  del m.se Bernardo de NATALE SIFOLA GALIANI

Dei, che ne’subborghi χατά τά τροάςεια.. Onde il Mazzocchi nella sua Epistola De dedicatione sub Ascia, pag. 85., not. 108. scrive così: Post orbem Principum edictis χριςιαυισθέυτα, diu tamen idola substiterunt, unde e Paganis nomen. Che poi anche in questi Villaggi della felice Campania durasse allora l’idolatrico culto, si ricoglie dagli atti si S. Castrense, illustrati, e sostenuti per sinceri, tranne alcuni errori, dal Mazzocchi stesso nel suo Calendario della Chiesa Napoletana tom. I. pag. 39. e seg., laddove egli dimostra, che i dodici Santi Vescovi Africani, che nella vandalica persecuzione bandeggiati dall’Affrica approdarono prodigiosamente al lido Campano, che è fra mezzo alle foci del Garigliano, e del Volturno verso la metà del V. Secolo, erano stati da Dio destinati a purgare queste nostre contrade, non da altri errori, che da quelli del Gentilesimo.

Or ciò posto, da questi beati Esuli appunto dobbiamo noi riconoscere la distruzione degl’Idoli, che rimanevano peranche in piedi in questi Capuani Villaggi, e l’introduzione, o il dilatamento in essi della vera Religione. Il perché non sarà superfluo, che quì noi ce ne rapportiamo in brevi termini la storia; tuttochè ne abbiano fatta menzione il Martirologio Romano al dì I. di Settembre; il Ruinart nel Cap. IX. della sua storia della Vandalica Persecuzione, che soggiunse a quella di Vittor di Vite; il Monaco nel suo Sant. Cap. pag. 68. e segg.; l’Enschenio nella vita di S. Castrense, che da quel che ne scrisse il Monaco, e da due altri manoscritti la riprodusse più corretta sotto il dì II. di febrajo; il Rinaldi nelle sue Memorie Istoriche di Capua tom. I. pag. 315. e segg.; e finalmente, per tacerne altri, il chiarissimo Canonico della nostra Cattedrale D. Francescantonio Natali[12] nelle sue critiche ed erudite Considerazioni sopra gli Atti di S. Matrona pag. 17. e 18. Adunque egli è da rammentare, che nell’anno 428. o là intorno, al fatale invito del Conte Bonifazio Comandante dell’armi imperiali nell’Affrica sotto l’Imperatore Valentiniano III., e l’Imperatrice Galla Placidia di lui madre, essendi colà passato col suo esercito dalle Spagne Genserico Re dei Vandali, seguace dell’Arriana eresia, costui a guisa d’una mortal pestilenza, come scrive Vittor di Vite (lib.I. de perfec. Vand.), o d’un furiosissimo incendio, portò da per tutto la desolazione, la rovina, e le stragi senza perdonare neppure agli alberi fruttiferi della terra per togliere ogni maniera di sostentarsi a quegli Infelici, che colla fuga si erano sottratti alle sue spade. Indi ridotte in orridi e spaventosi deserti quelle popolate ed ubertose Contrade, ed impadronitosi perfidamente nell’anno 439. della Città di Cartagine, che nel vasto giro dell’Affrica per la sua magnificenza e splendore era quasi un'altra Roma, benchè egli non lasciasse di esercitar generalmente la sua fierezza contra ogni genere di persone, pur nondimeno prese principalmente di mira i due più ragguardevoli ordini della Nobiltà, e della Chiesa; onde sembrava non aver meno in animo di far la guerra all’Altissimo, che a’Mortali: Quindi è, che tra gli altri Vescovi Cattolici, che divennero l’oggetto delle sue crudeli persecuzioni, oltre al santo Vescovo di Cartagine Quod-vult-deus, e a S. Gaudioso Vescovo D’Abitina nella Proconsolare, e a S. Possidio Vescovo di Calama, ve ne furono altri dodici, i di cui nomi sono appunto: Castrense, Tammaro, Prisco, Rosio, Eraclio, Secondino, Adjutore, Marco, Augusto, Elpidio, Canione, e Vindonio. Costoro adunque dopo aver sofferta una penosa prigionia, ed altri barbari, ed inumani trattamenti per la Cattolica Religione, a suggestione di un tal Adamanzio messi furono da i Ministri del Tiranno in una logora e sdrucita nave senza timone, senza remi, senz’albero, e senza vele, e in questa guisa sospinti in alto mare, furono lasciati in abbandono all’arbitrio dell’onde, e de’venti; affinchè per mezzo d’un sicuro naufragio affatto se ne spegnesse la memoria.

            
                                                      Sant'Elpidio e gli altri vescovi in balia del mare

Ma la divina Provvidenza, che prende a scherno gli astuti consigli degli Empj, guidò soavemente la nave malconcia verso questa Campania, facendola felicemente approdare intorno all’anno 442., o 443., come vuole il Monaco, nel lido Sessano, in cui discesi que’Santi Eroi, il primo di essi, cioè Castrense si portò nella Città di Sessa, indi stabilì la sua dimora in un vicino Villaggio; donde poi passò alla Città di Volturno, situata presso alla foce del fiume dello stesso nome, di cui si crede che fosse stato costituito Vescovo, e nella quale terminò santamente i giorni suoi. Gli altri Vescovi di lui compagni si dispersero per queste Contrade, affaticandosi colla lor celeste predicazione nell’abolire affatto il profano culto degl’Idoli, che in questi Villaggi peranche si manteneva; ond’è che il lodato Mazzocchi nel luogo sovraccennato del suo calendario, pag.40. così scrive: Hæc eo pluribus notavi, ut appareat hos Africanos Episcopos tamquam Campaniæ nostra Apostolos esse habendos: quorum opera ex Campaniæ urbeculis, atque Pagis paganismus maximam partem ejectus fuerit sæculo V.

Premesse or queste cose, ogni ragione dee indurci a credere, che fra i suddetti Santi Vescovi Elpidio sia stato quegli, che fermatosi in Casapullo, si sia impegnato principalmente a trarre questo Popolo dalle tenebre del Gentilesimo, onde forse era per anche ingombro, alla vera luce della Cristiana Religione; giacchè da tempo affatto immemorabile si è qui sempre onorata la di lui memoria, e del santo nome di lui è andata sempre insignita quest’antichissima Chiesa Parrocchiale, essendone egli pur tuttavia il graziosissimo Protettore. 


             

Egli adunque il nostro Apostolo dopo aver probabilmente illuminata, e convertita alla vera fede questa Gente, dovette abbattere, e fare a pezzi l’Idolo d’Apollo, e lasciando per ventura in piede il di lui profano tempio, purificato che l’ebbe da ogni superstizione, il dovette dedicare al vero Dio, come sappiamo. essersi praticato in molti altri luoghi; secondochè attesta Todoreto Evang. Verit. I. 8. de Mart., ne’quali i tempj delle false Divinità furono mutati in Chiese Cristiane sull’esempio di S: Paolo, che nel Cap. XVII. degli Atti degli Apost. Si legge avere appropriato al vero Dio l’altare degli Ateniesi consegrato Ignoto Deo, al Dio non conosciuto; donde si ricoglie, che era lecito ai Propagatori del Vangelo a maggior confusione del Demonio servirsi delle cose da Gentili profanamente usate, e purgatele con sacro rito, trasferirle al culto della vera Religione. Egli è vero che sovente i Vescovi per timore di nuova idolatria amavano piuttosto di distruggere i tempj de’Pagani, che di purificarli, e dedicarli al vero Dio: ma laddove questo timore non prevaleva, di buon grado in sacre Basiliche gli cambiavano; siccome avvenne al Pantëon di Roma, e quel, che al nostro proposito più giova, anche all’antico tempio d’Apollo in Monte Casino, che S. Benedetto nel sesto secolo, contentandosi soltanto di avervi fatto in pezzi il profano simulacro, e di averne distrutta l’ara, lo convertì in una Chiesa. Lo stesso adunque possiamo credere, che fatto avesse poco meno di un secolo prima di S. Benedetto il nostro Elpidio dell’altro tempio d’Apollo, che qui era. Ma venuto poi dall’Affrica in Italia il barbaro Genserico con una formidabil flotta nell’anno 455., e presa senza molto contrasto, e saccheggiata Roma per lo spazio di quattordeci giorni, astenendosi a preghiera del Pontefice S. Leone dal metterla ben anche a ferro e fuoco, nel passare che egli fece per questa nostra Campania, ripigliando affatto l’usato stile, lasciò, che le sue schiere, composte di Vandali e di Mari, depredassero, e incendiassero quanto mai veniva loro incontro, e giunte nella nostra antica Capua, le usassero quelle crudeltà, che gli stessi antichi Romani fieramente contro di lei sdegnati non ardirono di usarle, cioè la devastassero, e ne adeguassero al suolo gli edifici; siccome scrive l’Autore della storia Miscella presso il Muratori tom. I. rer. Italic. Ferip. Pag. 98. Quindi è, che le medesime Masnade dovettero ancor distruggere in questo luogo il suddetto Tempio d’Apollo già convertito in Chiesa, non altrimente che fatto aveano alla basilica Costantiniana nella stessa vicina Capua. Ma passato altrove quell’orrido nembo di desolazione e di barbarie a travagliare l’umanità, ritornando i dispersi Cittadini di Casapullo alle proprie mal ridotte abitazioni, e trovando già diroccato il loro tempio, e ben giusto l’opinare, che senza frapporre indugio sulle rovine di quello avessero edificata la presente Chiesa, non già in quell’ampiezza, e magnificenza, in cui adesso si ammira, ma più semplice, e più ristretta, consistente nella sola antica nave settentrionale, il cui muro esteriore fu forse il solo, che restò in piede di tutto il tempio distrutto, osservandosi ancora in esso quegli antichi macigni di smisurata grandezza, de’quali nel Cap. I. diffusamente noi ragionammo. Se poi nel tempo, che questa chiesa si edificò, si trovasse qui tuttavia il nostro Elpidio, non è sì facile il determinarlo; poiché se col Mazzocchi, e coll’Ughelli si vuol diverso questo Elpidio Africano dall’Elpidio Vescovo dell’antica Atella, città di questa Campania, il quale negli atti contenuti nel Breviario Salernitano si legge, che viveva nell’anno 395. essendo Arcadio Imperatore d’Oriente, e Siricio Roman Pontefice; e in un frammento degli atti, mentovati dal Monaco nel suo Santuario a pag. 70. si fa vivere ancora nell’anno 408. sotto il Consolato di Raffo, e di Filippo, ed in quest’anno istesso si fa poi passare a miglior vita ne’monchi atti dal Capaccio rapportati nella sua storia Napoletana I. 2. Cap. 28., allora il nostro Elpidio Africano non avendo punto che fare con quelle epoche, né con Atella, per essere venuto a nostri lidi, come dicemmo addietro, nell’anno 442., o 443; potea benissimo qui dimostrare in tempo dell’edificazione di questa Chiesa; scrivendo il lodato Mazzocchi nel suddetto luogo del suo Calendario pag. 40. consentaneum est, quod omnes hi Africani Episcopi qui ex Castrensis actis innotuerunt, in urbeculis aut PAGIS consederint; unde e postmodum oppidulis illis tuentibus, corum Cathedra incerta adbuc manent. E forse ancora da questo Villaggio egli volò all’immortalità della gloria, ma che poi del suo sacro deposito per le torbide vicende de’barbarici tempi se ne perdette la memoria.Se poi per lo contrario si vorrà col Ruinart, e con altri Srittori, che quest’Elpidio Africano fosse lo stesso che quel di Atella dandosi per erronee le suddette Epoche Atellane, ma lasciandosi quegli atti sussistere nel dippiù, giacchè s’incontrano frequenti esempj di simili sbagli cronologici negli atti di altri Santi, che poi nel resto son sinceri, come avverte lo stesso Monaco nel citato luogo, allora il nostro Elpidio nell’edificarsi questa Chiesa non dovea per anche qui soggiornare; poiché convertito che ebbe alla vera fede questo popolo, e lasciatone il governo a Prisco, uno de’surriferiti suoi Compagni, che fu Vescovo (secondo di questo nome) della vicina antica Capua, è da credere, che egli assunto fosse alla Cattedra di Atella, e che ivi dimostrasse, allorchè il barbaro Genserico dappoichè qui ebbe abbattuto il già purificato Tempio di Apollo passò col suo esercito a distruggere, ed incendiare insieme con altri luoghi la stessa Atella, imperciocchè si legge ne’suddetti atti che dopo l’incendio della cennata città il Santo Vescovo Elpidio fabbricò in quella vicinanza una Chiesa (ov’egli poi fu sepolto insieme col nipote Elpicio Levita, e col fratello Cione Prete) intorno alla quale adunò gli infelici avanzi del popolo Atellano, onde venne a formarsene un villaggio, che dal nome di lui oggi corrottamente si appella Santarpino. Conviene però qui avvertire di passaggio, che essendo poscia quella gente divenuta più numerosa, forse per essersi rimpatriati altri raminghi Cittadini, e per esservi anche concorsi degli stranieri tratti dalla fama delle virtù di Elpidio, né potendo tutta capire nel suddetto villaggio, gli edificj della riarsa Atella poco a poco si dovettero ristorare, ripigliando l’antica forma di città; poiché fino al nono secolo, siccome attesta il Pellegrino, il P. Sanfelice, ed altri, si trova fatta menzione di Atella, e fino alla metà del settimo anno anche del suo Vescovo, come nella lettera 52. del lib. 5 del Pontefice S. Gregorio il Grande, che fiorì nel fine del sesto secolo, e nel principio del settimo, il quale scrive così ad Antemio suddiacono Campano: Paritar etiam Clerum plebemque ipsius Ecclesiæ (Atellanæ) vel aliarum quæ ei unitæ sunt, coram instantius commoneto quatenus e ipsi omni mora dilationeque postposita aptum sibi eligere debeant sacerdotem: E nel tom. 10. dell’Italia Sacra dell’Ughelli, laddove nell’anno 649. si rammemora Eusebio Vescovo di Atella, che sotto il Pontefice Martino intervenne al Concilio Romano, ossia Lateranense; nè regge il dire di alcun moderno Scrittore che col nome di Atella già distrutta si volle significare ne’secoli posteriori il villaggio di Santarpino, che le era surto dappresso; poiché era contra la disposizion de’canoni della Chiesa il crear Vescovi in un villaggio, qual era quello, come apparisce dal can. 6. del Concilio Sardicense, e dal can. 57. del Sinodo Laodiceno presso il Cabassuzio Notic. Eccl. pag. 140. e 156., e presso il Beveregio Pandect. Canon. tom. I., e dalla distinzione 80. C. IV. E V, del decret. di Graziano, e dal capo illud sane tit. de privil. e excess privilegiat. delle decretali: dovendosi piuttosto sopprimere i Vescovati ridotti in piccioli luoghi, tosto che vacati fossero per la morte del Vescovo. Anzi agli atti della translazione di S. Attanagio seguita nell’anno 887., e rapportata dal P. Caracciolo sect. ult. de sacr. Eccl. Neap. monum., par che si dimostri, che esisteva nel tempo stesso Atella, e Santarpino di lei borgo, leggendosi ivi così: Item unius diei spatium a Monasterio S. Benedicti in Atellas devenerunt, e apud S. Elpidium constiterunt, e secondo la lezione di questi atti stessi, ristampati da PP. Bollandisti: Et apud Ecclesiam S. Elpidii transierunt. Ma torniamo là, onde ci siamo dipartiti.

Che ne sia della suddetta controversia, cioè se il nostro Elpidio Africano, fosse altri, oppure lo stesso, che l’Atellano, e dovunque ei terminato avesse i giorni suoi o in Casapullo, o in Atella, non dovette questo Popolo molto indugiare dopo la di lui morte a riconoscerlo per Santo, e ad onorarne ogn’anno la memoria; poiché fin dal principio del IV. secolo era permesso a Cristiani prestar pubblico culto ai Santi Confessori, ed innalzare ad onor di essi delle Chiese anche tantosto dopo la loro morte, come si può ricogliere da S. Girolamo in vita Hilarionis, ove parlando di S. Antonio Ab. scrive, che il medesimo ordinò a suoi discepoli, che essendo egli morto avessero il suo corpo occultato, ne Pergamius, qui in illis locis ditissimus erat, sublato ad Villam Sancti corpore martyrium Fabricaretur. Non potea certamente ciò temere Antonio, se fin d’allora non fossero usi i Cristiani di edificar de’Tempj a Santi Confessori; si serve poi S. Girolamo del come di Martirio, perché le Chiese allora così venivano appellate. Lo stesso si ricava da Teodoreto Histor. Relig. C. 3. laddove ei fa parola del Santo Confessore ed Anacoreta Marciano; e da Sozomeno Histor. Eccl. I. 8. C. 19. ove narra  che a S. Nilamnone subito dopo morte gli fu fabbricato un tempio da’Popoli convicini, e ne fu celebrato il giorno del felice passaggio all’eternità. Di qui si scorge, che s’inganna Edmondo Martene de antiq. Eccl. Ritib. C. 30. n. 3., e ‘l Cardinal Bona Rer. Liturgie. l. I. C. 15., ed altri moderni Scrittori loro seguaci, allorchè insegnano, che nel principio del V. secolo cominciò la Chiesa a prestare a SS. Confessori il Sacro culto, e che il primo, a cui si prestò, fu S.Martino Vescovo di Turs; imperciocchè oltre alle più antiche testimonianze già da noi recate, basterà quella dell’antichissimo Romano Calendario presso  Frontone Ducëo, formato a’tempi del Pontefice Liberio, in cui si vede notata la festività del Pontefice S. Silvestro, che morì prima del lodato S. Martino. Veggasi l’eruditissimo Pelliccia nella sua opera De christianæ Eccl. Pelitia tom. II. pag. 117. e segg. Adunque come di sopra io dicea, ben per tempo dovette cominciar questo Popolo a venerare il nostro Elpidio; e fin d’allora fu forse questa Chiesa Parrocchiale intitolata del suo Santo nome. E qui sarebbe opportuna cosa il favellare del di lui potentissimo patrocinio a prò del Popolo medesimo; ma chi potrebbe restringere in poche carte le grazie senza numero, che egli in tante e tante occasioni gli ha ottenute dall’Altissimo: dal che allettati gli stranieri, sono anch’essi nelle loro necessità ricorsi a lui, e l’han del pari sperimentato grazioso. Il perché lasciando io a più felice penna il farne particolar racconto, mi fermerònel principio del quarto per la scarsezza de’Sacri Ministri, e per le angustie delle persecuzioni, come avverte Natale d’Alessandro nella sua storia Ecclesiastica tom. VII. Edit. Neap. pag. 346. eravi il costume di prefiggere ancora de’Diaconi alla cura delle Parrocchie, che perciò dette furono Diaconie, siccome costa dal Concilio Illiberitano, tenuto nell’anno 302. o 303., il quale ordinò col canone 77., che quei, che dal Parroco Diacono fossero stati battezzati si dovessero condurre al Vescovo per essere confermati.

Ma datasi la pace alla Chiesa dal Gran Costantino, e cresciuto il numero de’Preti, cominciarono i Vescovi ad addossare generalmente a questi la cura delle anime, rimanendo i Diaconi, come coadjutori de’medesimi; Quindi è, che in ciascuna Parrocchia oltre al Prete Parroco eravi un Diacono, il quale alternativamente con quello presedeva ancora al Clero inferiore nella celebrazione de’Divini Officj, che era in uso ancora nelle Parrocchie de’Villaggi; siccome troviamo definito dal canone 7. del Concilio di Terracona, tenuto nell’anno 577. in cui si legge così: De Diœcesanis Ecclesiis, vel clero id placuit definiri, ut Præsbyteri, vel Diaconi, qui inibi constituti sunt, cum Clericis septimanas observent, id est, ut Præsbiter unam faciat Hebdomadam, qua expleta, succedat ei Diaconus similiter, ea scilicet conditione servata, ut omnis Clerus die Sabbathi ad Vesperam sit paratus, quo facilius die Dominico solemnitas cum omnium præsentia celebretur, ita tamen, ut omnibus diebus Vesperas et Matutinas celebrent: E soggiugne il Tomassini tom. I. l. 2. C. 76. n. 2.: Ubi vides in omnibus, quæ ruri erant, Parochiis fuisse Præsbyterum, Diaconumque, qui præsiderent.

Né ci sia, chi per ventura voglia darsi a credere, che col nome di Iaconato nell’addotto istrumento, anzi che Diaconia, si debba intendere l’officio del Sagrestano, che oggi Iacono volgarmente vien chiamato; imperciocchè secondo la guasta lingua latina del secolo decimoquarto, in cui fu fatto quell’istrumento, jaconatus, o jaconia, che è lo stesso, corrottamente Diaconia significava; ond’è, che presso il Mazzocchi nell’append. alla sua Diss. Ist. de Cathedr. Eccl. Neap. pag. 252. ad not. (16.) col. 2 leggesi così: Celeberrima illa S. Januarrii Diaconis fuit….. quæ ævo posteriore Ecclesia S. Januarii ad Jaconiam vocabatur. E la stessa Chiesa in un inventario dello Attanasio dell’anno 1336., rapportato dal medesimo Autore nel cit. luogo pag. 277. trovasi appellata. Sancti Januarii ad Jaconium; e che sia così, come dianzi io dicea, è da notarsi che nel suddetto nostro istrumento accennasi la terra, ossia il beneficio del Jaconato della Chiesa di S. Elpidio. Or il beneficio era annesso all’ordine del Diaconato, come insegna lo stesso Tomassini nel suddetto tom. I. l. 2. C. 33. n. 9. così scrivendo: Nemo deinceps ambiget, quin Diaconatus, ut ordo, ita et Beneficium haberetur; e non già all’officio del Sagrestano, che ora dal volgo si appella Jacono, introdotto ne’bassi tempi, al quale si dà soltanto una qualche mercede per lo suo sostentamento. Adunque quel Iaconato della Chiesa di S. Elpidio vuol senza dubbio dinotare il Diaconato, ossia Diaconia di essa Chiesa; il beneficio fu di poi forse unito alla Rettoria della medesima Chiesa per la scarsezza de di lei fondi,

Ma seguitando a ragionare della stessa chiesa, noi la ritroviamo consecrata nell’anno 1467[13], nel qual anno dovea essersi già ampliata nelle tre magnifiche navi, in cui si vede divisa; conciossiachè, convien sapere, che sul maggiore altare di essa ne’tempi andati eravi un Ciborio a modo di torretta, di bellissimi intagli, e di figure adorno, che poi ne fu tolto via nell’anno 1733., nel cui mezzo s’introducevano due o tre forzieretti l’uno all’altro sovrapposto, e in un di essi, serrato a chiave, si rinvenne una guastadetta di larga bocca, che contenea molte schegge di ossa, certe filaccia di un drappo d’oro, ed uno stemma impresso in ceralacca; ed era chiusa d’una pergamena, al di sotto della quale caratteri gotici si leggea così: Reliquiæ sunt ha v.c. Sancti Laurentii M. jjj. (cioè tre particelle), Sancti Nazantii Martyris, et S. Lucia Virg. Et Mar. et aliarum Reliquiarum. Hæc Ecclesia consecrata est per Rmum. Dnm. In Xpo. Patrem Angelum Mazziotta de Capua Episc. Calvensem de licentia Rmi, Dni Jordani (fu questi Giordano Gaetano) Archiep. Capuani sub anno Dni. 1467. Die vero 26. mensis Julii, quintadecima indictione sub pontificatu Sanctissimi Dni. Nostri Pauli PP. Anno III. Questi fu Paolo II. che fu creato Pontefice addì 31. Agosto 1464. La cronologia cammina bene. Lo stemma è del cennato Vescovo di Calvi Mazziotta, che fu prima Primicerio della Cattedrale di Capua, come scrive il Monaco nel suo Sant. A pag. 204., e poi nell’anno 1443. fu promosso alla Cattedra Vescovile di Calvi dal Pontefice Eugenio IV., come si legge presso il Granata tom. II. della sua storia sacra, pag. 100.

Finalmente lasciando io di far parola di altri pregi della suddetta Chiesa, cioè degli antichi beneficj padronati, e delle insigni confraternite, fornire di reale assenso  che in essa veggonsi fondate, e che si possono riscontrare da chi ne abbia vaghezza presso il cennato Granata nel detto tom. II. pag. 10. ed 11., soggiugnerò soltanto che nella Chiesa medesima si venera un sacro stinco del Glorioso Protettore Elpidio, sebbene riputato di nome adottato; ed è racchiuso in un gran reliquiere d’argento, che nella base mostra incisa l’epoca del 1696., e che vien custodito sotto tre chiavi, una delli quali serbasi dal Parroco, un’altra dal magistrato secolare, e la terza dagli Economi, che si eleggono dallo stesso Magistrato; la qual osservanza è una delle pruove, che di pieno consenso ne’tempi a noi vicini fosse stato dal Popolo il lodato S. Elpidio, già antichissimo Titolare di questa Chiesa, eletto ancora per suo spezial Padrone coll’approvazione della Sacra Congregazione de’Riti, come si può arguire dalla decisione della stessa Congregazione in Letteren. 8. Maji 1604. rapportata dal Barbosa Apostolic. Decis. Collect. 649. v. Patroni Sancti. Quindi è, che il 26. di Maggio, giorno della festività di esso Santo, si solennizza con sacra pompa da tutto il popolo, al quale anche è interdetta qualunque opera servile, e dal Clero se ne celebra l’officio di rito doppio di prima classe con ottava; sebbene anche prima, allorchè era soltanto Titolare, celebravasi così, come si legge notato a’tempi dell’Arcivescovo di Capua Giovannantonio Melzi negli ordini Capuani del Divino officio: In oppido Casapullæ Vesp. de S. Elpidio Conf. et Pont. dup. prim. class. cum act., ut Titularis Parochialis Ecclesiæ sine ulla cam. Anzi è da avvertire che da due più antichi Calendarj, della Capuana Chiesa prodotti dal Monaco nel suo Sant. a pag. 412. e 423. e segg., de’quali il primo a carattere rosso Longobardico fu scritto intorno all’anno 1300., come egli il Monaco argomenta, si rileva, che nello stesso dì 26. Maggio se ne celebrava l’officio per tutta la Diocesi di Capua.




[1] In famiglia detta: Candida.
[2] Nel registro degli atti di nascita, conservato nella Parrocchia di Sant'Elpidio in Casapulla, è registrato col cognome de NATALE-SIFOLA, Casapulla 1738-1803.Nei Regi Quinternioni depositati presso il Grande Archivio di Stato di Napoli il cognome è trascritto "Natale Sifola Galiani" e “Natali Galiani”
[3] Libro stampato "da Torchi di Vincenzo Manfredi con licenza de'Superiori" A.D. MDCCCII.
[4] Ossia Bernardo de NATALE SIFOLA GALIANI come riportato nel registro delle nascite conservato nella chiesa di Sant'Elpidio di Casapulla(CE), Casapulla 1775-1827.
[5] Il decurionato era di nomina regia sulla base di terne formate in ogni piazza dall’intendente. I decurioni nominano gli amministratori dell’università, ovvero il sindaco, «incaricato dell’amministrazione del comune», e due eletti, dei quali uno è esclusivamente incaricato della polizia municipale e rurale, e l’altro assiste il sindaco e sostituisce il sindaco stesso ed il primo eletto in caso di inabilità. Soprattutto i decurioni elaborano lo stato discusso delle rendite, dei pesi ed esiti, verificano i conti a fine esercizio, ripartiscono le quote delle contribuzioni dirette tassate (dal consiglio distrettuale) alla propria università  e provvedono alla compilazione delle terne dei proprietari tra i quali vengono scelti i consiglieri distrettuali e provinciali ed i giudici di pace.
[6] TRADUZIONE: Questo tempio fu qui edificato sui ruderi di un antico fano di Apollo ed al nostro Dio Ottimo Massimo in onore di sant’Elpidio Vescovo africano il quale su disarmato naviglio coi suoi, guidato da Dio approdò ai lidi della Campania nostra nel secolo V dopo Cristo dal tempo poi ridotto squallido e quasi crollante i decurioni col popolo di Casapulla  si adoperarono restaurarlo l’anno 1789.
[7] Si intende la città di Capua.
[8] Berardo GALIANI, Teramo 1724-Sorrento 1774.
[9] Marcello Maria de NATALE-SIFOLA, Casapulla 1740-1819.
[10] Come osserva il lodato Mazzocchi nelle sue cennate Diatribe nel tom. 2. degli opuscoli, pag. 138. nel nome Giano, deducendolo dall’Ebraico הב׳ jana, che vuol dire opprimere, violenter agere.
[11] Oggi Santa Maria Capua Vetere.
[12] Discendente da Gennaro de NATALE per il ramo di Marcantonio. Lo stesso antenato dei de NATALE SIFOLA GALIANI.
[13] La ristorazione e la consacrazione avvenne il 26 luglio 1467 per opera dell’arcivescovo di Capua Giordano Caetani illustre esponente della casa d’Aragona.

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