lunedì 21 luglio 2014

3° IL REGIO CASALE DI CASAPULLA E LA FAMIGLIA "de Natale Sifola Galiani" la più antica di detto casale

 

Stemma
"de Natale"
Posto sotto l’androne del palazzo detto di 
” donna Candida”
(nome della m.sa Maria Candida Romano Colonna)
 in Casapulla in via Diaz ex via Vetere. 
Questa pittura è andata perduta per il crollo della volta avvenuta nel 1970 circa.


   Storia e Genealogia

dei marchesi
 de NATALE SIFOLA GALIANI [1]
Marchesi dal 02 Agosto 1595[2]
Patrizzi di Trani dal 19 Novembre 1657

Già ai tempi della repubblica e successivamente dell’impero di Roma e del tardo impero si hanno notizie di famiglie nobili che portavano il cognome Natalis.
Cornelio Tacito negli Annali A.D. 66 XV.50,54-56,71 cita il cavaliere Antonius  Natalis tra coloro che parteciparono alla congiura di Pisone insieme al senatore Scaevinus ed altri contro l’imperatore Nerone.
Caelicius Natalis persona che sosteneva le cause per i pagani nel dialogo di Minicius Felix, intitolato Ottavio (Bähr, Christ.Röm.Theologia,).
Minucius Natalis della Gens Antonia, citato nel rescritto dell’imperatore Traiano (Dig.2Tit.12.s9) era proconsole e potrebbe essere il giurista Natalis. In questo passo del Digesto il suo nome è scritto Minitius Natalis. Sembrerebbe essere stato anche console ed auguro (lettere di Plinius il giovane (Plin.Ep.vii.12,).
Nel cimitero di Pisa è conservato il più antico sarcofago romano (CIL XL.1430=ILS 1009),  databile con esattezza, del console Caius Bellicus Natalis Tebanianus del II secolo (console nell’87 e morto intorno al 110)    .


sarcofago di
Caius Bellicus Natalis Tebanianus

Nel II-III secolo d.C. vi è traccia di una famiglia Natalis stanziata sulle rive del Volturnum in località Capua Vetere.
Da due lapidi che si trovano nell’isola di Malta si possono fare le seguenti deduzioni leggendo le seguenti iscrizioni: La Gens, in connessione con la tribù Pomptina, riappare in un’iscrizione gozitana che su base paleografica sembrerebbe databile al III sec.d.C., incisa su un plinto marmoreo che ripota: “…per valore di Marcius Marcianus dedicata all’amico optimo et karissimo, di nome L.Cestius L.f. Pompt(ina) Gallus Varenianus Lutatius Natalis Aemil(i)anus definito patronus municipi. Questo personaggio, forse originario di Gozo, fu parente stretto di L.Cestius Gallus Cerrinius Iustus Lu(t)atius Natalis, praefectus aerari Saturni sotto Marco Aurelio, documentato da un’iscrizione di Volturnum che lo onora come patronus coloniae. L’epigrafe fra l’altro, indica che il patronus di Volturnum fu legatus Augustorum duorum legionis XX Valeriae victricis di stanza in Britannia per sorvegliare il Vallo di Antonino. L’onomastica dei due personaggi ha in comune, oltre al gentilizio ed al primo cognomen anche il cognomen Natalis ed il nomen Lutatius inserito fra i cognomina. Il nome del generoso benefattore che fece erigere nel I-II sec.d.c. un tempio di Apollo a Malta è perduto, ma viene definito come si è detto sopra, primus del municipium maltese (Cil.10,2,7495=ILS 5415,II.1 e 6 e 7,Asb 1915). Un’altra epigrafe probabilmente coeva alla precedente ricorda la costruzione di un tempio marmoreo con una statua: in questo caso non silegge il nome della divinità(forse però era lo stesso Apollo poiché l’iscrizione provieve dal medesimo luogo di Mdina in cui fu rinvenuta l’epigrafe relativa al restauro del su detto tempio), ma quello dell’evergate, (Cl)audius Iustus, patronus del municipium il quale presumibilmente spese una somma più alta di quella promessa.
Il patronus gozitano ebbe probabilmente legami anche con un altro personaggio della stessa Gens, L. Cestius Gallus …. Ricordato da un’epigrafe del foro di Thamugadi della prima metà del II sec.d.C. (Cil 10,2,7495=IL 5415, II.1 e 6-7; Ashby 1915, p.p. 30-31 aveva datato l’iscrizione al II sec. D.C.).

Altra lapide che ricorda un’altra famiglia Natalis al tempo dell’antica Roma è stata trovata in Sagunto (Inscripcions romanes del pais Valecià: Saguntum è el seu territori):
   /…/nius-Orie/ns/                                                ...Orient, de 51 anys;
   /an(norum)/ LI-Natal(is)/                                    Natalis(ha fet aquest monument)
   /viro? e/t si/bi                                                       per al seu marit(?) i per
                                                                                 a ella.
Citala da:Josep Correll.  


Tracce di questo cognome Natalis si trovano anche  in una lapide tardo latina dove si legge:
T(itus) FLAVIUS NATALIS.
C(aius) VALERIUS SABINUS.
L(ucius) AVIANUS FELIX.
C(aius) FLAVIUS.
DOMIT(i)US
Da fonti (pergamene capuane) sveve ed angioine risulta che nobili individui col cognome Natalis “(de Natale)” li ritroviamo jn Casapulla nel contado Capuano, come Antonius Natalis (de Natale), montiere[3].
Nelle Capitolazioni dei maestri muratori della città di Capua, rogati in data 10 giugno 1488, tra i licterati testes alla stesura dell’atto, quali: Notarius Lucas de Dominico, Dominus Ioannes de Iacobello, Dominus Bernardinus Veltre, compare il Magister Iacobus de Natale de Capua, che, da fonte, si apprende essere dottissimo ed eminente dignità capitolare[4].
Da tempi molto remoti da questa gente de Natale antichissima in Casapulla, sembra essere appartenuto  quel Luca-Antonio de Natale, che fu Tenente Generale dell’esercito del Re Carlo II, monarca delle Spagne, giusta il documento riportato dal Rica nella sua opera La nobiltà delle due Sicilie, Vol.1°, parte 1ª, pag.210, e per alcuni secoli successivi questa famiglia de Natale fu la prima del casale di Casapulla per ricchezza e possedimenti (Per alcune proprietà vedere: Catastum civium/civ.tis Casertano/anno 1655/D.nus 1io bapta Pisanell com./Ioseph Fanangola/Regalis Patrimon Proralis/et Deputatus) [5].. I suoi individui fissandovi la propria dimora avevano dato la fisionomia di una vera Corte, sulla quale i sovrani di Napoli potevano riversare le loro grazie e le loro simpatie[6].; ed ancora, Bernardo de NATALE SIFOLA GALIANI nella metà del XVIII secolo era il primo contribuente del luogo.

A Casapulla i de Natale erano la famiglia più ricca con grandi rendite in molti comuni del distretto di Capua e Caserta. A Casagiove la maggior parte dei contribuenti di cognome de Natale erano di Casapulla (catasto onciario di Casagiove). Il primo individuo della famiglia de NATALE da cui discesero i “de NATALE SIFOLA GALIANI” di cui si abbia conoscenza certa, per l’esistenza di documenti parrocchiali, fu:

don Luciano de NATALE (1500 circa),che sposò donna Vincenza Menicillo[7] di Macerata diocesi di Capua.
Da questo matrimonio nacquero:
  1. don Alicordio[8] , canonico della Chiesa Metropolitana di Capua.
  1. don Gennaro, che nel 1582 sposò donna Caterina della nobile famiglia Mincione di Macerata diocesi di Capua.
don Gennaro e donna Caterina procrearono quattro figli:


  1. don Marco Aurelio, nato in Casapulla il 09 settembre 1583[9].
  2. don Marco Marcelliano, nato in Casapulla il 13 ottobre 1586.
  3. don Giuseppe, nato in Casapulla il 19 marzo 1589. Divenne canonico della Chiesa Metropolitana di Capua. Conseguì il dottorato nel 1614. Aveva studiato in Napoli fin dal 1611 ed aveva frequentato i pubblici studi nella città di Napoli. Testimoni per la sua ammissione agli esami furono il clerico Pirro Antonio de Natale ed il clerico Cesare Boccardo. Essi abitavano a’ puzzo bianco e affermarono di conoscere da molti anni il Natale e che lo avevano visto studiare legge canonica e civile per cinque anni e frequentare i pubblici studi della città. La fede relativa al corso di studio di  Giuseppe fu firmata dal regio cappellano maggiore don Gabriel Sanchez de Luna in data 16 novembre 1614; la dichiarazione dei testimoni fu redatta in data 15 marzo 1614 (Archivio di Stato di Napoli “Asna”, Collegio dei Dottori provenienti da Capua o dintorni, b.313, f.lo 136, anno 1614).
  1. donna Isabetta, nata in Casapulla il 04 aprile 1593 che andò sposa il 24 settembre 1620 a don Gian Matteo Menicillo di Macerata di Capua.
  2. Cradia sposa nel 1608 Stefano Buonpane.
  3. Faustina Sposa Giovan Pietro Sacco.

   
Stemma
 de Natale
 inquartato sec. XV/XVI
ancora esistente sotto l'androne del primo palazzo, già "de Natale". su Via Diaz
girando a destra venendo da Via G.Stroffolini all.altezza della chiesa della
SS.Concezione
Nel 1595 i "de Natale"furono insigniti del titolo di marchese dal re Filippo I° di Napoli e Sicilia (16/01/1556-13/09/1598). Informazione tratta dai registri di Serra di Gerace foglio 1625 (Grande Archivio di Stato di Napoli)


don Marco Aurelio sposò nel 1602 donna Ferdinanda Amedea NATALE di Casapulla e da lei ebbe tre figli:
  1. don Giulio Antonio nato in Casapulla il 18 giugno 1603
  2. donna Amedea nata in Casapulla il 27 giugno 1604 che andò sposa il 07 gennaio 1627 a don Francesco Granata di Capua.
  3. don Francesco Antonio nato in Casapulla il 28 gennaio 1606.
don Marco Marcelliano (Marcello) sposò nel 1608 donna Padovana Menicillo di Macerata Campana diocesi di Capua[10].
della famiglia

Padovana discendeva dalla famiglia a cui apparteneva SANTO STEFANO MENICILLO A.D. 935 protettore della Città di Caiazzo (Caserta).

SANTO STEFANO  MENICILLO

reliquiario di 
Santo Stefano Menicillo
donato dal re d'Italia Umberto I°
Cattedrale di Caiazzo

NEL TEMPO CHE IL LONGOBARDO LANDOLFO, SOPRANNOMINATO CAPODIFERRO, ERA PRINCIPE DI CAPUA, E PROPRIAMENTE NELL’ANNO 935, PRESSO 1 LAGNI E PROBABILMENTE NELL’ATTUALE VILLAGGIO DI MACERATA PRESSO CAPUA, DA GIOVANNI MENICILLO E DA GUISELBERTA NACQUE UN BAMBINO AL QUALE FU DATO IL NOME DI STEFANO, PER DEVOZIONE PRESSO IL PROTOMARTIRE, PROTETTORE DELLA CITTÀ E DIOCESI DI CAPUA. FIN DALLA TENERA ETÀ SI SCORGEVA IN LUI ALCUNCHÈ DI CELESTE, E LO STESSO PRECOCE SVILUPPO CORPORALE SEMBRAVA PIÙ EFFETTO DI GRAZIA DIVINA CHE DI PREVIDENZA ED INDUSTRIA MATERNA, FACENDO CONCEPIRE AI FORTUNATI GENITORI LE PIÙ LIETE SPERANZE E QUASI UN SENTIMENTO D’AMMIRAZIONE PEL FANCIULLO FAVORITO DELL’ALTISSIMO. IN QUELL’EPOCA, ANCORA NON ESISTEVANO I SEMINARI PER L’EDUCAZIONE DEI CHIERICI; E QUESTI VENIVANO EDUCATI NEI MONASTERI O PRESSO QUALCHE CHIESA, DOVE, DOPO UN CONVENIENTE TIROCINIO, ERANO ASCRITTI AL CLERO; E PERÒ STEFANO NON APPENA EBBE RAGGIUNTO IL SETTIMO ANNO D’ETA FÚ MANDATO E ACCOLTO NELL’OSPIZIO CHE SORGEVA IN CAPUA PRESSO LA CHIESA DEL SALVATORE, EDIFICATA DALLA CONTESSA ADELGRINA. FU IN QUEL CENACOLO DI VIRTÙ E DI SCIENZA CHE SI MANIFESTÒ TUTTA LA BONTÀ E GRANDEZZA D’ANIMO DEL FANCIULLO DELIGENTISSIMO NEL SEGUIRE GLI INSEGNAMENTI DEI SUOI MAESTRI, IN BREVE APPRESE LE MELODIE LITURGICHE, E LA SUA VITA ERA TUTTA IMPIEGATA NELLA SALMODIA, NELLO STUDIO E NELLA PREGHIERA. COL PENSIERO DI DIO SEMPRE PRESENTE, SI ERA TALMENTE ACCESO DI CARITÀ PER LUI, DA SPREGIARE DEL TUTTO I BENI CON TANTO ARDORE AGOGNATI DAI MONDANI. TRA LE VIRTÙ, ERA INNAMORATO IN MODO SPECIALE DELLA PUREZZA, CHE NON SOLTANTO PRATICAVA, MA INSEGNAVA AI SUOI CONDISCEPOLI, CORREGGENDO SOAVEMENTE ED EFFICACEMENTE QUELLI A CUI TROPPO PESAVA LA ANGELICA VIRTÙ.E NON OSTANTE CHE TALVOLTA SI ELEVASSE A CENSORE DELLE ALTRUI MANCANZE, ERA TALE LA SOAVITÀ DEI SUOI MODI, CHE AMAVA ED ERA RIAMATO DA TUTTI. QUESTO CORREDO DI DOTI E DI BELLE VIRTÙ ATTIRÒ SUL GIOVANE STEFANO GLI OCCHI DEL CLERO E DELL’ABATE DI QUELLA CHIESA; I QUALI, RIFLETTENDO AL GRAN BENE CHE AVREBBE POTUTO OPERARE UN SACERDOTE FORNITO DI TANTA VIRTÙ E SCIENZA, LO ASCRISSERO TRA I CHIERICI, E POI LO VOLLERO INIZIATO AGLI ORDINI SACRI, SINO AL GRADO E ALL’ONORE DI SACERDOTE. LA SUA PAROLA ERA FUOCO CHE INCENERIVA IL VIZIO ED ACCENDEVA NEI CUORI UN INCENDIO DI AMORE AL BENE; ERA BALSAMO SOAVE PER GLI AFFLITTI, SOLLIEVO E REDENZIONE PER I PECCATORI. LA SUA MANO ERA L’ISTRUMENTO DELLA PROVVIDENZA NEL BENEFICARE, ED EGLI SI FECE TUTTO A TUTTI PER SALVARNE LE ANIME; IN MODO CHE SI GUARDAVA A LUI COME AL SACERDOTE FATTO VERAMENTE SECONDO IL CUORE DI DIO. E QUANDO SI TRATTÒ DI DARE UN SUCCESSORE ALL’ABATE PIETRO, NON SI EBBE UN MOMENTO SOLO DI ESITAZIONE: STEFANO FU ELETTO ABATE E PARROCO DELLA CHIESA DEL SAN SALVATORE. LA LAMPADA COLLOCATA SUL CANDELABRO DIFFUSE RAGGI DI DIVINA LUCE. IL PROFUMO DELLE VIRTÙ DEL SANTO ABATE SI SPARSE COSÌ LARGAMENTE, CHE LA CHIESA DI SAN SALVATORE DIVENNE COME LA META DEI DESIDERII E DELLE ASPIRAZIONI DEI FEDELI, CHE VI ACCORREVANO DA OGNI PARTE PER TROVARNE LUME, CONFORTO, AIUTO NEI MALI DELL’ANIMA E DEL CORPO. SANTO STEFANO SINO AL 440 ANNO DI SUA VITA VI PROFUSE I TESORI DELLA MENTE E DEL SUO CUORE ANGELICO, FINCHÈ NON PIACQUE AL SIGNORE DI CHIAMARLO A PIÙ LARGO APOSTOLATO. NEL 979 LA SEDE VESCOVILE A CAIAZZO ERA RIMASTA VACANTE PER LA MORTE DEL VESCOVO ORSO. LA DISCIPLINA CANONICA, CHE REGOLAVA IN QUEI TEMPI L’ELEZIONE DEI VESCOVI, CONCEDEVA AL CLERO ED AL POPOLO LA SCELTA DEL NUOVO PASTORE E RISERBAVA AL METROPOLITANO L’ESAME, L’APPROVAZIONE E CONSACRAZIONE DEGLI ELETTI CHE APPARTENEVANO ALLA SUA PROVINCIA ECCLESIASTICA. IL CLERO ED IL POPOLO DI CAIAZZO CONVENUTI PER L’ELEZIONE NON EBBERO CHE UN SOL PENSIERO, UN SOLO DESIDERIO: AVERE IL SANTO ABBATE STEFANO PER LORO VESCOVO. LO CHIEDONO CON FERVIDA PREMURA ALL’ARCIVESCOVO DI CAPUA GEBERTO ED AL PRINCIPE PANDOLFO, I QUALI PER QUANTO DESIDERASSERO DI RITENERE IN CAPUA IL PIO ABATE, NON POTERONO DISCONOSCERE LA BONTÀ DELLA SCELTA FATTA DAI CAIATINI, E DIEDERO IL LORO GRADIMENTO, PER MODO CHE STEFANO MENICILLO FU SOAVEMENTE INDOTTO A SOTTOPORSI ALL’ONORE DELL’EPISCOPATO. LA CONSACRAZIONE GLI FU CONFERITA DAL MEDESIMO GERBERTO, ASSISTITO DAI SUFFRAGANEI ALDERICO VESCOVO DI CALAZIA[11] E LEONE VESCOVO DI SORA, MENTRE SEDEVA SUL SOGLIO PONTIFICALE IL PAPA BENEDETTO XIII. STEFANO ESERCITÒ L’EPISCOPATO CON TALE DILIGENZA E FEDELTÀ,CHE DIVENNE UN GRAN SANTO E RICEVETTE DA DIO ANCHE IL DONO DEI MIRACOLI. I QUALI OPERATI IN UN EPOCA IN CUI NON MANCARONO ERESIE CONTRO IL DOGMA EUCARISTICO, PER UN CASO PROVVIDENZIALE HANNO QUASI TUTTI RELAZIONE A QUEL SOVRANO MISTERO D’AMORE, COME AD AFFERMARE LA VERITÀ DI FEDE E L’AMOROSO CULTO DEL SANTO A GESÙ IN SACRAMENTO. ECCO STEFANO NELLA SUA DIOCESI. EGLI LI AMA TUTTI I SUOI FIGLIUOLI SPIRITUALI E SI PRODIGA CON INCREDIBILE ZELO. NON CONOSCE RIPOSO: PREDICA, AMMONISCE, CORREGGE, CONSOLA, SOCCORRE; E DI GIORNO E DI NOTTE NON HA CHE UN PENSIERO; SALVARE LE SUE PECORELLE. I BUONI EFFETTI NON TARDARONO A MOSTRARSI: POICHÈ MENTRE CONTINUE LOTTE DILANIAVANO I VICINI PAESI, ANZI L’ITALIA INTERA, UNA DOLCE PACE, UNA SOAVE TRANQUILLITÀ AVVOLGEVA LA CHIESA CAIATINA; PERCHÉ V’IMPERAVA SOVRANA LA LEGGE DELLA CARITÀ PRATICATA E PREDICATA DA UN SANTO. GLI ODII SI ESTINGUEVANO PER DAR LUOGO AL CRISTIANO PERDONO, I CUORI SI UNIVANO IN DIO ED IL FLAGELLO DELLA GUERRA ERA TENUTO LONTANO DALLE PREGHIERE DELL’INCLITO PASTORE, CHE, NOVELLO GIUDA MACCABEO, LUNGAMENTE E FERVOROSAMENTE PREGAVA PER IL SUO POPOLO E PER LA SUA CITTÀ E DIOCESI. IL SANTO TEMPIO ERA SEMPRE GREMITO DI FEDELI, CHE VEDEVANO UN ANGELO DEL CIELO OFFRIRE SULL’ALTARE IL MITICO AGNELLO SENZA MACCHIA; E ACCORREVANO ALLA S.MESSA PER RICEVERE DALLE SUE MANI L’EUCARISTICO CONFORTO, MENTRE DIO NE AVVALORAVA LA FEDE CON STREPITOSI PRODIGI OPERATI PER MEZZO DEL SUO FEDELE MINISTRO. È IL GIORNO DI PASQUA. IL SANTO VESCOVO HA CELEBRATO I DIVINI MISTERI E PORGE IL CALICE AD UNO DEI CHIERICI, ASSISTENTI, PERCHÈ VENGA PURIFICATO. SECONDO L’USO DI QUEI TEMPI IL CALICE ERA DI VETRO ED IL BUON CHIERICO FORSE DOVETTE METTERE TROPPA FORZA NEL TENERLO, IN MODO CHE SI RUPPE IN MOLTI PEZZI. STEFANO VEDE, E SI FA PORTARE LE PARTICELLE DEL CALICE INFRANTO, PREGA, ED IL SACRO VASO RITORNA ALLA PRIMITIVA INTEGRITÀ FRA LO STUPORE DEGLI ASTANTI, CHE VEDONO MANIFESTO IL DITO DI DIO. UN ALTRO ANNO, RICORRENDO LA MEDESIMA SOLENNITÀ DELLA PASQUA, IL SANTO, ACCOMPAGNATO DAI CHIERICI, DISCENDE FINO ALLA BALAUSTRA PER AMMINISTRARE AL POPOLO LA SANTA COMUNIONE, QUANDO PER LA RESSA DEI FEDELI, UNA COLONNA DI MARMO SI ABBATTE SULLA FOLLA CHE SI ASSIEPAVA INTORNO. UN GRIDO DI TERRORE SFUGGE DAL PETTO DEI CIRCOSTANTI; MA TUTTI RIMANGONO ILLESI E GLORIFICANO DIO CHE TANTO POTERE AVEVA DATO AL LORO SANTO PASTORE. NÉ QUI FINISCONO I PRODIGI OPERATI DA SANTO STEFANO IN RELAZIONE COLLA SS.EUCARESTIA. ESSENDOSI IL SANTO RECATO COI SUOI CHIERICI IN UNA VILLA PER CONSACRARE UN ALTARE NELLA CHIESA DI SAN MASSIMO, COMPITO IL SUO MINISTERO, SI RITIRÒ NELLA CASA DEL SACERDOTE CHE AVEVA IN CUSTODIA QUELLA CHIESA PER CONSUMARE UNA MODESTA REFEZIONE. FRATTANTO UN CANE ENTRATO NEL TEMPIO E TROVATO INCUSTODITA UN OBLATA, CIOÈ LA MATERIA DEL DIVIN SACRIFICIO, L’OSTIA DIREMMO OGGI, OFFERTA E BENEDETTA UNA NON ANCOR CONSACRATA, LA PRESE E FUGGÌ PER MANGIARLA IN LUOGO SICURO; MA QUANDO GIUNSE PRESSO LA DIMORA DI STEFANO, DA ARCANA FORZA FU COSTRETTO A DEPORLA; NÈ POTENDO PIÙ ADDENTARLA, ULULANDO RICHIAMAVA SUL POSTO ALTRI CANI, I QUALI NEPPURE POTERONO TOCCARLA. ERA ACCORSO NUMEROSO POPOLO E VI ANDÒ ANCHE IL SANTO, CHE LA RACCOLSE E DIEDE A CONSUMARE AI FEDELI, CHE AMMIRARONO ANCORA UNA VOLTA LA VIRTÙ TAUMATURGICA DEL BUON PASTORE. UN FATTO NON DISSIMILE ALLORCHÈ AVENDO STEFANO CELEBRATO I DIVINI MISTERI E AMMINISTRATO LA S.COMUNIONE AL CLERO ED AL POPOLO, CONSEGNÒ LE SANTE SPECIE Al SUOI LEVITI PERCHÉ LE CUSTODISSERO CON OGNI ACCURATEZZA; MA DURANTE LA NOTTE ALCUNI TOPI SCAVARONO UN FORO NELLA PARETE DEL TABERNACOLO E GIUNSERO ANCHE A RODERE LA TECA; MA QUANDO VOLLERO TOCCARE IL PANE EUCARISTICO, REPENTINAMENTE MORIRONO. CHE SE DAL POCO È LECITO CONGETTURARE IL MOLTO CHE LA STORIA NON CI HA TRAMANDATO, POSSIAMO DIRE CON TUTTA RAGIONE, CHE IL SANTO VESCOVO STEFANO, ANCHE IN VITA EBBE DA DIO IL DONO DI OPERARE GRANDI PRODIGI, CHE VALSERO A RENDERE IL SUO EPISCOPATO ANCOR PIÙ FECONDO DEI MAGGIORI BENI SPIRITUALI E TEMPORALI. INTANTO IL PIO PANDOLFO, MUNIFICO BENEFATTORE DELLA SEDE VESCOVILE DI CAIAZZO, ERA ANDATO IN CIELO A RICEVERE IL PREMIO DELLE SUE BUONE OPERE; ED I SUOI EREDI LANDONE ED ADENOLFO DEL TUTTO DISSIMILI DAL LORO GLORIOSO CONGIUNTO, TENTERONO DI RITOGLIERE ALLA CHIESA CAIATINA I BENI DEI QUALI ERA STATA DOTATA. ESSI AVEVANO DIMENTICATO CHE SU QUELLA SEDE VI ERA STEFANO, GELOSO CUSTODE E VINDICE DEI DIRITTI DI DIO E DELLA CHIESA. IL VESCOVO NELLA VENERANDA CANIZIE DEI SUOI 72 ANNI, INCURANTE DEL DISAGIO, SI PRESENTA AL CONCILIO PROVINCIALE CHE L’ARCIVESCOVO PANDOLFO AVEVA CONVOCATO IN CAPUA, ED AI VESCOVI ADUNATI DICE: “SIGNORI E CONFRATELLI, VOGLIO CHE SAPPIATE CHE LA MIA SEDE È RIDOTTA AL NULLA”. E SICCOME LA SUA VOCE PER GLI ACCIACCHI DELLE INFERMITÀ E DELLA VECCHIEZZA ERA COSÌ DEBOLE, CHE NON ARRIVAVA ALL’ORECCHIO DI TUTTI, L’ARCIVESCOVO LO PREGÒ DI ALZARE MAGGIORMENTE LA VOCE SE LO POTESSE, O DI CHIAMARE QUALCUNO DEI SUOI CHIERICI CHE POTESSE E SAPESSE ESPORRE LE SUE RAGIONI. FU CHIAMATO IL DIACONO GIOVANNI, CHE ESPOSE AL CONCILIO I DANNI E LO SPOGLIAMENTO PATITI DALLA CHIESA CAIATINA PER OPERA DEI DUE CONTI. NE DI CIÒ PAGO, STEFANO TRASSE LANDONE E ADENOLFO INNANZI AL GIUDICE ADELFERIO ED OTTENNE LA RESTITUZIONE DEL MAL TOLTO. GLI ANNI CHE ANCORA VISSE, IL BUON PASTORE LI IMPIEGÒ NELLA PROPRIA E NELL’ALTRUI SANTIFICAZIONE NELLA CONTINUA UNIONE CON DIO PER LA PREGHIERA E NELL’ACCURATA PREPARAZIONE ALLA MORTE. E QUANDO EBBE COMPIUTO 44 ANNI DI EPISCOPATO E GLI 88 DI ETÀ, CARICO DI MERITI, MATURO PER LA GLORIA CELESTE, IL 29 OTTOBRE DEL 1023 SE NE VOLAVA AL CONSORZIO DI DIO, DOVE RIMANE PERENNE PROTETTORE DELLA CITTA’ E DIOCESI DI CAIAZZO. IL CORPO DEL SANTO RIVESTITO DEGLI ABITI PONTIFICALI, FU DEPOSTO NELLA CHIESA CATTEDRALE IN UN MODESTO SEPOLCRO CHIUSO E CUSTODITO DA UNA SOLIDA INFERIATA; MA I SACERDOTI GLI AVEVANO RIVERENTEMENTE RECISO UN DITO, CHE SERBARONO COME SACRA RELIQUIA DA ESPORRE ALLA VENERAZIONE ED AL BACIO DEI FEDELI IL 29 OTTOBRE ANNIVERSARIO DEL GLORIOSO TRANSITO DEL GRANDE PASTORE, CHE, A SOMIGLIANZA DEL DIVIN MAESTRO, ERA PASSATO BENEFICANDO.

MIRACOLI OPERATI DAL SANTO DOPO LA MORTE

E VICENDE DELLE SUE PREZZIOSE RELIQUIE


L’INSIGNE SANTITÀ DEL VESCOVO STEFANO MENICILLO ERA RIMASTA COSÌ IMPRESSA NELLA MENTE E NEL CUORE DEI CAIATINI E DEGLI ALTRI À QUALI N’ERA GIUNTA LA FAMA, CHE SI VERIFICÒ BEN PRESTO IL NOTO DETTO D’ISAIA (X1‑10): ET ERIT SEPULCHRUM EIUS GLORIOSUM, E IL SEPOLCRO DI LUI SARÀ GLORIOSO. POICHÈ IL SEPOLCRO DEL SANTO, SEMPRE ORNATO DI LAMPADE, DI LUMI E DI FIORI, DIVENNE LA META DELLE PREGHIERE E DEI VOTI D’INNUMEREVOLI FEDELI, CHE VI ACCORREVANO ANCHE DALLE CIRCONVICINE DIOCESI, E NE RIPORTAVANO CONFORTO, AIUTO E GRAZIA STRAORDINARIE; TANTO CHE IL 22 LUGLIO DEL 1284, SOTTO IL PONTIFICATO DI MARTINO IV E L’EPISCOPATO DI GERALDO DA NARNI, IL LEGATO APOSTOLICO CARD. GERARDO, VESCOVO DI SANTA SABINA, ASSISTITO DAI VESCOVI DI AVERSA, SANT’AGATA DEI GOTI, GAETA, UGENTO E CAIAZZO, GLI DEDICAVA LA CHIESA CATTEDRALE, DI CUI PRIMA ERA TITOLARE SANTA MARIA MADDALENA, COME SI LEGGEVA SOPRA UNA PIETRA COLLOCATA FUORI LA PORTA DELLA CATTEDRALE E RIPORTATA DA OTTAVIANO MELCHIORRI[12]. NE MANCARONO I PRODIGI OPERATI A INTERCESSIONE DI LUI. NEL PRIMO ANNO DOPO LA MORTE DI STEFANO, TROVANDOSI UN SACERDOTE GRAVEMENTE TORMENTATO DA FORTISSIME FEBBRI PER MODO CHE SI DISPERAVA DI VEDERLO GUARITO, IL SANTO VESCOVO APPARVE DI NOTTE A UNA PIA DONNA E LE COMANDÒ DI RECARSI PRESSO L’INFERMO E DIRGLI, CHE RICEVEREBBE LA SANTITÀ AL DI LUI SEPOLCRO, SE VI SI RECASSE DOPO ESSERSI ACCOSTATO CON SENTIMENTI DI VERO DOLORE AL SACRAMENTO DELLA PENITENZA. LA BUONA DONNA SI LEVÒ PER SEGUIRE IL COMANDO, MA CADDE IN MALO MODO, SI CHE NON POTÈ MUOVERE PASSO; PER CUI RIVOLTA AL SANTO ESCLAMAVA: “SE SEI VERAMENTE CONFESSORE DI CRISTO, RIDONAMI LA SANITÀ ED IO ESEGUIRÒ I TUOI VOLERI”. LA GUARIGIONE FU ISTANTANEA; ED ELLA SI RECÒ SUBITO DALL’INFERMO, CHE AVENDO ESEGUITO QUANTO GLI ERA IMPOSTO, RIMASE DEL TUTTO LIBERO DALLE FEBBRI. SIMILMENTE UNA DONNA, CH’ERA TRIBOLATA DA MOLTE INFERMITÀ, AVENDO PREGATO FERVOROSAMENTE PRESSO QUEL SEPOLCRO, OTTENNE LA DESIDERATA GUARIGIONE. A QUEL BENEFICO SEPOLCRO FU PORTATO ANCHE UN CHIERICO CHE SOFFRIVA D’UN DOLORE NEI FIANCHI COSÌ ACUTO, DA SEMBRARGLI DI DOVERE DA UN MOMENTO ALL’ALTRO ESALARE L’ULTIMO RESPIRO; ED IVI, DOPO BREVE E FERVOROSA PREGHIERA, RIEBBE LA BRAMATA SANITÀ. E POCHI ANNI DOPO LA MORTE DI STEFANO UNA POVERA FANCIULLA PARALITICA PORTATA INNANZI A QUEL TAUMATURGO DEPOSITO, SE NE TORNÒ A CASA DA SOLA, SENZ’AIUTO DI ALCUNO. IL CHE AVENDO VISTO UN INFELICE CHE NON AVEVA L’USO DELLE MANI, VI CORSE ANCHE LUI ED OTTENNE LA GRAZIA. NE DEVE AMMETTERSI IL FATTO CHE ACCADDE, QUANDO UNA DONNA TORMENTATA GRAVEMENTE DAL DEMONIO, CONDOTTA A QUEL GLORIOSO SEPOLCRO, DOPO LE PREGHIRE DEI MOLTI FEDELI CHE L’AVEVANO ACCOMPAGNATA, SI SENTÌ COMPLETAMENTE LIBERA DALL’OSSESSIONE, MENTRE L’IMMONDO SPIRITO NEL LASCIARLA, ESCLAMAVA. NON VOI, NON VOI, MA STEFANO MI HA CACCIATO[13]. NEL 1512 DOPO 489 ANNI DACCHÈ IL SANTO ERA VOLATO AL CIELO, IL VESCOVO VINCIO MASSA, SALERNITANO, PENSÒ DI ESUMARE IL SACRO CORPO, PER COLLOCARLO IN PIÙ RICCO SEPOLCRO E MEGLIO ESPORLO ALLA PUBBLICA VENERAZIONE. NE INCARICÒ IL SAGRISTA MAGGIORE DELLA CATTEDRALE, ANDREA, SACERDOTE PIO NON MENO CHE ROBUSTO, RACCOMANDANDOGLI DI COMPIERE IL LAVORO SEGRETAMENTE E DI NOTTE, PERCHÉ IL POPOLO AL MATTINO AVESSE LA DOLCE SORPRESA DI TROVARE IN PIÙ ONOREVOLE LUOGO QUELLE SANTE RELIQUIE; MA PURTROPPO, IL POVERO SACERDOTE NON POTÈ TROVARE TRACCIA DELLE OSSA DEL SANTO. CORSE A DARNE IL TRISTE ANNUNZIO AL VESCOVO, CHE SE NE AFFLIGGE ASSAI, PAVENTANDO CHE IL PREZZIOSO DEPOSITO FOSSE STATO INVOLATO, COM’ERA FREQUENTE IN QUEI TEMPI; E CHE IL POPOLO INFORMATO DEL FATTO SI LEVASSE A TUMULTO; E INTANTO FA COLLOCARE NEL SEPOLCRO UN ALTRO SCHELETRO, PERCHE I FEDELI DI NULLA POTESSERO ACCORGERSI; MA QUANDO L’INDOMANI FU APERTA LA CHIESA, ACCADDE PER DIVINA DISPOSIZIONE CHE GLI ACCORSI NON SOLO NON RICONOBBERO IN QUELLE POCHE OSSA IL CORPO DEL LORO AMATO PROTETTORE, MA TUTTI E SPECIALMENTE I CAPI DEL POPOLO COMINCIARONO A TUMULTUARE ED A MINACCIARE LO STESSO LORO PASTORE, ACCUSANDOLO DI AVERE CIÒ OPERATO PER ESTINGUERE LA DEVOZIONE VERSO IL SANTO. IL BUON PRELATO, CON IL CUORE PIENO DI AMAREZZA, SCALZO ED ACCOMPAGNATO DAL SACERDOTE GIROLAMO DE GENTILE, SUO FAMILIARE, SI RECÒ ALLA CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE, DOVE DIGIUNANDO, PIANGENDO E PREGANDO, SUPPLICÒ LA BUONA MADRE DI VOLERLO ILLUMINARE IN QUEL TERRIBILE FRANGENTE. LA VERGINE LO
O AMATISSIMO PADRE, ECCO PROSTRATI INTORNO A VOI I FIGLI VOSTRI. VOI CHE CI AMASTE TANTO IN QUESTA MISERA TERRA FINO A LASCIARE IN MEZZO DI NOI IL PREZIOSO DEPOSITO DEL VOSTRO BENEDETTO CORPO; VOI CHE VERSASTE FINORA DAL CIELO SOPRA DI NOI E DÈ NOSTRI PADRI TORRENTI DI GRAZIE E DI BENEDIZIONI; VOI CHE CI AVETE PRESERVATO TANTE VOLTE DA TERREMOTI, DA INCENDI, DA PESTILENZE, DA ROVINE, E DA ALTRI MERITATI FLAGELLI; PROSEGUITE A STENDERE SOPRA DI NOI, QUANTUNQUE INDEGNI, LA VOSTRA BENEFICA MANO, IL VOSTRO MANTO DI PADRE E PROTETTORE. NOI TUTTI VE NE PREGHIAMO PER QUANTO AMORE PORTASTE À NOSTRI PADRI ANTICHI NEL VOSTRO LUNGO EPISCOPATO, PER QUANTO AMORE PORTASTE AL VOSTRO DIO. IL VOSTRO VENERANDO NOME, O STEFANO, DOPO QUELLO DI GESÙ E DI MARIA, CI SARÀ SEMPRE SU LA CIMA DEI PENSIERI, SEMPRE SU LE LABBRA PIÙ DOLCE DEL MIELE, PIÙ CARO DI QUALUNQUE NOME. E VOI, O SANTO, PROTEGGICI NELL’ANIMA DA QUALSIASI COLPA; PROTEGGICI NEL CORPO E NELLE SOSTANZE DA DIVINI CASTIGHI. PROTEGGICI NEL CORSO DI QUESTA MISERA VITA; MA SOPRATTUTTO PROTEGGICI NELL’ORA TERRIBILE DELLA MORTE DAL MALIGNO DRAGONE D’INFERNO.COSÌ SIA.


NOVENA DI SANTO STEFANO


Che si suole recitare nella cattedrale di Caiazzo in preparazione alla festa
(comincia ai 20 ottobre)I
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE ANCOR BAMBINO FOSTE ARRICCHITO DAL SIGNORE DI TANTA GRAZIA DA FORMARE LA MERAVIGLIA E LO SPETTACOLO DEL POPOLO DI MACERATA, VOSTRA PATRIA, ARRICCHITE CON LE VOSTRE PREGHIERE ANCHE 1 NOSTRI POVERI CUORI DI TUTTE LE GRAZIE CHE CI SONO NECESSARIE; ONDE NOI PURE CAMMINANDO A VOSTRA IMITAZIONE SU LE VIE DEI DIVINI COMANDAMENTI, POSSIAMO FORMAR LO SPETTACOLO DEGLI ANGELI E DEGLI UOMINI.
Un Pater, Ave e Gloria.
II
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE RINCHIUSO DI BUON’ORA NEL COLLEGIO DI CAPUA, FOSTE L’ESEMPLARE E LO SPECCHIO DEI VOSTRI COMPAGNI PER LA SANTITÀ E LA SCIENZA, DI CHE FOSTE DA DIO ADORNATO; IMPETRATECI CON LE VOSTRE PREGHIERE L’AMORE ALLA VITA NASCOSTA, LA VERA SANTITÀ DEL CUORE, LA SCIENZA DELLE COSE DIVINE; ONDE NOI PURE LONTANI DAL MONDO INGANNATORE POSSIAMO MERITARCI UN BEL GIORNO QUEL SERTO IMMORTALE DI GLORIA, DI CHE FOSTE CORONATO NEI CIELI.
Un Pater, Ave e Gloria.
III
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE ELETTO ABBATE DEL SS.SALVATORE DI CAPUA, MOSTRASTE TANTO ZELO, SANTITÀ E PRUDENZA NEL GOVERNO DELLE ANIME A VOI AFFIDATE, DA FORMARE VERAMENTE IL MODELLO DEL BUON PASTORE, OTTENETECI CON LE VOSTRE PREGHIERE LA FORZA PER BEN GOVERNARE GLI AFFETTI DEL NOSTRO CUORE; ONDE CHIUSO PER SEMPRE ALLE SUE SUGGESTIONI DEL DEMONIO, SIA APERTO SOLAMENTE ALLE VOCI DI DIO, ALLA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO.
Un Pater, Ave e Gloria.
IV
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE FATTO VESCOVO DELLA CITTÀ E DIOCESI DI CAIAZZO, FOSTE PER 44 ANNI LA LUCE DEL MONDO, IL SOLE DELLA TERRA, IL VESCOVO VERAMENTE IRREPRENSIBILE E SANTO, COME LO DESCRIVE L’APOSTOLO DELLE GENTI; IMPETRATECI CON LE VOSTRE PREGHIERE UNA VITA CASTA E IMMACOLATA AL COSPETTO DEL CIELO E DELLA TERRA; ONDE NOI PURE EDIFICANDO IL PROSSIMO CON LE NOSTRE VIRTÙ POSSIAMO INSEGNARGLI CON L’ESEMPIO LA VIA DEL PARADISO.
Un Pater, Ave e Gloria.
V
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE CONFORTATO SEMPRE DALL’ONNIPOTENZA DIVINA OPERASTE TANTI MIRACOLI E VIVO E MORTO A FAVORE DEL POPOLO CAIATINO; OPERATE CON LA VOSTRA INTERCESSIONE IL MIRACOLO DI TUTTI I MIRACOLI, LA CONCESSIONE DEI NOSTRI CUORI DALLE VANITÀ DEL MONDO ALLE VERE VIRTÙ CRISTIANE; ONDE NOI PURE CAMMINANDO SULLE VOSTRE ORME POSSIAMO ESSERVI UN BEL GIORNO COMPAGNI NELLA GLORIA IMMORTALE DEI CIELI.
Un Pater, Ave e Gloria.
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE DOPO 490 ANNI MOSTRASTE AL POPOLO DI CAIAZZO INTERO ED INCORROTTO IL VOSTRO SACRATISSIMO CORPO, E SPIRANTE PER MIRACOLO SOAVISSIMO ODORE; PRESEVATE CON LE VOSTRE PREGHIRE INTERI ED INCORROTTI DALLA PUTREDINE DELLA COLPA I NOSTRI CUORI, E SEMPRE SPIRANTI L’ODORE DELLE PIÙ BELLE VIRTÙ CRISTIANE. NOI VE NE PREGHIAMO, O SANTO; VOI ESAUDITECI, E LA GLORIA, DOPO DIO, SARÀ TUTTA VOSTRA.
Un Pater, Ave e Gloria.
VII
GLORIOSISSIMO PROTETTORE S.STEFANO, VOI CHE IN MEZZO AGLI ANGELI ED AI SANTI GODETE ETERNAMENTE IN CIELO QUELLA GLORIA BEATA, CHE BEN SAPESTE MERITARVI SOPRA LA TERRA CON L’EROISMO DELLA FEDE, DELLA SPERANZA, DELLA CARITÀ, E DI TUTTE QUANTE LE ALTRE VIRTÙ CHE ADORNARONO IL VOSTRO BEL CUORE NEGLI 88 ANNI CHE VIVESTE VITA MORTALE; IMPETRATECI CON LE VOSTRE PREGHIERE LA GRAZIA DI MENARE VIRTUOSAMENTE I NOSTRI GIORNI IN QUESTA VALLE DI LACRIME; ONDE NOI PURE POSSIAMO AVERE UNA VOLTA LA BELLA SORTE DI CANTARE IN VOSTRA COMPAGNIA LE LODI E LE GLORIE DEL NOSTRO COMUNE SALVATORE NEL CORSO INFINITO DEI SECOLI.
Un Pater, Ave e Gloria.
CANZONE IN ONORE DI S.STEFANO
DEL TUO POPOLO DEVOTO
SALVE ILLUSTRE PROTETTORE
DI CAIAZZO IL PRIMO ONORE
LA PIÙ DOLCE EREDITÀ
LE TUE LAUDI ECHEGGERANNO
SINO AGLI ULTIMI CONFINI
CHÈ NEL CUORE DEI CAIATINI
NON È SPENTA LA PIETÀ
GRANDE IN TERRA, OR SEI NEL CIELO
GRANDE TROPPO ASSAI POTENTE
NÈ DEI SECOLI IL TORRENTE
LE TUE GLORIE COPRIRÀ.
E IL TUO NOME INVOCHERANNO
ANCHE I TENERI BAMBINI
CHÈ NEL CUORE DEI CAIATINI
NON È SPENTA LA PIETÀ
SE MINACCIA IL CIELO IRATO
DI STERMINIO L’INFELICE,
LA TUA DESTRA SALVATRICE
LO PROTEGGE IN OGNI ETÀ.
CESSA IL POPOLO DAL PIANTO
COME IL VOLTO À PRIEGHI INCHINI,
CHÈ NEL CUOR DÈ CAIATINI
NON È SPENTA LA PIETÀ
SALVE O PADRE; I FIGLI TUOI
GUARDA STRETTI A TE D’INTORNO
SPLENDA PURE IN QUESTO GIORNO
SOPRA LOR LA TUA BONTÀ
VENGA TECO IL POPOL TUO
A GIOIR TRA I CHERUBINI,
CHE NEL CUOR DE’CAIATINI
NON È SPENTA LA PIETÀ.
don Marco Marcello de NATALE e donna Padovana Menicillo[14] generarono nove figli:
  1. donna Fausta nata il 24 Gennaio 1609 in Casapulla.
  2. don Gennaro nato il 3 Maggio 1610 in Casapulla deceduto neonato.
  3. donna Maria Giovanna nata il 4 Gennio 1612 in Casapulla.
  4. donna Rosa nata l’11 Giugno 1613 in Casapulla.
  5. donna Maria nata i1 27 Marzo 1615 in Casapulla.
  6. don Paolo Antonio nato il 24 Maggio 1617 in Casapulla.
  7. don Gennaro nato il 9 Giugno 1619 in Casapulla.
  8. don Paolo Emilio nato il 25 Luglio 1621 in Casapulla, notaio.
  9. don Carminio nato il 16 Luglio 1623 in Casapulla.
don Paolo Emilio di Marco Marcello, sposò nel 1641 donna Anna Maria Farina di Caserta e da lei ebbe 7 figli:

  1. don Carlo nato in Casapulla il 13 Giugno 1642.
  2. don Ippolito nato in Casapulla il 24 Ottobre 1645.
  3. donna Flavia nata in Casapulla il 12 Gennaio 1647.
  4. donna Maria Vittoria nata in Casapulla il 4 Dicembre 1648 deceduta bimba.
  5. donna Caterina nata in Casapulla il 29 Novembre 1650.
  6. donna Maria Vittoria nata in Casapulla il 13 Dicembre 1652.
  7. don Nicola nato in Casapulla il 4 Febbraio 1655
Don Carminio di Marco Marcello, sposò nel 1645 (?) donna Beatrice di CAPRIO[15] poi, in seconde nozze  (1672) donna Giulia LOMBARDO ( 1649? – 1716) di don Pietro della città di Maddaloni e da lei ebbe 5 figli:
  1. don Marco Marcello nato il 21 Gennaio 1673 in Casapulla deceduto sempre in Casapulla il 3 febbraio 1717
  1. donna Padovana nata il 26 Febbraio 1675 in Casapulla, suora.
  2. don Benedetto nato il 20 Gennaio 1677 in Casapulla ed ivi deceduto il 6 Dicembre 1752, sacerdote.
  3. don Giuseppe nato in Casapulla il 3 Luglio 1678.
  4. donna Beatrice che sposa Giacinto Pagano (?)
don Marco Marcello di don Carminio convolò in nozze il 19 Giugno 1706*[16]con donna Brigida Anna Maria[17] figlia di Clemente Buonpane e di donna Angela de Letizia entrambi di Casapulla.

Stemma
 BUONPANE
antenati dei marchesi
de Natale Sifola Galiani


Da questo matrimonio nacquero 5 figli:

1.    don Carminio, nato in Casapulla il 14 Dicembre 1709[18]* ed ivi deceduto il 23 Marzo 1724.
2.  don Bernardo, Elpidio, Erenio, nato in Casale di Casapulla il 7 Agosto 1711[19]*, morì il 29 settembre 1774[20]* in Casapulla nel proprio palazzo avito[21]
  1. donna Anna Maria nata il I° Giugno 1714 in Casapulla.
  2. donna Dorotea nata il 12 Novembre 1715 in Casapulla.
  3. donna Angela Maria nata il 23 Aprile 1720 in Casapulla ed ivi deceduta il 10 Giugno 1796, 
  4. nubile

Stemma
de Natale Sifola
posto sull’altare dedicato alla Madonna della Pietà
Chiesa madre di Sant’Elpidio in Casapulla diocesi di Capua
Beneficio fondato dal m.se don Bernardo de Natale Sifola per se e per i suoi discendenti

Don Bernardo di don Marco Marcello sposò[22] in Casale di Casapulla il 4 Novembre 1733* la baronessa[23] donna Maria Geronima SIFOLA[24]di Torre[25]. Essa era prima figlia del dott. Nicola, barone[26] di Ormeta[27] e patrizio di Trani del Seggio di San Marco.


Emblema del Seggio di San Marco 
della città di Trani


Dalla Platea dei beni[28] della Parrocchia di San Marco Evangelista in Casola (Caserta) è riportato che «... la Parrocchia esige alcuni ducati da coloni, sulla terra detta Melanito, donata dal Magnifico Signore Nicola SIFOLA di Torre[29] per le sante messe[30], per l’acquisto della cera in occasione delle festività del Santo Patrono San Marco Evangelista il 25 Aprile.

Nell’opera Memorie Istoriche della Città di Caserta, Villa Reale, Raccolte dal sacerdote don Crescenzio Esperti[31] dottore in fisica, dato alle stampe in Napoli MDCCLXXIII nella stamperia avelliniana con licenza dè superiori, si legge alla pagina 174:

Nella Torre [32] vi era la nobile famiglia SIFOLA, alla cui eredità e per morte del dott. Salvatore[33] è succeduta donna Geronima SIFOLA, erede in feudalibus per diritto siculo quale figlia unica, che prese per marito don Bernardo de NATALE illustre famiglia di Casapulla di Capua; antecessore a questo fu don Alicordio, che fondò la cappella, per la quale ottenne da Roma molte prerogative, quali da me si tralasciano, avendole registrate a lungo Monsignor Granata Vescovo nel tomo 2 della sua Storia Sacra di Capua. Degni figli di detto don Bernardo NATALE sono li dottori di legge don Vincenzo Maria abate (abate di Corte), don Marcello e don Carminio, il quale in officio di avvocato dimora in Napoli”. 

In altra pagina della stessa opera si legge:“  

Nella TORRE (ossia Caserta Nuova) vi sono i suffeudi posseduti dai Pignatelli, Sersale, Paternò; Vi è altro suffeudo dell’Ormeta, che si possiede da donna Girolama SIFOLA moglie di don Bernardo de NATALE di Cafarella[34]. Dal momento che i conti di Caserta avevano molti Stati, alla loro corte Vi erano i suffeudatari, detti Parvivalvasores essendo loro Magni Valvassori. 

Nel libro dei morti della parrocchia di San Sebastiano Martire si Legge:
Il 25 ottobre 1719 è deceduto Giuseppe Sifola oriundo del Casale di Recale che è morto in comunione con la chiesa poiché ha ricevuti i sacramenti ed è stato sepolto nel camposanto di Caserta. 
Nella Platea dei beni di San Marco Evangelista di Casola (Caserta) alla pag. 4 si legge:
...il 1668 il Barone Silvio Sifola di Pietrapertosa donò alla parrocchia di San Marco Evangelista 15 moggia di terreno per le santissime messe in territorio di Casola in località Montecalvo



                                                                                                                   
                                                            Stemma 
                                                                 Sifola
                                                           sec.Xlll-XlV
                                           signori di Trani già nei sec. lX-X
                                 posto all'esterno della chiesa di S.Francesco
                      prima che la chiesa fosse restaurata si trovava al suo interno
                                                                Trani            

                                              “SIFOLA
                                      Cenni storici su detta famiglia 

Della famiglia SIFOLA, di origine longobarda[35], ne parla molto Carlo de Lellis nel suo Discorso sulle famiglie nobili napoletane pubblicato nell’anno 1671. Egli riferisce, e prova ne danno atto anche gli atti notarili depositati nell’Archivio di Stato di Trani e Napoli, che: tra le famiglie più antiche e principali del Regno di Napoli e che sono hoggi fuor di piazza nobilissime Napolitane, una certo è la SIFOLA; non solo per l’antica Signoria di molte terre, ma per la gran potenza, e quasi assoluto dominio, che tenne un tempo sopra la nobilissima città di Trani. 



L’antica città di Trani che per lustrore di antichità, e di nobiltà concorre con le città primarie del Regno; e si divide in più Seggi, a guisa di questa di Napoli, ma tanto savanza la Casa SIFOLA di nobiltà, potenza, e di grandezza in quella Metropoli, che se ne venne quel proverbio: per li Sifoli e Palagani non si può vivere a Trani, perchè queste due famiglie, quali in un tempo, e quale in un altro, con dispotica signoria, pareva dominassero non solamente in Trani, ma quasi in tutta quella Provincia; e quindi troppo lungo esser si converrebbe, se volessi enumerare tutte le memorie antiche, e gli elogi in più luoghi di quella città fatti sopra la famiglia SIFOLA; dove spesso si veggono l’armi sue, che sono TRE CAPI DI LEONE (o CANI) SANGUINANTI; anzi non solamente in Trani; ma in altre città nobilissime di quella Provincia si leggono iscrizioni, o in marmo incise, o sopra bronzo intagliate, che da tempo immemorabile furono fatte alla Casa SIFOLA, il quale epitaffio antico, che da seicento e più anni a questa parte fu fatto a Giovanna SIFOLA, il quale epitaffio si vede nella chiesa di San Pietro Maggiore di Bari intagliato in marino, e nel fine di di esso si leggono le seguenti bellissime parole:
                        
                                IACET HIC JOANNA CLETI FILIA
                             DE STIRPE GENEROSA SIFOLORVM
                                           ANNO MXXXXVIII

Che se da sicento, e più anni si legge ciò della famiglia SIFOLA, ogn’uno potrà fare argomento, quanto più antica fosse la sua nobiltà. E fin dà tempi del Re Carlo Iº Angioino nell’inquisizione da lui ordinata, pigliarsi da Goffredo di SOMMESSA giustiziere di Terra di Bari, nell’anno 1282 di tutti i baroni,e nobili di detta Provincia, vi si legge tra essi Giulio SIFOLA[36]. Ma troppa difficile impresa sarebbe voler di tutti gli huomini ìllustri dì questa famiglia genealogicamente discorrere, essendo ella assai feconda di molti insigni personaggi, favoritissimi di Re ed Imperatori, e di molti condottieri di gente d’armi, e colonnelli, e di altri gran guerrieri, come di alcuni si parlerà appresso. Uscì da Trani Sergio SIFOLA figliuolo di Petruccio, e di Altobella PALAGANO amatissimi dalla Regina Gìovanna II, e quasi assoluti Signori di Trani, a quali essa Regina Giovanna concedette l’arboraggio e l’ancoraggio di tutti i legni che approdavano[37]




          Pianta di Trani e parte del porto con evidenziata la casa Sifola
Secolo XIV-XV
            Studi urbanistici del comune di Trani (Archivio di Stato)

il compito di mastro delle fiere nominata di San Nìcola e altra di San Leucìo con la giurisdizione criminale, e il Molino della Galla, e piscina di Trani e Petruccio fu figliuolo di Filippo, che fu Signore di molti feudi tra cui fu feudatarrio della Terra del Corato per successione paterna, con proventi di 12 oncie d’oro all’anno conceduti a suo padre Ciccio SIFOLA che aveva ottenuto dal sopradetto prìncipe. Il donativo fu ottenuto in virtù di indulto e contemplatione illustris regis Ungarie. Quel privilegio fu spedito in Taranto il I° novembre dell’anno 1372. Di più il privilegio del Re Alfonso d’Aragona al Barone Pellegrino SIFOLA suo consigliere, concedendogli l’assenzo reale per li feudi di Castelmezzo, e Laurenzo nella Provincia di Basilicata, che detto SIFOLA ebbe in dote dalla illustre Margherita SANSEVERINO come si spiega nel sopradetto privilegio, spedito in Foggia il 12 febbraio 1453.
Il sopra detto Petruccio fu anche ciambellano di Filippo [38]Imperatore di Costantinopoli e Principe di Taranto, e molto favorito della sua corte; il dazio della Giumella per tutti i frutti freschi e secchi che arrivavano nella città conceduto dalla Serenissima Regina Giovanna a Mattia SIFOLA di Lei Gentiluomo di Camera. Ma per cominciar da Sergio, fu egli valorosissimo Condottier di Gente d’armi, e s’avanzò tanto nella potenza e nel valore, che passando per occasioni di guerre nelle parti della Lombardia si congiunse in matrimonio con Giulía Pica della MIRANDOLA, figliuola di Giovan’Antonio conte della MIRANDOLA, e di CONCORDIA Signore assoluto e di lìbero dominio di Stato in Italia e n’ebbe in dote il castello di Poppano con la somma di grossa moneta, come appare dallo stromento dotale, che si conserva hoggi in casa de’Signori SIFOLI, che sono in Napoli. Nacquero da Sergio SIFOLA e da Giulia Pica della MIRANDOLA molti figliuoli, cioè Vincenzo, che fu vescovo della MIRANDOLA l’altro fu chiamato cavalier Ercole che si casò con una signora pur di casa Pica, della stessa famiglia dei conti della MIRANDOLA, e Costanzia che fu maritata al Signore di MONTECUCCOLI di nobilissima casa in Lombardia. Ma il primo genito de’ figliuoli di Sergio fu Francesco Maria Signore di Poppano, che fu ancora appresso Signore di San Martino, il quale essendo conforme al padre illustre condottier di Gente d’armi, e havendo servito per cinque anni continui la Cesarea Maestà dell’Imperatore Carlo V per la ricuperazione, e difesa dello Stato di Milano, con 25 cavalli a sue spese, e poi per tre altri anni con carica di colonnello di mille fanti, sempre con chiara testimonianza della sua fede, e valore, si avanzò tanto nella grazia dell’Imperatore, che n’ottenne da esso uno dei più favoriti privilegi, che si fossero mai da detta Maestà conceduti, spedito in Bologna all’ultimo di dicembre nel 1529, per lo quale non solamente il fè suo familiare, e del suo hospitio, con preminenza di poter esso, e tutti i suoi domestici, e servidori portar in qualsivoglia tempo qualsivoglia sorte d’armi ancor prohibite, o da proibirsi, ma fu fatto Conte del Sacro Palazzo Lateranense[39], e della Camera Cesarea, e Imperial Concistorio, in vigor del qual titolo potesse così egli, come i suoi successori crear notari, e giudici ordinari, legittimar naturali, spuri, e incestuosi, confirmare, dare, e costituire tutori, e curatori, prestar l’autorità nelle emancipazioni dè figli, nell’adozioni, e arrogazioni, e nelle manumissioni de servi, restituir la fama a gl’infami, restituir in integro i minori, le chiese, e le comunità, approbare l’alienazione de’minori, e le transazioni degli alimenti con altre facoltà e giurisdizioni di grandissima considerazione, il creò ancora Cavaliere Aurato con facoltà di poter promuovere al grado di Dottore fino al numero di sei ogn’anno nelle professioni di medicina, dell’una e dell’altra legge, e in tutte l’altre arti liberali, e di poter far’anco sei altri Cavalieri Aurati in ciascheduno anno. Ma quello che rilieva sopra ogni cosa, e che quasi a nessuno fu mai con tante liberalità conceduto, e che detto imperatore Carlo V concede in tal privilegio, e vuole, e comanda, che così Francesco Maria SIFOLA, come tutti i suoi descendenti godono tutta quella nobiltà, che godono, e possono godere i suoi veri oriundi cittadini nobili in tutte e qualsivoglia città e luoghi del suo imperio, e de suoi regni, tanto in tutta la Germania, quanto in tutta l’Italia, e dovunque anderanno, anco fuori d’essa Italia, o di essa Germania, fin dove si stenderà il suo dominio, di modo che come tali partecipino di tutte l’immunità, privilegi, prerogative, e ragioni, che veri originari cittadini nobili di esse città, e luoghi sogliono partecipare con entrare nel governo, e amministrazione delle cose pubbliche dovunque il detto Francesco Maria, e suoi successori vorranno, come dalle seguenti parole, che sono tolte dal medesimo privilegio si può apertamente vedere.
FILIOS TUOS AC DESCENDENTES OMNES, EX CERTA
NOSTRA SCIENTIA, REGALIS POTESTATIS PLENITUDINE,

FACIMUS, CREAMUS, CONSTITUIMUS CIVES NOBILES
QUARUMCUMQ; CIVITATUM, E LOCORUM NOSTRORUM, SACRI ROMANI IMPERIJ, E ALIORUM REGNORUM, E DOMINORUM NOSTRORUM, E TAM IN TOTA GERMANIA, QUAM IN TOTA ITALIA, E ALIJS REGNIS NOSTRIS, E DOMINIJS, E QUI BUSCUMQ; EORUM, E EARUM CIVITATIBUS, E LOCIS, E ALIJS UBICUMQ; ITA UT OMNIBUS PRIVILEGIJS,BENEFICIJS, EXEMPTIONIBUS, HONORIBUS PREROGATIVIS, IMMUNITATIBUS, GRATIJS, COMMODITATIBUS, AC OMNIBUS ALIJS QUIBUSCUMQ; UTI, FRUI, E GAUDERE POSSITIS, ATQUE VALEATIS, AC DEBEATIS, QUIBUS OMNES ALIJS ORIGINARIJ CIVES NOBILES QUARUM-CUMQ; DICTARUM, CIVITATUM, TERRARUM, E LOCORUM GAUDENT, UTUNTUR, E FRUUNTUR, TAM DE CONSUE TUDINE, QUAM DE IURE, E BENEFICIO ALICUIUS
STATUTI, QUALITERCUMQ; E QUOMODOCUMQ; AC SI FUISSENT VERI, PROPRIJ, ORIGINARIJ CIVES TALIUM CIVITATUM, TERRARUM, E LOCORUM.
Havendo dunque Francesco Maria ottenuto un tanto privilegio dall’Imperatore Carlo V, procurava, che da per tutto le fosse osservato, onde in alcune città d’Italia fuori del Regno di Napoli sia ammesso[40], e aggregato e partecipare di tutte quelle prerogative, che partecipavano tutti gli altri nobili oriundo cittadino di esse, come appare da varij privilegij di cittadinanza, e di nobiltà in alcune città della Lombardia ottenuti da esso Francesco Maria SIFOLA per se stesso, e per i suoi successori, appresso dè quali detti privilegij hoggi si conservano. Ma venendo poi il medesimo Francesco Maria per fondar la sua casa in Napoli, si difficoltò se detto privilegio fosse stato dall’Imperatore conceduto come Imperatore, e non come Re del Regno di Napoli; e se l’esser cittadino nobile in qualsivoglia Città, dovesse intendersi in quanto al godere nelle piazze, e seggi di Napoli, dalle quali vengono le cose pubbliche della Città amministrate, dovendosene fare espressa menzione, ma per toglier via ogni scrupolo, ritrovandosi l’imperatore in Napoli nel 1536[41] non solo espressamente come Re anco del Regno di Napoli confirmò, e ampliò il sopraddetto privilegio, ma dichiarò la già detto Cittadinanza conceduto, doversi intendere ancora in quanto alla Città di Napoli,e fu quello, che alla medesima spettava intorno all’amministrazione, e governo delle cose pubbliche. Et in vigore del già detto privilegio conceduto dall’Imperador Carlo V, a Francesco Maria, e tutti i suoi discendenti co di chiarazione, che s’osservasse anco nella Città di Napoli, nella quale fussero trattati come veri cittadini nobili originarij, e fatti partecipi del governo d’essa, come già habbiamo detto; Ritrovandosi Giulio figlio di esso Francesco Maria posseder la sua casa nel quartiero del Seggio di Capuana nell’anno 1582, fé istanza nel Sacro Regio Consiglio dover’esso, e i suoi successori a godere gli honori della loro nobiltà nel Seggio di Capuana, come appare nel processo attivato nella banca all’hora del mastero d’atti ROPPOLI, il quale processo essendosi à questo effetto già compilato, e restando solo che n’dasse l’ultima sentenza definitiva, si sarebbe certo terminata la causa à favor suo, se per la morte di detto Giulio non fosse questa lite ancor rimasta pendente. Francesco Maria SIFOLA, avendo stabilito la sua casa in Napoli, eresse anco la cappella nella chiesa di Santa Restituta, annessa, e incorporata nella chiesa Arcivescovile, e dopo la sua morte fu sepolto nella medesima cappella, e nella sua sepoltura, gli fu uncisa la seguente memoria:
CAESARI, OB EGREGIAM FIDEM, STRENUAMQ;
OPERAM, DOMI, MILITIAEQUE PERPECTAM IN
POSUIT
Fu questo grand’huomo non solamente favoritissimo dell’Imperador Carlo V, ma ancora sommamente amato dalla Santità di Papa Clemente VII, per li molti servigi fatti da lui a quella Sede Apostolica, onde da esso pontefice Clemente Venne honorato dal governo di Ravenna, come appare da un breve speditogli a favor suo del seguente tenore:
CLEMENS PAPA VII UNIVERSIS, E SINGULIS, AD QUOS PRAESENTES PERVENERINT SALUTEM, E APOSTOLICA BENEDICTIONEM  CUM DILECTUS FILIUS FRANCISCUS MARIA SIFOLA FAMILIARIS NOSTER EXHIBITOR PRAESENTIUM, DIVERSAS MUNDI PARTES PRO NONNULLIS SUIS PERAGENDIS NEGOTIJS SIT PROSPECTURUS; NOS OB PERSPECTAM NOBIS FIDEM SUAM, AC SERVITIA NOBIS, E APOSTOLICAE SEDI, TAM IN REBUS, AC EXPEDITIONIBUS BELLICIS, QUA IN GUBERNIO CIVITATIS NOSTRAE RAVENNAE PER IPSUM SUMMA CUM PRUDENTIA, FIDE, DILIGENTIA, IUSTITIA, AC INTEGRITATE PRAESTITA, E NON MINORA, QUAE NOBIS, E DICTA SEDI AD PRAESENS, E IN DIES OBSEQUIA PRAESTAT. CUPIENTES EUNDEM FRANCISCU MARIAM CUM SOCIJS, E FAMILIARIBUS AEQUESTRIBUS, E PEDESTRIBUS REBUS, E BONIS SUIS QUIBUSCUMQ; IN EUNDO UBISQUE PLENA SECURITATE, E IMMUNITATE GAUDERE, UNIVERSOS REGES, PRINCIPES, VICEREGES, DUCES, MARCHIONES, COMITES, BARONES, E ALIOS QUOSCUMQUE DOMINOS, AC UNIVERSITATES, E PRIVATOS, E EORUM LOCA TENENTES, E OFFICIALES, E VESTRUM SINGULOS HORTAMUR IN DOMINO; SUBDITIS VERO NOSTRIS, E GENTIUM ARMORUM AD NOSTRA, E DICTAE SEDIS STIPENDIA MILITANTIBUS, GUBERNATORIBUS, LOCATENENTIBUS, PRAETORIBUS, BARICELLIS, DATIARIJS, GABELLERIJS, DOHANERIJS, E ALIJS QUIBUSCUMQ; OFFICIALIBUS, QUOCUMQUE NOMINE NUNCUPENTUR, DISTRICTE PRAECIPIENDO MANDAMUS, QUATENUS EUNDEM FRANCISCUM MARIAM CUM SOCIJS, E FAMILIARIBUS SUIS QUIBUSCUMQUE, NEC NON EQUIS, VALISIJS, BULGIS, SARCINIS, E BONIS EORUM QUIBUSCUMQ; DUMMODO MERCIMONIJ CAUSA NON DEFERANTUR, PER CIVITATES, TERRAS, CASTRA, VILLAS,PORTUS, PASSU, E ALIA LOCA NOSTRA, E VOSTRA, TAM PER AQUAM, QUAM PER TERRAM TRANSIRE, STARE, E AD LIBITUM SUUM MORARI, IRE, E RECEDERE, E ABSQUE ALIQUA DATIJS, PEDAGIJS, VECTIGALIS GABELLAE, AC DOHAMAE, AUT ALICUIUS ALTERIUS EXACTIONIS, E SOLUTIONIS, SINE IMPOSITIONIS REALIS, PERSONALIS, AUT MIXTAE PRO NOSTRA, E SEDIS APOSTOLICAE, REVERENTIA LIBERE PERMITTATIS, NEC IN PERSONIS, E REBUS, AC BONIS PRAEDICTIS ALIQUAM INIURIAM. VEL OFFENSAM INFERATIS, NEC AB ALIJS QUANTUM IN VOBIS FUERIT PERMITTATIS INFERRI, SED BENIGNE EXCIPIATIS, E TRACTETIS, E EISDEM DE SECURO, E IUTO TRANSITU, RECEPTU, SCORTA, E SALVO CONDUCTU, SI OPUS FUERIT, E VOS REQUIRENDOS DUXERIT, SIC LIBERALITER PROVIDERE CURETIS, UT VOSTRA EXINDE DEVOTIO VENIAT APUD NOS, E DICTAM SEDEM MERITO CONMMENDANDA. DATUM ROMAE APUD SANCTUM PETRUM SUB ANNULLO PISCATORIS DIE VIII. AUGUSTI MDXXXI. PONTIFICATUS NOSTRI ANNO OCTAVO.
Fu moglie di Francesco Maria, morto il 10 gennaio 1554,Virginia ROCCO Signora napoletana figlia di Nicola Maria, e di Laura AIOSSA, famiglia estinta nel Seggio di Capuana, e con essa procreò Muzio, chierico e protonotario apostolico, Fabio che fu paggio di Re Filippo II, Alessandro e Giulio morto nel 1594, e avvenga che di altri non se ne ritrovi successione[42]; Giulio fu il secondo Signore di San Martino, in Basilicata, e di Poppano, e fu quegli, come dissi, mosse la lite con la piazza Capuana, come appare dal processo di detta lite già compilato[43], hebbe per moglie Vittoria GUINDAZZA figliuola di Francesco del Seggio del Nilo, e Barone di Mirobella, e di ...... CARAFA, e con detta sua moglie procreò Fabio, Frà Scipione Cavalier di Malta (1570), Giovan Battista, Giovan Luigi, e don Faustino monaco cassinese maschi, e due femmine, Isabella maritata a Girolamo d’ANGELO Barone di Castel Petroso gentil’huomo napolitano del Seggio di Porto, e Virginia data in moglie a Giulio MARZANO dell’illustrissima Casa Marzana de duchi di Sessa, e principi di Rossano. Fabio come primogenito succedette al padre nella baronia di San Martino, e casato con Isabella di Sangro il 14 settembre 1583, nata da Bernardino del Seggio di Nido, e da BRANCACCIO, da essa fè Giulio, Francesco Maria e Scipione. Giulio primogenito figliol di Fabio d’Isabella di Sangro fu successor al padre nella Terra di San Martino, e havendo tolta per moglie Catarina Dentice di quei dei Seggio di Capuana figliuola di Luigi Signor di Veggiano, e di Beatrice della MARRA sorella del Duca della Guardia; con essa vi fé un sol figliuolo, a cui fu posto il nome di Fabio. Fabio fu detto Signore di San Martino, si casò con donna Giulia SUARDA famiglia illustrissima discesa per dritta linea da Signori assoluti di Bergamo, è venuta in Italia con l’Imperador Federico detto il Barbarossa, dal quale oltre alla signoria assoluta di Bergamo, hebbe il Vicariato Generale di tutta la Lombardia, e detta donna Giulia fu figliuola di Vespasiano SUARDO maestro di campo e cavaliere di Alcantara, e di LOFFREDO, e con questa sua moglie Fabio si fé padre di due figliuoli hoggi viventi (1671), l’uno chiamato don Giulio, che come primogenito fu signore di San Martino, e l’altro don Scipione. Hor ritornando à gli altri figliuoli di Giulio, e di Vittoria GIUNDAZZO, Giovan Battista 3° genito loro figliuolo fu dottor di legge, avvocato famoso né Regij Tribunali di Napoli, fu casato con Beatrice PALAGANO d’antichissima, e conosciuta nobiltà, la sorella della quale Beatrice chiamata Camilla fu maritata a Gio.Francesco SANFELICE di Cancelleria, ma con questa sua moglie non procreò Gio.Battista alcun figliuolo. Gio.Luigi quarto genito figliuol di Giulio, e di Vittoria GUINDAZZO fu cavallerizzo del Re Cattolico, nostro Signore di Madrid, e in Napoli cò sublimi carichi del detto officio, e fu onorato da Sua Maestà della Croce dell’Alcantara con grossa commenda, e pensione sopra; s’ammogliò con donna Angela SUARDA figlia di don Ottavio Cavaliere di Santo Stefano, e di donna Isabella CONCUBLET d’ARENA de Marchesi d’Arena,e l’ava paterna di donna Angela fu Battista CARACCIOLA figlia del capitan generale della Repubblica di Venezia, e l’ava materna fu donna Angela CARAFA sorella carnale del Duca di Nucera, ma con detta sua moglie donna Angela, Gio.Luigi si fé padre di dui soli figliuoli, cioè don Francesco Maria, il quale morì fanciullo, e don Alessandro vivente (1671). Don Alessandro cavaliere molto ben conosciuto, e stimato in Napoli, che si fé signor della Terra di Castel Petroso, e stato due volte casato, primieramente con donna Vittoria de Liquoro del Seggio di Porta Nova figlia di Antonio, e Zenobia del Giudice del Seggio del Nido, con la quale fè un figliuolo, che morì fanciullo, indi si casò con donna Portia di PALMA d’antichissima famiglia della nobiltà di Nola, e già stati signori di Palma, e di molte terre in Terra di Lavoro figlia di Vincenzo, di donna Beatrice MARICONDA del Seggio di Capuana, e con questa seconda moglie ha generato sei figliuoli maschi, cioè il primo don Giuseppe, il secondo don Luigi, prima cavalier di Malta, e destinato per paggio al Gran Maestro, e poi fattosi cherico regolare teatino di elevatissimo ingegno, e eloquentissimo dicitore, onde non appena compiti venti anni fu fatto pubblico lettore nella sua religione havendo letto nella casa di San Paulo, e hoggi (1671) leggendo in quella di Santi Apostoli.Il terzo figlio di don Alessandro è don Antonio hora chiamato don Severino monaco benedettino; il quarto figlio è don Francesco anch’egli cherico regolare teatino. Il quinto è don Filippo, il sesto è don Gaetano, e sono anco di don Alessandro cinque figlie femmine tre rese monache; cioè donna Angela, e donna Beatrice, e donna Teresa in San Girolamo, e donna Maria e donna Giovanna sono ancora fanciulle (1671). Don Giuseppe primogenito di don Alessandro si è casato con donna Popa MONACO d’ARAGONA, d’antica nobiltà che ha procreato un sol figliuolo maschio chiamato don Gaetano. Trovasi questa famiglia imparentata con altre nobilissime famiglie del nostro regno, cioè con la SANSEVERINA de principi di Salerno, con la PIGNATELLA, con la VULCANO, con gli AIOSSI, ZUROLI, ACCIAPPACCI del Seggio di Capuana, con gli ORIGLIA, e FERRILLO de conti di Muro del Seggio di Porto. Fé l’arme questa famiglia, in campo rosso, tre teste di leone d’oro, e intorno allo scudo un giro diviso in tanti quadretti bianchi e azzurri.
I SIFOLA di Trani  parteciparono alle crociate nel XV secolo da come si osserva dagli scudi dei crociati Napoletani, in partenza per la Terra Santa, appartenenti all’Ordine di Santo Spirito.



Miniatura dello dello »Status du l’ordre du Saint Esprit de Naples »,
 fototeca storica Nazionale, Milano.:


REIMS: mosee du Tau, 51.280.494 - Collier de l’ordre du Saint-Esprit (or émaillé)
Con atto notarile stilato in Trani dal notaio Francesco Sandoli , Dionigio, Alessandro, Salvatore e Francesco Antonio Sifola, nobili del sedile di San Marco di Trani, riconoscono come discendenti dell’istesso loro casato Tarquinio e Marzio Sifola, di Caserta e dichiarano il loro diritto a godere di tutti i privilegi e degli onori nel suddetto sedile.
1610, Agosto 22 - Indizione VIII.
(Ibid. - N. Francesco Sandoli, an.1610, fol.68)
Declaratio particularium familie Sifole pro U.J.D. Tarquinio et Martio Sifola.
DIE 22 AUGUSTI 1610 OCTAVE INDICTIONIS IN CIVITATE TRANI ET CORAM INFRASCRIPTIS JUDICE, ET TESTIBUS DE SUBSCRIPTIS SEDILIBUS EIUSDEM CIVITATIS VIDELICET: LEONARDO de MAESTRO NICOLA REGIO JUDICE AD CONTRACTUS, SCIPIONE BONISMIRO, JOAN. FRAN.CO BONISMIRO DE SEDILI ARCHIEPISCOPATUS, MUNGIOLINO ET FABRITIO de CUNIO de SEDILI CAMPI, FRAN.CO ET OSTILIO MONDELLO DE SEDILI ARCHIEPISCOPATUS, FRANCESCO PALAGANO DE SEDILI PORTENOVE, ET JOAN. MARIA, ET JOAN BERARDINO CAMPITELLO DE SEDILI IBIDEM S.TI MARCI TESTIBUS AD INFRASCRIPTA ROGATIS. IN NOSTRI PRESENTIA CONSTITUTI DIONISIUS SIFOLA, ALEXANDER SIFOLA, SALVATOR ET FRAN.CUS ANT.S SIFOLA NOBILES DE SEDILI S.TI MARCI CIVITATIS PREDICTE SPONTE ASSERUUNT CORAM NOBIS, QUALITER ANNIS ELAPSIS QUONDAM FRANCISCUM SIFOLA DE EADEM CIVITATE  TRANI NOBILEM SEDILIS S.TI MARCI AB EADEM CIVITATE DISCESSISSE, ET EIUS INCOLATUM FACISSE IN CIVITATE CASERTE, EX QUO QUIDEM FRAN.CO FUISSE SUSCEPTUM ET PROCREATUM DE LEGITIMO MATRIMONIO MARSILIUM SIFOLA, EX DICTO MARSILIO ANIBALEM, DE DICTO ANNIBALE SELVAGGIUM, ET DE DICTO SELVAGGIO VIVENTOS TARQUINIUM, ET MARTIUM SIFOLA, ET EX DICTO TARQUINIO FUISSE ORTOS ET PROCREATOS ODOARDUM ET SILVIUM EIUS FILIOS LEGITIMOS ET NATURALES AD PRESENS VIVENTES ET IN CIVITATE NEAPOLIS COMMORANTES; DE HIS OMNIBUS CERTIORATI, ET PLENISSIME INFORMATI PARTIM EX EORUM SCRIPTURIS, ET PARTIM EX TRADITTIONE EORUM PREDECESSORUM, QUIQUINDEM TERQUINIUS ET MARTIUS UNA CUM PREDICTIS EORUM PREDECESSORIBUS QUAMVIS HABITASSENT IN DICTA CIVITATE CASERTE, ET IBIDEM COMMORASSENT PER CERTUM TEMPUS, ET TANQUAM NEAPOLITANI PERTRACTATI FUISSENT, NICHILOMINUS EORUM VERAM ORIGINEM ET DESCENDENTIAM FUISSE ET ESSE DE PREDICTA VERA ET NOBILI FAMILIA SIFOLE HUIUS PREDICTE CIV. TRANI, ET PROPTEREA AGNOSCENTES REI VERITATEM, DICTOSQUE TARQUINIUM ET EIUS FILIOS, EUMDEMQUE MARTIUM ESSE PROUT SUNT DE VERA FAMILIA, ET DESCENDENTIA PREDICTA, PROUT ETIAM LATE CONSTAT EX EORUM DOC, EORUMQUE PREDICTORUM PREDECESSORUM VEXILLIS, QUE SUNT EADEM VEXILLA DICTE FAMILIE; UT OMNIBUS INNOTESCAT, ET VERITAS EIUS LOCUM OBTINEAT, IPSOS MARTIUM ET TARQUINIUM, EIUSQUE FILIOS PREDICTOS, TAMQUAM VEROS DESCENDENTES DE FAMILIA PREDICTA SIFOLE CIVITATIS TRANI, PARI VOTO, COMUNI CONSENSU, AC PENITUS NEMINE DISCREPANTE CONTENTI FUERUNT PROUT CONTENTATUR REINTEGRARE, PROUT ILLOS REINTEGRANT IN EADEM EORUM FAMILIA. ITA QUOD TAM DICTI MARTIUS ET TARQUINIUS, ET EIUS PREDICTI FILII, QUAM ETIAM EORUM DESCENDENTES IMPERPETUUM USQUE AD INFINITUM SINT TENEANTUR ET REPUTENTUR DE VERA ET ANTIQUA PREDICTA FAMILIA SIFOLE CIV. TRANI, ET POSSINT AC VALEANT AD PRESENS ET OMNI FUTURO TEMPORE GAUDERE FRUI ETIAM IN EODEM SEDILI SANCTI MARCI OMNIBUS DIGNITATIBUS, HONORIBUS, PRIVILEGIIS, PREROGATIVIS, IMMUNITATIBUS ET PREHEMINENTIIS PROUT GAUDENT ET FRUUNTUR IIDEM DE DICTA FAMILIA IN EADEM CIVITATE TRANI, CONCEDENTES PROUT ETIAM CONCEDUNT CIRCA PREDICTA OMNES EORUM VOCES ET POTESTATES. PROMICTENTES DICTI DIONISIUS, ALEXANDER, SALVATOR ET FRANCISCUS ANTONIUS SOLEMNI STIPULATIONE DICTIS TARQUINIO ET FILIIS AC MARTIO ABSENTIBUS ET MIHI PRESENTI DECLARATTIONEM ET REINTEGRATTIONEM PREDICTAS AC OMNIA PREDIUCTA SEMPER ET OMNI FUTURO TEMPORE HABERE RATAS AC RATA ET CONTRA NON FACERE ALIQUA RATIONE, NEC ABSOLUTIONEM A IURAMENTO PETERE, ET IMPETRATIS NON UTI QUIA SIC. PRO QUIBUS OMNIBUS OBSERVANDIS DICTI DIONISIUS, ALEXANDER, SALVATOR ET FRANCISCUS ANTONIUS SPONTE IN SOLIDUM OBLIGAVERUNT SE IPSOS, EORUM HER. SUCC. ET BONA OMNIA DICTIS TARQUINIO, MARTIO, ET FILIIS ABSENTIBUS, ET MIHI PRESENTI ETC. AD PENAM DUCATORUM MILLE PER QUEMLIBET. MEDIETATE ETC. POTEST CAPIENDI ETC. CONSTITUT. PRECARII ETC. IBIQUE REQUISIVERUNT ET IURAVERUNT ETC.. LEONARDO DE MAGISTRO NICOLAO R. AD CONTRACTUS IUDICE, SCIPIONE ET JOANNE FRANCISCO BONISMIRO DE SEDILI ARCHIEPISCOPATUS. MUNGIOLINO ET FABRITIO DE CUNIO DE SEDILI CAMPI. ET OSTILIO MONDELLO DE SEDILI ARCHIEPISCOPATUS. FRANCISCO PALAGANO DE SEDILI PORTENOVE. JOANNE MARIA ET JOANNE BERARDINO COMPITELLO DE SEDILI S.MARCI LICTERATIS.
Tracce materiali di personaggi SIFOLA sono: il tumulo dell’arciprete Giacomo, del canonico Ottavio e di Alessandro SIFOLA esistenti nella chiesa Cattedrale di Trani che prima stava al primo gradino attaccato alla cappella della Madonna delle Grazie, rimpetto all’altare di San Michele e nel 1795 si riadattò il pavimento di detta chiesa e la lapide sepolcrale fu posta dietro lo scanno del tribunale vicino all’altare di San Magno, sempre al laterali dell’altare di San Michele vi è lo stemma gentilizio con un benefizio di ducati 52 fondato da Francesco SIFOLA. Nel soccorpo vi è il sepolcro di Alessandro PALAGANO rimpetto l’altare di San Nicola a man sinistra, di cui è erede il comparente per mezzo di Clarice SIFOLA, moglie ed erede di Giuseppe PALAGANO. Nella chiesa di San Francesco di Trani vi è il sepolcro con l’iscrizione a Salvatore SIFOLA, e nel muro laterale a man dritta dell’altare di Sant’Antonio vi è lo stemma gentilizio della famiglia (oggi 30 giugno 2002 io e mia moglie Lucia Quilici nel fare una visita alla città di Trani abbiamo constatato che quanto sopra citato, col  restauro effettuato delle chiese negli anni dal 1950 in poi tutto è stato eliminato. Probabilmente le lapidi si trovano nel Museo Diocesano. Solo lo stemma della famiglia è visibile fuori la chiesa di San Francesco.
Nella chiesa dei padri zoccolanti di Colonna vi è un altro sepolcro. E finalmente nella chiesa di San Pietro Maggiore di Bari vi è il sepolcro di Cleta SIFOLA del MXXXXVIII. Inoltre vi è nella Cattredrale il laicale patronato fondato da Laura SIFOLA sotto il titolo dell’Annunziata dove la medesima è interrata.

Un ramo Sifola nel 1600 divenne barone di Pietrapertosa. Questi Sifola succedettero ai Carafa, ai Campolongo, agli Aprano, ai Suardo ed agli Jubero.
Dall’allegazione giuridica di Stefano Patrizi, alla Memoria relativa al Governo Civico di Trani, e precisamente in ordine ai cangiamenti avuti dalla Piazza del Popolo e riportata: «ancora A 28 aprile 1749, reintegrazione di Pietrapertosa[44].

Si riportano alcune presenze Sifola nel casertano:
Giuseppe Sifola oriundo del casale di Recale morì il 25 ottobre 1719. Fu sepolto nel cimitero di Caserta nella cui città abitava. I funerali furono svolti nella chiesa di San Sebastiano Martire.
Il barone Silvio Sifola di Pietrapertosa donò nell,anno 1668 alla parrocchia di San marco Evangelista 15 moggia di Terra.
Nicolò Sifola della Torre (Caserta Nuova) stila una scrittura privata presso il notar Francesco Antonio della Costa nel 1764.

- don Bernardo de NATALE e donna Geronima SIFOLA generarono 7 figli:
1.      donna Giulia Teresa Benedetta nata il 20 settembre 1734* in Casale di Casapulla ed ivi deceduta il 16 febbraio 1804, nubile.
2.      donna Maria Francesca, Antonia da Padova, Agata, Alberta nata il 4  dicembre 1726* in Casale di Casapulla e deceduta neonata.
3.      don Vincenzo Maria NATALI[45] SIFOLA nato il 22 agosto 1738* in Casale di Casapulla e deceduto il 16 dicembre 1803 in Casapulla, abate e sacerdote predicatore.
4.      marchese don Marcello Maria NATALI SIFOLA[46], dottore in utroque jure, nato il 18 agosto 1740 in Casale di Casapulla ed ivi deceduto il 7 marzo 1819[47].
5.      don Carminio de NATALE SIFOLA nato il 10 gennaio 1743[48] in Casapulla ed ivi deceduto il 24 agosto 1833, dottore in utroque jure dimorava ed esercitava l’attività di avvocato in Napoli, celibe
6.      donna Agata M.Teresa nata in Casale di Casapulla il 23 ottobre 1744 sposò don Tommaso Verrenzio patrizio di Sessa il 21 maggio 1781 in Casapulla, dove morì il 16 maggio 1832.
7.      don Gabriele nato il 20 giugno 1747 in Casale di Casapulla ed ivi morì il 28 gennaio 1750.

Don Vincenzo Maria NATALI  SIFOLA[49] fu dottore in utroque jure[50] e regio predicatore domenicale specialmente in Casapulla. Pubblicò diversi scritti tra cui Dissertazione Istorica sull’antica esistenza di un tempio di Apollo in Casapulla e Su i principi e lo stato del medesimo villaggio da torchi di Vincenzo Manfredi con licenza dè superiori Napoli MDCCCII con recensione del marchesino don Bernardo Maria NATALI[51]) SIFOLA GALIANI; altra opera assai erudita è Lettera all’Abate Mattia Zona sopra il di lui saggio istorico intorno alla città di Calvi e Sparanisi; Fu uomo di vasta e soda cultura.

Il m.se don Marcello Maria NATALI[52] SIFOLA[53] sposò il 10 agosto 1774 nella chiesa di Sant’Anna di Palazzo[54], sede della Cappellania Maggiore del regno di Napoli[55], la m.sa Anna Maria GALIANI, nata a Sant’Agata di Sessa Aurunca il 23 ottobre 1751 e battezzata in Santa Maria a Castellone nella stessa Sessa il 26 ottobre 1751.








Marcello Maria de Natale Sifola dei marchesi di questo cognome, già patrizio Trani, aggiunse al suo cognome quello di Galiani ed inquartavene le armi in quelle proprie[56].   


                              QUESTO MATRIMONIO DA INIZIO ALLA DINASTIA
                                                 “de NATALE SIFOLA GALIANI”

Segue processetto pre matrimoniale presso l’Archivio Storico Diocesano della Curia Arcivescovile di Napoli:

Anna Maria abitò in Napoli fino al 1771 anno in cui si trasferì con i genitori nella città di Sorrento dove dimorò fino a marzo 1774. Poi di nuovo ritornò a Napoli nel palazzo di Sant’Anna di Palazzo,[57]. Essa  era figlia del marchese Berardo GALIANI e della M.sa donna Agnese Mercadante, di nobile famiglia di Sessa Aurunca appartenente al Seggio di San Matteo[58]. Morì in Casapulla il 17 dicembre 1783[59]. Alla  morte dello zio l’abate Ferdinando, fratello del padre, ebbe in eredità 500 ducati d’oro.(Vedi testamento dell’abate Ferdinando Galiani aperto nel 1787 in Napoli).

Anna Maria Galiani per via della nonna paterna Giulia de Racta discendeva dal Vicerè Antonello (Antonio) de Racta, discendente a sua volta dal conte di Caserta Diego de Racta[60], e Margherita de Marzano, dell’illustrissima casa Marzana[61] la grandezza della quale era incominciata sotto il re Roberto. Essi furono principi di Rossano, duchi di Squillace e di Sessa, il contado di Montaldo e Alife e tanto stato e tante castella e uffici e preminenze, fu cinque volte imparentata al sangue reale[62];

Il Castello
dei principi e duchi
de MARZANO
in
Sessa Aurunca (CE)

Nelle Memorie Istoriche della Chiesa di Sessa Aurunca, opera divisa in due parti del Mons. Giovanni Diamare, Vescovo di Sessa, stampata in Napoli nell’anno 1908, al cap. XXIV., dedicato ai Monasteri o Conventi a pag. 166 nota(1) parlando della Chiesa di Sant’Agostino si legge: «, ci piace riportare qui in nota alcune epigrafi esistenti in Sessa»: alla III si legge:

                                                                                          Stemma
                                                                       de MARZANO
                               duchi di Sessa Aurunca e Principi di Squillace ec

“HANC SEPULTURA
 FIERI FECIT DNS. ANTONIUS... DE RACTA... ET
SUIS HEREDIBUS IN QUA IACET CORPUS MAGNIFICEN/
TISSIM ME MARGHERITE DE MARZANO UXORIS/...
ANO DNI MCCCC...XXXVII DIE lll MENSIS OCT.IND. PRIMA
AMEN
Lastra tombale in marmo anonimo scultore tardo gotico della prima metà del XV secolo
collocata nella parete a sinistra della terza cappella della chiesa di Sant'Agostino
in Sessa Aurunca.
Il loro sepolcro con tutta la cappella è ciò che resta dell'antica fondazione della chiesa
e del convento di Sant'Agostino risalente al XV secolo e proprio per iniziativa dei duchi
Marzano


alla IV nota si legge:
“D. O. M.
Sacellum et sepulchrum
ab Antonio de Racta et Margarita Marzano[63] coniugibus extructum
quorum jura Iulia de Racta in Leonem Mercadante filium
transtulerat
Marchio Berardus Galianus
Agnetis Mercadante Leonis f.atq.ex asse haeredis maritus
iniura temporum prope dirutum
ex veteri templo translatum restituit et ornavit
sibi suisq. Posterisq. Eorum
an. rep. sal. MDCCLIV”



Informazioni storiche sulla famiglia
“de la Rath
detta nel tempo de Ruth, poi de Racta ed ancora “della Ratta”

Famiglia originaria di Barcellona, portata nel regno di Napoli da Diego de la Ruth, il quale seguì Violante d’Aragona moglie di Roberto d’Angiò duca di Calabria, ed essendo egli un valoroso capitano, pei grandi servigi resi, ottenne il contado di Caserta ed altri feudi. Salito al trono Roberto, fu nominato gran camerlengo e maresciallo del regno e suo luogotenente in Toscana, e gli concesse di aggiungere nella sua arma il lambello seminato di gigli di Francia.

La famiglia della Ratta ha goduto nobiltà in Napoli fuori seggio, in Caserta, Capua, Sessa, Monopoli, ed in Sicilia. Oltre alla contea di Caserta, ha posseduto ben 75 feudi, le contee di Alessano, Montuoro, Sant’Agata de’Goti, e Santangelo, ed il marchesato di Quaranta. Francesco conte di Caserta, gran contestabile del regno e ciambellano del Re Roberto d’Angiò, valoroso capitano e nemico del duca d’ Atene, venuto a guerra in terra d’Otranto, essendo stato,
battuto fuggì a Taranto ove fu assediato dal nemico, che respinse vittoriosamente; Luigi maresciallo del Regno, fu inviato dalla Regina Giovanna I, insieme ad altri 40 cavalieri napoletani, per accompagnare a Napoli Oddone duca di Brunswich che veniva per isposarla; Didaco gran camerario e consigliere della stessa regina; Giacomo vicerè di Napoli per la regina Giovanna II; Baldassarre, gran giustiziere e gran camerlengo del regno, fu uno degli esecutori testamentari di Giovanna II; Jacopo Arciv. di Benevento essendo ambasciatore del Re Ferdinando I d’Aragona presso il pontefice Pio II, tradì il re e si diede al partito angioino per cui fu dalla Santa Sede deposto dall’arcivescovato. Arma: D’argento al leone di rosso, coronato all’antica dello stesso, tenente colla branca anteriore destra un crescente montato d’azzurro; col lambello di tre pendenti dello stesso, seminato di gigli d’oro di Francia, attraversante sul tutto.Ancora sui “della Racta” si legge al CAP. XII.

Raccolte dal sacerdote D. Crescenzio Esperti dato in Napoli nel MDCCLXXIII



Stemma
de RACTA
duomo di Caserta Vecchia



Della famiglia
de Racta
trascritta dal Campanile
§. I
Di Diego de Racta
  I. Conte di Caserta
Il primo, che di tal famiglia di Spagna venisse in Napoli, fu Diego in compagnia di Violante d’Aragona sorella di Giacomo Re d’Aragona, e di Federico Re di Sicilia, la quale viene maritata a Roberto Duca di Calabria figliuolo de Re Carlo II., il quale Re nell’anno 1302, donò a Diego il Castello di Rajano in terra di Lavoro. E ritrovandosi poscia Roberto Governadore, e Capitan Generale de’Fiorentini, volendo partir per Avignone a rallegrarsi della creazione del nuovo Pontefice, conosciuto il valore, e la virtù di Diego, il lasciò suo general Luogotenente in Firenze. Essendo poi giunto il medesimo ad essere Re di Napoli, per mostrarsi grato con Diego de’servigj da lui ricevuti, gli diede la Terra di Montorio con titolo di Conte, e non molto tempo dopo gli donò la Città di [64]Caserta con molte Castella circonvicine, con titolo altresì di Conte. Fello oltre  a ciò Gran Camerlingo del Regno, Visitatore di tutti gli Uffiziali di quello: Volendo anche far triegua con Federico d’Aragona, mandò ivi il Principe di Taranto suo fratello, e con lui volle, che si accompagnasse Tomaso Marzano Conte di Squillace, e Diego Conte di Caserta. Né terminarono qui le grandezze di Diego, poiché nell’anno 1311. fu dal medesimo Roberto fatto Vicario Generale nella Provenza, Romagnola, Contado di Brittoni, e Ferrara; e nel 1318. ricevette in dono ducento oncie di pagamenti Fiscali per ciascuno anno in perpetuo.



       Storia ed imprese
     del conte
      Diego de La Rath
(detto il catalano)




Condottiero Medioevale

Diego de Racta nel marzo del 1297 si trasferice in Italia al tempo dei Vespri Siciliani. Proprietario di alcuni beni ad Egea de los Caballeros nei pressi di Saragozza, giunge in Sicilia al seguito dell’infanta Violante d’Aragona, sorella del re Federico. Nel 1300 in Spagna ricopre l’incarico di scudiero di Giacomo d’Aragona. Nel 1302 scorta dalla Sicilia a Napoli Violante d’Aragona, che si sposa con il duca di Calabria Roberto d’Angiò. Gli è dato in feudo il castello di Raiano in Terra di Lavoro. Nel 1305 in aprile va in Toscana con 300 cavalli aragonesi e catalani e di molti tanti armati di giavellotti (i cosidetti almogaveri), Venuto in appoggio al partito dei Neri fiorentini che avevano nominato loro comandante Roberto d’Angio, figlio del re Carlo con i lucchesi, assedia in Pistoia Tolosato degli Uberti; circonda la città con più battifolli dei quali uno a Monelle vicino al ponte dell’Ombrone con a guardia i Guelfi Neri fuoriusciti da Pistoia agli ordini di Corso Donati, un altro fu posto dirimpetto alla Porta di Ripalta con il grosso delle truppe per bloccare la strada della Porretta ed interrompere così la comunicazione con Bologna, qui posero il campo i fiorentini ed i Lucchesi. Gli altri battifolli furono posti a Nespolo, sulla strada per Firenze, a San Agostino, a Candeggia per chiudere altri passaggi per la via Porretana, ed infine ad ovest di Pistoia, presso il luogo dove una volta c’era il monastero delle monache benedettine. Terminate le operazioni d’impianto dell’assedio, Roberto mandù banditori sotto le mura per far sapere che chiunque avesse voluto lasciare la città avrebbe potuto farlo entro il termine di tre giorni avendo salva la vita e gli averi che avesse portati con se altrimenti sarebbe stato considerato traditore della Corona reale. Molti pistoiesi si allontanarono. Coloro che rimasero furono attaccati  ed in larga parte trucidati. E’ bene ricordare che per quanto riguarda l’assedio la mente strategica e tattica era di fatto Diego della Ratta perché Roberto, anche per la giovane età, non era molto esperto nelle cose militari e solo nominalmente guidava le truppe della Taglia. Il 28 ottobre  dello stesso anno Roberto d’Angiò va ad Avignone e lascia il comando delle truppe a Diego de Racta che aveva nominato capitano generale con ai suoi ordini come capitano del lucchesi il marchese Morello Malaspina e Bino dei Gabrielli da Gubbio come capitano dei Fiorentini. Le truppe ed ancor più gli almogaveri, continuarono a combattere con lena ed anche con un certo rancore dato che la venuta dei legati del papa aveva impedito loro di sconfiggere Pistoia prima dell’inverno  che quell’anno si annunzia va particolarmente rigido.La guerra entrò nella sua fase più spietata: le vettovaglie scarseggiavano d’ambo le parti; gli assedianti, esacerbati dalle privazioni e dai tormenti della stagione invernale, persero sempre più ogni senso di umanità; con il coraggio della disperazione gli assediati continuarono a tentare di sortite su sortite ma furono sempre respinti dalle forze superiori della Lega. Nonostante le piogge torrenziali e la neve che cadde copiosa, l’assedio fu mantenuto e durò fino al 10 aprile 1306 quando i pistoiesi furono costretti alla capitolazione. Diego della Ratta, intanto , avviandosi a conclusione il lungo assedio, il 30 marzo 1306 aveva lasciato il comando generale della Taglia al marchese Morello Malaspina consentendogli così di entrare da vincitore alla testa delle truppe confederate nella città nemica. Il trattato di pace del 20 aprile si dimostrò essere la manifestazione della feroce volontà del vincitore: Firenze e Lucca si divisero il contado; alla città vinta, alla quale furono abbattute le mura e colmati i fossati rendendola città aperta, fu lasciata la giurisdizione soltanto su una striscia di terra larga un miglio tutt’intorno il suo perimetro.Nel frattempo il Papa aveva nominato un nuovo legato nella persona del cardinale Napoleone Orsini, uomo potente per il suo casato e dalle grandi capacità diplomatiche.Dal momento che le forze del legato stazionavano in Bologna e potevano facilmente calare su Firenze fu realizzato l’avanposto di Scarperia nell’appennino e fu posto l’assedio al castello di Montaccianico a cui partecipò anche la Compagnia dei catalani con Diego della Ratta. In queste operazioni militari, Siena e Bologna inviarono consistenti contingenti di truppe scelte. Nell’agosto Montaccianico fu preso e raso al suolo. Al che il della Ratta con le sue truppe tornò a Firenzea presidiare il Comune con il consenso di Roberto duca di Calabria. Nel novembre 1306 si diresse in soccorso di Bologna che temeva un attacco da larte del legato papale. Tornato a Firenze ai primi del 1307, nella primavera partecipò ai preparativi di guerra contro Arezzo. Il 24 maggio le truppe fiorentine entrarono nel territorio di Arezzo e si diedero a devastare il contado. Numerosi castelli furono distrutti ma l’unico episodio di un certo rilievo bellico fu l’assedio del castello di Gargonza al quale partecipò Diego con 300 cavalieri e 500 almogaveri sul cui valido contributo, determinante per la vittoria, contavano i Neri.Nel settembre dello stesso anno 1307 ritroviamo il maresciallo Diego assoldato con i suoi dal Comune di Bologna per portare soccorso ad Azzo d’Este, signore di Ferrara e cognato di Roberto d’Angiò, che era stato attaccato da mantova e Verona. Giunto a Ferrara con 700 cavalieri catalani ed unitosi all’esercito di Azzo Diego andò a porre il campo in località Torre di Figarolo da dove il giorno successivo avrebbe dovuto con il marchese Azzo, attaccare Ostiglia, ma questa fu incendiata dai suoi abitanti per cui il marchese d’Este ed il della racta proseguirono contro il castello di Serravalle che presero e distrussero ricavandone ricchezze ed le paghe dell’esercito nemico. Nell’estate del 1308 Diego della Ratta dovette con urgenza rientrare a Firenze dove i tumulti tra le varie fazioni richiedevano di mantenere l’ordine pubblico. Proprio in una di queste operazioni di polizia vediamo protagonista Berlingiero Caroccio, cognato di Diedo ed uno dei suoi capitani che sarà sempre al suo fianco fino alla battaglia di Montecatini nella quale perirà combattendo valorosamente. Corso Donati cercava sepre di prendere il potere della città. I primi di ottobre decisero di allontanarlo prima che Uguccione della Faggiola, suo suocero, venisse con un esercito in suo aiuto. Corso, quando vide che la partita era perduta fuggì. I catalani lo raggiunsero nei pressi di Rovezzano e lo presero prigioniero. Caroccio, cognato di Diego a cui non mancava il senso dell’onore, non volle ucciderlo e con il prigioniero prese la strada per Firenze. Giunti nei pressi del convento San Salvi, non accettando l’idea di subire l’oltraggio di essere sottoposto pubblicamente alla pena capitale, cercò di uccidersi: spronò il cavallo, si lasciò scivolare di sella e mantenendo un piede nella staffa si fece trascinare a galoppo sfrenato per un buon tratto. Il Caroccio,quando riusci a fermare il cavallo, constatale le gravi ferite riportate dallo sventurato, per porre fine alle sofferenze del poveretto, gli infisse un colpo di lancia nella gola. Lo fece ortare nel convento dei monaci Vallombrosani dove fu sepolto. Nel 1310 la salma di Corso fu riesumata e venne risepolta con grandi onoranze funebri. In quel periodo erano in Firenze gli ambasciatori del re Giacomo d’Aragona con l’incarico di stringere patti con la città per agevolare il loro re nella conquista della Sardegna e Diego della Racta si adoperò con tutta la sua influenza per favorirli lella loro missione. Nel maggio del 1309 morì Carlo d’Angiò e Roberto divenuto re di Sicilia fu incoronato ad Avignone da papa Clemente V  Nel 1310 re Roberto tornato a Napoli inviò la bandiera con le sue insegne a Diego della Racta. Questi per dare battesimo di guerra al nuovo vessillo, andò in aiuto a Città di Castello, alleata di Firenze, contro le forze aretine guidate dai Signori di Pietramala e da Uguccione della Faggiola, che subirono una memorabile sconfitta nella piana sottostante Cortona pur avendo un numero di armati superiore. Nell’estate dello stesso anno re Roberto concesse ai fiorentini la facoltà di inviare il maresciallo della Racta e la sua compagnia al servizio di Perugina che aveva mosso guerra a Spoleto e Todi. L’esercito perugino che oltre ai catalani contava anche le truppe di Città di Castello, Gubbio, Camerino, Assisi, Foligno, Spello e Trevi dopo uno scontro con i Ghibellini di Spoleto, a cui si erano associati cavalieri e fanti di Todi, Narni, Amelia, Sangemini ed anche Pisa, si ritirò a Marciano da dove cominciò a far incursioni nel territorio di Todi. Questi avuti gli aiuti dal marchese di Ancona invasero il territorio di Perugina bruciando e distruggendo. I perugini contrattaccarono assediando il castello di Fratta del Vescovo, oggi Fratta Todina, e dopo averlo preso, il 3 settembre si diressero al ponte di Montemolino dove si accamparono. Montemolino era un munito castello posto a guardia di alcuni mulini e di un ponte che attraversava il Tevere a circa 4 chilometri da Todi. Il 5 settembre i perugini passarono il fiume ed attaccarono l’esercito ghibellinocce era accampato sull’altra sponda. Dopo un’asprae sanguinosa battaglia in cui si distinsero per la loro selvaggia violenza i catalani, i Tudertini si ritirarono precipitosamente, inseguiti dai guelfi che arrivarono fin oltre la metà del colle di Todi. Montemolino fu preso. Nello scontro morirono anche Longaruccio Visconte dei Trivinano, Cello di Spagliano, Ugolino de Neri di Monte Marano ed altri nobili, ed i prigionieri furono circa 600; otto bandiere furono sottratte all’esercito sconfitto e portate a Perugia. Nel mese di ottobre, alla presenza di re Roberto che rientrava dai suoi possedimenti in Provenza, a Diegi de Racta fu rinnovato dal comune di Firenze, con una cerimonia solenne, il contratto d’ingaggio col quale il maresciallo si impegnava, tra l’altro, ad impiegare i suoi cavalieri catalani a difesa del palazzo dei Priori in caso di disordini. Riprendendo la strada pewr Napoli re Roberto il 31 ottobre si fermò a Perugina dove ebbe modo di constatare quanta riconoscenza gli aveva procuratol’impegno di Diego della Racta e dei catalani nella battaglia di Todi. In suo onore fu organizzata una giostra a cui parteciparono cento giocatori; inoltre il comune gli donò una coppa con 800 fiorino ed alla regina un’atra con duecento fiorini, L’anno successivo il re donava la contea di Caserta al suo Maresciallo Diego della Racta. Nello stesso mese di ottobre il re di germania, Enrico VII, venne in Italia per recarsi a Roma a cingere la corona imperiale, per volere del Papa che in data 26 luglio 1309 lo aveva nominato re dei Romani. Nel novembre, in un parlamento a Castelfiorentino, i Toscani decisero di riformare la Lega Guelfa secondo gli accordi presi con re Roberto; nello stesso tempo si decise di inviare a re Roberto un’ambasceria per chiedere la conferma delle libertà comunali alle città della Toscana, offrendo in cambio appoggio per la spedizione verso Roma contro l’aspirante imperatore. Enrico, che nel venire in Italia aveva accolto alla sua corte numerosi ghibellini, lasciò molto perplessii Neri di Toscana che vedevano il pericolo crescere giorno per giorno e seguivano con grande diffidenza i movimenti dello stesso re che in Sant’Ambrogio di Milano, nell’Epifania del 1311, si era fatto incoronare con la corona ferrea. Intanto re Roberto, che il 4 gennaio 1311 aveva fatto pubblicare la sentenza con la quale veniva bandito il conte di Caserta Bartolomeo Siginulfo dichiarato ribelle e pubblico nemico per cui gli erano stati confiscati tutti i beni compresi i feudi, nei primi mesi di quell’anno concesse la contea di Caserta al Maresciallo del Regno messer Diego de Racta. L’11 aprile 1311, Pasqua di Resurrezione, Diego de Racta, al massimo della sua potenza, ebbe l’onore di armare cavalieri del Popolo il figlio ed i due nipoti di Pino de’Rossi, ambasciatore fiorentino morto in Avignone, la cui famiglia molto aveva fatto per la causa guelfa. I fiorentini, temendo che Enrico dopo Milano volesse scendere verso l’amica città di Pisa, si apprestarono alla difesa, rinforzando le mura, murarono le porte ed assoldarono quante più truppe riuscirono a trovare. Invece Enrico VII rimase in Lombardia dove fu costretto ad affrontare la rivolta di varie città. Cremona fu sottomessa e sottoposta a dure condizioni di pace, toccò poi a Brescia subire un lungo assedio che si protrasse fino a settembre quando la città esausta si arrese e subì una sorte più dura di quella riservata a Cremona. Domata la Lombardia, Enrico decise di dirigersi verso Genova perché la via della Romagna avrebbe potuto creargli notevoli difficoltà dato che in quella regione era vicario e per conto di Clemente V re Roberto d’Angiò che aveva avuto tali titoli il 19 agosto 1309, mentre la bolla di nomina gli venne consegnata nell’ottobre a Firenze. A maggior difesa delle libertà comunali si era intanto costituita una lega lombardo-toscana che vide alleati gli esuli milanesi, i guelfi di Bergamo e di Cremona, Modena, Parma, Reggio ed alla quale aderì anche Bologna dove da Firenze era stata inviata la Compagnia di Diego de Racta che, nominato Vicario in Romagna di Roberto, era stato mandato oltre l’Appennino proprio con lo scopo di sbarrare la strada ad Enrico VII. Nel successivo mese di luglio giunse a Bologna con altre truppe Gilberto de  Santillis, visconte della Romagna, che per rendere più sicuri i domini di Roberto, insieme al deaal Racta, imprigionò i ghibellini di Forlì, Faenza, Imola e scacciò i Bianchi ed i Ghibellini toscani esuli in quella città. Nello stesso mese Diego a mezzo di suoi procuratori assoldò in Puglia, per conto della Repubblica fiorentina, un certo numero di militi, cavalieri e pedoni. Firenze, visto che Enrico si stava dirigendo verso Genova, nell’ottobre richiamò la Compagnia catalana del de Racta. Nella città di Genova, dove il popolo era stanco delle lotte interne, la notizia della venuta di re Enrico fu accolta con letizia, nella speranza di godere una pace duratura, i Genovesi diedero per vent’anni la signoria ad Enrico VII, il quale, a corto di denari per pagare le sue truppe, impose subito dei tributi che indisposero in sommo grado i cittadini che nella loro storia non avevano mai pagato tributo alcuno allo straniero. Roberto d’Angiò, constatale le precarie condizioni in cui si trovava Enrico VII, pensò di portare avanti una doppia linea d’azione: da una parte cercò accordi segreti con i quali, a fronte dell’aiuto offerto per agevolare la sua incoronazione ad imperatore, chiedeva ad Enrico libertà d’azione nell’acquisire il dominio dell’Italia, e dall’altra invitò il suo maniscalco de Racta, che in quel periodo comandava una forza di 800 cavalieri catalani e francesi ed una numerosa turba di almogaveri, ad eseguire scrupolosamente gli ordini della Signoria Fiorentina che lo inviò ad occupare la Lunigiana per impedire il passo alle armate tedesche dirette a Pisa. Il 2 novembre 1311 il conte Diego con i suoi era a Lucca e verso la fine del mese o ai primi di dicembre occupò Pietrasanta e Sarzana. A completare la sua azione politica il 20 dicembre Roberto inviò a Roma suo fratello Giovanni, conte di Gravia, con 400 cavalieri, si pensa per favorire o impedire l’incoronazione di Enrico a seconda di come si sarebbero messe le cose. Verso la metà del febbraio del 1312 Enrico VII ruppe gli indugi e per mare si diresse verso Pisa, mentre i ghibellini toscani e gli altri fuoriusciti confluivano verso la città per rinforzare l’esercito tedesco. Furiose tempeste impedirono un rapido viaggio che si concluse il 6 marzo a San Pietro in Grado sull’Arno, a poca distanza da Pisa, dove Enrico ricevette l’omaggio dei Pisani. Enrico, il cui interesse supremo era quello di essere consacrato in San Pietro, al fine di evitare sterili scaramucce, il 23 aprile lasciò Pisa e per la via della Maremma, Grosseto e Viterbo giunse il 7 maggio a Roma, dove trovò le due fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini pronte allo scontro. Il 9 maggio giunse a Roma anche Diego de Racta con quattrocento catalani, trecento almogaveri e truppe scelte fiorentine che andarono ad ingrossare il presidio del conte di Gravina, Roberto intanto campeggiava nei dintorni di Gaeta per impedire una eventuale invasione del Regno da parte di Enrico. Per tutto il mese di Maggio Roma fu teatro di scontri che videro le forze ghibelline occupare, una strada dopo l’altra, circa mezza città, ma il 26 maggio la loro sorte cambiò: da Campo dei Fiori a Ponte Sant’Angelo la battaglia fu generale, la lotta durò fino a sera quando le truppe di Enrico furono costrette a ritirarsi e per unanime parere dei cronisti del tempo il merito della vittoria fu da attribuire ai catalani del conte di Caserta. Mentre le truppe combattevano re Roberto con l’unico scopo di diventare signore d’Italia a spese delle libertà comunali delle città toscane e dei loro alleati. I fiorentino furiosi per quello che Roberto stava architettando fecero sapere che non avrebbero sopportato più la sua ambigua politica e che erano pronti a ritirarsi e proseguire la lotta da soli. Roma era ormai divisa in due parti con San Pietro ed i quartieri circostanti in mano ai guelfi. Enrico, che voleva comunque essere incoronato, chiese che la cerimonia si svolgesse in San Giovanni in Laterano. I cardinali delegati dopo vari tentennamenti accondiscesero ed il 29 giugno 1312 Enrico VII fu consacrato imperatore. Seguì una tregua armata che durò per tutto il mese di luglio durante il quale Enrico si trasferì con la maggio parte delle truppe a Tivoli, mentre a Roma restavano le forze fiorentine. Ai primi di agosto Enrico tornò a Roma mentre le truppe guelfe rientrarono in Toscana lasciando a fronteggiare l’imperatore la Compagnia catalana del della Racta con poche altre truppe della Lega. Il 20 agosto Enrico lasciò definitivamente Roma dirigendosi verso Perugina, i cui territori subirono devastazioni e saccheggi, per andare ad assediare Firenze. Partito Enrico, le ultime truppe guelfe e la Compagnia catalana, per altra via, si ritirarono ad Orvieto dove gli assoldati si tennero pronti ad intervenire, se richiesti da Perugina: L’imperatore passò oltre ed andò prima a Cortona e poi ad Arezzo in cui enrò il 7 settembre accolto con gioia dai ghibellini. I Priori di Firenze approntarono la città alla difesa, mentre i catalani del della Racta vennero inviati in aiuto delle città del Valdarno superiore: San Giovanni, Figline, Incisa. Il 12 settembre Enrico entrò nel territorio fiorentino ed occupò il castello di Capovolsi; il 15 una dura battaglia costrinse Montevarchi alla resa; il 16 gli imperiali erano di fronte a San Giovanni alla cui difesa attendevano anche una cinquantina di cavalieri catalani. Venne dato l’assalto alle mura con lunghe scale; i cittadini, quando videro che i nemici stavano per superare le loro difese, subito offrirono la resa ed i catalani, ormai soli, furono costretti ad arrendersi, ben sapendo la triste sorte che li attendeva in quanto Enrico aveva decretato che qualsiasi mercenario fosse stato preso sarebbe stato condannato a morte. Ai catalani incatenati fu messo un  cappio al collo e con quello furono trascinati al seguito dell’imperatore fino al Natale successivo, quando Enrico “magnanimamente” concesse loro la libertà. Il 17 settembre le truppe imperiali giunsero a Figline che era stata abbandonata dagli abitanti perché, manando le mura, era indifendibile. Il 18 la cavalleria di Enrico proseguì per Incisa mentre la fanteria seguiva lentamente. Incisa era un borgo in posizione strategica alla confluenza di due strade che venivano da Firenze, collegate tra loro da un ponte sull’Arno. La città era difesa da una solida torre a capo del ponte sulla destra del fiume mentre l’abitato era dall’altra parte sul lato sinistro. L’imperatore ed i suoi cavalieri, che provenivano dalla strada di Arezzo posta sul lato sinistro del fiume, giunti nei pressi dell’Incisa, videro che le forze guelfe, schierate in ordine di battaglia sul ponte e sotto le mura dela città, erano il doppio delle loro. Nonostante ciò, Enrico, seguendo gli antichi usi della cavalleria, offrì di combattere in campo aperto nella piana sulla riva dell’Arno, ma, atteso invano il nemico per un certo tempo, proseguì il suo cammino e, per sentieri impervi attraverso le colline, aggirò Incisa e riprese la strada per Firenze qualche chilometro oltre il paese. Quando Diego de Racta si accorse che il nemico era passato, irruppe con i suoi cavalieri alle spalle degli imperiali che, voltati i cavalli, diedero battaglia a quelli che poche ore prima si erano rifiutati di combattere con loro. Anche l’Imperatore partecipò alla lotta, breve ma violenta, che si risolse con la sconfitta del Conte di Caserta che si ritirò con i suoi entro le mura dell’Incisa. Ovviamente Enrico VII non pose l’assedio alla cittadina perché essa aveva alle spalle delle colline impervie, davanti il fiume e oltre questo il munito castello sotto il quale passava l’altra via che conduceva a Firenze, ma, attese sul luogo dello scontro le sue fanterie, il giorno 19 riprese la marcia verso Firenze dove per l’altra via erano già arrivati il conte Diego e le truppe sconfitte. Le forze dell’Imperatore non erano sufficienti per cingere dìassedio una città grande come Firenze e non disponevano neppure delle speciali macchine atte a demolire le mura, ma Enrico schierò ugualmente le sue truppe cercando inutilmente lo scontro campale. L’unica volta che il de Racta si avventurò con ben 13.000 uomini in un incursione contro il nemico, quando i suoi si trovarono di fronte l’esercito imperiale schierato, precipitosamente si ritirarono entro le mura amiche. Il prestigio del conte di Caserta dopo la sconfitta deìl’Incisa e la infelice conclusione della sortita venne ridimensionato in gran misura ed i Fiorentini incominciarono a diffidare di colui che avevano eletto a loro campione e difensore delle loro libertà ma che all’atto pratico  si era rivelato, per quanto intrepido e valoroso, uno squallido mercenario che si impegnava soltanto se ne aveva il tornaconto. Le città guelfe, intanto, continuavano ad inviare soccorsi alla città assediata tanto che verso la fine del mese di settembre i Fiorentini disponevano di circa 4.000 cavalieri ed oltre 60.000 fanti. Questa enorme massa di armati mancava però di una mente strategica che potesse guidarla perché il de Racta era un comandante di compagnia, e come tale era insuperabile, ma non aveva alcuna idea di come condurre un corpo di armate così vario e numeroso che essendo oltretutto improvvisato mancava di spirito di corpo: frequenti furono le risse e gli attriti tra le varie truppe. Una volta vennero coinvolti anche i catalani di Diego de Racta con le milizie di Rimini giudate da Ferrantino Malatesta; perfino i comandanti intervennero nell’aspro diverbio che rischiò di trascendere a vie di fatto; solo l’intervento dei nobili toscani e romagnoli riuscì a riportare la calma tra i capi e poi tra le truppe. Lasciatasi sfuggire l’occasione di un attacco decisivo nei primi giorni, Enrico condusse l’assedio stancamente ed in vana attesa di uno scontro frontale, mai accettato dai Fiorentini. Il solo fatto d’armi di una certa importanza accadde addirittura a Cerretello, poco lontano da Pontedera, dove il 5 ottobre Diego de Racta accompagnato da circa 1400 cavalieri con una rapida incursione notturna sorprese i pisani che assediavano quel castello, li mise in rotta e se ne tornò in città. Alla fine di ottobre Enrico VII tolse l’assedio e si ritirò a San Casciano in Val di Pesa da dove diresse le operazioni di disturbo dei suoi; alle volte ebbe successo ed altre no. Con la venuta dell’inverno buona parte dei nobili comandanti le truppe imperiali, stanchi della guerra inconcludente, se ne tornarono nei paesi d’origine. Anche a Firenze la situazione non era delle migliori; il popolo era stanco della guerra, le privazioni e la riduzione delle attività commerciali stavano esasperando gli abitanti che avevano sperato in una battaglia risolutiva che avrebbe posto fine ai loro disagi. Tra i comandanti dell’esercito le rivalità e le incomprensioni aumentavano di giorno in giorno; tra il conte Diego ed il capitano di guerra Fulcieri da Calcoli scoppiò una furibonda lite che portò Fulcieri a dimettersi dalla carica e tornarsene in Romagna. Verso la metà di gennaio 1313 l’imperatore trasferì  i suoi accampamenti presso le rovine di Poggibonsi, distrutta dai Guelfi. Ad affrontarlo in Val d’Elsa fu inviato, come al solito, il de Racta che però non lo impegnò mai in combattimento. Il 10 Marzo Enrico VII rientrò con le truppe in Pisa e di lì spedì per l’impero gli ordini di arruolamento per il 1º maggio successivo per portare la guerra contro Roberto d’Angiò. Il conte di Caserta, che aveva tallonato le truppe di Enrico VII lungo tutta la Val d’Elsa, si era fermato a San Miniato dove nell’aprile lo raggiunsero le notizie della concessione da parte di re Roberto del feudo di Montoro e la nomina a Gran Ciambellano del Regno. Nel maggio Diego de Racta fu inviato sul litorale tra Pietrasanta, conquistata dagli imperiali, e Camaiore. Nei primi mesi del 1313 i Priori, costatando che la città non era abbastanza forte per proseguire con speranza di vittoria la guerra contro Enrico VII, offrirono la signoria di Firenze a re Roberto per la durata di 5 anni. Il primo reggente che Roberto inviò a Firenze fu Giacomo di Centelme che, appena assunto l’incarico, ai primi di agosto 1313, soppresse la carica di Capitano del popolo e provvide alla destituzione del maresciallo  Diego de Racta che comunque rimase in sott’ordine, come comandante dei mercenari catalani, al servizio di Firenze. Sempre ai primi di agosto le forze imperiali si mossero da Pisa per andare a Roma e proseguire poi alla conquista del Mezzogiorno. Dopo aver raggiunto Siena, Enrico VII si apprestava a conquistarla da sud, ma la notizia dell’imminente arrivo delle truppe fiorentine, tra le quali troviamo la Compagnia catalana del conte di Caserta, e soprattutto la ripresa della malattia che lo affliggeva da vario tempo, lo indussero a proseguire il viaggio, che però fu interrottoa Buonconvento dove le sue condizioni peggioraronoed ove il 24 agosto Enrico VII spirò. I nobili tedeschi sciolsero l’esecito, tornarono con le spoglie dell’imperatore a Pisa dove Enrico VII fu sepolto accompagnato da un grande e sincero dolore dei Pisani. Intanto in Sicilia, dove re Roberto era in lotta con gli Aragonesi, la guerra non andava troppo bene per le forze napoletane. Re Roberto, ai primi di ottobre del 1313, ebbe anche il modo di lagnarsi che Leone Protopapa, vicario di Diego de Racta conte di Caserta, signore di Monitoro e Gran Camerario del Regno, si era arreso al nemico ed in più aveva consegnato a Federico II il castello di Niceto. Per poter riprendere con più forza la guerra nell’isola l’Angioino aveva bisogno di una tregua in Toscana per cui si fece promotore della stipula di una pace tra Siena e Firenze, pace che fu firmata a Napoli il 27 febbraio 1314. La pace non piacque a Uguccione della Faggiola, a quel tempo capitano di guerra, podestà e capitano del popolo di Pisa, perché temeva di dover congedare gli ottocento cavalieri tedeschi da lui assoldati dopo la morte di Enrico VII ed inoltre, in primo luogo, temeva di essere licenziato senza troppi complimenti ora che la sua opera non sarebbe stata più necessaria. Iniziò quindi delle trattative con la cittò di Lucca e tanto fece che il 14 giugno la guerra riprese e si concluse con la presa ed il saccheggio della città che dovette concedere la signoria ad un figlio di Uguccione: Francesco. Non contento di ciò Uguccione il 13 luglio 1314 fece stipulare un trattato di alleanza eterna tra Pisa e Lucca e di questa lega si fece nominare capitano generale. La conquista di Lucca creò gravi timori in Firenze che con sollievo, mitigato dal pensiero di doverne sostenere le spese, vide arrivare il 18 agosto, accompagnato da 300 cavalieri, il fratello di re Roberto, il conte Pietro di Eboli, che assunse il titolo di Vicario di Toscana, della Lombardia, della Romagna, della Contea di Bertinoro, della città di Ferrara e di Capitano generale di tutta la parte guelfa d’Italia. Per tutto il resto dell’anno e nei primi mesi del 1315 Uguccione continuò ad attaccare, ora qua ora là il territorio di Firenze e Siena saccheggiando castelli e villaggi. Intanto il conte Diego de Racta, rimasto vedovo di Domicella, aveva sposato Odolina di Chiaromonte, e nel febbraio 1314 era stato inviato da re Roberto quale suo vicario in Romagna con la carica di governatore di Ferrara. Il de Racta si recò poi a Castrocaro con una numerosa armata, proseguì per Forlì di cui pensava di essere il signore perché a Castrocaro teneva prigionieri Scapetta degli Ordelaffi con il fratello ed un nipote. La città invece si oppose e Diego non trovò di meglio che liberare Scarpetta ed i suoi parenti dietro riscatto di 15.000 fiorini d’oro. Tornò poi a Ferrara e di lì a poco, essendo stato sostituito da Pino della Tosa, rientrò a Firenze. Sul finire del 1314 Diego ed altri, nella guerra di Sicilia, trattarono la tregua con gli emissari di Federico d’Aragona re di Trinacria. Nel 1315 Uguccione della Faggiola, che continuava la sua lotta contro Firenze, pose l’assedio a Montecatini che gli oppose una tale resistenza che dopo cinque settimane dovette lasciare l’assedio e tornare a Lucca per raccogliere nuove forze. Il 19 aprile Uguccione invase il territorio di San Miniato. I fiorentini, che avevano affidato il comando dell’esercito al conte Pietro di Eboli, poco o nulla fecero per aiutare i loro alleati, mentre città e castelli ad uno ad uno capitolavano. Re Roberto, vista l’inettitudine del fratello, lo sostituì al comando delle truppe con l’altro fratello Filippo, principe di Taranto, che portò al seguito il figlio diciottenne Carlo di Acaia. I due principi giunsero a Firenze il 6 agosto. Il 10 agosto Uguccione entrò in Val di Fievole e si diresse verso Montecatini; i Guelfi portarono il loro esercito, attraverso le paludi di Fucecchio, a Monsummano ponendo il campo di fronte all’accampamento nemico; il solo fiume Fievole divideva le due schiere. Avvennero frequenti scaramucce durante le quali il capotano catalano Caroccio lottò valorosamente risultando sempre vincitore. I Fiorentini cercarono in tutti i modi di far giungere aiuti alla città di Montecatini ma con scarsi risultati. Tentarono allora di frapporsi tra l’accampamento di Uguccione e le sue vie di rifornimento con Pisa. Uguccione, intuendo il pericolo di rimanere senza vettovaglie, decise di dar battaglia; la mattina del 29 agosto, come parte dell’esercito guelfo si mosse per isolarlo da Pisa, lo attaccò all’improvviso. Lo scontro si estese a tutto il fronte diventando generale innumerevoli furono le prove di valore dei Guelfi, moltissimi capitani, tra i quali il valoroso Caroccio, perirono nella battaglia, anche Carlo d’Acaia morì combattendo, alla fine della giornata la vittoria fu di Uguccione. Il conte Diego de Racta, nonostante avesse combattuto strenuamente, cadde in grande dispregio nell’opinione dei Fiorentini, che non riuscivano a dimenticare la sconfitta dell’Incisa e che vollero attribuire ai mercenari spagnoli la colpa della sconfitta di Montecatini accusandoli di essere stati vili ed inetti, il che non è vero. Alte furono le lagnanze contro la casa d’Angiò. Uguccione non potè sfruttare il momentaneo successo assestando il colpo finale a Firenze perché dopo la vittoria di Montecatini un partito pisano a lui avverso, temendo acquistasse troppo potere, lo fece deporre e Firenze poté godere un periodo di tranquillità. Nel 1316 re Roberto nominò di nuovo Diego de Racta suo vicario in Romagna. Nel maggio Diego, che aveva assunto il titolo di Conte della Provincia di Romagna, mentre presidiava le città di Bertinoro, Meldola e Castrocaro, a richiesta dei Cesenati si trasferì nel palazzo del vescovo di quella città con la moglie Odolina, le figlie Caterina ed Agnese avute dalla prima moglie e le figliastre Violante ed Isabella mentre le truppe trovarono ospitalità in città. A Cesena rimase fino al 21 giugno quando ritornò ad accamparsi a Bertinoro. Durente il suo soggiorno cesenate, nel pomeriggio del 12 giugno presso il fiume Bevano, Diego de Racta ed i suoi, mentre accompagnavano una turba di popolani giudati da Ferrantino Malatesta, vicario del padre podestà di Cesena, furono attaccati da 80 soldati tedeschi delle masnade di Forlì e ne uccisero quasi un terzo facendone prigionieri gli altri. Il 28 giugno con l’aiuto dei Cesenati si portò nei pressi di Forlì ed il 6 luglio sconfisse uno dei capitani forlivesi nei pressi di Bagnolo. Sono queste le ultime battaglie sostenute da Diego de Racta che dimostrano ancora una volta le sue grandi capacità di intrepido uomo d’armi, abilissimo negli scontri con un numero limitato di armati. Nel mese di agosto tornò a Ferrara dove ricevette con grandi festa Caterina d’Austri che era di passaggio per andare sposa a Carlo duca di Calabria, figlio di re Roberto. Il 14 agosto Diego ebbe l’ordine dall’Angioino di trovare o eventualmente creare, sia in Ferrara che in qualsiasi città della Romagna, un incarico onorevole per Vanni de Iseppi di San Gimignano, professore di diritto civile e fedele servitore sia dello stesso Roberto sia della causa guelfa. Il 12 settembre tra Diego de Racta e Cesena da una parte e Forlì dall’altra venne proclamata la pace. Il 16 dello stesso mese, portata la pace tra i Cesenati ed i Forlivesi, Diego tornò a Ferrara da dove partì nei primi mesi del successivo 1317 per accompagnare a Napoli gli ambasciatori della città. Il 17 ottobre dello stesso anno avanti al giudice della città di Napoli, Pietro Brancaccio, ed al notaio Nicola Ferrillo, Diego sottoscrisse la promessa di matrimonio tra la figlia caterina e Loffredo Castani, conte di Fondi; il 24 dello stesso mese re Roberto concesse il suo assenso al contraendo matrimonio. Il 6 Novembre Roberto lo creò Capitano generale di guerra di tutta la Toscana e prima che partisse, il 12 novembre 1317, il re gli confermò la Contea di Caserta ed il feudo di Monitoro. Nel gennaio 1318 fu fatto Vicario a Firenze e nel febbraio vicario a Prato e Pistoia. L’8 marzo 1318 re Roberto scrisse a Diego de Racta “Conte di Caserta e Signore di Monitoro, Gran Camerario del Regno di Sicilia, Viario e Capitano generale di Toscana” di recarsi subito alla sua presenza per urgenti comunicazioni, incaricandolo di nominare al suo posto una persona idonea per il governo di Firenze. Nello stesso giorno Roberto scrisse a vari nobili ed ai Comuni della Romagna affinché assoldassero da 200 a 300 cavalieri da inviare a Napoli sotto il comando del de Racta. Anche il comune di Firenze ebbe l’ordine di inviare, sempre sotto il comando di Diego, altri 200 cavalieri. Il 18 maggio 1318 re Roberto era pronto a partire per la Provenza con la regina Sancia, facendosi accompagnare da molti dignitari tra i quali troviamo Diego de Racta. Re Roberto durante questo viaggio, iniziato nel luglio, si fermò ad aiutare Genova assediata dai ghibellini e ripartì per Avignone il 29 aprile 1319. Non si sa se il de Racta lo abbia seguito ad Avignone , si pensa che tra il 1319 ed il 1326, anno probabile della morte del conte di Caserta, qualcuno dice il 25 giugno 1326, egli si sia ritirato a Napoli dove continuò a frequentare la corte angioina dalla quale percepiva una pensione di 200 ducati. L’8 settembre 1320 il conte Diego fu testimone dell’impegno assunto da Nicola di Torre ad armare una galea per effettuare la guerra di corsa lungo le coste siciliane. Il 16 novembre 1320 ricevette l’ordine di tenersi pronto per il primo marzo dell’anno successivo a partecipare, sotto il comando dell’erede al trono Carlo duca di Calabria, alla spedizione contro Federico di Trinacria. Durante gli ultimi anni di vita altre battaglie impegnarono Diego; furono però battaglie legali contro il vescovo di Caserta per le decime non versatee per la pretesa del conte di obbligare i vassalli del vescovo a pagare ai suoi esattori le somme che erano di competenza della Curia vescovile. Si trattò di una questione molto controversa che trovò soluzione solo dopo la sua morte, nel 1327. Il convincimento di ognuno dei contendenti di essere nel giusto portò la lite a toni molto aspri tanto che nel 1324 il conte, temendo le macchinazioni del vescovo Benvenuto de Milo che era un profondo conoscitore della scienza del diritto, si rivolse a re Roberto per avere giustizia. Nel maggio 1325, e precisamente il giorno 15, Diego fece testamento istituendo suo erede Francesco, il figlio che gli era nato, probabilmente nel 1318, dalla seconda moglie Odolina di Chiaromonte (dal primo matrimonio con Domicella erano nate Caterina ed Agnese), e concedendo legati alle figlie Caterina, che aveva sposato Loffredo Caetani conte di Fondi, e Agnese, che aveva sposato Roberto di Sangineto conte di Corigliano, tutte e due nate dal suo primo matrimonio altri legati li istituì a favore delle figliastre Violante ed Isabella, nate da Odolina,Tra le altre volontà espresse nel testamento il conte stabilì che se fosse morto in Napoli avrebbe voluto essere sepolto nella chiesa di Santa Maria la Nova vestito dell’abito dei frati minori mentre se fosse morto fuori Napoli e nel luogo del decesso ci fosse stata una casa di frati minori lì avrebbe dovuto essere sepolto perché così le sue ossa si sarebbero poi potute traslare, a spese degli eredi, in Santa Maria la Nova. Il 22 aprile 1326 re Roberto emanò l’ordine a tutti i conti, baroni e feudatari dek Regno di trovarsi in armi nella città di Napoli al più tardi per il successivo 15 maggio per passare una parte in Toscana e l’altra in Sicilia; nell’elenco dei convocati non c’era il conte di Caserta Diego de Racta. Morto Diego tra la fine del 1325 e la prima metà del 1326 gli succedette nella contea di Caserta Francesco suo figlio legittimo e naturale, nato da Odolina di Chiaromonte sua consorte come espressamente dichiarato nel testamento redatto in Napoli il 15 maggio 1325. Esecutori testamentari, in solido tra loro, furono fra Giovanni della Regina dei frati minori, Tommaso di Marzano conte di Squillace, la vedova Odolina ed il nobile Salvatore di Costantino, senescalco del regio ospizio. Fidando nella stima e nell’affetto che re Roberto gli aveva sempre dimostrato Diego affidò alle sue cure e protezione sia il piccolo Francesco che le figlie Caterina ed Agnese, nate da Domicella la sua prima moglie. Francesco doveva essere nato nel 1318, e ciò è evidente dato che in un documento del 17 ottobre 1317 Diego, nell’assegnare dei beni a Caterina per il suo matrimonio con Goffredo Caetani, non fa cenno ad un erede maschio, in un altro del 27 marzo 1327 Francesco viene detto di età tra i 9 ed i 14 anni, ed infine in un altro del 25 ottobre 1331: maggiore di 13 anni. Il giovane conte ebbe per tutori:
il conte di Squillace e la madre Odolina alla quale venne fatto obbligo di educare il pupillo e di farlo crescere presso di sé finché non fosse giunto alla maggiore età o almeno fino a che non fosse convolata a nuove nozze. Il 23 dicembre 1326 re Roberto, volendo dar esecuzione alle ultime volontà del defunto suo gran camerario, ordinò a Odolina di Chiaromonte, per quanto già passata a nuove nozze dato che aveva sposato Giordano Ruffo di Calabria, ed a Marino de Dyano, suo gran maestro razionale, nominato in temporanea sostituzione di Tommaso Marzano assente dal Regno perché in Toscana al seguito di Carlo duca di Calabria, di esercitare la tutela sul piccolo Francesco avendo cura dell’amministrazione dei suoi beni ma con l’obbligo del rendiconto annuale che doveva essere redatto in tre copie di cui una doveva essere consegnata alla Camera Regia, la seconda al maestro razionale della Regia Curia e la terzadoveva essere conservata presso i tutori. Prontamente sia Odolina che Marino de Dyano, il 7 gennaio 1327, nominarono i giudici Simone de Maranchio e Nicola de Caserta, ambedue di Monitoro, loro procuratori per procedere all’inventario dei beni spettanti al giovane erede. Il 23 marzo dello stesso anno i due procuratori si recarono a Caserta per rilevare la consistenza delle proprietà di Francesco e l’atto ufficiale venne steso dal notaio Filippo de Maranchio. Nell’elenco troviamo segnalato, tra l’altro, il Castello di Casertavecchia che si presentava quasi allo stato di Rudere, infatti aveva la maggior parte delle mura dirute, un locale parzialmente privo del tetto e le due porte cadenti. conclusione allorché Roberto d’Angiò parte per la toscana per non essere colpito dall’interdetto lanciato su fiorentini e lucchesi dal cardinale Napoleone Orsini, legato del papa Clemente V, che vuole la pace fra le varie città toscane. Ha il titolo di maresciallo e di capitano generale delle milizie catalane. Nel 1306 lascia l’incarico. A giugno del 1307 è’ in campo della lega guelfa a Gargonza con 300 cavalli e 500 fanti mugaveri. E’ inviato a Bologna, per contrastare il marchese di Ferrara Azzo d’Este. Nel mese di settembre con la firma della pace fra i contendenti, passa al servizio dell’Este per contrastare gli scaligeri, i Bonacolsi ed i fuoriusciti di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Raggiunge a Ficarolo gli Estensi con 1200 Bolognesi guidati da Dalmasio dei Banoli e 160 cavalli ungheri. Avanza su Ostiglia con la cavalleria e la fanteria estense che, ad un certo momento, si rifiutano di seguirlo perché Azzo d’Este è colpito da una forte emorragia accompagnata da dolori al ventre. Con il rientro al campo del marchese, conquista Ostiglia che è data alle fiamme e costringe Ramberto Ramberti e Salinguerra Torelli a ripiegare ad Isola della Scala con gli Scaligeri. Il de Racta espugna il castello di Serravalle a Po, grazie ad un’azione coraggiosa di Cortesia Cavalcabò che supera da solo il fossato; si impossessa del naviglio di Botticella Bonacolsi ivi ancorato: sono distrutti il ponte e la torre, dopo aver vinto la resistenza dei difensori (100 cavalli e 1000 fanti), dei quali ne sono catturati o uccisi 300, senza contare coloro che muoiono annegati nel Po. Arriva il Bonacolsi e gli estensi si ritirano incendiando il castello. Sorgono al campo dissidi fra il de Racta e l’Este, che raggiungono l’acme con il suo ordine di decapitazione di Malvasio da Melara. Rientra a Ficarolo, a Ferrara ed a Bologna. In quest’ultima città hs il compito di domarvi un’insurrezione: è assediato nella cittadella. Nella mischia sconfigge gli attaccanti: 30 prigionieri sono impiccati ed altri sono obbligati a riscattarsi con il pagamento di una grossa somma. Nel 1308 nel mese di giugno in Romagna riceve in soccorso dagli estensi 200 cavalli e si muove nell’imolese; è preso il canale di Conselice e viene nominato conte camerlengo. Devasta per alcuni giorni il contado distruggendo i raccolti e tagliando piante. A settembre dello stesso anno è in Toscana . Arriva a Firenze con 250 cavalli catalani e si schiera con la maggioranza dei guelfi neri contro Corso Donati, che ha tentato di divenire signore di Firenze con l’ausilio di Uguccione della Faggiuola. Assedia il Donati nelle sue case nel sestiere di porta San Pietro e lo insegue quando riesce a fuggirne. Alcuni suoi catalani lo catturano a Rovezzano e lo conducono a Firenze, resistendo ad ogni tentativo di corruzione; uccidono, infine, il donati con un colpo di lancia alla gola su mandato di Rosso della Tosa e di Pazzino dei Pazzi alla badia di San Salvi, ad un miglio dalla porta di Santa Croce, quando gentiluomo fiorentino si   lascia cadere da cavallo. Nel maggio giugno, 1309 torna a Monte San Savino in Toscana con 200 cavalli e 100 fanti e danneggia il contado fino alle porte di Arezzo. Nello stesso anno nel mese di agosto, con la vittoria dei pontefici sui veneziani, si sposta a Ferrara come vicario del re di Napoli: non riesce a pacificare gli animi dei cittadini e fa impiccare 28 partigiani degli estensi. Nel 1310, nel mese di febbraio in appoggio a Città di Castello, prende la via della Valdarno con 400 cavalli e 6000 fanti, entra nell’aretino per Vallelunga e ne devasta il contado. Il della Faggiuola gli va incontro per sorprenderlo sotto Cortona: batte il capitano avversario, lo fuga e gli cattura 3 bandiere; fra i nemici sono uccisi 400 uomini con Vanni Tarlati e Cione dei Gherardini. Nel mese di luglio appoggia i perugini contro Todi alla testa di 300 cavalli. I nemici sono vinti. Nel giugno del 1311 contrasta le truppe dell’imperatore Enrico di Lussemburgo e si trova alla difesa di Bologna alla testa di 400 cavalli catalani. Nel mese di luglio si sposta in Romagna e con Gilberto di Santilla incarcera tutti i capi ghibellini di Forlì, Faenza ed Imola, per impedire la loro unione con gli imperiali. Ad ottobre è richiamato a Bologna. Passa in Lunigiana a Pietrasanta ed a Sarzana per ostacolare la marcia di Enrico di Lussemburgo, che da Genova si sta spostando a Pisa. A Novembre entra alla difesa di Lucca. Nel maggio del 1312 al comando di 300 cavalli catalani, 1000 fanti ed altri 200 cavalli fiorentini, parte per Firenze, tocca Orvieto e si congiunge a Roma con l’esercito confederato (600 cavalli catalani e pugliesi di Giovanni d’Acaja, 300 cavalli e 100 fanti lucchesi, 200 cavalli e 600 fanti senesi). Con l’aiuto degli orsini scaccia dal Campidoglio il senatore Luigi di Savoia, occupa mezza città con Castel Sant’Angelo, San Pietro e Trastevere: ai colonnesi ed ai partigiani dell’imperatore resta l’altra metà. Il giorno di San Giovanni Battista fa correre il palio secondo gli usi fiorentini. Con l’incoronazione in San Giovanni in Laterano, Enrico di Lussemburgo si dirige con il suo esercito su Tivoli e Todi. Tra agosto e settembre Diego della Racta si dirige alla difesa di Firenze con 2000 cavalli. L’imperatore si volta contro la città: egli punta al castello di Incisa per ostacolargli il cammino con 1800 cavalli. I fiorentini rifiutano tuttavia di combattere anche se le forze in campo sono pressocché uguali; gli avversari possono aggirare il passo e con il conte di Savoia ed Enrico di Fiandra attaccano all’improvviso a Montelfi la sua retroguardia. Il de Racta è sconfitto pur con perdite limitate fra i suoi (uccisi 25 cavalli e 100 fanti); tocca a Fiesole ed entra in Firenze, di cui inizia l’assedio da parte nemica. I guelfi vengono subito in soccorso della città ed in pochi giorni giungono rinforzi da Lucca (600 cavalli e 3000 fanti), Pistoia (100 cavalli e 500 fanti), Prato (50 cavalli e 400 fanti), Volterra (100 cavalli e 300 Fanti), Colle di Val d’Elsa, San Gimignano e San Miniato (ciascun comune 50 cavalli e 200 fanti), Bologna (400 cavalli e 1000 fanti), Rimini, Ravenna, Faenza, Cesena (complessivamente 300 cavalli e 1500 fanti), Gubbio (100 cavalli) e Città di Castello (50 cavalli). Questo esercito forte di 4000 cavalli e di ancor più fanti si trova a fronteggiare l’imperatore che guida 1800 cavalli (800 tedeschi e 1000 italiani, di Roma, della marca di Ancona, del ducato di Spoleto, di Arezzo, della Romagna, dei conti Guidi e di quelli di Santa Fiora) e di molti fanti. Nel mese di ottobre proseguono le operazioni per tutto il mese; il periodo è caratterizzato dalle usuali scorrerie: né gli attaccanti né i difensori, infatti, tentano alcun attacco decisivo. L’anno prosegue fra tafferugli, litigi e disordini fra i soldati del de Racta e quelli di Ferrandino Malatesta. Tra febbraio e marzo del 1313 il condottiero di Ventura Diego della Racta incalza gli imperiali che ripiegano a San Gimignano e sopraffà a Castelfiorentino: Enrico di Lussemburgo abbandona Poggibonsi e si rifugia a Pisa. Nel frattempo il re di Napoli Roberto d’Angiò gli dà in feudo i beni di Bartolomeo Siginolfo, caduto in disgrazia, con la terra di Montorio nei Frentani ed il titolo comitale. In Aprile del 1314 ritorna a Ferrara come vicario angioino: nasce un tumulto a favore degli estensi e sgomina i rivoltosi. Da qui passa a Castrocaro Terme ed a Forlì: fa incarcerare Scarpetta Ordelaffi con un fratello ed un nipote. Non è, tuttavia, in grado di avere la città, per cui libera tutti i prigionieri in cambio di 15000 fiorini. Nel mese di giugno viene sostituito nel suo incarico da Pino della Tosa, per cui parte per Bologna e Firenze: porta con sé come ostaggio Azzo d’Este, figlio di Francesco. Nel frattempo viene nominato da re Roberto gran camerario del regno. Nell’aprile del 1315 riceve dalla corte angioina 2000 fiorini, quale saldo di suoi crediti. In giugno viene eletto nuovamente vicario della Romagna, è autorizzato di circondarsi di una guardia del corpo di 30 cavalli; gli è dato uno stipendio giornaliero di un’oncia e 15 tarì. Nel mese di agosto partecipa alla battaglia di Montecatini contro il della Faggiuola: inquadrato nell’ala sinistra affianca Piero d’Angiò, attraversa il Bona e cerca di riordinare le truppe di Carlo d’Angiò, messe in disordine dagli avversari; deve ritirarsi per il mancato sostegno della fanteria. Nel 1316 ricopre l’incarico di rettore della Romagna per incarico del papa: le località sottoposte sono nella realtà le sole Bertinoro, Meldola e Castrocaro Terme. Nel mese di maggio si trasferisce a Cesena con i suoi familiari. Tra giugno e settembre sempre per incarico del papa assale, con il potestà della città di cesena, Ferrandino Malatesta, i forlivesi sul torrente Bevano. A settembre vi è la pace fra le parti. Nel luglio del 1317 si trasferisce sempre per conto della chiesa a Ferrara, dove viene scacciato dalla città, a seguito di un tumulto popolare alimentato dai partigiani degli estensi. Nel mese di ottobre ritorna a Firenze quale vicario del re di Napoli al posto di Amelio del Balzo; ricopre la medesima carica anche per Pistoia e Prato. Gli viene affidato il comando delle truppe guelfe in Toscana. Nel marzo del 1318 ritorna a Napoli, per gravi interessi di Roberto d’Angiò e del papa Giovanni XXII. Nello stesso anno ottiene il titolo di conte di Caserta e gli viene conferita la carica di gran connestabile. Nel mese di novembre il re lo invita a porre in ordine le truppe per appoggiare il duca di Calabria nella sua prossima spedizione contro il re di Sicilia.  Muore nel 1325. Diego della racta fu valorosissimi nell’arte militare. Uomo di grande valore.Persona d’esperienza e praticissimo nelle cose di guerra. Dal corpo bellissimo e grande vagheggiatore.
(http://www.condottieridiventura.it/r/1595%20%20%20%20%20%20DIEGO…)




       Caserta Vecchia
particolare del castello di Diego de La Rath





Stemma dei feudatari
de CHIARAMONTE di Sicilia
discendenti dei
 Clermont in Francia


CHIARAMONTE

 Antica famiglia feudale franco-normanna originaria di Val d’Oise in Normandia(Francia), il cui capostipite fu Verelando[65] di stirpe Carolingia[66] della linea di Clermont. Egli passò nella Puglia con il Conte Ruggero. Il figlio Ugo militò con il duca Roberto in Grecia poscia in Puglia col principe Boemondo figlio di detto Ruggero.
                                                                             





Senato della Repubblica Italiana Archivio
Antenati di Odolina Chiaramonte
Carlo Magno





CARLO MAGNO

Imperatore del Sacro Romano Impero

Detta famiglia acquistò un'ingente patrimonio fra la Basilicata e la Calabria, si estinse infine in altre famiglie nobili; Da Verelando discesero anche i Chiaramonte di Sicilia. (L’Isveges, in Paleremo Nobile, Pal.1631, pag.62 cita un privilegio di Nicolò Chiaramonte ,siciliano, cardinale creato da papa Honoris III MCCXIX dato in Urbe Veteri, an. Dom. 1220, ind.VIII, die V septem. Riportato dall’autore in Italia Sacra Vol.1 pag. 365: De qua (de demo Christianissimi magni Charoli regis Franciae) ille gloriosissimus,magnificentissimusque Verelandus de Claramonte discendi, et vos etiam descendistis…).

-GENEALOGIA ESSENZIALE INCOMPLETA
Clermont/Chiaromonte/Chiaramonte
Del sangue di
CARLO MAGNO

                                                                                                         
Genealogia di Sicilia



Baldovino I di Clermont
conte da
? - + 1023

Baldovino II di Clermont
conte dal 1023 – 1042

Ermengarda di Clermont
contessa
figlia do Baldovino II
Sposa Rinaldo I di Creil
conte dal 1042 – 1088  +1088
I
I
Verelando di Clermont[67]
 (cognome italianizzato CHIARAMONTE)
del sague di Carlo Magno
(Venne in Italia con Ruggero il Normanno)

A1. Ugo I
figlio di Rinaldo I
(attestato nel periodo 1074-1088); feudatario in epoca normanna

B1. Alessandro (attestato nel periodo 1087-1096); feudatario in epoca normanna
      B2. Riccardo (attestato nel periodo 1093-1096); feudatario in epoca
               normanna;

        B3 Avenna (attestato nel periodo 1093-1102), feudatario normanno

              B4. Rinaldo II     linea di Francia
C1. Ugo II
(attestato nel 1112); Conte di Chiaromonte; donò Mormanno al vescovo di Cassano (1101).
              C2. Alessandro II (attestato nel periodo 1112-1145)
  C3. Riccardo II (attestato nel periodo 1112-1139
 D1. Ugo III
                   (attestato nel 1152); Conte di Chiaromonte;
                             
           E1. Riccardo III
             (attestato nel periodo 1221-1232)
  F1. Ugo IV
             (attestato nel periodo 1246-1254)
        Sposa Guida di Dragoni

 Conte di Chiaromonte; Signore della valle di Luino, di S. Clerici, Genusia, Noae (Noja), Latronico, Castronuovo, Rotonda a mare, le terre di Trisagia, Calabro, Bactivoranum Rubium, Latigana, Acremontum, Episcopia, S. Martino, Castro Sareceno, Rotonda, Cursosimo e Faraco; Federico II gli confiscò poi i feudi ed i castelli (1246) per aver partecipato alla rivolta di Capaccio; fu poi scomunicato da papa Innocenzo IV (1254) con il figlio Riccardo (per essersi impossessati dei beni loro usurpati, come Chiaromonte, e i castelli di Colubrano, Stellano, Bigianello, S. Arcangelo e Luino).

                                 G1. Riccardo IV
                           (attestato nel 1254-1284)
                              Sposa Egidia Sorella
 Conte di Chiaromonte, signore di Vasto e di altri beni (restituitigli da Carlo I d'Angiò nel 1268 dopo la sconfitta di Manfredi). Risulta anche possessore di Mastrati nel sec. XIII, questo è esplicitamente menzionato in un paragrafo della Cancelleria Angioina negli anni 1283-1285:« - (Riccardo Claromonte mil.cons.et fam. Donatur castra Miniani, Pentomarum ed Mastralti). Reg.49,f.224)» cfr.Reg.Ang.XXVII(2), aa 1283-1285.

 G2. Nicola
G3. Federico (attestato nel 1220). Il papa Onorio III gli conferì la Rosa Papale riconoscendogli la discendenza da Carlo Magno, e Federico nell’occasione promise di combattere contro gli scismatici.
     
                               H1. Ugo V
 (+ 1309); Conte di Chiaromonte, Senisi, San Chirico, Noia, Castronuovo, Torre di Mari; = 1309 (con dote di mille once d'oro, per le quali ebbe poi Terranova; altre seicento once gliele donò re Carlo II) Margherita di Lauria (vedi), Signora delle isole Gerbi e Kerkel, ecc. figlia dell'Ammiraglio Ruggiero e di Margherita Lancia (il marito le assegnò poi in dote S. Chirico e Castronuovo).
H2. Margherita; Contessa di Chiaromonte, Senisi, San Chirico, Noia, Castronuovo, Torre di Mari (che ereditò alla morte del fratello); Sposa nel 1319 Giacomo Sanseverino (+ 1348), 1° Conte di Tricarico e 1° conte come Sanseverino di Chiaromonte; Signore di Castronovo, Noia, Torremare e Sevisio dal 1319; nel 1337 vende il feudo di Picerno ai di Sus.


H3. Odolina
de Chiaramonte[68]
di origini siciliane,

sposò Diego de La Rath, 1° Conte di Caserta, il 27 febbraio 1314 (o forse nel 1315). Alla morte del fratello Ugo V ereditò la Baronia di Mignano in Terra di Lavoro; dopo la morte di Diego si maritò con Giordano Ruffo Conte di Catanzaro, 1° Conte di Montalto dal 1327 (+ 1345). Rimasero dopo la morte di Diego tre suoi figliuoli, un maschio chiamato Francesco (morto nel 1359), e due femmine, cioè Catarina, che si maritò a Gottifredo Gaetano Conte di Fondi, ed Agnesa, che fu moglie di Roberto Sangineto Conte di Corigliano. Odolina dal 2° matrimonio con Giordano Ruffo, ebbe una figlia chiamata Covella che sposò Corrado d’Antiochia della casa reale di Sicuia ( pronipote dell’ imperatore Federico II) Esta Tierra fue del conte Lanc?

      §.II.
Francesco
figlio del conte Diego de La Rath e della baronessa Odolina de Chiaramonte
Conte II. Di Montorio, e di Caserta
e Conte I. d’Alessano.
Succedette Francesco per la morte del Conte Diego suo padre a tutti gli Stati, e titoli di colui. Il quale per essere stato uomo di gran coraggio, e valore, potrà con ogni giusta ragione annoverarsi fra i più famosi guerrieri, che siano usciti dal nostro Regno. E fra l’altre imprese degne di lode, che si raccontano di lui, fu singolare quella,  che gli accadde col Principe di Taranto fratello del Re Luigi. Aveva questo Principe conceputo particolar odio contro il Conte Francesco; e tutto ciò adiveniva, perché l’avea veduto non solamente essere stato caro al Re Roberto suo zio, ma ancora perché il vedea esser carissimo al Re Luigi suo fratello. Né potendo patire egli, ch’era di schiatta Francese, ch’il figliuolo d’un Catalano fosse giunto ad avere tanta autorità, unitosi col Duca d’Atene, il quale aveva altrettanta malvolenza contra il medesimo Conte, furono così importuni col Re Luigi, che l’indussero contro sua voglia a dar il bando al Conte: ed indi essendosi costui ritirato nelle sue Terre a Caserta, gli furono addosso il Principe e’l Duca d’Atene con cento cavalli; ed il Re Luigi vi andò di persona con altri 400., e con grosso stuolo di pedoni. Ed un giorno stando il Re sopra un ponte nel Castello di Maddaloni, i suoi soldati presero un Ungaro, che stava al soldo del Conte, e con tanta maraviglia il condussero al Re, che per la gran calca di gente, che gli corsero dietro, si ruppe il ponte, e vi morirono da diciotto Cavalieri, senza quelli, che vi rimasero storpiati. Finalmente avvicinatosi il Re con la sua gente alle Terre del Conte, e ritrovando ivi gagliardissima resistenza, furono costretti a partirsi con loro poco onore. Ed il Conte Francesco correndo lor dietro con 300. cavalli, non solo gli fece fuggire dalla campagna, ma seguitandoli fino a Napoli, fece loro non poco danno in vendetta di tale assalto. Ebbe questo Conte due mogli; la prima fu Beatrice del Balzo sorella di Raimondo Conte di Soleto, e Gran Camerlingo del Regno, la quale morendo nell’anno 1336. fu sepolta nella Chiesa di S. Chiara nella Cappella della famiglia Balzo, e di costei non ebbe Francesco figlio alcuno; onde fu costretto prendere la seconda, che fu Catarina d’Alneto (d’Aunay) contessa d’Alessano[69]  per cui s’aggiunse alla casa della Ratta quest’altra Contea. Ebbe il Conte da Catarina sua seconda moglie tre figliuoli, cioè Luigi, Antonio, ed Isabella, e morendo nell’anno 1339. fu sepolto nel Duomo di Caserta, nel cui monumento si legge il seguente Epitaffio:
Franciscus de Racta, quondam Casertæ Comes
generosus,
Q ²
Janica mente fremens, gaudens ubique triumphis
Ignavia Sternens Succumbere nescius,
Belli lupare victor cum Cæsare certans,
Positus hoc Tumulo verbi divi requievit
Anno milleno trecentesimo LX minus uno
Luce sed Aprilis X bis simul, e tria jungis,
Quem Dominus Arce sua beet omni dote fæcundum
Morto Diego de Racta tra la fine del 1325 e la prima metà del 1326 gli succedette nella contea di Caserta Francesco suo figlio legittimo e naturale, nato da Odolina di Chiaramonte[70] sua consorte come espressamente dichiarato nel testamento redatto in Napoli il 15 maggio del 1325. Esecutori testamentari, in solido tra loro, furono fra Giovanni della Regina dei frati predicatori, Tommaso di Marzano conte di Squillace, la vedova Odolina ed il nobile Salvatore di Costantino, senescalco del regio ospizio. Fidando nella stima e nell’affetto che re Roberto gli aveva sempre dimostrato Diego affidò alle sue cure e protezione sia il piccolo Francesco che le figlie Caterina ed Agnese , nate da Domicella la sua prima moglie.
Francesco doveva essere nato nel 1318, e ciò è evidente dato che in un documento del 17 ottobre 1317 Diego, nell’assegnare dei beni a Caterina per il suo matrimonio con Goffredo Castani, non fa cenno ad un erede maschio, in un altro del 27 marzo 1327 Francesco viene detto di età tra i 9 ed i 14 anni, ed infine in un altro del 25 ottobre 1331: maggiore di 13 anni. Il giovane conte ebbe per tutori il conte di Squillace e la madre Odolina alla quale venne fatto obbligo di educare il pupillo e di farlo crescere presso di se finché non fosse giunto alla maggiore età o almeno fino a che non fosse convolata a nuove nozze.


Il 23 dicembre 1326 re Roberto, volendo dar esecuzione alle ultime volontà del defunto suo gran camerario, ordinò ad Odolina di Chiaromonte, per quanto già passata a nuove nozze dato che aveva sposato Giordano Ruffo 1° conte di Montalto in Calabria (nato nel 1268 e deceduto nel 1343) ed a Marino de Dyano, suo gran maestro razionale, nominato in temporanea sostituzione di Tommaso Marzano assente dal Regno perché in Toscana al seguito di Carlo Duca di Calabria, di esercitare la tutela sul piccolo Francesco avendo cura anche dell’amministrazione dei suoi beni ma con l’obbligo del rendiconto annuale che doveva essere redatto in tre copie di cui una doveva essere consegnata alla Camera Regia, la seconda al maestro razionale della Regia Curia e la terza doveva essere conservata presso i tutori. Prontamente sia Odolina che Marino de Dyano, il 7 gennaio 1327, nominarono i giudici Simone de Maranchio e Nicola de Caserta, ambedue di Monitoro, loro procuratori per procedere all’inventario dei beni spettanti al giovane erede. Il 23 marzo dello stesso anno i due procuratori si recarono a Caserta per rilevare la consistenza delle proprietà di Francesco e l’atto ufficiale venne steso dal notaio Filippo de Maranchio. Nell’elenco troviamo segnato, tra l’altro, il Castello di Caserta Vecchia che si presentava quasi allo stato di rudere, infatti aveva la maggior parte delle mura dirute, un locale parzialmente privo di tetto e le due porte cadenti. Le condizioni di fatiscenza del castello, che era stato l’orgoglio dei Sanseverino di Lauro, ci fanno ben comprendere quanto poco fosse stato frequentato dall’ultimo proprietario e quale scarso interesse avesse avuto Diego de Racta per la sua contea che aveva rappresentato per lui soltanto un’appannaggio per i servigi resi alla casa d’Angiò. In perfette condizioni, invece, si presentava la casa padronale nella località Torre: essa era costituita da una specie di fattoria sorta al fianco di una torre longobarda che si può ipotizzare costituissero la vera residenza di Diego, le rare volte che venne a Caserta. I due edifici saranno poi trasformati in castello dagli Acquaviva ed oggi sono la sede degli Uffici del Governo. La casa era dotata di cortili, sale, camere, granaio, stalla, forno, cucina e due pozzi; aveva le finestre del piano terra munite di inferiate che mancavano a quelle del primo piano; era completamente arredata e non mancavano tutte le suppellettili ed attrezzature necessarie per il vivere quotidiano; nelle stalle c’erano pure quattro buoi; aveva un piccolo giardino circondato da mura nel quale crescevano aranci, limoni, cedri, ed altri alberi da frutto e, cosa non comune a quei tempi, una pianta di rosa; annessi al girdino c’erano un frutteto ed un orto, pure questi murati. Poche sono le notizie intorno agli anni della fanciullezza di Francesco. Di lui si sa che il 27 marzo 1327, tramite i suoi tutori, raggiunse un accordo con il vescovo di Caserta per porre fine ad un’annosa questione relativa a presunti abusi compiuti dal padre Diego e dai suoi amministratori nei confronti di alcuni vassalli della chiesa di Caserta. La rapidità con la quale fu definita la controversia fa ben capire quale scarso interesse avessero le vicende casertane per Odolina di Chiaramonte che, passata a nuove nozze, gestiva gli interessi del figlio cercando di avere meno seccature possibili; ciò è bene evidente se consideriamo che una lite che si trascinava da anni venne definita in pochi giorni con non grandi vantaggi per il piccolo Francesco. Nel 1329 re Roberto, a richiesta del giovane conte, ordinò che venisse rinnovato, perché deteriorato, il privilegio reale del 12 novembre 1317 con il quale veniva confermata a Diego de Racta ed ai suoi successori la concessione della Contea di Caserta e la signoria della città di Montoro. Nel 1330 l’abitudine di Odolina a trascurare le cose di famiglia fece sì che sia lei, che nel frattempo era diventata signora di Mignano, baronia ereditata dal fratello Ugo, che Francesco fossero morosi nel pagamento dell’adoa dovuta alle casse reali per i rispettivi feudi tanto che il 7 marzo al giustiziere di Terra di Lavoro e della contea di Molise fu ordinato di costringerli a pagare il dovuto entro il mese successivo a pena della confisca dei feudi. Tra il 1330 ed il 1335 l’unico documento dal quale si hanno notizie del Conte di Caserta è la conferma della concessione di un feudo nel territorio di Monitoro fatta anni prima dal padre Diego. Nel 1335 Francesco si sposò con Beatrice del Balzo che morì, presumibilmente di parto, il 1° marzo 1336. Val la pena di ricordare la triste vicenda delle spoglie della sfortunata Beatrice il cui corpo fu tumulato a Napoli in Santa Chiara, nella cappella della sua famiglia, in un sepolcro romano sul cui lato frontale erano stati scolpiti cinque archi divisi da una piccola colonna; in ogni arco era rappresentato un santo: San Paolo eremita, Sant’Agnese, Santa Caterina d’Alessandria e San Francesco d’Assisi, mentre in quello centrale era raffigurata la Vergine col Bambino. Sopra e sotto gli archi c’era la seguente iscrizione:

Hic Requiescit corpus Domine Beatricis De Baucio
Comitisse Caserte Qui Obiit
anno D.ñi MCCCXXXVI Die Primo Marci IIII Ind.
Cuius Anima Requiescat in Pace.

 Sui lati piccoli dell’urna erano scolpiti da una parte lo stemma dei Del Balzo e dall’altro quello dei de Racta: il leone con sovrapposto il labello a tre denti. Sul lato grande posteriore del sarcofago vi era la scultura originale del periodo romano costituita da alcuni tralci con da un lato una figura femminile e dall’altro una maschile. Nel 1615 Gerolamo del Balzo nel ristrutturare la cappella di famiglia secondo il gusto del suo tempo fece decorare le pareti con medaglioni di marmo a bassorilievo in uno dei quali fu raffigurata Beatrice contessa di Caserta, come ricorda anche il D’Annunzio ne” Le vergini delle rocce”. Il sarcofago che era in cattivo stato di conservazione, fu tolto e per quasi tre secoli non se ne seppe più nulla; solo sul finire del secolo XIX venne rinvenuto in pezzi nel giardino di una villa di posillipo; la Direzione dei Musei di Napoli acquistò i frammenti dell’urna e dopo averla ricostruita la collocò nel Museo di San Martino dove si trova tutt’ora. Per tornare al nostro giovane conte si deve ricordare che nel 1337 si era risposato con Caterina d’Aunay, contessa di Alessano e vedova di Bertrando del Balzo, la quale gli diede tre figli: Antonio, Luigi che divenne arcivescovo di Capua e Novella. Nel 1338 per sostenere le spese necessarie per partecipare alla spedizione contro Pietro II re di Trinacria, Francesco fu costretto a prendere in prestito 240 once d’oro offrendo in garanzia, con il consenso di re Roberto, le rendite che gli venivano dalla baronia di Mignano che aveva ereditata dalla madre.L’impresa di Sicilia non si presentava molto facile ed il de Racta, che temeva di perdere la vita in quella che prevedeva sarebbe stata una guerra molto dura, fece testamento ed il 10 giugno partì con la seconda parte della flotta verso le coste dell’isola. Partecipò all’assedio di Termine Imerese che fu costretta alla resa verso la fine di agosto; in seguito, a causa di un’epidemia che era scoppiata tra le truppe napoletane, il corpo di spedizione dovette interrompere l’impresa e rientrare nel Regno. Francesco ritornò in Sicilia nel 1432 dove con Goffredo di Marzano conte di Squillace e Filippo Stendardo dal 20 giugno fu al comando delle truppe che assediavano Milazzo il cui castello fu preso il 15 settembre. Morto re Roberto nel 1343, con l’incoronazione di Giovanna nell’agosto del 1344 e la mancata incoronazione del marito Andrea, cominciarono le congiure ed i torbidi s Napoli. Gli ungheresi, patrioti del principe Andrea, cominciarono a prendere sempre più potere a corte costringendo i principi ed i baroni a ritirarsi nei loro feudi. Forse anche il conte Francesco, vista la cattiva aria che spirava a Napoli, si ritirò a Caserta dove, pur abitando nella villa della Torre nel piano, cominciò a ripristinare il castello sul monte. Durante le convulse vicende dei primi anni del regno di Giovanna il de Racta si mantenne sempre estraneo agli intrighi della corte napoletana pur restando sempre fedele agli angioini, o per meglio dire alla regina verso la quale manifestò sempre la sua devozione; Infatti quando nel 1348 il conte di Squillace, grande ammiraglio, si pose a capo di una rivolta per far tornare Giovanna sul trono, dato che il re d’Ungheria, l’aveva costretta a fuggire in Provenza, Francesco fu tra i primi ad unirsi a lui. Tornata la regina con Luigi di Taranto, suo secondo marito, il de Racta visse il suo tempo tra la corte ed i suoi feudi. Sul finire del 1352 il cognato di re Luigi Gualtieri Vl di Brienne, detto il duca di Atene, che aveva delle proprietà nel brindisino cercò di impossessarsi di alcune terre di un vicino approfittando dello stato di gran confusione in cui si trovava il Regno. Il duca radunati quattrocento cavalieri e millecinquecento fanti assalì anche la città di Brindisi, ma gli abitanti gli opposero una forte resistenza e gli impedirono la conquista della città. Gualtieri vistosi respinto si diede a scorrazzare per le campagne ed a saccheggiare i dintorni. Re Luigi gli intimò di deporre le armi ma quello, facendo orecchie da mercante, continuò le sue rapine. Il re sdegnato gli spedì contro suo fratello Roberto principe di Taranto che tra i suoi ufficiali aveva anche Francesco de Racta il quale partecipò attivamente alla campagna per ristabilire l’ordine in Puglia ma, sconfitto nei pressi di Otranto, fu costretto a ritirarsi in Taranto dove fu assediato dal Brienne che non aveva però macchine da assedio e quindi fu costretto a levare il campo dopo qualche tempo, giurando a se stesso di vendicarsi prima o poi del Conte di Caserta. L’occasione non tardò molto a presentarsi. Cessata la rivolta il Brienne fu perdonato da re Luigi ed ottenne di tornare a Napoli dove incominciò ad aizare Roberto di Taranto contro il de Racta che per quanto benvoluto dal re non riuscì a sfuggire al bando della corte. Non contento di ciò Roberto, che aveva sempre detestato quel figlio di Catalano, ottenne nell’estate del 1333 di poter marciare con le truppe contro Caserta per confiscare i beni di Francesco. All’impresa si associò anche re Luigi che, avendo Francesco resistito al tentativo di spoliazione, partecipò all’assedio della città sul monte con 300 cavalieri. Durante l’assedio i soldati reali presero prigioniero un mercenario ungherese al soldo del conte di Caserta e lo stavano portando al castello di Maddaloni dove erano il re e tutto lo stato maggiore. Vedendo giungere da lontano il prigioniero, che era abbigliato in modo alquanto esotico, sia il sovrano che numerosi dignitari, per vedere meglio, si accalcarono su una soggetta sporgente che sovrastava il ponte levatoio. Il peso delle numerose persone accorse fece rovinare la struttura lignea che precipitò insieme a buona parte dei presenti. Diciassette furono i morti e molti feriti. Re Luigi, che era un poco indietro rispetto agli altri, non subì alcun danno, anche il fratello Filippo, caduto sugli altri non si fece nulla. L’assedio durò ancora qualche tempo poi, visto che non portava anulla, gli assedianti si ritirarono in Napoli lasciando libera Caserta. Il de Racta per lavare l’onta subita si diede a razziare la Terra di Lavoro radunando intorno a sé anche trecento cavalieri con i quali si spinse fino alle porte di Napoli. Soddisfatto il suo desiderio di vendetta Francesco si ritirò di nuovo nelle sue terre dove qualche tempo dopo lo raggiunse il perdono reale. Tornata la pace il conte di Caserta continuò a soggiornare nei suoi feudi finché la morte lo colse il 23 aprile 1359. Le sue spoglie giacciono nel duomo di Casertavecchia in un monumentale sepolcro posto nel braccio sinistro del transetto.



 
         Sarcofago del 1359
di:
 Francesco de La Rath
(de Racta)
conte di Caserta
 Duomo di Casera Vecchia


§. III.
Antonio
[71]Conte II. Di Montoro, e di Caserta,e Conte II. D’Alessano.
Antonio fu si devoto della Regina Giovanna I. che per soccorrere alla necessità di costei, nel 1380. vendette la Terra di Montorio a Matteo della Marra Signore di Serino; onde poi la medesima Regina a 15. Marzo del 1381. in ricompensa di quella, gli donò la Terra di Montefuscoli, con li casali: Ed in altro tempo per la grande affezione, ch’egli portò a questa Reina, donò i proprj figliuoli per ostaggi a nemici. Le quali cose furono cagione, che Giovanna l’adoperasse ne’più gravi negozj del suo Regno: Così ritroviamo che volendo ella far creare Clemente VII. Antipapa, diede cura al Conte di congregare i Cardinali a Fondi, ove poi fu fatta la creazione del nuovo Pontefice. Essendo poscia travagliata da Carlo di Durazzo, deliberò di chiedere aiuto dal Re di Francia, e per ispingere maggiormente quel Re a darle soccorso, vi mandò il Conte Luigi Duca d’Angiò secondogenito di quel Re, e per rifiutare il Regno in persona di colui; ordinando anche al Conte, che vi procurasse il consenso del Papa; e ritornato esso Conte in Napoli coll’armata de’Provenzali, per dar soccorso alla Regina, e ritrovando, che Carlo di Durazzo aveva non solo presa la Città, e carcerata la Regina istessa, chiese salvacondotto a colui, per poter parlare colla Regina; Ed intesa la volontà di lei ch’era, che Provenzali ricevessero per loro Signore il Duca Luigi, con tutto che Carlo già fusse fatto Signor del Regno, ove esso Conte aveva tutti i suoi Stati; volle egli nondimeno (o animo invitto di Cavaliere generoso) deliberare di seguire la volontà della Regina, come aveva anche seguita la fortuna, ritornare con li medesimi Provenzali a ritrovare quel Duca nella Francia, ove egli poscia finì i suoi ultimi giorni, non avendo potuto Carlo giammai, mentre costui visse, tirarlo a sua divozione. Fu moglie di questo Conte Beatrice del Balzo, di cui egli ebbe tre figliuoli, cioè due maschi, Luigi, Francesco, e Sandolo, ed una femmina chiamata Cicella, la quale fu maritata a Matteo della Marra Signor di Serino: il quale poscia essendo morto, costei nell’anno 1400. ritornò a maritarsi con Ungaro Santangelo Conte di Sarno. Nel qual tempo il Re Ladislao dà il suo assenso per le doti promesse da costei al Conte di Sarno sopra la Terra, e feudi di Matteo della Marra suo primo marito; e sono parole del Re: Magnifica mulier Cicella de Ratta Comitissa Sarni, uxor Viri Magnifici Ungari de Santangelo Comitis Sarni. Dal che si vede manifestamente l’errore di coloro, che dissero questa Cicella essere stata rapita per forza dal Conte Ungaro. Maritò di più costei una sua figliuola chiamata Covella, nàtale da Matteo suo primo marito, con Antonio Santangelo fratello del medesimo Conte di Sarno.
Q  3                                                                                                                 §.  IV
Francesco ll[72]
al più chiamato
Francesco IV.Conte di Caserta, e III. D’Alessano   
Dimostrossi Luigi Francesco vero, e degno figliuolo del Conte Antonio, non solo per esser succeduto agli Stati, e titoli di colui; ma molto più per averne ereditato gli costumi, e’l valore. Così volle essere egli sempre devotissimo della casa Angioina, come n’era stato anche suo padre; Onde venendo in Regno il Duca Luigi d’Angiò, egli l’accolse con tutto il campo a Caserta, donde quella gente diede molti assalti, e molte scorrerie a Napoli, e luoghi circonvicini; Ma partitosi il Conte coll’esercito da Caserta, le genti de’Casali di Napoli desiderosi di vendicarsi degli oltraggi patiti, corsero in gran numero sopra Caserta: del che i Casertani da principio ebbero timore; ma confortati poscia da Sandolo della Ratta fratello del Conte, Cavaliere di molto valore, poste buone guardie ad una delle porte della Città, uscirono guidati da Sandolo da una altra di quelle; ed andati con grand’impeto addosso ai nemici. Gli sbaragliarono in modo tale, che a Sandolo risultò grandissimo onore. Ma ritornando al Conte, dico, che dopo la morte di Luigi d’Angiò fu egli eletto insieme con cinque altri Signori del Reno a dovere attendere al governo del buono stato, fin’a tanto, che il figliuolo di Luigi avesse potuto venire a pigliare la possessione come Re. Né contento costui d’aver dato ajuto alla Casa Angioina coll’armi, volle anche sovvenirla colla roba. Il che conosciuto da quel Signore, gli fu data in ricompensa, benchè sotto nome di governo, la Città di Benevento. Fece acquisto oltre a ciò questo Conte della Terra di Rocca di Vandri; e morendo lasciò da Isabella d’Artus sua Moglie (la quale fu sorella del Conte di Santagata) tre figliuoli, cioè Baldassarre, Antonello, e Giacomo.
   Segue la linea diretta che si estinguerà nei Gambacorta e questi negli Acquaviva:                                                      
§.   V.
Baldassarre[73]
V. Conte di Caserta, IV. D’Alessano,e I. di Santagata.
Fu il Conte Baldassarre Cavaliere di molto senno, e prudenza, partigiano anch’egli della Casa Angioina; onde venendo Luigi III. D’Angiò nel Regno, egli insieme con Giacomo suo fratello, e Carlo d’Artus Conte di Santagata lor cugino, e tutti lor vassalli, e seguaci furono dalla parte di quel Principe, non senza gran danno della Regina Giovanna II. La quale, partito Luigi dal Regno, ebbe caro aver costoro per suoi aderenti, e divoti; e tutto per tema, ch’ella aveva della loro potenza. Onde fece generale Indulto non solo al Conte, al fratello, ed al cugino, ma anche a loro Vassalli, e seguaci, eliggendo oltre a ciò il Conte Baldassarre per suo Vicerè in Terra di Lavoro, e nel Contado di Molise, e Giacomo fratello del Conte per uno de’suoi intimi Consiglieri. Né fu ella da tale elezione ingannata. Imprciocchè a quella guisa, ch’erano stati costoro fedeli a i Re Angioini, furono anche fedeli a questa Regina. Del che fece esperienza ne’travagli, che ella ebbe dal Re Alfonso d’Aragona; il quale benchè riducesse molti Baroni del Regno a sua divozione, non vi potè però giammai ridurre questo Conte. Quinci nel tempo, che la regina morì, lasciò sedici de’suoi più fedeli Baroni, che dovessero attendere alla cura del Regno fin’a tanto, che ne venisse a prender la possessione Renato d’Angiò, il quale ella n’avea fatto erede; uno de’quali fu il Conte Baldassarre. Laonde dalla Reina Isabella moglie di Renato
Fu egli fatto Gran Giustiziero del Regno, ed anche Gran Camerlingo. Ampliò questo Conte i suoi Stati con comprare la Contea di Santagata dagli Artus suoi parenti; e di più il Vallo di Vitolano, Tocco, Ogenti, Specchio, Minorvino, Marzano, e molte altre Terre di diversi Baroni. Ma divenuto finalmente Alfonso assoluto Signore del Regno; conoscendo egli quanto era espediente aver il Conte Baldassarre dalla sua parte, il creò suo Consigliero per le cose degli Stati, e gli vendette a dolce prezzo molte Terre, ch’erano state d’altri Baroni suoi ribelli, come furono Campagna, Evoli, ed altre, donandogli ancora la Terra di Maddaloni. Morì questo Conte, lasciando di Marita di Capua sua moglie due figliuoli, uno maschio chiamato Giovanni, e l’altra femmina detta Isabella.


§.  VI.
Giovanni
Conte VI. Di Caserta, V. di Alessano,
e II. di Santagata
Ebbe il Conte Giovanni oltre alla virtù dell’animo, ed alla bellezza del corpo, una tal gagliardezza di membra, che non vi era Cavalier alcuno, che da lui, armeggiando, e giostrando, non fusse stato buttato a terra. Onde per comune sentenza di tutta la Cavalleria Napoletana, fu determinato, che egli non dovesse entrare più in giostra. Nel 1437 era con l’esercito di Alfonso d’Aragona a capo di una forza di trenta lance. Nel 1443 fu tra i baroni che parteciparono al Parlamento Generale che re Alfonso aveva convocato nella chiesa di San Lorenzo in Napoli.Nell’anno 1452. venendo l’Imperadore Fiderico III. In Napoli, il Conte Giovanni, come Cavaliere più valoroso, e di più bella apparenza, fu eletto dal Re Alfonso a condurre l’Imperadore. Fu moglie di questo Conte Anna Orsina figliuola del Principe di Salerno; di cui egli morendo nell’anno 1457. lasciò quattro figliuoli, cioè Francesco, Catarina, Emilia, e Diana. Di Emilia non si hanno notizie; Catarina sposò Cesare d’Aragona ed in seconde nozze Andrea Matteo Acquaviva duca d’Atri; Diana sposò Gian Francesco Sanseverino conte di Caiazzo. Per quanto legato a Caserta il conte preferì soggiornare a Napoli e nel feudo di Sant’Agata de’Goti.
§.VII.
Francesco lll[74]
 Conte VII. Di Caserta, VI. Di Alessano,
e II. di Santagata.
Vedendo il Conte Giovanni, che Francesco suo figliuolo, dopo la morte di lui, rimanea in età, che ancor da se stesso non sarebbe stato atto a governare i suoi stati; confidando a meriti, ch’egli aveva avuti appresso il Re Alfonso I. il lasciò raccomandato al Re Ferdinando figliuolo di colui; da cui poscia gli venne dato per balio Giacomo della Ratta Arcivescovo in quel tempo in Benevento, il quale fu figliuolo di Sandalo secondogenito di Giacomo il vecchio, che come dicemmo, fu fratello del Conte Baldassarre. Alcuni Autori, che scrissero le cose del Regno, vollero, che questo Conte alla venuta di Renato d’Angiò si fosse più fiate rivoltato ora alla parte di Renato, ed ora a quella d’Alfonso. Il che si vede essere falsissimo; essendo che nell’anno 1458. costui facendo nota al Re Ferdinando la morte del Conte Giovanni suo padre, ottenne la confermazione di tutti gli stati, e titoli in sua persona. Nel quale tempo si asserisce essere fanciullo, chiamandolo così il proprio Re con queste parole: Sane pro parte spectabilis, e Magnifici pupilli Francisci de Ratta Comitis Casertæ. E poco appresso: Cumque Spectabilis, e Magnus Johannes de Ratta Comes ejus pater. Il che si vede ne’Registri della Real Cancelleria sotto li 30. del mese di Giugno del medesimo anno. Sicchè essendo stato quel fatto, che essi raccontano nell’anno 1438., si conosce chiaramente, che a quel tempo questo Conte non era ancor nato. Ben’è vero, che a tempo, che Giovanni d’Angiò figliuolo del Re Renato venne alla conquista del Regno, dopo ch’ebbe quella tanto celebrata vittoria appresso Sarno, di cui poscia egli non seppe servirsi, si vennero a rendere a lui una buona parte de’Signori del Regno, fra i quali vi fu questo Conte, menatovi dal suo Balio, non essendo egli ancora d’età perfetta. Sicche fece l’atto più scusabile, e fu cagione, che di là a poco gli fossero restituiti gli Stati dal medesimo Re Ferdinando, che per tal’atto gliele aveva tolto. Fu moglie di questo Conte Francesco la figliuola d’Indico Marchese del Vasto, e gran Siniscalco del Regno; di cui egli morendo nell’anno 1480. non lasciò figliuolo alcuno; benchè d’una altra donna gli fosse nata una femmina chiamata Catarinella.
§.   VIII.
Di Catarina[75]
Contessa di Caserta, d’Alessano, e di
Santagata, e finalmente Duchessa d’Atri,
e Marchesana di Bitonto.
Morto il Conte Francesco, rimasero gli stati,e titoli a Catarina sua prima sorella; la quale il Re Ferdinando diede per moglie a D. Cesare d’Aragona suo figlio naturale, ed essa maritò Diana sua sorella a Giovanni Francesco Sanseverino Conte di Cajazzo, e Catarinella della Ratta sua nipote a Francesco Gambacorta. Soffrì questa Contessa nella venuta di Carlo VIII. Molti travagli per cagione de’suoi stati; ma venendo poscia il Re Federico suo cognato, non solo ebbe la confermazione di quelli, ma di più Diana, e Capaccio. Discacciato dopo Federico del Regno dal Re Ferdinando d’Aragona suo parente detto per soprannome il Cattolico, e ritornando in Francia, ne menò seco D. Cesare suo fratello, il quale essendo morto per viaggio, senza aver lasciato figliuoli, fu cagione, che la Contessa Catarina si maritasse di nuovo con Andrea Mattei d’Acquaviva Duca d’Atri;La quale avendosi allevata infino dalle fasce Anna Gambacorta figlia di Catarinella della Ratta sua nipote, diede questa per moglie al Marchese di Bitonto, nipote primogenito del Duca suo marito; patteggiando, che in caso, che essa non avesse fatti figliuoli col Duca, a cui aveva ella donati tutti i suoi Stati, quelli fossero del Marchese di Bitonto, purchè i discendenti del Marchese si denominassero di Casa della Ratta. E succedendo, che il marchese avesse a fare restituzione delle doti non fosse tenuto a restituire più, che diecimila ducati, e’l tutto con assenso di D. Giovanni d’Aragona Conte di Ripacorsa, Vicerè a quel tempo nel Regno. E perché in morte della Contessa Catarina i suoi Stati sarebbono tutti scaduti al Re, essendo che Anna Gambacorta, per la madre n’era incapace, ed il Marchese suo marito n’era estraneo; perlochè non potevano succedere; e Giulio della Ratta per essere in grado rimoto, secondo le leggi del Regno non si poteva pretendere, il Re Cattolico benchè consentisse a ciò, e per 34. mila ducati, che ebbe per l’Assenso, tenne nondimeno per male, che D. Giovanni suo Vicerè fosse stato Autore di questo fatto. Ed entrato in sospetto, che egli non cercasse con tali andamenti di rendersi benevoli gli animi de Baroni del Regno, per farsene egli un giorno Signore, il richiamò da tal Governo. Ma ritornando a Catarina non solo fu ella chiamata Contessa di Caserta, d’Alessano, e di Santagata; ma anche Duchessa d’Atri, e Marchesa di Bitonto. La quale finalmente morendo senza lasciar figliuoli nell’anno 1511. fu seppellita nella Chiesa di San Francesco di Napoli; Nel suo monumento scolpito sono le seguenti parole:
Catarina della Ratta, e morum probi-
tate insignis, cujus majorum primus ab Hispania
Betica, Didacus nobilissimus Vir, e hoc Regno,
sub Roberto Rege, Montorii, Casertæque Comes,
ac Magnus Camerarius, e in Hetruria ac in pro-
vincia Galliæ ejusdem Regis Vicarius. Ipsa vero ex
fraterna successione Casertæ, Alessani, e S.Agatæ
Comitissa, ac aliorum Domina, mortuo D. Cæsare
Aragonio, Ferdinandus Regis filio ejus primo Viro,
nupta iterum Andræ Matthæo Aquavive Adriæ Du-
ci, absque prole ad superos migravit Anno Domini
MDXI.



§.IX.
Della perdita degli Stati.
Ben dice il proverbio, che se i Savj non errassero, i matti si ucciderebbono. Andrea Matteo Acquaviva Duca d’Atri, fu uno de’più savj. E virtuosi Signori, che si ritrovassero a suoi tempi nel nostro Regno. Il quale oltre al valore dell’armi, ch’egli più volte aveva dimostrato, era anche ornato di molte lettere, che scrivendo di lui il Sannazzaro fu spinto a dire:
Macte animo rigidum Musas, qui stringere ferrum,
Qui Martem doctos cogis amare choros.
Hæc Ducis est virtus, non uni insistere palmæ,
Sed nomen factis quærere, e ingeniis.
Costui avendo dato per moglie, come dicemmo, al Marchese di Bitonto suo nipote natogli dal primogenito, Anna Gambacorta con promessa della successione degli Stati della Contessa sua moglie; vedendo il Regno in quei tempi stare in continue rivolture, come dovea procurare, che pa promessione degli Stati si facesse a figliuoli, che avevano da nascere da quel matrimonio, tanto maggiormente, che avendo egli il Vicerè molto amico poteva riportarne l’Assenso, come più gli piaceva, volle, che si facesse in persona del Marchese suo nipote; Il che fu cagione, che ritrovandosi colui aver seguite le pedate del Re di Francia, e dichiarato ribelle dell’Imperator Carlo V. perdesse non solo il Marchesato di Bitonto, ma anche le Contee di Caserta, d’Alessano, e di Santagata, e tante altre Terre, e Città, ch’erano state della famiglia della Ratta; Sicchè appena a Baldassare suo secondogenito rimase la Città di Caserta per titolo di compra fatta per Anna sua madre dalla Regal Corte per lo prezzo di ducati diciannovemila. Onde i suoi figliuoli si ritennero il proprio cognome d’Acquaviva, che per non essere succeduti agli Stati di Casa della Ratta, non erano obbligati all’osservanza del patto.
§.X.
De’fratelli del Conte Baldassarre, 
onde uscirono quei
della Ratta, che allignarono in Francia, ed
anche quei, che sono nel nostro
Regno.
Antonello secondo figliuolo del Conte Luigi Francesco, e fratello del Conte Baldassarre, fu Consigliere della Regina Giovanna seconda. E per quello che gli toccava tanto de’beni paterni, quanto della dote di sua madre, ebbe del Conte suo fratello la Terra del Sesto. E fu anche Signor della Baronia di Formicola, di Ponte Landolfo, della Rocca di Vandri, della di Rocca di Pipirozzo, di Strangolagalli, e di Magnano. Fu sua moglie Margherita Marzano sorella del Duca di Sessa (Maria figlia del duca Marino, che era anche principe di Squillace sposò Antonio Maria Todeschini Piccolomini che fu Gran Giustizziere del Regno di Napoli), da cui ebbe due figliuoli, cioè Marco, e Catarina. Marco, il quale ebbe per moglie una figliuola di Giovanni Costo, essendo divotissimo a Renato d’Angiò, se n’andò con lui in Francia, da cui fu dato per Ajo al Duca Giovanni di lui figliuolo, e fu costui il primo, che portasse questa famiglia in quelle parti; Catarina fu maritata a Giovanni di Sanframondo Conte di Cerreto. Giacomo terzo figliolo del medesimo Conte, ebbe per quel che a lui toccava del Conte Baldassarre suo fratello, Torre di Padule, e Supressano in Terra d’Otranto; fu egli Cameriere del Re Ladislao, e carissimo alla Regina Giovanna seconda, da cui fu eletto per uno de’suoi più segreti, e fedeli Consiglieri. Ebbe costui due mogli, la prima fu Catarina della Marra figliuola di Riccardo, di cui ebbe egli tre figliuoli, cioè Diego, Sandolo, e Marco; la seconda fu Verdella Briglia, con le cui doti comprovò la Terra di Durazzo del Conte Baldassarre suo fratello, e con lei fece tre altri figliuoli, cioè Cola, Carlo, e Gorello. Sandolo figliuolo di Giacomo, di Petraccia Marchesa di Capua, sua consorte ebbe Giacomo, Antonio, Luigi, Francesco, Giulio Cesare, e Garietta. Giacomo figliuolo di Sandolo fu Arcivescovo di Benevento, e Balio, come dicemmo di sopra, di Francesco Conte di Caserta. Costui insieme con Francesco del Balzo Duca d’Andria, fu mandato Ambasciatore a Pio II. Sommo Pontefice. Luigi ebbe per moglie una di Casa d’Azia, da cui ebbe Tommaso, che morì prima, che prendesse moglie, e Aniballe, che di Beatrice Carafa sua consorte non lasciò figliuolo alcuno. Francesco finalmente figliuolo di Sandolo comprò dal menzionato ultimo Conte Francesco il Castello della Valle; E non avendo egli figliuoli, il lasciò a Tommaso figliuolo di Luigi suo fratello con alcune condizioni, le quali mancando, ne fosse coerede l’Annunziata di Napoli, come già avvenne. Onde da’Governadori di quella Chiesa gli fu eretta una Cappella col seguente Epitaffio:
Francisco de Racta
Equestris ordinis, qui Divam
Scripsit hæredem, Magistri ejusdem hunc posuere
sepulchrum.
Giulio anche egli figliuolo di Sandolo ebbe dal medesimo Conte Francesco, e dalla Contessa Caterina nel Territorio di Caserta il Feudo di Macerata, e la Starsa di Cerasola nel Territorio di Caserta. Costui menò fuori per la mano la Contessa Caterina, quando colei uscì a maritarsi col Duca d’Atri. Fu carissimo al Re Ferdinando I. sicchè tenendogli un figliuolo al Battesimo volle, che il chiamasse del suo nome Ferdinando. Né fu men caro al Re Federico. Onde ad esempio di Ferdinando, tenendogli anche egli un altro figliuolo al Battesimo, volle, che fosse chiamato Federico; Questo Giulio poi per aver madre nobile Capuana, ed anche la moglie di suo fratello di Casa d’Azzia, col frequentare a fare stanza in quella Città per cagione de’suoi parenti, si ritrova aver goduto nella nobiltà Capuana, come godono anch’oggi i suoi discendenti, ove nell’anno 1512. ritroviamo essere stato Capocedola, che è la prima dignità, che si suol dare a’nobili di quella. E benchè dal Vicerè di Napoli, che a quel tempo aveva l’elezione del Governo di Capua, fosse stato posto il secondo nella lettera dell’elezione; con tutto ciò, come dicemmo, sedette egli il primo; E ciò forse per aver riguardo alla nobiltà della sua famiglia, ed alla discendenza, che egli aveva delli Conti di Caserta; ed egli acconsentì di farsi Capuano per godere de’privilegi, che hanno i Nobili Capuani a Caserta; ove son franchi di tutti i pesi sopra li stabili, che si possedono. Ebbe costui due mogli; La prima fu D. Lucrezia di vera figliuola del Barone di Cusano, e Tesoriere del Re Ferdinando I., di cui ebbe tre figliuoli, Camillo, Antonio, e Girolama; La seconda fu Marita Zurla, di cui ebbe Ferdinando, e Federico; de’quali si è detto sopra. Camillo primogenito di Giulio succedette al Feudo, e Starza di suo padre in Caserta: costui ritrovandosi aver presa moglie nella Città di Monopoli, che fu D. Antonia Ferro nipote di D. Lucrezia Caraffa de’Duchi d’Ariano, e Marchesi di Montesarchio, nella venuta di Monsignor di Lautrech con l’esercito Francese, tenendo i Veneziani, e Francesi assediata la Città di Monopoli d’Araldo Veneziano, ed avendo inteso il valore di Camillo, e che teneva sua casa in quella Città, gli mandò a fare molte offerte, purchè volesse voltarsi dalla sua parte, e servirlo in quella impresa. Ma egli come fedel vassallo dello ‘Mperador Carlo V. suo Signore, non volle lasciare d’ajutare quella Città, fino a tanto, che vi furono forze da poterla difendere: le quali poi mancate, fu costretto a partir con sua moglie, e n’andò in Gallipoli. Perlocchè da nemici gli furono mandati le case per terra, trocati oliveti, e fatti molti altri danni notabili ne’beni, ch’egli teneva in Monopoli, e nella Provincia d’Otranto, Nardò, Ugento, Castro, ed altre Terre, che erano tenute da francesi, e veneziani fino a tanto, che furono ricuperate dalla gente del suo Re. Servì anche in tutte l’altre occorrenze di guerra, che a suo tempo successero, così dentro, che fuori del Regno. E finalmente morendo nell’anno 1550. lasciò dopo se tre figliuoli, che furono Giulio, Francesco, e Girolamo. Antonio figliuolo del medesimo Giulio nel governo di D. Pietro di Toledo Vicerè del Regno, servì con carico di Capitano a guerra, quasi nella Città stessa di Napoli, come fu nella Montagna di Posilipo, fuori Grotta, in Soccavo, in Pianura, ed altri luoghi nelle pertinenze di Napoli,nelle cui patente vi si leggono tra le altre le seguenti parole: Considerando noi naturamente, a cui potessimo dar questo carico di tanta confidenza; ma sete accorso voi Magnifico Antonio della Ratta Nobile Napoletano dell’abilità, valore, strenuità, esperienza, e fedeltà del quale siamo certi poterci ben confidare non altrimenti, che in noi medesimi; Per tanto con autorità nel nostro Collateral Consiglio vi eleggiamo Capitano a guerra in detti luoghi. Ebbe costui moglie in Napoli chiamata Girolama Severina: e morendo nell’anno 1543., fu seppellito nella Cappella dell’Annunziata di Napoli senza lasciare di se parola alcuna. Ferrante figliuolo altresì di Giulio, sotto il Principe d’Oranges Generale dell’Imperatore Carlo V. servendo con compagnia di fanti fatta a sue spese, ricuperò il Castello di Airola da mano de’Francesi, ed unito poi con Giulio Cesare di Capua, e Fabrizio Maramaldo similmente Capitano, tolse dalle mani della medesima gente le Città di Capua, e di Aversa; e nelle guerre di Romagna servì con una Compagnia di Cavalli, de’quali era egli Capitano. Finalmente morendo in Napoli fu seppellito  nella medesima Cappella dell’Annunziata, e di se non lasciò figliuoli. Federico ultimo figliuolo di Giulio nella medesima guerra de’Francesi servì di luogotenente del Capitan Ferrante suo fratello; con la cui compagnia ricuperò molte Terre, che si teneano da Francesi attorno Cerreto; fu poscia da nemici ferito, e fatto prigione; perdè sette de’suoi corsieri, oro, argento, e molti altri beni. Finalmente riscattato se ne morì, lasciando di Silvia di Rinaldo sua moglie un fanciullo chiamato Giulio Cesare, che poi fatto maggiore servì da Luogotenente nella Compagnia de’cavalli di Ferrante suo Zio nella guerra di Romagna, e morì senza lasciar figliuoli. Giulio primogenito di Camillo servì con compagnia di fanti sotto il governo del Duca d’Alcalà Vicerè del Regno, e morì assai giovane, lasciando di Girolama Ruffa sua moglie un solo figliuolo chiamato Camillo. Francesco similmente figlio di Camillo mostrò d’essere molto inclinato alla milizia; però sorpreso da intempestiva morte non potè mandare ad effetto cosa alcuna. Girolamo ultimo figlio di Camillo a tempo del Principe di Petrapersia Vicerè del in questo Regno, fu Capitano del Battaglione ne’Tenimenti di Monopoli, e di altre Terre convicine per molti anni di sua vita, finchè morì. Scaramucciò molte fiate valorosamente con Turchi, i quali scendevano a depredare in terra, e molti n’uccise. Finalmente morendo fu seppellito nella Cappella dell’Annunziata. Camillo secondo di tal nome, ed unico figliuolo di Giulio, per essere più inclinato alle lettere, che all’armi, s’è dato allo studio delle leggi; nel quale fece molto profitto, chiosando, e commentando molti Testi così Civili, come Canonici, ed altre cose del Regno, e facendo molti Consigli. Vive egli oggi in Napoli, se non con quello splendore, che se gli converrebbe, come nato da sì illustre famiglia, almeno con quello onore, che può vivere ogni privato Cavaliere, non possedendo egli altro de’ suoi antichi Maggiori, che una buona parte della Starsa di Cajofola, e del Feudo de’Mauratti nella Città di Caserta. Di Cola figliuolo di Giacomo con Beatrice Stendarda nacquero Antonio, e Giovanni. Antonio fu Signore di Durazzo: la quale Terra poi per macamento di Maschi rimase a Beatrice della Ratta, che per trovarsi maritata colla casa di Loffredo, portò questa Terra a quella Famiglia ecc
Il marchese[76] dottor Berardo GALIANI[77] nacque a Teramo il 19 dicembre del 1724, ove il padre era fiscale proprietario[78]. Si addottorò in diritto civile e canonico verso il 1745. Fu archeologo di vaglia, socio dell’Accademia degli Emuli 1750 ?, ascritto tra i soci di merito dell’accademia di San Luca a Roma, il 13 aprile 1755; fondatore e socio dell’Accademia Ercolanense dal 22 aprile 1758; traduttore e commentatore dell’Architettura di M. Vitruvio Pollione[79]; fu il motivo per cui fu nominato socio della Crusca il 22 settembre 1759; nonché autore tra gli altri scritti minori di una voluminosa opera Del Bello, restata per la maggior parte inedita. Il Tanucci, qual Segretario di Stato di Grazia e Giustizia, lo propose al Re per Ufficiale Maggiore di quella segreteria, nomina approvata il 16 gennaio 1762. Già dallo stesso Re Ferdinando IV, nel 1754 gli fu rinnovato e spedito da Portici l’8 maggio 1753 il diploma di marchese[80] che era stato concesso a suo padre Matteo[81] il 12 febbraio 1748 da Carlo III di Borbone per se ed i propri eredi e successori[82] da intestarsi sul proprio cognome[83]. Nel 1770 fu nominato soprintendente della Casa Reale di Massa, e governatore del Real Convitto nautico della Coccumella in Sorrento, istituito per gli orfani di marinai del luogo e della costa amalfitana. Morto don Berardo[84], il Convitto fu soppresso e trasferito nel Convitto nautico di Napoli istituito dottor nell’abolito collegio gesuitico di San Giuseppe alla riviera di Chiaia, e la Coccumella fu messa in vendita.
Nel giugno del 1766 veniva recapitata al m.se i Berardo GALIANI una lettera. L’alto e potente Signore Carlo Giacinto principe di Galléan, che vantava fra i suoi defunti ascendenti un guerriero di Federico Barbarossa, e tra suoi viventi cugini una mezza dozzina di teste coronate, gli scriveva da Mannheim d’aver fatto sulla sua famiglia un lungo e poderoso studio, e d’essere venuto nella ferma convinzione, quantunque gli mancassero i documenti, dei quali per l’appunto faceva richiesta, che trà i Galléan di Mannheim ed i Galiani montoresi-foggiani-partenopei vi fosse comunanza di ceppo[85]. Con l’ubbia, allora assai diffusa, quantunque Giovan Battista VICO si fosse tanto affaticato a confutarla[86], che soltanto l’origine teutisca conferisce vera nobiltà[87].. Sfortuna volle che il Gallèan, s’incontrò con una persona orgogliosa sì, ma seria, la quale, sebbene soffrisse di velleità nobiliari, era stato sul punto di mandare al diavolo il titolo marchionale concesso dal Re Carlo III di Borbone a suo padre, pur di non essere costretto a sborsare, in un momento molto difficile, le poche centinaia di lire occorrenti per la spedizione del diploma[88]. Non solo il principe non ebbe mai i documenti che desiderava, ma, per poco che avesse potuto gettare lo sguardo su d’una sorta di Albero Genealogico dei GALIANI, che Bernardo abbozzò su per giù verso quel tempo[89], avrebbe provata la mortificazione di non veder fatto alle sue congetture di parentela nemmeno il più piccolo accenno. Vero è che lo stesso trattamento di oblio non venne risparmiato ai Galliani di genova, ai Gallèan de Guadagne francesi, ai Galliano d’Agliano piemontesi, ed ai tanti altri Gagliani e Galliani sparsi per tutt’Europa, non esclusi quei Galiani di Sicilia, dei quali un’ignoto araldista settecentesco aveva preso le mosse per imbastire un goffo romanzo genealogico[90], che cominciava da un miles Aurelio Galiani, venuto nel Regno di Manfredi, e terminava appunto con Berardo, discendente diretto di Guglielmo, che la fantasia del genealogista, immaginava scampato miracolosamente, nel primo cinquecento, all’eccidio di tutti i suoi e poi nominato nel 1550, Castellano di Viesti. Ne per la discendenza di un esotico ceppo, si dimostrò troppo entusiasta anche il fratello Ferdinando[91]. Ma quando tra il 1770 ed il 1775 pratiche raggioni[92], lo indussero a mettere insieme un processetto nobiliare dei suoi quattro quarti, lasciò da banda non solo la Provenza, ma anche la Corsica che l’abate Astier, regio professore nel collegio di Bastia, gli aveva additata come residenza di una Giulia Galiani, fiorita nientemeno ai tempi dell’Impero Romano[93]. Ambedue i fratelli, come probabile loro capostipide indicavano il dott. Ambrogio GALIANI, marito di Renza, la quale secondo un’iscrizione citata da entrambi, come ancora esistente, avrebbe nel 1350 fatta scolpire una’immagine della Vergine sulla colonna del fonte lustrale, fondata e dotata una cappella nella Chiesa di San Pietro a Risicco[94], uno dei più antichi e pittoreschi tra i quindici Casali di cui si compone l’altra volta ed ora il doppio Comune di Montoro (Avellino)[95]. Il modo migliore per giungere al vero tra queste differenti versioni, fu di recarsi sul posto, e sebbene la chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo, venne rifatta quasi ex novo ed allungata nel 1865 e non conserva se non frammenti di vecchi altari e la pila dell’Acqua Santa, sopra di questa è infilata nel muro una piccola lapide recante in caratteri elzeviri maiuscoli le tre righe che seguono:

HOC OPUS FIERI FECIT RENZA
ANNO NATIVITATIS DOMINI M CCC L
Che forse fu posta a ricordo di altra più antica col nome Caliano andata distrutta. Infatti presso la chiesa parrocchiale esisteva un’altra cappella sotto il titolo di Santa Maria dei 7 dolori, che venne abbattuta per la costruzione della piazza antistante.Il notaio Nicola Moarvero, nell’atto del 17 marzo 1759, riporta:
A richiesta del Rev. Don Felice Gervasio, ci siamo conferiti nella ven. Cappella di Santa Maria dei 7 dolori, eretta poco discosto dalla ven. Madre Parrocchiale Chiesa di San Pietro a Risicco, in dove nel muro a mano destra dell’altare, di sotto ad un impresa, è stesa la sguente memoria[96]:
AEDIFICATAM RESTAURATAMQUE CURAVIT
NOBILIS FAMILIA CALIANI AD MDLII
CALIANO e non GALIANI era il cognome della famiglia raddolcito verso la fine del 1600 in GALEANO ed anche GALIANO[97], come si firmava Monsignor Cappellano Maggiore del Regno di Napoli Celestino[98] e diventato nel ‘700 avanzato GALIANI. Il che indurrebbe a congetturare che il cognome stesso derivasse da quello che verisimilmente fu il luogo di origine della famiglia, e cioè da Caliano, altro casale di Montoro, molto vicino a San Pietro[99]; tanto più che un diploma angioino del 27 dicembre 1300, tra vari homines e vassalli di Montoro, fa menzione per l’appunto degli heredes Bartholomei de Caliano e di quelli vassalli de Caliano[100]. Tutto si riduce al seguente filum sanguinis trovato tra le carte di Monsignor Giuseppe Galiani:

Ambrosio (1320
Marsilio (1360)
Rinaldo (1410)
Teseo (1450)
Ferrante (1480)
Rinaldo (1520)
Ferrante (1550)
Cesare (1580)
Geronimo (1600)
Annibale (1620)

La maggior parte di questa genealogia, le cui date si riferiscono probabilmente al tempo della morte dei singoli individui, è ricavata da tradizioni di famiglia; pure gli ultimi tre nomi ricorrono in fonti coeve. Infatti una numerazione di fuochi, eseguita in Montoro in anno incerto, ma che si può assegnare su per giù al 1540[101], testimonia che nel Casale di San Pietro dimoravan tra molti altri Caliano, tre fratelli: Chimento di anni 33, Annibale di anni 20, Cesare di anni 17, il quale ultimo sposato con Andriella di Gibello, e mantenuta a suo carico la vecchia madre Renza Peronto, potrebbe essere colui che Monsignor Giuseppe Galiani additava come padre di Geronimo ed avo di Annibale. Così ancora ricordando uno stato degli aggravi della Terra di Montoro, senza data, ma forse non anteriore di troppo al 1599[102] dove si da per morto un Gironimo Caliano, gli antichi libri parrocchiali di San Pietro facevano menzione fino a circa il 1880, giacché andarono distrutti in un incendio[103], della morte di Gironimo avvenuta nel 1594, che pochi anni prima, faceva rogare dal notaio Gian Giacomo Pepe di Montoro il suo testamento[104], da cui appare che avesse quattro figli maschi: Felice, sposato con Silvia Pironti; Angelo, Gramuzzo, e per l’appunto Annibale. E che codesto Annibale iuniore fosse proprio come l’abate GALIANI afferma, padre del suo bisavolo Stefano, quale risulta in modo palmare dal testamento del medesimo Annibale nel quale costui, oltre che dei suoi figliuoli, tra i quali non manca Stefano, parla di tre fratelli, i cui nomi coincidono con troppa nettezza con quelli degli altri tre figli di Geronimo, perché vi possano essere dubbi sull’identità della persona. Annibale lasciò alla sua morte avvenuta il 28 gennaio 1620 cinque figli tre femmine Beatrice, Isabella e Olimpia; e due maschi Vincenzo, nato il 22 giugno 1608 e Stefano nato il 2 giugno 1614[105], i quali ultimi ebbero la saggezza di non procedere mai alla divisione dell’asse ereditario, nemmeno quando ciacuno fu giunto all’età maggiore ed ebbero preso moglie; il primo Silvia Mastrangelo, il secondo Geronima di Marino Grimaldo[106] che recò 750 ducati in dote. I tempi volgevano molto tristi per Montoro, oltre che per le calamità comuni a tutto il Regno, una prima carestia nel 1605, la famosa eruzione del 1631, che coprì il paese di ceneri e lapilli, e due altre carestie a breve distanza, avevano ridotti alla miseria e nello squallore quei luoghi[107], e col crescere delle difficoltà s’era intensificato quel fenomeno economico della emigrazione che portò alcuni componenti di questa famiglia a Foggia, il maggior emporio commerciale del mezzogiorno d’Italia, a cui la dogana delle pecore e la diretta comunicazione con l’Abruzzo assicuravano il primato del l’industria, così redditizia, della lana. Colà si trasferì Stefano Caliano, che con la moglie verso il 1652 si trasferiva a Foggia[108], ove mise su con anche il denaro di Vincenzo, un fondaco di pannilani, condotto con amministrazione così oculata, che pochi anni dopo il fisco poteva attribuire a lui ed al fratello un capitale imponibile di 1500 ducati[109], che per quei tempi era un patrimonio tutt’altro che spregevole.
Morto Stefano prima del 1679, lasciò tre figli: Giustina che sposò il dottor Giovanni Andrea Serafino, il dottor Guglielmo e Domenico, che circa nel 1680 sposeranno le due sorelle Anna Maria e Gaetana Tortorelli; le quali insieme con le altre due germane, Antonia Mobilia e Cornelia s’erano divisa, nel 1671, l’eredità del padre Matteo, ricco notaio di San Giovanni Rotondo ed erano in attesa di dividersi quella della madre, Giovanna Coda, sorella di Marcantonio Coda, che fu avvocato famoso ai suoi tempi ed autore, trà l’altro, di un libro sulla dogana delle pecore di Foggia, nella quale suo padre era stato cancelliere[110].
Da Guglielmo nacque Stefano iuniore, dottore anch’egli di ambo le leggi, decurione di Foggia nel 1728 e già morto nel 1738, nel cui matrimonio con Lucrezia de Luna generò Giuseppe, nato in San Giovanni Rotondo il 12 febbraio 1708, guardia dei corpo del Re Carlo III Borbone, sottotenente di fanteria nel 1740 e morto nella peste di Messina nel 1744[111]. Dalle nozze di Domenico GALIANO che, come il fratello Guglielmo ed il nipote Stefano, conduceva la vita tra Foggia e San Giovanni Rotondo, nacque Nicola[112], che fu uomo di infaticabile operosità, di vastissima dottrina, e di numerose benemerenze verso la cultura nazionale.
Il secondo, Matteo, dopo aver conseguito la laurea in utroque jure, vale a dire in diritto sia civile che ecclesiastico, cominciò, in anno incerto, la lenta e normale carriera del magistrato provinciale, che aveva inizio allora dal grado di Regio Uditore[113] nella città di Teramo, conferito di volta in volta per un biennio e poi a Trani. Nel 1712, era a Lucera, ove sposava Anna Maria di Domenico Ciaburri nata nel 1692 a Lucera (Foggia), e si rendeva colà così benemerito da conseguire, qualche anno dopo (1718), dagli eletti Lucerini un diploma di cittadinanza onoraria. Nominato nel 1717 uditore presso l’udienza provinciale di Chieti, veniva trasferito nel 1719 ad Aquila, e poi nel 1721 nuovamente a Chieti, e nel 1723 a Teramo, e nel 1725 a Trani, e nel 1727 per la terza volta a Chieti, ove lo raggiunse la promozione a fiscale proprietario[114] presso quella udienza con le prerogative e preminenze di giudice di Gran Corte della Vicaria. Inviato, pochi mesi dopo, alla fiscalia di Lecce e di là, nel 1731, a quella di Trani, veniva promosso, nel 1733 a Caporuota della Regia Udienza di Salerno[115] e, conferitagli l’anno appresso, di caporuota della fiscalia di Trani con annesso l’incarico di reggente di quella di Lecce,  ove lo trovò il felice mutamento del 1734, presentò un progetto di riforma che attirò sulla sua persona l’attenzione del nuovo governo. Il 27 maggio 1741 fu nominato Giudice della Gran Corte della Vicaria e si trasferì definitivamente a Napoli. Qui, l’intervento del ministro Tanucci in suo favore non tarderà  a produrre gli effetti desiderati, tanto che già nell’agosto dello stesso anno 1738, Matteo Galiani potè sedere nella Gran Corte della Vicaria Criminale. Quando la morte lo colse nella capitale borbonica (1748) gli erano stati conferiti,  dal re Carlo III di Borbone,  il titolo di Marchese di palazzo e la carica di Consigliere del tribunale di Santa Chiara[116].
1^ pagina del diploma di marchese concesso al dott.
Matteo Galiani
Archivio di Stato di Roma
sezione araldica


2^ pagina

3^ pagina

4^ pagina


5^ pagina

6^ pagina del diploma di marchese a Matteo Galiani
concesso dal re Carlo lll di Borbone

Diploma di marchese concesso a Matteo Galiani dal re Carlo III di Borbone
(Archivio Centrale dello Stato ROMA-EUR sez.Araldica)

Matteo Galiani
marchese di Palazzo[117]
L’appressarsi a Napoli delle armi spagnole (1741), non turbarono troppo Matteo, il quale era già tanto nella buona grazia del conte di Santostefano, che il principe di Sant’Angelo credeva dovuta, ai buoni uffici del fratello mons.Celestino GALIANI presso l’onnipotente ministro di Carlo III di Borbone la propria inclusione nella Giunta di Stato[118]. Che anzi un disegno di riforma, compilato da Matteo in quel tempo, richiamò su di lui l’attenzione della nuova amministrazione, la quale dopo averlo inviato, nel 1734, caporuota a Montefusco, e poi, nel 1736, a Trani e ancora, nel 1738, a Salerno, gli permise finalmente, agosto 1738, di sedersi tra i suoi colleghi della Vicaria Criminale a Napoli, e il 27 maggio 1741 fu nominato Giudice della Gran Corte della Vicaria sempre a Napoli ove si trasferì definitivamente. E dove 10 anni dopo, gennaio 1748, da Re Carlo III di Borbone gli veniva concesso il titolo di marchese. La morte gli troncò la carriera nel 1748[119]. Matteo GALIANI ebbe 7 figli: 5 femmine e due maschi. Una di esse Settimia la prediletta zia dell’abate GALIANI, la nominò nel 1787 sua erede usufruttuaria, era in quell’anno vedova di Andrea Alfani[120], oltre Maria Giacinta, Maria Francesca e Teresa Margherita, tutte e tre monache di casa, che ricevettero a morte dell’abate GALIANI una pensione vitalizia di dodici ducati annui; sulla quarta figlia buio pesto anche per il nome. Si sa che si maritò perché da Lei discese Margherita Baldelli, maritata con il barone Lorenzo Ripa, che l’abate nel suo testamento chiama pronipote alla quale, o alle sue due figlie Maria Gaetana e Maria Giuseppa, dispose che ricadesse, dopo la morte della ricordata Settimia, la sua eredità[121]. Soltanto dodici anni dopo di matrimonio, e cioè il 20 dicembre 1724, Matteo GALIANI ebbe il primo figlio, Berardo, vale adire il marchese Berardo GALIANI. Berardo nel 1738 acquistò la badia di Santa Maria a Celano, che nel 1745 cedette al fratello Ferdinando che si trovò per tal modo abate. Egli dopo aver intrapreso la carriera giudiziaria finì per contrarre nel 1748 un matrimonio d’amore con Agnese Mercadante[122], fonte per lui di infiniti debiti e maggiori preoccupazioni che gli troncarono la vita l’11 marzo 1774[123].
E finalmente il 2 dicembre 1728, il giorno giovedì, a nove ore e mezza, nella chiesa di Sant’Agata di Chieti, Matteo GALIANI, (già padre anche di tre femmine: Maria Giacinta, Maria Francesca, e Teresa Margherita)  salutava la nascita del suo ultimo figlio, a cui il giorno dopo, il vescovo teatino, monsignor Gaetano Asterio, imponeva i nomi di: Ferdinando, Ernesto, Giustino, Francesco Saverio e Pier Celestino[124].


Fede di battesimo
dell’ abate
Ferdinando Galiani
Economista di fama internazionale ed Uomo di Stato






[1]  Cognome che diventerà nel 1700  de NATALE SIFOLA GALIANI
[2][2] Informazione tratta dai manoscritti di “Serra di Gerace”, Grande Archivio di Stato di Napoli, alla voce: Colonna Romano pag.1625
[3] Già nel 1500 a Casapulla risiedono e prosperano vari casati, come i NATALE, i Giannotti, i Buonpane i Sorbo. Ad esempio l’insediamento in loco dei Natale, la famiglia più vasta e più ricca, secondo pergamene sveve della Mater Ecclesia Capuana, risale ad un’epoca anteriore al XIII secolo. I NATALE occupavano da sempre , con orti e giardini la parte più estesa del quadrilatero urbano. Altre famiglie illustri di Casapulla furono dal 1600 in poi  i Peccerillo i Molina, i Pellegrino, i Stasio di San Nicola La Strada ed i Stellato di Caturano. Nella prima metà del XIX sec. Arrivarono i Tummolo, gli Stroffolini i Sersale , i Moscati ed i d’Albore.q           
[4] G. Iannelli: mss, fasc. Cattedrale. Si pensa che, per la sua dottrina, egli fosse magister scholarum, o come allora correntemente si usava dire, magischola, e pertanto l'autorità ecclesiastica «che sovraintendeva alla scuola e conferiva il diritto di insegnare, a chi, secondo le prescrizioni papali, petita licentia, intendeva in qualsiasi luogo di aprire scuola». Il magiscolato nelle chiese cattedrali era divenuto a poco a poco una dignità tra le più insigni e quel che più conta, tra le più lucrose.
[5] Il loro palazzo aveva sei ingressi, il perimetro si svolgeva dall’attuale Via Vescovo Natale a tutta via G. Stroffolini per poi proseguire per via A.Diaz. All’interno si trova la più bella galleria con pitture murali di tutto il casertano. L’ingresso principale era situato su via Vescovo Natale venendo dalla Via Appia nel punto in cui la strada devia a sinistra. Nel 1813 fu diviso in due porzioni uguali tra i fratelli Carminio (1743-1833) e Marcello. Nel 1833 passò interamente in eredità al figlio di quest’ultimo Benedetto Natale-Galiani (1780-1851). Nicola Santoro (1822-1896)ne divenne proprietario sposando nel 1846 Amalia Petitti (1829-1905), nipote della baronessa di Verrazzano Luisa Petitti, vedova di Benedetto Natale-Galiani morto senza figli.
[6] Fonte: Sacerdote don Felice Provvisto: Donato Giannotti (1828-1914) fondatore delle Ancelle della Immacolata, Edizione a cura della Congregazione delle Ancelle dell'Immacolata. Santa Maria Capua Vetere 1988.
[7] Discendente dal fratello di Santo Stefano Menicillo.
[8] ,Già più volte citato in quest’opera. (1560-1635?).
[9] Egli fu iuspatrono del Benefizio del Santissimo Presepio dentro la chiesa parrocchiale di Sant’Elpidio. Lasciò con  Istrumento dell’08 dicembre 1649 per notar Sebastiano Buonpane di Casapulla, la cui scheda originale fino all’anno 1891 era conservata presso il notaio Pasquale Monaco del fu Pasquale di San Prisco, un capitale di 2208 ducati con una rendita di 169 ducati ed un tarì in circa da dividersi in porzioni uguali a tre cappellani, salvo a concedersi 10 ducati in più, in tutti i futuri tempi al primo investito dei tre. con l’obbligo a ciascuno di essi di celebrare 200 messe ogni anno e con altri obblighi ,  assistenziali istruttivi e liturgici, tra cui quello della ciaramella ed alle zampogne da suonarsi sull’altare del Presepe la notte ed il giorno di Natale[9] . Il patronato lo ebbe il fondatore riservato prima a se stesso, da trasferirsi, dopo la sua morte, il dritto di nomina e presentazione, per una parte alla signora Dionora de Natale sua nipote, e per ciascuna delle altre due parti, ad uno delli suoi parenti di casa Natale più stretto e più antico delli loro figli mascoli tantum, e non delle femmine, cioè di ogni parte di essi lo primogenito , rimase a questa, in seguito di tempo, il mascolo tantum: ita, et taliter, che sempre debba essere uno per parte, e non più; debba essere lo primogenito,alli quali abbia a competere in futurum, toties quoties casus occurrerit, jus praesentandi li cappellani alle Cappellanie predette, e tutte le altre onorevolezze e prerogative, che competono a patroni; riservando all’Arcivescovo di Capua, come de jure, la spedizione delle bolle. Qualora poi mancasse alcuna delle dette parti, o tutte e tre queste parti, questo juspatronato di presentare i Cappellani alle Cappellanie predette sia degli Economi della Venerabile Cappella del Monte dei Morti, sita dentro la detta Parrocchiale chiesa di Casapulla. Come in effetti, per mancanza seguito di tempo, il diritti di tale presentazione.di quelli, rimase a questa.

[10] Fu sepolto  nella chiesa della Santissima Concezione di Nostra Signora fondata nel 1627 in Casapulla da suo padre Gennaro e suo zio Alicordio, da come si legge sulla lapide posta sulla porta principale d'ingresso .

[11] pare che Calazia, oggi distrutta,si trovasse ad occidente di Maddaloni, nel luogo detto Le Galazze, e più comunemente San Giacomo, dalle rovine di una chiesa, che si credeva fosse stata il suo Episcopio(V.Pratilli, della Via Appia, lib.3, CA, p.359)
[12] Che scrisse sull'antichissima città di Caiazzo.
[13] DE SIMONE V: SUPER STATUTIS MUNIC. CIV. CAL, p.25 S.S.
[14] Discendente della famiglia di Santo Stefano Penicillo.
[15] Dalla quale non ebbe figli. Donna Beatrice fece testamento a favore del marito 5 agosto 1669 - 11 novembre 1669. Carminio erede di D.Beatrice con testamento 14 marzo 1679 - 8 novembre 1679. Carminio esegue la volontà della moglie e fonda il beneficio di Sant'Antonio di Vienna il 20 maggio 1702. Del beneficio fu investito Benedetto che muore il 6 dicembre 1752. Morto questi il beneficio passa a Vincenzo Maria NATALI-SIFOLA, che muore il 30 dicembre 1803. A questi successe Benedetto NATALE-GALIANI nel 1817. A questi successe Giuseppe NATALE GALIANI che ammogliatosi nel 1834, rese vacante il beneficio. A questo punto non essendovi discendente di Carminio a ricevere il beneficio, questo viene conferito a don Felice NATALE della linea di Giulio Antonio, cugino di don Carminio marito di Beatrice. All'atto dei testamenti di donna Beatrice in favore di don Carminio i beni non erano disponibili. Lo saranno nel 1702.
[16] Libro dei matrimoni pag.14 Parrocchia di Sant'Elpidio del Casale di Casapulla
[17] Nata in Casapulla nel 1687 ed ivi deceduta il 19 novembre 1762. Moglie e marito sono sepolti nella chiesa della Santissima Concezione di Nostra Signora in Casale di Casapulla.
[18] Libro 6° dei battezzati pag.22.
[19] Libro dei battesimi registrazione del 7 agosto 1711; prima registrazione del foglio, madrina Brigida Buonpane, parrocchia di Sant'Elpidio.
[20] Libro dei morti pagg.52 e 53 Parrocchia di Sant'Elpidio in Casale di Casapulla.
[21]. Nel 1752 don Bernardo fece realizzare, nella chiesa parrocchiale di Sant'Elpidio l’altare dedicato alla Madonna della Pietà e vi legò un beneficio ecclesiastico per i suoi discendenti; il dipinto su tela posto sull’altare raffigurante un ovale con all'interno l’effige della Vergine della Pietà, che è sorretto da Angeli. In basso sul lato destro è riprodotto lo stemma della famiglia de NATALE SIFOLA.Lo scudo separato in due riporta dalla parte sinistra lo stemma dei de NATALE: tre corone antiche d’oro in campo rosso 2 e 1 con la cometa ondeggiante in banda sovrapposta da una bandiera con il motto regibus ipse pavor; a destra lo stemma dei SIFOLA di Ormeta tre teste di leone d’oro coronate d’oro in campo azzurro, il tutto in uno scudo accartocciato sormontato da una corona antica.
[22] Il matrimonio tra Bernardo di Natale ossia de NATALE e Geronima Sifola si trova lel libro 3° dei matrimoni alla pagina 61 posizione 32 conservato presso la parrocchia di Sant'Elpidio di Casapulla CE.
[23] Marchesa.
[24] deceduta in Casapulla il 6 Settembre 1784
[25] Oggi Caserta.
[26] Nel Catasto Onciario.di Caserta del 1655 è riportato che Nicola di an.3 era figlio del dott. fisico Alessandro Sifola del q.m Francisco an.38 e di Virginia Timotei di an.37.Aveva come fratelli Francesco di an.9 Giuseppe di an.5 ed Eleonora di an.7. Il dott. Alessandro possedeva in Casola una Terra detta allo Melanito de m.5 in c.a red.a alla principal Corte in gra.19 10/12, et alla Chiesa parr.le de S.to Marco Evangelista in on.10 di Cera ded.s ded.s = on.1 tr20; et per un’altra terra di m. Sei in c.a parte montuosa,et parte Lavorandina red.a alla principal Corte in Gra-quattro,et alla Mensa Vesc.le in Gra.7½ nel Loco detto alla Tellana ded.s ded.s on.2  tr.15 = on.4 tr.5.
[27] Località che si trova in territorio capuano.
[28] pag.43.
[29] Caserta.
[30] Come da scrittura presso il notar Francesco Antonio della Costa anno 1764; la donazione dovrebbe essere precedente a questo anno.
[31] Sacerdote ed erudito 1706-1787
[32] Oggi: Caserta
[33] Nel registro dei matrimoni della parrocchia di Sant’Elpidio in Casapulla nell’atto di matrimonio della figlia è citato con il nome di: Nicola.
[34] Leggesi Casapulla.
[35] I longobardi erano detti anche Winnili, ossia "cani folli" in quanto tra loro vi erano guerrieri cinocefali, la vista dei quali era sufficiente a spaventare a morte i nemici.

[36] Inquisizione de'baroni fatta per ordine del re Carlo lº.
     [37] In Regn.Regio anno II. 1415 fol. 87 tom.
[38] Privilegio di Filippo Imperatore di Costantinopoli.
[39]  Privilegio el processo tra Giulio SIFOLA con la CAMERA NELLA BANCA DEL S.R.C. DI ROPPOLO
[40] Privilegi di cittadinanza e di nobiltà in Lombardia.
[41] Secondo privilegio spacciato in Napoli nel Castel Nuovo a 22 di Marzo 1536.
[42] Testamento della detta Virginia del 1553.
[43] Processo già compilato della lite trà Giulio SIFOLA con la piazza di Capuana nella Banca del S.R.C. di Roppolo.
[44] Cioè della famiglia Sifola di Pietrapertosa.
[45] de NATALE vedesi registri di nascita. Citato in più fonti come NATALI SIFOLA
[46] Nel libro dei battesimi è così registrato: Marcellus Maria, Joseph, Antonius, Raimundus, Nicolaus, Elpidius, Vincentius, di NATALE, libro dei battesimi anno 1740 foglio 55 posizione 460,Parrocchia di Sant'Elpidio (Casapulla); NEI REGI QUINTERNIONI COL COGNOME Natali Sifola; negli atti di matrimonio presso l'archivio diocesano di Napoli come NATALE SIFOLA.
[47] . Morì nel palazzo di famiglia sito nella strada Casa Natale. E' sepolto nella chiesa della Santissima Concezione di Nostra Signora che fu edificata dai suoi avi nel 1627. La chiesa è situata fuori del proprio palazzo.
[48] Libro 7° dei battesimi p.68 a tergo n.588.
[49] de NATALE SIFOLA.
[50] Diritto ecclesiastico e civile
[51] de NATALE.
[52] de NATALE SIFOLA.
[53] Don Marcelo è registrato col titolo di marchese nei regi quinternioni al fol.5 pag. 196, conservati presso il grande archivio di Stato di Napoli. In Napoli don Marcello risiedeva nel distretto di San Tommaso a Capuana
[54] Libro XVIII dei matrimoni foglio 41, settembre 1774; altri documenti presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, lettera anno 1774; i di lui testimoni furono il Marchese don Giuseppe Buonpane di Casapulla e don Ferdinando de Leon avvocato fiscale della Regia Camera della Sommaria.
[55] Che fu retta fino al 1753 da Celestino GALIANI zio paterno della moglie.
    [56] Saverio Mattei 1879: Galiani F. ed i suoi tempi.
[57] Anna Maria Galiani fu amica di Eleonora Fonseca Pimentel alla quale, dopo la morte del marito avvenuta nel 1785, da parte del marchese Marcello (de) NATALE SIFOLA, fu confermato l’affitto del quartino da lei occupato nel palazzo alla salita Sant’Anna di Palazzo sita vicino alla traversa di via Chiaia nel quartiere detto degli spagnoli.
Il marchese Marcello de Natale Sifola aveva ereditato la casa dalla moglie che a sua volta l’aveva ereditata dal padre Berardo in quanto erede dello zio Celestino Galiani, cappellano maggiore del regno di Napoli, con assenso del papa Benedetto XIV di cui era amico .
 Eleonora Fonseca Pimentel per le sue idee repubblicane fu arrestata il 5 ottobre del 1798. Appena scarcerata pagò l’affitto arretrato ed il 21 aprile 1799 lo rinnovò sino a settembre del 1799. Riprese le riunioni politiche che avevano animato il suo salotto. In quella casa il Cimarosa compose la musica dell’inno della libertà. L’abitazione era frequentata
da quasi tutti gli uomini di cultura del tempo desiderosi di un cambiamento istituzionale; fu sede della redazione de “Il monitore napoletano” da Lei fondato che compilò dal 2 febbraio 1799 all’8 giugno 1799.
Nel 1889, in quel palazzo fu inventata la pizza Margherita in onore della regina Margherita di Savoia. All’interno della pizzeria Brandi una lapide testimonia quanto avvenuto). [57][57] Informazzione tratta dall'opera "Il Regno di Napoli in prospettiva ecc.” dell'abate Jo. Bapt. Pacichelli stampato in Napoli nel 1703 K2266, K2267, K2268 Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi.

   Anna Maria Galiani fu amica di Eleonora Fonseca Pimentel alla quale, dopo la morte del marito di questa avvenuta nel 1785, da parte del marchese Marcello (de) NATALE SIFOLA, fu confermato l’affitto del quartino da lei occupato nel palazzo alla salita Sant’Anna di Palazzo sita vicino alla traversa di via Chiaia nel quartiere detto degli spagnoli.
Il marchese Marcello de Natale Sifola aveva ereditato la casa dalla moglie che a sua volta l’aveva ereditata dal padre Berardo in quanto erede dello zio il cappellano maggiore del regno di Napoli Celestino Galiani con assenso del papa Benedetto XIV di cui era amico .
 Eleonora Fonseca Pimentel per le sue idee repubblicane fu arrestata il 5 ottobre del 1798. Appena scarcerata pagò l’affitto arretrato ed il 21 aprile 1799 lo rinnovò sino a settembre del 1799. Riprese le riunioni politiche che avevano animato il suo salotto. In quella casa il Cimarosa compose la musica dell’inno della libertà. La casa era frequentato da quasi tutti gli uomini di cultura del tempo desiderosi di un cambiamento istituzionale; fu sede della redazione de “Il monitore napoletano” da Lei fondato che compilò dal 2 febbraio 1799 all’8 giugno 1799.
Nel 1889, in quel palazzo fu inventata la pizza Margherita in onore della regina Margherita di Savoia. All’interno della pizzeria Brandi una lapide testimonia quanto avvenuto). [58][58] Informazzione tratta dall'opera "Il Regno di Napoli in prospettiva ecc.” dell'abate Jo. Bapt. Pacichelli stampato in Napoli nel 1703 K2266, K2267, K2268 Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi.
[59] E' sepolta in Casale di Casapulla nella chiesa della Santissima concezione di Nostra Signora di proprietà della famiglia del marito
[60]  de Rath, detta anche de Larath, oggi volgarizzato in della Ratta.
[61] Ragione per cui il figlio Bernardo NATALI(de NATALE) SIFOLA GALIANI fu ammesso nell'Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani.
[62] Fonte: Scipione Ammirato libro Ì Delle famiglie nobili napoletane MDLXXX.
[63] Genealogia Marzano ramo che interessa alla nostra famiglia Galiani: Riccardo, signore di Tufara e Marzano, Tommaso, primo conte di Squillace 1313, grande ammiraglio del regno di Napoli, sposa in prime nozze Giovanna di Capua figlia di Bartolomeo di Capua protonotario del regno di Napoli ed in seconde nozze sposa Simona Orsini fi                                                                                        glia di Romanello Orsini conte di Nola e grande giustiziere del regno di Napoli coniugato con Anastasia de Monfort contessa ereditaria di Nola. Goffredo, secondo conte di Squillace, signore di Maida 1330, grande ammiraglio del regno di Napoli deceduto dopo il 16 gennaio 1343, sposa Giovanna Ruffo figlia di Giovanni Ruffo signore di Policastro e conte di Catanzaro sposato con Francesca di Licinardo. Giovanna Ruffo era vedova di Tommaso Stendardo. Tommaso, primo conte di Alife 1345 gran camerario del regno di Napoli. Goffredo, secondo conte di Alife 1403 sposa Ceccarella de Janville; Margherita, sposa Antonello della Ratta (de Ruth) conte di Caserta.(Rilevato da internet alla voce famiglia Marzano 13 Marzo 2003)
…)
[65] Senato della Repubblica Italiana – scheda bibliografica – indice delle immagini- volume n.2 immagine n.37 Albero genealogico. Capostipite Verelando del sangue di Carlo Magno
[66] Documenti relativi alla donazione della chiesa di S.Maria di Kyrzosimo alla Badia di Cava nel 1088 cfr.Mattei Cerasoli “La badia di Cava e Monasteri greci della Calabria Superiore ecc. in A.S.L., VIII(1938) doc.
[67] Genealogia tratta da: Elefante F.: Saggio storico su Chiaromonte. Arti grafiche Racioppi, 1987
[68] Odolina Chiaramonte signora di Mignano, figlia di Riccardo, signore di Vasto, e di Egidia Sorella, signora di Mignano (+ post 1328/1330).
[69] Nel 1266 Alessano fu data in feudo a Rodolfo D’Aunay (cognome italianizato in d’Alneto) familiare di Carlo ll d’Angiò. A Rodolfo successe il figlio Gerardo e da questi morto senza discendenza maschile, pervenne alla figlia Caterina, alla quale il re Roberto concesse il titolo di Contessa: Caterina sposò nel 1336 Francesco di Diego de la Rath al quale portò in dote il contado di Alessano, I suoi discendenti  tennero la signoria per oltre un secolo fino al 1463 quando da Francesco di Giovanni de La Rath tornò al demanio regio.),
[70] Tutti gli autori di cose Sicule convengono esser questa una mobilissima famiglia francese derivata dalla città di Clermont in Piccardia. Ebbe inizio in Sicilia con Ugo 1° detto il “Monocolo” discendente dell’imperatore Carlo Magno re di Francia ed Imperatore del Sacro Romano Impero. Di questa famiglia si ricordano: Federico ed Antonio Chiaromonte palermitani patriarchi di Alessandria nel 1219; Nicolo vescovo di Frascati e cardinale di Santa Romana Chiesa nel 1219; Giacomo governatore di Nicosia con privilegio di far coniare monete con la sua effige e con lo stemma della sua famiglia, dette monete jacobine; Federico armato cavaliere dal pontefice Onorio lll, e quale discendente di detto imperatore Carlo Magno ricevé la rosa papale promettendo di impugnare il suo valoroso brando contro gli scismatici; Manfredo figlio del precedente, che eresse la città di Modica colle altre ville a titolo di contea mercé la concessione di re Federico ll 1300 e fu gran siniscalco del regno; Giovanni marchese di Ancona, maresciallo dell’Impero e generale delle truppe imperiali nella Marca; Manfreduccio Chiaramente e Palizzi vicario generale del regno, gran contestabile e siniscalco 1351; Simone Chiaramente ed Aragona cavaliere aurato e gran siniscalco del regno; Federico Chiaramente e Palazzi cameriere maggiore, vicario generale e maestro giustiziere del regno 1363; Manfredo Chiaramente e Ventimiglia, grande almirante e vicario generale del regno 1391 il quale perdé la testa sul palco innanzi al suo palazzo in Palermo nel 1392 e tutti i suoi stati caddero nelle mani del fisco. Arma: Campo di Rosso, con cinque monti d’argento. Corona di Conte.
[71] Terzo conte di Caserta della Casa della Racta fu Antonio figlio di Francesco e di Caterina d’Aunay, contessa di Alessano. Succeduto al padre nel 1359, già nel 1360 risulta essere conte di Caserta e signore della Baronia di Mignano. Fu l’ultimo grande della famiglia; ottimo diplomatico e perfetto cortigiano fu molto stimato dalla regina Giovanna verso la quale dimostrò sempre una fedeltà ed una devozione che parrebbe quasi adorazione. Anche il papa Innocenzo Vl dimostrò averlo in grande considerazione quando con una lettera del 15 febbraio 1361 gli chiese di intervenire in aiuto della regina e del marito nella lotta contro alcune bande di tedeschi e di ungheresi che avevano invaso il Regno. Per poter tratteggiare una breve biografia del conte Antonio è però necessario ricordare i turbolenti avvenimenti che si svolsero nel regno di Sicilia al tempo di Giovanna. Nel 1359 alla ribellione del duca Luigi di Durazzo aderirono molti esponenti della nobiltà napoletana che si portarono presso di lui in Puglia. Ai ribelli si aggiunse nel 1360 una compagnia di avventurieri tedeschi comandata da Haneken von Bogart (detto anche Anichino di Bongardo o Annecchino di Borgarten) che nel 1361, con il rinforzo di un consistente contingente ungherese, arrivò a minacciare Napoli. E’ di questo periodo la lettera del Papa al de Racta che si innanzi ricordato. Per salvare la capitale fu necessario dividere gli assalitori; si aprirono trattative con gli ungheresi che vennero assoldati ed inviati a combattere il Durazzo ed i tedeschi di Anichino, questi ultimi l’anno successivo furono sconfitti ripetutamente e costretti a ritirarsi in Puglia e poi ad arrendersi. Il Durazzo fu preso prigioniero, condotto a Napoli in catene e rinchiuso nel carcere della Vicaria. Pacificato il regno, nel 1362 la regina Giovanna e re Luigi convocarono, nell’aprile, un parlamento generale per cercare con l’aiuto di tutti di rimettere in sesto il Regno che usciva da dieci anni di guerre e distruzioni. Nel maggio però, re Luigi venne a mancare lasciando sola Giovanna che trovandosi di fronte all’eventuale, probabile, ripresa delle ostilità da parte del Durazzo, nel frattempo liberato, alle beghe di suo cognato Filippo di Taranto e del di lui fratello Roberto, pensò bene di sposarsi una terza volta facendo cadere la sua scelta su Giacomo di Maiorca, giovane figlio di Giacomo ll. I calcoli di Giovanna, che pensava di porre al suo fianco una persona indebolita nel corpo e nello spirito dai patimenti di ben 13 anni di carcere per governare finalmente da sola, si rivelarono ben presto errati. Il sistema nervoso logorato e forse anche un principio di pazzia di Giovanna portarono i coniugi a continui litigi con grave pregiudizio della conduzione del Regno. Nel 1365 Giacomo, non intendendo essere ridotto al ruolo di principi consorte, lasciò improvvisamente la corte e se ne andò in Spagna al servizio del pretendente al trono di Castiglia, ed in Spagna morì nel 1375. In questi dieci anni a Napoli ed in tutto il Regno si poté vivere senza l’incubo di gravi pericoli dall’esterno ed in relativa pace all’interno. Per quanto riguarda il conte Antonio, di questo periodo è da ricordare la ripresa delle liti con il vescovo di Caserta per gli abusi compiuti dal de La Rath stesso e dai suoi ufficiali che pretendevano di esigere dei tributi dai vassalli delle Chiese di Pozzovetere e Puccianiello. Fu necessario un intervento diretto della regina che con decreto del 5 settembre 1368 fece cessare la contesa inducendo il conte al rispetto degli accordi sottoscritti dai tutori del padre Francesco nel lontano 1327. Per quanto riguarda la vita privata di Antonio del La Rath non si sa esattamente chi abbia sposato perché, mancano i documenti originali, una certa confusione è stata ceata da uno storico locale che in un suo studio riporta la notizia del matrimonio del conte con Antonella Caracciolo della Rocchetta e in un’edizione successiva lo dà coniugato a Beatrice del Balzo Orsini. Comunque ebbe quattro figli: Francesco, Luigi, diventato poi Signore di Mignano, Alessandro detto Sandolo e Beatrice detta Micella che sposerà Matteo della Marra, Signore di Serino a cui il de La Racta nel 1380, per aiutare la regina che aveva estremo bisogno di denari, vendette la città di Monitoro. Giovanna riconoscente il 15 marzo 1381 donò al nostro conte il feudo di Montefusco che pochi anni dopo fu confiscato ed assegnato a Francesco Frignano e successivamente nel 1391 ai fratelli del Papa Bonifacio lX Giovannello e Andrea Tomacelli. Altre notizie di quel periodo relative alla vita del conte Antonio, sono quella intorno alla morte avvenuta nel 1366 di Anna contessa di Caserta e quella della facoltà data nel 1369 al vescovo di Telese, Giacomo Cerreto, di regolarizzare la convivenza tra Antonio, scomunicato per violenze commesse contro il vescovo di Mileto Pietro di Valenianis, e Giovanna Artus, figlia del conte di Sant’Agata. Alla morte di Giacomo di Maiorca il papa Gregorio Xl ritenendo che alla corte di Napoli dovesse esserci a fianco della regina uno strumento filo papale, propose un quarto marito per Giovanna nella persona di Ottone di Brunswick. Raggiunto l’accordo nel marzo 1376, quattro grandi del regno: Antonio de la Racta, il Conte di Cerreto, il Conte di Sant’Angelo e messer Roberto di Nola con quaranta nobili e quattro galee scortarono il promesso sposo da Nizza a Napoli dove giunse il 25 marzo.Mentre Giovanna stringeva più stretti rapporti con la Santa Sede all’orizzonte cominciarono a delinearsi avvisaglie di guerra perchénil re d’Ungheria, d’intesa con quello francese, risollevò l’antica questione della sua legittimazione alla successione al trono di Napoli, avanzando argomenti che, a ben vedere, non erano del tutto ingiustificati. Sul finire del 1376 Papa Gregorio Xl per far cessare la rivolta che le grandi città italiane, Firenze da una parte e Bologna dall’altra, avevano fomentato nei suoi Stati, riportò la sede del papato a Roma e questo fu un ulteriore motivo dell’avvicinarsi di Giovanna alle cose della chiesa di Roma che per sua sventura la porteranno alla perdita del regno e della vita. Morto il 27 marzo Gregorio Xl i cardinali riuniti in conclave subirono pressioni da parte del popolo romano affinché non fosse eletto papa un francese ma un italiano anzi meglio se romano. Alla fine tra chi voleva un romano e chi voleva un francese fu eletto l’arcivescovo di Bari, il napoletano Bartolomeo Frignano che assunse il nome di Urbano Vl. Era questi un rigido asceta, colto uomo di curia ma senza tatto politico, nemico della simonia ma nepotista, fortemente irascibile mancava del tutto della mitezza e della carità cristiana; in altre parole era un uomo di ferrei principi e grande cultura ma rozzo in sommo grado. Subito dopo l’elezione apparvero i primi segni del dissidio tra il papa ed i cardinali che portò allo scisma. La causa principale della lotta sorta tra il papa ed i cardinali è da ricercarsi nel conflitto tra gli interessi e le tendenze oligarchiche del sacro collegio e l’assolutismo papale; infatti sotto gli ultimi papi avignosesi il collegio dei cardinali era diventato una corporazione i cui membri godevano non solo di una piena indipendenza economica dal papa, derivata da una regolare partecipazione alle entrate della Chiesa, ma era anche un organo collegiale che prendeva parte al governo della stessa, intervenendo in tutti gli atti più importanti di carattere amministrativo e politico. La vera causa del conflitto tra Urbano Vl ed i cardinali è da ricercarsi quindi nell’avversione che egli ebbe nei confronti delle tendenze costituzionali del collegio. Egli non solo tolse ai cardinali l’indipendenza economica che avevano fino allora avuta ma volle governare da sé, senza tenere in alcun conto il loro intervento negli affari. A questo punto i cardinali francesi, che erano la maggioranza del collegio, si ribellarono, si ritirarono a Fondi sotto la protezione di Onorato Caetani ed il 20 settembre elessero un nuovo papa: Roberto cardinale di Ginevra che prese il nome di Clemente Vll. Il 31 ottobre il nuovo papa venne incoronato ed il 20 novembre la regina Giovanna si schierò apertamente con lui.Vediamo ora come si svolsero gli avvenimenti che portarono alla rottura tra la regina Giovanna ed Urbano Vl, avvenimenti che videro testimone e forse in gran parte protagonista il conte di Caserta. I primi rapporti di Giovanna con urbano furono improntati ad una vera amicizia. Avvenuta l’elezione Urbano si era affrettato a mandare la notizia della sua ascesa al soglio pontificio a Napoli ove era stata accolta dalla città e dalla corte con grandi manifestazioni di gioia. L’avvenuta elezione fu festeggiata a Napoli con grandi luminarie, banchetti e giochi, Subito dopo la regina Gionanna mandò a Roma degli ambasciatori che portarono al papa doni e una consistente somma di denaro, si trattava di una parte del censo dovuto da tempo alla chiesa. Tra gli ambasciatori mandati ad ossequiare il pontefice c’era Antonio de La Rath. Un’ altra ambasceria fu inviata nel mese di Luglio. In seguito la regina, venuta a sapere che correva voce che l’elezione del papa non era stata regolare, aveva voluto conoscere con precisione come stavano le cose e si era convinta che effettivamente c’erano state delle irregolarità e che Urbano non era papa legittimo. L’interesse di Giovanna a conoscere approfonditamente la situazione della chiesa dipendeva dalle speciali relazioni giuridiche che univano il Regno di Sicilia alla Santa Sede ed inoltre perché il censo che pagavano i sovrani di Napoli, fino allora, era stato diviso tra il papa ed il collegio dei cardinali. E’ comprensibile che il più grande desideio di Giovanna fosse quello di uscire al più presto da una situazione così difficile mostrando alle due parti in lotta una uguale sollecitudine e tentando di comporre con il proprio intervento il pericoloso conflitto-Nell’ambasceria di luglio Ottone di Brunswich ed il cancelliere reale, tra l’altro, cercarono di rappacificare il papa con il conte di Fondi, ma nulla ottennero e se ne tornarono a Napoli molto delusi da Urbano. Da quel momento vediamo la regina accostarsi poco a poco alla fazione dei cardinali e seguire con interesse sempre più vivo le discussioni che si facevano intorno alla legittimità di Urbano- Qualche dubbio  aveva incominciato ad insinuarsi nell’animo di Giovanna i cui sentimenti di sincera devozione verso il papa furono turbati fortemente. Purtroppo la condotta di Urbano Vl pareva fatta apposta per creare astio e malanimo contro di lui. I molti napoletani che dopo l’elezione erano accorsi in Roma per congratularsi, ma anche per sollecitare favori dal nuovo pontefice, erano stati male accolti ed erano ripartiti malcontenti e disgustati; anche il cancelliere reale, quando verso la fine di luglio tornò a Napoli indispettito e rancoroso, contribuì non poco ad accrescere i dubbi della regina. Verso la fine di agosto i cardinali dissidenti si ritrovarono a Fondi e la regina mandò ad assisterli il cancelliere Spinelli ed il conte Antonio de la rath (de Racta) i quali parteciparono alle varie adunanze di preparazione all’elezione del nuovo papa. Dopo l’elezione dell’antipapa, Urbano Vl mandò sotto processo i principali operatori dello scisma tra i quali troviamo, per quanto riguarda Terra di Lavoro, il vescovo di Caiazzo frate Francesco dell’ordine dei Minori Francescani, ed Antonio de la Rath conte di Caserta. I processi, con gli imputati contumaci, si conclusero verso la fine del 1378 con la condanna di tutti gli inquisiti alla privazione di ogni bene ed autorità; le condanne ovviamente rimasero senza effetto, basti ricordare che la contea di Caserta, confiscata al de la Rath, era stata concessa dal papa a suo nipote Francesco Frignano detto Butillo, che però non riuscì mai entrarne in possesso. Papa Urbano sepre più irato contro i dissidenti e la regina, chiamò alla conquista del Regno di Sicilia Carlo di Durazzo, e Giovanna per ottenere l’appoggio decisivo del re di Francia pensò di adottarne il fratello Luigi d’Angiò. Il 1° giugno 1381 il papa concesse l’investitura del Regno a Carlo di Durazzo che nel frattempo era giunto a Roma ed il 10 dello stesso mese la regina provvide con atto solenne ad adottare l’Angiò. L’atto di adozione fu sottoscritto tra gli altri dal conte di Caserta, Antonio, che subito dopo la cerimonia partì per la Francia con una lettera di Giovanna nella quale veniva richiesto un aiuto immediato con la promessa che, come Luigi fosse giunto in Italia, sarebbe stato reso pubblico l’atto di adozione che l’avrebbe costituito erede al trono di Sicilia. Carlo di Durazzo invase il regno, riuscì a prendere Napoli e dopo un breve assedio costrinse alla resa Castelnuovo nel quale si era rifuggiata la regina nella vana attesa dell’arrivo dei soccorsi. Giovanna fu fatta prigioniera e trasferita a Castel dell’Ovo. Nel settembre il de la Racta con dieci galee provenzali si presentò nel golfo di Napoli ma ormai era troppo tardi. I comandanti provenzali, ai quali il Durazzo aveva fornito un salvacondotto su richiesta della regina prigioniera, scesero a terra, ebbero un colloquio con Giovanna e, constatato che ogni soccorso era inutile, lasciarono Napoli veleggiando verso la Provenza. Con loro tornò anche Antonio de la rath che dall’esilio intrattenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1382, numerosi rapporti epistolari e relazioni con i baroni del regno nella speranza di tener desta la rivolta contro Carlo lll di Durazzo. A presidiare Caserta ed il suo feudo erano rimasti i tre figli del conte Antonio: Francesco ll, Luigi ed Alessandro.
[72] Dopo la conquista di Napoli nel 1381 da parte di Carlo lll di Durazzo e la morte della regina Giovanna, nel 1382, quasi tutti i baroni del regno prestarono l’omaggio ed il giuramento di fedeltà al nuovo re tranne il conte di Fondi, il conte di Ariano ed il conte di Caserta Francesco ll de Racta, succeduto al padre Antonio deceduto esule in Provenza ai principi del 1382. I tre conti rifiutarono di riconoscere Carlo lll quale sovrano e presidiarono armati i loro feudi in attesa della venuta nel regno di Luigi l d’Angiò che Giovanna aveva adottato. IL Durazzo per rendere a più miti consigli il de Racta pose l’assedio a Caserta che riuscì a resistergli fino all’arrivo dell’Angiò il quale dopo essere passato per Milano, Rimini ed Ancona entò negli Abruzzi dove sostò A L’Aquila che aveva alzato le sue bandiere e dove vennero ad ossequiarlo buona parte dei baroni partigiani della defunta regina. L’Angiò dopo qualche tempo riprese la marcia verso Napoli, attraversò il Fucino e la valle del Liri, passò per San Vittore e San Pietro, infine e finalmente il 14 ottobre 1382 giunse a Maddaloni dove pose il campo. Da Maddaloni, inspiegabilmente,  l’Angiò invece di attaccare Napoli incominciò a ritirarsi verso la Puglia passando per la Valle Caudina, Cerreto e Ariano da dove il 5 novembre inviò a Caserta parte delle sue truppe, sotto la giuda di Nardo di Casanova. Da Caserta quasi giornalmente cominciarono a partire attacchi contro i territori di Capua, Aversa ed Acerra, città fedeli a Carlo lll di Durazzo. Il 9 febbraio 1383 alla guida di Francesco ll de Racta fu fatta un’incursione fino a Napoli da dove il conte di Caserta con i suoi tornarono con un gran numero di prigionieri ed un grosso bottino. Con l’arrivo della primavera il de Racta e le truppe angioine andarono in Puglia da Luigi d’Angiò lasciando in Caserta una piccolissima guarnigione che continuò, sotto la guida dei fratelli Alessandro detto Sandolo e Luigi, la guerriglia contro le città nemiche. Il 16 maggio i napoletani avendo appreso che Caserta era quasi sprovvista di armati decisero di assalirla e distruggerla. Radunarono circa 1400 giovani cavalieri a cui si aggregò una moltitudine di gente a piedi che, nella speranza di un ricco bottino, si diresse verso Caserta al grido: a Caserta a Caserta oggi la pigliamo. Dalle mura della città sul colle, al veder arrivare quella turba disordinata di gente, mescolata ai cavalieri, senza alcun ordine e nella confusione più assoluta,  quasi di corsa perché il timore di arrivare tra gli ultimi e rischiare di rimanere senza bottino metteva le ali ai piedi della plebe napoletana.  Sandolo si rallegrò non poco e posti una trentina di balestrieri appena fuori le mura, ma di lato per colpire il nemico dal fianco, quando i napoletani giunsero quasi all’ingresso della città li fece colpire da un nugolo di frecce e contemporaneamente, spalancata la porta, al grido di battaglia della famiglia: Racta, Racta, si precipitò contro gli affannati avversari. Immediatamente lo sgomento assalì la marmaglia napoletana che fatto dietro front si diede a precipitosa fuga travolgendo i cavalieri che allora arrivavano. Per pochi la fuga, che terminò solo a Napoli, si concluse con la salvezza tra le mura amiche, gli altri, invece, furono tutti presi prigionieri e portati dentro Caserta da dove uscirono soltanto dopo che per loro fu pagato un congruo riscatto. Durante l’inverno del 1384 la situazione nel regno si era stabilizzata con l’Angiò fermo in Terra di Bari e Carlo di Durazzo a Napoli. Con il ritorno del bel tempo re Carlo, raccolto l’esercito, si diresse verso la Puglia lasciando a reggere le sorti del regno sua moglie Margherita che assunse il titolo di Vicaria del regno. La Terra di Lavoro continuava ad essere avvolta dalle fiamme della rivolta; per le poche città fedeli ai Durazzo se ne contavano a decine favorevoli agli Angiò e tra queste primeggiava Caserta che, in assenza di Francesco ll con l’esercito angioino nel barese, era governata da Sandolo mentre Luigu de Racta era diventato signore di Mignano. La Vicaria al principio dell’estate, per reprimere la rivolta, chiamò in Terra di Lavoro la compagnia di Domenico Ruffaldi da Siena e fece porre l’assedio a Caserta. Da principio Margherita riportò vari successi e non pochi casertani si sottomisero all’autorità regia; anche a Sandolo, tramite Tommaso di Marzano, fu promesso un assegno annuo di cento once d’oro per la sua sottomissione, ma invano, La regina, successivamente, nella speranza di assicurarsi la vittoria definitiva su Caserta prima del ritorno di Francesco ll, aveva chiamato i Terra di Lavoro anche la brigata del tedesco Angelino Chel e quella del salernitano Antonio Manganaro ma la città seppe resistere all’assedio mentre la venuta di tanti mercenari non fece altro che peggiorare le sorti delle città di Terra di Lavoro fedeli ai Durazzo perché, come sempre in questi casi, il pagamento delle truppe prezzolate avveniva a spese proprio delle città amiche che si videro imporre una tassa mensile fissa che veniva esatta dagli stessi beneficiari ai quali non si poteva sfuggire. Perdurando l’assedio i casertani inviarono messaggi al loro conte con l’invito a tornare il più presto possibile per difendere i propri interessi. Al ritorno di Francesco che condusse con sé la compagnia bretone di Bernardo della Sala la lotta entrò nella fase più acuta ed i de Racta si abbandonarono ad eccessi inenarrabili, depredando, saccheggiando, e trucidando i poveri abitanti delle città e terre durazzesche. L’episodio più crudele che si ricorda fu l’impresa di Luigi de Racta contro l’abazzia di Cassino. Dopo aver conquistato Mignano che gli era stata tolta da Domenico da Siena, Luigi nell’agosto si diede a saccheggiare i vicini possedimenti di Montecassino per vendicarsi di quanto la badia aveva fatto in favore della causa di Carlo lll di Durazzo. Montecassino ebbe a patire un danno che ascese a ben duemila once d’oro, senza contare il sangue sparso ed i crudeli massacri che i soldati di Luigi ed i mignanesi compirono solo per soddisfare la propria sete di vendetta. Ciò indignò profondamente la regina Margherita, moglie del Durazzo, che, appena venuta a conoscenza di quello che il della Racta aveva usato fare contro Montecassino, ai primi di settembre bandì un editto nel quale sotto pena di tremila once si citavano Luigi ed i mignanesi a comparire dinanzi alla Curia. Nel novembre Domenico da Siena riuscì a prendere Luigi della Racta e. la regina Margherita, in cambio di duemila e cinquecento ducati, ebbe in sua mano il prezioso prigioniero illudendosi di poter disporre di un’arma invincibile contro la fede angioina del Conte di Caserta ma gli avvenimenti successivi ebbero a disingannarla perché Francesco ll, pur conoscendo i rischi che correva il fratello tenuto in ostaggio, continuò ad essere uno dei più estrenui e temibili oppositori dei Durazzo. Continuando la rivolta nel gennaio 1385 la regina incaricò Bertrando di Sanseverino di recarsi con gente armata in provincia di Terra di Lavoro e Molise con la più ampia facoltà di azione, ma anche quest’ultimo non riuscì a domare i de Racta. Intanto dopo la morte di Luigi d’Angiò, avvenuta nel settembre 1384, si accentuò il conflitto tra il papa Urbano Vl e Carlo di Durazzo che portò nel gennaio 1385 alla scomunica del re da parte del papa romano che, fuggito da Napoli, si era rifuggiato a Nocera. Carlo lll di Durazzo. Pose l’assedio alla città; il papa chiese aiuto a chiunque fosse in grado di darglielo, perfino ai baroni filoangioini che, dietro lauta ricompensa, furono chiamati alla sua difesa. Tra quelli che trovarono conveniente aiutare Urbano Vl. Oltre che per la parte economica anche per il comune interesse di abbattere il Durazzo, troviamo il conte di Caserta e Raimondo Orsini che con 1200 cavalieri,dopo aver posto il campo ad Afragola, si diedero a depredare tutta la Campania Felice tra Napoli, Aversa ed Acerra. Francesco ll successivamente si spostò nei pressi del castello di Nocera alle spalle degli accampamenti del Durazzo. Lo scontro decisivo avvenne nel marzo ed il Conte casertano con i seguaci di Urbano Vl subirono una sonora sconfitta al punto di essere contretti a rinchiudersi anche loro in Nocera da dove, rompendo l’assedio in una notte di tempesta, andarono a rifuggiarsi a Scafati, altra città fedele al papa, nella quale il de Racta rimase assediato finché non riuscì, nei mesi successivi, a tornare a Caserta da dove riprese le azioni di guerriglia contro i durazzeschi. Nell’ottobre del 1385 re Carlo lll di Durazzo partì per ottenere l’investitura a re d’Ungheria, paese nel quale fu assassinato nel febbraio successivo. Alla morte del marito la regina Margherita assunse la reggenza del regno di Sicilia in nome del figlio minore Ladislao. I baroni del partito angioino su invito di Tommaso di Sanseverino si riunirono nell’estate del 1386 ad Ascoli Satriano dove in libera assemblea elessero a rappresentarli sei deputati detti del Buon Stato del Regno che  furono: lo stesso Sanseverino, Ottone di Brunswick, Vinceslao Sanseverino conte di Venosa, Nicolò di Sobrano conte di Ariano, Giovanni di Sanfromondi conte di Cerreto e Francesco ll de Racta conte di Caserta. Tommaso di Sanseverino si autoproclamò viceré per conto di Luigi ll d’Angiò e Ottone di Brunswick ebbe l’incarico di capitano generale delle truppe che, convocate a Montefusco, calarono su Napoli dove, a Giugliano, posero il campo. Il 1° luglio 1387 venne conclusa la tregua tra gli angioini e gli Otto del Buono Stato della Città che reggevano le sorti di Napoli e dopo qualche tempo la regina Margherita ed il piccolo Ladislao furono costretti a rifuggiarsi a Gaeta. Dopo la conquista della città di Napoli il della Racta fu trà gli ambasciatori che si recarono ad Avignone per invitare Luigi ll a venire a prendere possesso del regno di Sicilia di cui l’antipapa Clemente Vll gli aveva dato l’investitura del maggio 1385. Nell’ottobre 1388 Francesco ll de Racta tornò a Napoli al seguito di Luigi di Mangiona (Montjoie), nipote di Clemente Vll, nominato da re Luigi ll viceré e capitano generale del regno. La venuta del Mongioia non piacque né al Sanseverino né al Brunswick che sdegnati per l’ingratitudine di Luigi ll si ritirarono nei loro feudi, l’uno in Calabria e l’altro a Sant’Agata de’Goti. Il nuovo viceré cercò con ogni mezzo di conquistare la fiducia dei due Grandi del regno; al Brunswick fece pervenire perfino l’invito direcarsi a Napoli per trovare un accordo. Il Brunswick , diffidente, non volle recarsi a Napoli ed alla fine i due si accordarono per incontrarsi a Caserta dove in effetti l’incontro avvenne, senza però arrivare ad un accomodamento anzi, appena tornato a Sant’Agata, il Brunswick alzò le bandiere dei Durazzo. Strano destino quello del Brunswick: prima sposo della regina Giovanna e nemico del di lei assassino Carlo lll di Durazzo , poi sostenitore del figlio di questi Ladislao. Il conte Francesco ll de Racta continuò a combattere per gli Angiò: nel 1391 assediò senza successo Salerno in mano ai durazzeschi; nel 1394 fu nominato Gran Connestabile del Regno e come comandante dell’esercito, al fianco di Luigi ll, assalì Aversa nella quale si era chiuso Ladislao di Durazzo; nel 1398 fu tra i firmatari di una tregua con Ladislao. Partito nel febbraio 1399 con re Luigi ll per recarsi a Taranto per reprimervi una rivolta rimase assediato in quel castello e lì il 4 giugno morì. Da Isabella Artus ebbe tre figli: Baldassarre, ANTONELLO e Giacomo. ANTONELLO fu consigliere della regina Giovanna ll; divenne signore della Baronia di Formicola, di Pontelandolfo, Rocca d’Evandro, Roccapipirozzi, Strangolagalli, e Magnano di Teano; sposò MARGHERITA DI MARZANO da cui ebbe due figli: Marco e Caterina.Nel 1436 Antonello passò dalla parte del re Alfonso d’Aragona che gli aveva promesso ricche ricompense quando si mosse alla conquista del regno saputo della morte della regina Giovanna ll. Antonello fu sepolto nella chiesa di Sant’Agostino a Sessa Aurunca, nella stessa tomba fu sepolta la moglie. Giacomo fu camerlengo del re Ladislao e consigliere della regina Giovanna ll; divenne signore di Durazzano; da Caterina della Marra, sua prima moglie, ebbe tre figli: Diego, Alessandro e Marco; dalla seconda moglie Verdella Briglia ne ebbe altri tre: Cola, Carlo e Gorello.
■ DA ANTONELLO DISCENDE LA FAMIGLIAde NATALE SIFOLA GALIANI” Come descritto alla pagina 59 di questa opera ■
[73] Con Francesco ll della Racta terminò il periodo eroico e di maggior spendore della Famiglia casertana. Nel regno di Napoli i baroni, che tendevano a ricavare profitti dai continui disordini e dall’instabilità del governo centrale per crearsi un dominio quasi completamente indipendente dal re, portarono al caos l’Italia meridionale. La più grande aspirazione dei grandi feudatari era, fin dall’epoca delle prime lotte tra gli Angioini ed i Durazzo, quella di bilanciare la potenza degli uni e degli altri facendo s^ che ciascuno di essi mantenesse quanto possedeva senza giungere al dominio sull’intero regno, in tal modo restava a loro, i baroni, la gestione del rimanente. I regnanti, d’altra parte, non avendo ben stabilizzato il potere, avevano scarse possibilità di imporre la loro volontà e di far cessare l’irritante comportamento dei poteri feudatari; inoltre avevano anche pochissime possibilità di controllare questi arroganti Signori dei quali avevano allargato il numero ed accresciuto la forza con la concessione di nuovi feudi. Come se non bastasse, con le finanze del regno esauste e la impellente necessità di pagare le numerose compagnie di ventura necessarie a garantire la stabilità del trono, al sovrano raramente riusciva di sfuggire alle imposizioni ed ai ricatti dei feudatari che, come già detto, si schieravano ora per l’uno ora per l’altro dei contendenti quando ne trovavano la convenienza a farlo. Come si vede il modo di vivere era enormemente cambiato rispetto all’epoca precedente: l’onore e la fedeltà erano virtù ormai in disuso. A questo nuovo sistema di vita che esltava il tornaconto personale non sfuggì il conte di Caserta, Baldassarre de Racta, che era succeduto al padre Francesco ll, morto nel 1399. Nel 1403 si vede Baldassarre rispondere alla chiamata generale per la difesa del regno da parte di Ladislao di Durazzo contro Giacomo ll di Borbone conte della Marca. In seguito con un’accorta politica di compra-vendita di feudi il conte di Caserta si seppe rendere estremamente utile a re Ladislao ed ai suoi successori che, alla perenne ricerca di denaro trovavano comodo avere a portata di mano un fedele feudatario pronto a rimpinguare le loro casse o, all’occorrenza, a cedere un ricco feudo a prezzo magari vantaggioso, salvo poi ripagare il fedele suddito con ulteriori concessioni o incarichi prestigiosi. Tutto ciò permise a Baldassarre de Racta di raggiungere alti gradi nella gerarchia del regno: tra il 1407 ed il 1408 fu Giustiziere della Terra d’Otranto e nel 1410 del Principato Citra. Tra i principali scambi nel commercio dei feudi in cui fu maestro si possono ricordare: nel 1407 vendette la Baronia di Tocco; nel 1410 acquistò dal re il castello di Marciano di Leuca, quello di Corsano presso Alessanom e quello di Valle di Maddaloni; nel 1412, sempre comprandoli da Ladislao, aggiunse ai suoi feudi in Terra dìOtranto la città di Ugento ele terre di Supersano e Torrepaduli. In sintesi, a quel tempo, il Baldassarre de Racta possedeva quasi tutta la parte meridionale del Salento da Castrano a Santa Maria di Leuca. Altra vendita riguardò Supersano e Torrepaduli che furono cedute nel 1414 al fratello Giacomo in cambio della rinuncia alla terza parte dell’eredità dei beni dotali della madre e dei beni del padre, tra i quali c’era il ricavato della vendita di Mignano che Baldassarre aveva effettuato nel 1407. Succeduta a Ladislao la regina Giovanna ll, il Baldassarre de Racta si mostrò all’inizio un suo fedele suddito. Nell’ottobre del 1419 fu tra i dignitari presenti all’incoronazione della regina ma già l’anno successivo passò dalla parte di Luigi lll d’Angiò che lo nominò Giustiziere del Regno concedendogli anche in feudo la città di Sant’Agata de’Goti e le Terre di Frasso, Limatola e Rocca d’Evandro. Nel 1421, tornata a prevalere Giovanna ll , a Baldassarre vennero confiscati i beni che gli furono restituiti nel 1422 dopo la riconciliazione con la regima. Nel settembre 1423 fu tra i testimoni della revoca dell’adozione di Alfonso d’Aragona da parte di Giovanna ll la quale, contemporaneamente, adottò Luigi lll d’Angiò. Nel 1424 con una buona schiera di suoi vassalli il de Racta partecipò alla difesa di Napoli contro gli attacchi di Alfonso d’Aragona. Nel 1425 Luigi lll lo nominò Capitano a vita della città di Seminara. Nel febbraio del 1435, alla morte della regina Giovanna ll che aveva lasciato erde del regno Renato d’Angiò il fratello di Luigi lll morto l’anno precedente, Baldassarre fu tra i sedici dignitari nominati nel Consiglio del Reggimento del Regno. Nell’ aprile successivo Alfonso d’Aragona, che aveva saputo della morte di Giovanna ll, dalla Sicilia si mosse alla conquista del regno e molti baroni lusingati dalla promessa di ricche ricompense si schierarono dalla sua parte, tra questi troviamo ANTONELLO de Racta fratello di Baldassarre. Considerati i tempi per i de Racta avere propri rappresentanti nelle due fazioni avversarie costituiva un’ottima garanzia per la sopravvivenza della casata. Ai primi del 1436 la regina Isabella, reggente per conto di Renato d’Angiò prigioniero in Francia, nominò Baldassarre Regio Consigliere e gran Camerario del Regno, gli donò la città di Telese e gli vendette vari feudi tra i quali Sant’Arcangelo tra aversa e Caivano, Eboli e Campagna. Nel novembre dello stesso anno, visto che sembrava che Alfonso d’Aragona stesse vincendo la guerra, Baldassarre chiese licenza alla regina con la scusa di doversi recare per alcuni giorni nei suoi feudi di Sant’Agata, invece andò ad offrire la sua fedeltà ad Alfonso che si trovava a Capua. Nel 1437 la regina Isabella che temeva di soccombere nella lotta contro l’Aragona chiese aiuto al papa Eugenio lV che in suo soccorso inviò un forte esercito sotto la guida del Patriarca di Alessandria il cardinale Giovanni Vitelleschi il quale nell’aprile entrò nel regno ed in poco tempo giunse a Napoli dove fu ricevuto come un liberatore. Da Napoli il Vitelleschi si portò ad assediare Montesarchio passando prima per Caserta per riportare all’obbedienza di re Renato il conte Baldassarre. Successivamente nel 1438, il de Racta tornò a servire l’Aragona per poi giurare di nuovo fedeltà a Renato ed infine tornare nuovamente dalla parte di Alfonso d’Aragona. Come si può notare il conte di Caserta non fu un esempio di coerenza tanto da indurre il duca di Monteleone ad osservare nei suoi diari; “…e così in meno di due anni cambiò cinque volte bandiere. Et è da meravigliare, come regnassero tali Huomini, che non prezzavano né fede né giuramento”, Ovviamente ad ogni passaggio di campo il de Racta subiva confischebda parte di chi lasciava ed otteneva benefici da chi andava a servire. Nel complesso si può affermare a ragion veduta che ne ricavò ottimi guadagni. Nell’estate del 1438 Baldassarre, ormai di parte aragonese, corse il rischio di essere preso prigioniero da Francesco di Pontedera che lo inseguì da Maddaloni fin quasi ad Arienzo dove re Alfonso era accampato. E’ probabili che Baldassarre de Racta sia morto nel 1439. Da M aria, la figlia di Andrea di Capua e dell’ex regina Costanza di Chiaramonte che era stata ripudiata da re Ladislavo, ebbe due figli: Giovanni ed Isabella.
[74] Era ancora minore quando ereditò la contea di Caserta ed il re Ferdinando d’Aragona nominò suo tutore il vescovo di Benevento Giacomo della Racta, il figlio di Antonello fratello del nonno Baldassarre. Nella lotta tra re Ferdinando e Giovanni D’Angiò, figlio du Renato re spodestato dagli Aragona, Giacomo della Racta ed il pupillo si schierarono con l’Angiò che sembrava avere la meglio ma quando nel novembre 1460 Ferdinando entrò nelle terre del conte di Caserta sia Francesco lll che la madre Anna Orsini furono costretti alla resa ed a prestare il ligio omaggio per poter conservare i feudi. Nulla di notevole si conosce della sua vita che anch’egli trascorse la maggior parte a corte e nel feudo di Sant’Agata de Goti nel quale morì nel 1479 dopo aver dettato le sue ultime volontà. Nel testamento, stilato nel castello di Sant’Agata dal notaio Nardo Parrillo di Roccaromana alla presenza tra gli altri testimoni del vescovo di Caserta Giovanni de Leoni Galluccio, Francesco lll de Racta dispose che erede universale dei suoi beni fosse il figlio o la figlia nascituri dalla moglie Francesca de Guevara. Tra le cause testamentarie Francesco stabilì che se il nascituro fosse nato morto subito dopo la nascita, cosa che avvenne, tutti i suoi beni sarebbero passati in eredità alle sorelle Caterina e Diana. Nello stesso testamento il conte legò alla chiesa maggiore del vescovado di Caserta i casali di Puccianiello e di Pozzo Vetere. Si pose così fine ad una lunghissima vertenza tra i de Racta ed i vescovi di Caserta che era iniziata oltre 150 anni prima. Francesco ebbe anche una figlia naturale di nome Caterina che sposò Francesco Gambacorta dal quale ebbe una figlia, Anna, che erediterà nel 1511 la contea di Caserta.
[75] Morto senza eredi Francesco lll de Racta, nella titolarità della contea di Caserta subentrò la sorella Caterina che sposò in prime nozze Cesare figlio naturale del re Ferdinando l d’Aragona e poi, dopo la morte di Cesare avvenuta nel 1504, sposò nel 1509 Andrea Matteo Acquaviva duca dìAtri. Caterina morì nel 1511 senza lasciare eredi diretti e la contea, come previsto nel contratto matrimoniale tra lei e l’Acquaviva passò in eredità ad Anna Gambacorta che aveva sposato Giulio Antonio Acquaviva, conte di Conversano, nipote di Andrea Matteo.
[76] Berardo Galiani ed Agnese ebbero altra figlia Maria Gaetana,Camilla nata in Napoli alle ore 12,30 nell’abitazione a costo a Sant’Anna di Palazzo (libro dei battesimi a fol. 152 novembre 1753) sposò in prime nozze il marchese Andrea di Sarno, patrizio beneventano, morto il 4 ottobre 1785 ed in seconde nozze Giulio Venuti il 5 giugno 1788 a San…….., morì in Francia ? il 24 gennaio 1804. La terza Rosa, fu marchesa di Sassinoro
[77] Di don Matteo e di donna Anna Maria CIABURRI di Domenico, nata in Lucera nel 1692.
[78] Un quissimile di procuratore del Re.
[79] Opera pubblicata la prima volta in Napoli dalla stamperia Simoniana nel 1758 e dedicata a Carlo III di Borbone; una copia è conservata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, ristampata in Napoli da Terres nel 1790; poi in 3 edizione .... di Alessandro Dario, Milano 1832; ed infine una quarta edizione, stamperia Antonelli, Venezia 1854.
[80] Il diploma è depositato presso l'Archivio Centrale dello Stato Italiano di Roma‑Eur, ufficio Consulta Araldica fasc. 6303: intestato "SIFOLA‑GALIANI" ossia "de NATALE SIFOLA GALIANI"
[81] Regio Consigliere della Camera di Santa Chiara.
[82] Ex legibus.
[83] Archivio di Stato di Napoli fondo, Regia Camera della Sommaria, refute dei Regi Quinternioni Vol. 234 pag. 194‑196v‑197v; altro documento Regia Camera della Sommaria, Cedolari vol. II pag.482r.
[84] L’ 11 marzo 1774. Fu sepolto nella chiesa della Vergine Madre, adiacente al collegio, dove una lapide, con inciso lo stemma della propria famiglia, lo ricorda ancora oggi 1997.
[85] Fausto Nicolini "La famiglia dell'Abate Ferdinando Galiani”, Firenze 1920 Regia deputazione Toscana di Storia Patria. Il Nicolini ha consultato i manoscritti di Celestino, Berardo e Ferdinando Galiani posseduti dalla Società Napoletana di Storia Patria e parecchie carte di famiglia custodite a Montoro dal Rev.do Giovanni Galiani e dal giornalista Aurelio Galiani, parente di quest’ultimo. Altre in: Società Napoletana di Storia Patria, Vol. seg. XXXI, A, 8, 7, f. 209 sgg. La lettera che è in copia dell'avv. Paolo Azzariti, fu già veduta e citata da Lorenzo Giustiniani in una sua biografia di Celestino GALIANI, inserita in una raccolta senza titolo di vite di Uomini Illustri del Regno di Napoli, fasc.VIII maggio 1798.
[86] Scienza Nuova,ed Nicolini, Bari, Laterza. 1911 - 16, pp. 1163 sgg.
[87] Cfr. Ferdinando GALIANI, Orazione citata in una assemblea del capo dell'anno MDCCLIX in occasione di tirare a sorte i cicisbei e le cicisbee, S.1. n. a., Napoli 1789 circa, pp. 9 seg.)
[88] Cfr. passim. le inedite lettere scritte da Bernardo GALIANI da Sant'Agata di Sessa, nel 1760‑61, a Domenico Amato, Biblioteca Nazionale di Napoli, busta segn. XIII, B, 37.
[89] Soc. Nap. di Storia Patria, XXX, C, 7, f, 208.
[90] Soc. Nap. Di Storia Patria XXXI, Aff. 197 segg.
[91] Alludendo alla pretesa parentela coi Galléan, l'abate Ferdinando scriveva al fratello Berardo da Parigi il 1 settembre 1767: «È stata qui una principessa di Galléan, moglie del nostro parente maggiordomo maggiore dell'elettor palatino. Era bella, ma non si è curata di stringere con me la parentela» Soc.Nap. di Storia Patria XXXI. B, 17, f.269.
[92] E forse il suo antico, ma non mai appagato desiderio di entrare nell'Ordine di Malta: Cfr. la sua lettera al Ministro Tanucci del 27 marzo 1769 in B.Tanucci, lettera a Ferdinando GALIANI ediz. Nicolini, Bari, Laterza, 1914, 11, 339.
[93] Soc. Nap. di Storia Patria XXXI, A, 13, inc.3.
[94] Rio Secco.
[95] Su Montoro fino al 1860 in provincia di Salerno, e poi in quella di Avellino, vedere: Giustiniani, Dizionario Geografico; Antonio Colombo, Memorie di Montoro in Principato Ultra, Napoli, GAMBELLA, 1883; Antonio FLODIOLA, Notizie di Montoro, Matera, 1906.
[96] Arch. Not. Avel. Prot. Not. Nicola Moavero, n'782, sala XIII fol.100.
[97] Per le varie forme del cognome Cfr. passim. I fuochi ed i catasti.
[98] Dall'atto di battesimo Nicola.
[99] Colombo op. cit. Soc. Napol. di Storia Patria, XXXI, A, 8, f.201 a.
[100] Colombo, in archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, vol. CVI, f. 24 b.
[101] Grande Archivio di Stato di Napoli, fuochi di Montoro, fuochi prima numerazione Vol. 639, frammento di numerazione di anno incerto fol. 389 n'574‑76.
[102] Grande Archivio di Stato di Napoli, fuochi di Montoro, fuochi prima numerazione Vol.639, frammento di numerazione di anno incerto, f. 389 n° 574-76.
[103] Uno spoglio relativo ai Galiani in fondo Giovanni Galiani.
[104] Un riassunto in fondo Giovanni Galiani.
[105] Cfr. Il citato spoglio dei libri parrocchiali ed il riassunto del citato testamento di Annibale, in fondo Giovanni Galiani di Monitoro.
[106] Uno spoglio relativo ai Galiani in fondo Giovanni Galiani.
[107] Un riassunto in fondo Giovanni Galiani.
[108] Cfr. Il citato spoglio dei libri parrocchiali ed il riassunto del citato testamento di Annibale, in fondo Giovanni Galiani di Monitoro.
[109] Fuochi di Montoro numerazione anno 1658 loc.cit.; fuochi di Foggia secondi: fuochi seconda numerazione, fascio 143. Numerazione d'anno incerto, n°779; altra del tardo seicento, n°713.
[110] Fuochi di Montoro e fuochi di Foggia secondi, loc. cit.; Fuochi di Foggia primi, numerazione 1630, n°542; Soc. Nap. di Storia Patria, XXX, c, 7, f. 54; XXXI, A, 8, ff. 203a, 205b; Celestino Galiani, autobiografia cit., f. 1a; Lorenzo Giustiniani, memorie istoriche degli scrittori legale del Regno di Napoli, Napoli 1787, I, 261; Ferdinando Villani, Nuova Arpi, Cenni istoricibiografici riguardanti la città di Foggia, Salerno, Migliorini, 1876, p. 191.
[111] Soc.Nap. di Storia Patria XXX, c, 7, f.54; XXXI, a, 8, ff. 258 – 259 ‑ 261; nonché un reale       dispaccio del 27 dicembre 1740 in fondo Giovanni Galiani.
[112] Che prenderà il nome di Celestino nel farsi monaco dell'ordine di Celestino V.
[113] Presso a poco di un odierno giudice di tribunale.
[114] Un quissimile di procuratore del Re.
[115] Presidente di sezione di tribunale.
[116] Il massimo tribunale del Regno. “Archivio Storico Italiano” anno LXXVI (1918) Vol. II, pp.136-157.
[117] Detto di Palazzo perché il titolo si sarebbe dovuto intestare su feudo nobile, qualora si fosse acquistato.
[118] Cfr. 8 lettere del Sant'Angelo al GALIANI, dicembre 1734 - maggio 1736, Soc. Nap. di Storia Patria, XXX, c, 7, f. 55 quater.
[119] I documenti relativi alla sua carriera sono sparsi in Soc. Nap. di Storia Patria XXXI, A, 8 ff, 209 – 254 segg; XXX, C, 7, f,. 55bis, ter, undecies e duodeces. E in fondo Giovanni Galiani.
[120] Ademollo, op.cit., pag.655.
[121] Ademollo, op. cit., p. 655.
[122] Che Giacomo Casanova, nelle sue Memorie, descrive come angelo di bontà)
[123] Su Berardo GALIANI Cfr.Ferdinando GALIANI, Cenni biografici di G.B., Biblioteca Naz. di Napoli, busta segnata XIII, B, 66; Lo stesso, CORRESPONDANCE, ed. Perey‑Maugras, II, pp. 304 sgg.; Diodati, Vita dell'ab. Ferdinando GALIANI, Napoli, Orsino, 1788, passim; CASTALDI, Storia dell'Accademia Ercolanense, Napoli 1840, ad nom.; SCHIPA, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, Napoli 1905, cap. ult..; CROCE, in Rassegna critica della letteratura italiana, VII ( 1902 ), p. 10, nota, e in Problemi di etica, Bari, Laterza, 1909, pp.390‑92. Si veda inoltre il citato carteggio di Berardo GALIANI con Amato, e l'altro carteggio del ministro Tanucci con Ferdinando GALIANI; nonché Soc.Nap. di Storia Patria, XXXI, A, 8, passim, specialmente ff. 100 sgg. e 263, dei manoscritti di Berardo, parte è alla Soc. Nap. di Storia Patria, parte alla Biblioteca Naz. di Napoli. Il giorno 22 agosto 2010, io Ferdinando de Natale Sifola Galiani con mia moglie Lucia Quilici ci siamo recati presso la curia arcivescovile di Teramo per poter avere copia della fede di battesimo di Berardo. Purtroppo il fascicolo dei battezzati dall’anno 1711 al 1728 sembrerebbe andato perduto.
[124] Copia della fede di battesimo in Soc. Nap. di Storia Patria, XXX, A, 8, f.1.