sabato 12 luglio 2014

4° Prima parte - IL REGIO CASALE DI CASAPULLA E LA FAMIGLIA "de Natale Sifola Galiani" LA PIU' ANTICA DI DETTO CASALE



dott. Berardo GALIANI
Marchese

Autore di

questa opera:
Tommaso Carrafiello
Estratto dalI‘Archivio Storico per le Province Napoletane
CXIII dell’intera collezione
SOCIETA NAPOLETANA DI STORIA PATRIA NAPOLI 1995[1] [2]





Il primo grande biografo moderno della famiglia Partenopea-Foggiana-Montorese “GALIANI”, e tutt’ora uno dei fondamentali, è stato certamente Fausto Nicolini, il quale, senza voler per questo fare alcun torto alle sue indubbie qualità di studioso, si trovava in una posizione di netto privilegio nei confronti di ogni altro ricercatore per il fatto stesso di essere il possessore pressoché assoluto del vasto archivio galianeo. Ne facevano parte non solo un numero cospicuo di scritti autografi dovuti alla penna di Celestino, Ferdinando e Berardo GALIANI, ma anche gran parte dei loro carteggi ed una raccolta di documenti fra i più disparati (fatture, fedi di battesimo, promemoria, ed altro ancora) che nel loro complesso costituiscono il fondo di maggiore importanza per ricostruire le vicende storiche della illustre famiglia meridionale originaria di Montoro, una località oggi in provincia di Avellino.
Per questo motivo la biografia successiva ha risentito in modo pesante della impostazione dovuta al Nicolini. Egli da un lato non poteva che allinearsi con la già grande considerazione per l’opera teorica dell’abate Ferdinando, mentre dall’altro esaltava la figura di monsignor Celestino Cappellano maggiore e di conseguenza Prefetto degli Studi per i suoi meriti non solo in campo diplomatico (si ricordino le trattative per il concordato tra il Vaticano e il Regno delle Due Sicilie che egli portò a compimento nel 1741)[3], ma anche e soprattutto per l’attitudine ad essere un valente educatore. Il biografo dei GALIANI vedeva le radici di questo interesse da parte di Celestino per gli studi, ed in particolare per la formazione dei giovani, negli anni in cui questi aveva insegnato a Roma prima nel convento di Sant’Eusebio e successivamente alla Sapienza, per poi continuare in tale indirizzo con la fondazione a Napoli di un’Accademia delle Scienze[4] che s’ispirava al modello dell’Accadèmie des Sciences e della Royal Society[5], un’iniziativa quindi che metteva la città meridionale nella scia delle altre grandi capitali europee come Parigi e Londra; Infine l’opera, dello zio paterno di Berardo, vedeva il suo pieno coronamento nella riforma degli studi universitari, che egli perseguì nel corso di tutto il suo mandato di Prefetto degli studi, ottenendo un notevole risultato con l’approvazione del programma di riorganizzazione[6] avvenuta nel 1735. In definitiva, però, nello schema di lettura tracciato da Nicolini, la figura di Berardo rimaneva schiacciata tra le poderose moli dei due suoi illustri consanguinei, così da meritare soltanto episodici riferimenti, se non addirittura l’accusa di essere, a differenza del suo più scaltro fratello, inettissimo alla vita pratica[7]. Quest’ultima affermazione nasceva dalla riflessione su alcune scelte ed altri avvenimenti della vita del Nostro, i quali, oltre a procurargli gravi e costanti difficoltà economiche, lo videro in serio imbarazzo per le conseguenze della sua eccessiva fiducia, vale a dire ingenuità nei confronti delle persone con cui veniva a stringere rapporti sia di lavoro che di carattere più personale, quali il matrimonio d’amore che fu fonte per lui d’infiniti debiti[8], l’abbandono della carriera ecclesiastica che comportava la perdita dei relativi usufrutti, le eccessive confidenze fatte a Winckelmann sugli sviluppi degli scavi archeologici di Ercolano, l’avventatezza di affidare nelle mani di Francesco Daniele la sua risposta manoscritta alle denunce dell’archeologo di Dresda, per finire con la leggerezza nel rendere noti i disegni della macchina per l’essiccazione del grano che ne causò il plagio in Francia. Comunque, nonostante tali disavventure personali, la fama della erudizione di Berardo, che derivava soprattutto dalla pubblicazione della eccellente versione tradotta e commentata del De Architectura di Vitruvio[9] nel 1758 aveva di gran lunga travalicato i confini del Regno di Napoli, giungendo a Firenze, ove fu nominato Accademico della Crusca (22 settembre 1759), ed in seguito anche a Vicenza, città dalla quale fu richiesto il suo parere su una disputa che infiammava gli animi degli accademici olimpici, e che riguardava alcuni aspetti filologici dell’omonimo Teatro progettato da Andrea Palladio (1764). Stranamente, però, la grande stima per il lavoro di GALIANI sul testo vitruviano, sebbene fosse giunta fino ai nostri giorni, si scontrava con la quasi totale assenza di altri riferimenti biobibliografici, in parte certamente imputabili alla mancata pubblicazione di alcuni fra suoi lavori più importanti, come ad esempio il trattato di estetica intitolato Del Bello[10]; la dispersa Dissertazione sulla musica ed, infine, le mai ultimate Lezioni di Architettura. Ad aggravare le cose si è poi aggiunta la soverchiante autorità dei suoi più celebri consanguinei, nel senso che alcuni fra i manoscritti di Berardo[11] erano stati erroneamente attribuiti ora a Ferdinando, ora a Celestino. A due di essi[12] è stata qui dedicata un’ampia trattazione nella seconda parte; nei primi paragrafi, invece, si è tentato di delineare[13] le vicende biografiche del loro autore e, più in particolare, i suoi studi antiquarì, con la speranza di dare in questo modo un contributo alla conoscenza della figura dell’insigne personaggio che fu non solo commentatore di Vitruvio, ma anche grande erudito e studioso d’architettura.

Le radici culturali

Nella vita di ogni uomo vi sono singoli avvenimenti che possono cambiare radicalmente il corso avenire, e cogliere al volo le rare occasioni che ci vengono offerte dalla sorte è, probabilmente, il passaggio decisivo per cominciare a fare breccia nell’inesorabile anonimato nel quale generalmente ci relega lo scorrere del tempo. Il momento cruciale nella vita di Berardo GALIANI fu certamente il viaggio con il quale nel gennaio dei 1732, a soli 7 anni, giunse a Napoli insieme con lo zio paterno, monsignor Celestino GALIANI[14] che si trasferiva definitivamente nella capitale per insediarsi nella carica di Cappellano Maggiore[15]. La famiglia del futuro commentatore di Vitruvio non era nuova ai cambiamenti di residenza: suo padre Matteo[16] per portare avanti la carriera giudiziaria fu costretto a trasferirsi più di una volta, passando da Teramo, ove il 19 dicembre 1724 nacque Berardo. Lo stesso Matteo poi, pur essendo nato a Foggia, era originario di quella Montoro che Domenico GALIANI, padre suo e di monsignor Celestino, aveva dovuto lasciare (ancora una volta) per motivi di lavoro[17]. Il Nostro era arrivato a Napoli nel momento in cui la città si apprestava a vivere un grande fermento culturale e politico, in quanto la riconquistata indipendenza dall’Austria stava creando i presupposti per consolidare lo sviluppo della nascente cultura illuministica. Come la capitale del Regno cresceva e progrediva sotto il governo del suo nuovo Sovrano così il giovane Berardo approfondiva la propria formazione seguendo la guida energica ma valente del colto zio monsignore che oltre a conoscere le opere di Cartesio, Locke e Leibnitz era un tenace sostenitore delle idee di Newton, ma la sua posizione di ecclesiastico e di universitario pontificio lo aveva obbligato alla prudenza, e gran parte della sua opera di diffusore di Newton l’aveva svolta soltanto verbalmente e per via epistolare[18]. L’entrata a Napoli di Carlo di Borbone (1734) affrancò il regno delle Due Sicilie da una posizione periferica e subalterna in cui era stato relegato negli anni della dominazione austriaca[19] e segnò il punto d’arrivo di un processo di sviluppo culturale[20] che da quel momento in poi costituirà il riflesso della politica illuminata e riformatrice sviluppata dal governo borbonico, e che vedrà proprio Celestino GALIANI a mediare le istanze del mondo intellettuale con i limiti dell’amministrazione, spesso soffocata dalle difficoltà economiche[21]. Per una singolare simmetria allora, mentre il Sovrano attuava la sua politica antifeudale ed anticuriale[22], parallelamente monsignor GALIANI perseguiva la documentazione della natura fisica, geografica economica e sociale del Meridione, con l’intento dichiarato esplicitamente di non farsi deviare da alcuna preoccupazione teologica o da altri problemi di ordine metafisico e filosofico[23]. Ciò avveniva nell’ambito dell’Accademia delle Scienze, fondata da Celestino GALIANI insieme con il toscano Bartolomeo Intieri[24] ed il medico Nicola Cirillo[25], membro dell’Accademia delle Scienze di Londra, ma aveva inevitabili riflessi anche sulla vita dell’Università napoletana, per la quale egli, in qualità di Prefetto degli Studi, presentò due poderosi programmi di una riforma, che fu poi avviata nel 1735 grazie soprattutto alla sua ferma determinazione[26]. Ecco quindi in quale clima di fervore intellettuale si trovò a maturare Berardo, al quale nel 1735 si era aggiunto il fratello Ferdinando[27], più giovane di quattro anni, specialmente quando monsignor Celestino, tornato a Napoli dopo l’approvazione del Concordato tra il Vaticano e il Regno delle Due Sicilie (1741)[28], gli concesse finalmente di accedere in quel salone ove si radunavano i grandi protagonisti della cultura partenopea, e che per molti anni fu il più importante salotto letterario napoletano. Lungo sarebbe menzionare opportunamente i tanti uomini dotti[29] che frequentavano la dimora galianea, e ci asterremmo dal farlo se ciò non fosse imposto dalla costatazione che alcuni di essi furono anche maestri dei fratelli GALIANI, come ricorda Giuseppe Castaldi nei brevi accenni che costituiscono l’unica, per quanto concisa, biografia del Nostro: «Giovan Battista Vico, Alessio Simmaco Mazzocchi, Niccola Capasso, Marcello Cusano, Agostino Ariani e Francesco Serao erano frequentemente di tal compagnia, de’quali i primi due diressero i GALIANI nello studio delle lingue dotte, e dell’eloquenza, il Capasso nella poesia, il Cusano insegnò loro il diritto, l’Ariani le matematiche, ed il Serao le scienze fisiche»[30]. Fu quindi Marcello Cusano [31] a istruire Berardo in diritto civile e canonico ed essendo questi intenzionato a seguire le orme di suo padre, a mio credere doveva ricevere un forte stimolo in tale direzione dalla presenza in casa di Celestino del grande giurista Niccolò Fraggianni[32], tra i più assidui frequentatori di quel circolo culturale[33], in memoria del quale proporrà (diversi anni dopo) l’erezione di un grandioso monumento a Barletta, sua città natale, dando ampia descrizione delle decorazioni allegoriche che, secondo il suo proggetto, dovevano concorrere a celebrarne l’operato[34]. Ma certamente tra le tante eminenti personalità che frequentavano la dimora galianea a Sant’Anna di Palazzo, alcune in particolare dovettero attrarre l’attenzione del giovane studente: si trattava della cerchia degli eruditi antiquarì che, insieme al Mazzocchi[35], annoverava Giacomo Martorelli (autore della eruditissima De regia theca calamaria) e l’anziano Matteo Egizio, i quali, a quel tempo, stavano di certo discorrendo sui primi ritrovamenti ercolanensi; non sarebbe infatti un azzardo eccessivo ritenere che la frequentazione di tali eccellenti studiosi abbia avuto il suo peso nello stimolare quell’interesse per l’archeologia e le belle arti, in particolare per l’Architettura, che il Nostro ebbe modo di dimostrare fin dalla giovane età[36]. Negli anni che avevano preceduto questa fase così determinante della sua vita, l’illustre commentatore di Vitruvio aveva ricevuto una severa istruzione prima nella casa dello zio Monsignore[37], ed in seguito, quando questi dovette recarsi a Roma per trattare il noto Concordato, i due fratelli andavano a vivere e studiare temporaneamente nel convento di San Pietro a Maiella, che era retto proprio da monaci celestini[38]. Durante i mesi in cui Celestino era lontano da Napoli, l’istruzione dei suoi nipoti fu affidata a don Celestino Orlandi[39], ad un non meglio precisato Antonio Morlando, ed al più noto padre Appiano Buonafede[40]. Già da alcuni anni comunque , Berardo si era avviato alla vita religiosa, avendo ricevuto gli ordini minori il 24 dicembre del 1737[41], ed in seguito di ciò il 17 marzo dell’anno successivo gli fu conferito «il beneficio di Santa Caterina de Celanis [   ] con breve pontificio»[42]; egli però usufruì di questo diritto solo per poco tempo, dal momento che nel 1745 decise di intraprendere la carriera giudiziaria e quindi fu costretto a cedere tale privilegio al fratello Ferdinando[43]. Fra le antiche carte dell’Università di Napoli, Luigi Settembrini ha avuto l’opportunità di rinvenire il giuramento che il Nostro, come era obbligo di tutti i laureandi partenopei, dovette firmare per dichiarare le proprie generalità e la indispensabile illibatezza sotto il profilo penale[44], essendo sul punto di diventare dottore in utroque, vale a dir in diritto sia civile che ecclesiastico; il documento risale all’anno 1744, ed è l’unico riferimento certo per collocare cronologicamente l’addottoramento di Berardo, in quanto anche nelle note stese dal fratello Ferdinando[45] l’anno in cui egli si laureò non è riferito in modo esatto[46]. Questa stessa data , quindi, segna il momento in cui lo studioso d’architettura passò al di la della conradiana linea d’ombra, la demarcazione tra giovinezza ed età adulta che ogni uomo è destinato prima o poi a varcare. È bene sottolineare ad onor del vero il fatto che se Celestino GALIANI fu senza ombra di dubbio e secondo il giudizio dello stesso Fausto: Nicolini[47] un grande educatore in senso assoluto, certamente lo è stato in misura ancora maggiore per i figli del fratello Matteo, che egli amava come fossero suoi[48], ed è innegabile, vista la loro opera complessiva[49], che l’istruzione dei due nipoti sia stata, in tale ambito, il suo personale capolavoro.

L’esordio dei fratelli GALIANI

Dal 1745 e fino al 1750 molti «eruditi giovinetti» napoletani si riunivano periodicamente per dedicarsi allo studio della giurisprudenza e delle «umane lettere» in quella che fu denominata Accademia degli Emuli, fondata nella casa di Girolamo Pandolfelli, e poi trasferita in quella di Niccolò Centomani[50]. Divenuto membro di questo circolo culturale, Berardo GALIANI ricevette l’incarico di comporre un’Orazione in lode di Maria Vergine, protettrice dell’Accademia, e di declamarla nel corso di una loro assemblea. Il destino però, volle che nei giorni immediatamente precedenti alla data convenuta egli dovesse recarsi necessariamente a Chieti, per sbrigare alcune faccende familiari, ed allora fu costretto a pregare suo fratello, che come lui era iscritto a quel consesso, di sostituirlo in questo importante compito. Malgrado Ferdinando si fosse impegnato a fondo nello stendere il componimento, gli fu impedito di leggerlo in quanto il presidente dell’Accademia, Giannantonio Sergio, fece notare che egli era troppo giovane per poter essere ascoltato in quel contesto, e lesse un proprio discorso in sostituzione della prevista orazione. Ferito nell’amor proprio, e deluso, l’intraprendente giovinetto si vendicò dando alle stampe un piccolo volume di tono satirico intitolato: Componimenti in morte del boia della Vicaria Domenico Iannaccone[51], una sorta di parodia con la quale mise in ridicolo l’Accademia stessa, imitando lo stile retorico dei suoi più prestigiosi membri [52] e così fu grazie a Berardo che il futuro grande illuminista cominciò a mettersi in evidenza negli ambienti culturali, dando un saggio di quella gaia esuberanza che lo accompagnerà tutta la vita, così lontana dal pedante sussiego, alternato ad un eccessivo sentimentalismo, che Fausto Nicolini invece attribuisce a Berardo[53]. E probabilmente fu proprio a causa di tale sentimentalismo che il primogenito dei fratelli GALIANI decise di prendere in moglie una ragazza che pur essendo «un’angelo di bonta», secondo l’impressione avutane da Giacomo Casanova[54], in effetti proveniva da una famiglia non certo benestante[55], come avrebbe invece preferito monsignor Celestino che, si preoccupava per il futuro dei suoi nipoti anche sotto il profilo economico. Il matrimonio con Agnese Mercadante[56], infatti, peggiorò la già precaria situazione finanziaria di Berardo, costringendolo più di una volta a chiedere l’aiuto di quello che era ormai diventato un secondo padre[57] (Nel Catasto Onciario del 1751 conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli la situazione del nucleo familiare del marchese Berardo Galiani è la seguente: all’epoca della dichiarazione Berardo aveva 27 anni, corrispondente alla nascita del 1724, si professa napoletano, con lui vive la moglie Agnese Mercadante di anni 18, appartenente ad una nobile e cospicua famiglia sessana, la figlia Marianna (Anna Maria) di mesi 4, il padre di Agnese, Leone Mercadante di anni 48 e la moglie di questo Ippolita Gattola di anni 50. Nel nucleo familiare sono compresi i servitori Francesco Vitale di anni 50, Salvatore Esposito di anni 21, Girolama Asciolla di anni 30 e la nutrice Rosa Caracci di anni 30. La famiglia vive nella casa di sua proprità sita in Sessa al vicolo detto della Catena, confinante con Beatrice Pascali e li beni del Nicola Passaretta. Nella famiglia di Leone Mercadante sono comprese anche Maria Maddalena sorella di Leone, monaca in S.Germano di Sessa e Vincenza e Teresa figlie di Leone monache a Teano nel convento di S.Maria de Foris. Un’altra figlia di Leone Mercadante di nome Maria Giuseppa di anni 24 nello stesso Catasto è sposa di Saverio Zattera figlio del marchese Ottavio di anni 25 e dal matrimonio è già nata Girolama di anni 3). Quando poi, nel 1753, la morte lo privò anche dell’appoggio di quest’ultimo, le difficoltà economiche crebbero a tal punto da impedirgli sinanche di ritirare, per molto tempo, la certificazione del titolo di Marchese[58], la cui consegna era subbordinata al pagamento degli oneri di successione, avendolo ereditato dal padre Matteo, che era venuto a mancare nel 1748. Comunque, malgrado tali spiacevoli circostanze[59], che nel loro complesso pesarono notevolmente sulle sorti di Berardo GALIANI[60], negli anni cinquanta del secolo dei lumì egli diede un grande impulso a quegli studi sull’architettura in generale, e sul testo vitruviano in particolare, che lo avrebbero reso noto e stimato sino ai nostri giorni; ed anche Ferdinando aveva la sua parte di merito nello stimolare gli studi del fratello, mettendolo al corrente delle novità che il mercato letterario offriva in quelle città che aveva modo di visitare nel corso dei suoi molti viaggi, come si evince, ad esempio, da una lettera scritta da Venezia, ove propone a Berardo l’acquisto di alcune incisioni: «Dite a Berardo che qui si vendono i 52 disegni di prospettive del Bibiena per 56 carlini napoletani. Se gli vuole me lo avvisi»[61]. L’interesse per i disegni non deve sorprendere, in quanto Berardo, pur coltivando gli studi filologici, si dilettava egli stesso nell’arte figurativa con risultati niente affatto scadenti, e le tavole allegate alla sua versione del De Architectura ne sono un chiaro esempio. Oltre a queste è nota una incisione che rappresenta l’eruzione del Vesuvio del 1739 (di sapore più descrittivo e documentario che pittoresco)[62] e soprattutto i disegni tecnico-costruttivi di una macchina per essiccare il grano, trattamento che serviva a preservarlo dal deterioramento. Inventore della cosiddetta stufà per il grano, che veniva usata in varie parti del Regno sin dal 1731[63], era stato il più volte nominato Bartolomeo Intieri nel 1726[64], ma essendo il toscano già vecchio, e non molto abile nell’arte letteraria incaricò Ferdinando GALIANI di scrivere un trattatello che ne descrivesse l’uso[65], ed infatti questi nel 1754 diede alle stampe il libro Della perfetta conservazione del grano, indicandone come autore lo stesso Intieri, e giovandosi dell’aiuto di Berardo che ne disegnò tutte le tavole (sette tecniche ed una artistica). Berardo però, un anno prima che lo scritto del fratello vedesse la luce, aveva ingenuamente inviato quegli stessi disegni all’agronomo francese Henry-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782), ed il transalpino, che non era affatto nuovo a simili episodi di plagio[66], si affrettò a riprodurli ed a pubblicare un Traité de la conservation del grains (Paris 1753), nel quale si spacciava come inventore della macchina[67]. Non si trattò, comunque, dell’unico episodio in cui venne a galla il carattere poco battagliero di Berardo, tanto meticoloso negli studi quanto malaccorto nelle relazioni sociali, ma, nonostante tutto, i tempi erano ormai maturi perché egli cominciasse a raccogliere i frutti di tutto il suo impegno, cosa che avvenne con la pubblicazione, nel 1758, del De Architettura di Vitruvio tradotta e commentata.
( La situazione economica e finanziaria del marchese Berardo Galiani nel 1763 è la seguente da come risulta per quanto riportato nel Catasto Onciario di Sessa conservato presso il Comune della stessa Sessa: “Una casa di più membri dentro di questa città di Sessa nel luogo detto le Crocelle affittata per annui ducati 24, de quali dedotto del quarto resta ducati 18 per once 60. Esige per l’affitto della casa palaziata a S.Maria a Castellone cioè del quarto superiore e delle due stanze terranee con stalle disotto la suddetta casa nel luogo detto S.Maria a Castellone annui ducati 48 che dedotto del quarto per gli accomodi resta ducati 36 per once 120 più un centimolo atto a macinare olive al di sotto alla casa detta alle Crocelle di rendita dedotte le spese annui carlini 30 per once 10, più una masseria di moggia 40 nel luogo detto S.Agata confinante con li beni di Nicola di Paolo, strada regia e beni del seminario di rendita annui ducati 60 per once 200; più altra masseria con edificio di casa di moggia 65 nel luogo detto a Fiello di rendita di annui ducati 90 per once 300; più altra masseria con casa palaziata nel luogo detto a S.Agata confinante con altri beni di don Marcantonio di Transo di moggia 8 e della rendita di annui ducati 26 per once 86.20; più un territorio arbustato di moggia 7 a Capo di pesce confinante con altri beni del marchese Galiani e via pubblica ( in una nota posteriore la stessa partita è intestata al seminario) di rendita di annui ducati 24 per once 80. A questo punto alla data di questo Onciario cioè nel 1763 il marchese Galiani già non abita stabilmente a Sessa ed è considerato tra i bonatenenti forestieri. La casa descritta da Giacomo Casanova viene qui assegnata più che al vicolo detto della Catena al luogo detto S.Maria a Castellone. In pratica è la stessa cosa perché il luogo si identifica con il territorio di competenza della parrocchia di S.Maria a Castellone. La famiglia Mercadante in questo periodo è rappresentata da un Giulio morto all’età di 59 anni il 30 agosto 1783 e registrato nella parrocchia di S.Onofrio, il reverendo Fiore Mercadante morto a 66 anni il primo settembre 1783, nella stessa parrocchia, un altro Giulio a 5 anni il 21 febbraio 1789. In periodo posteriore agli inizi dell’Ottocento è rappresentata a Sessa da Tommaso curialista, cioè giudice a contratto, quando muore  il 3 luglio 1809 Rosa Jovino di anni 51 lasciando il marito Tommaso Mercadante di anni 51 ed i figli Fiore di 17, Felice Antonia di 20 e Michele di 18. Abitano in via Santi Paoli o Paolini. Nel 1810 Fiore, figlio di Tommaso, dichiara avere 23 anni. Il 3 dicembre muore un suo figlio di appena 12 giorni, al quale è stato imposto il nome di Giulio).  

  
La maturità
Per portare a termine un impegno di si vaste proporzioni, Berardo aveva impiegato diversi anni, e si era giovato dell’aiuto di monsignor Giovanni Gaetano Bottari che, insieme con monsignor Giuseppe Maria Assemanni[68], era Custode della Biblioteca Vaticana; furono proprio loro, infatti, a consigliare al napoletano l’analisi comparata dei due codici latini conservati in quella biblioteca [69] in quanto ritenevano che questi, essendo i più antichi, dovevano essere anche i meno alterati dalle trascrizioni degli amanuensi, e potevano quindi costituire un fondamento valido per l’auspicato lavoro di traduzione[70]. Bottari, in particolare, era legato alla famiglia GALIANI da un profondo rapporto di amicizia che risaliva al tempo in cui monsignor Celestino si trovava a Roma, e quando quest’ultimo aveva deciso di trasferirsi a Napoli, era stato proprio il bibliotecario del Vaticano a prendere il posto di GALIANI nella cattedra di Storia Ecclesiastica e Controversie presso l’Università della Sapienza cui questi aveva dovuto rinunciare[71]. Anche Ferdinando ebbe una lunga corrispondenza con l’erudito prelato [72] che, nel 1756, così gli scriveva: «Mi riverisca il Sig.Marchese suo fratello, e gli dica, che gli ho spedito parecchi quaderni del suo Vitruvio collazionato»[73]. Dallo studio del carteggio fra l’abate GALIANI e il suo corrispondente romano inoltre, si evince che quest’ultimo oltre a fornire il prezioso materiale letterario per la traduzione, fu tra i primi a poter leggere il frutto delle fatiche di Berardo il quale di volta in volta gli inviava le parti già terminate affinché Bottari potesse esprimere un giudizio su di esse e quindi dargli dei suggerimenti per il prosieguo del suo lavoro[74]. La traduzione commentata del De Architettura, che costituisce l’opera di maggior rilievo pubblicata da Berardo, vide finalmente la luce nel 1758, riscuotendo immediatamente notevoli consensi da ogni parte d’Italia, tanto che alcuni anni dopo Francesco Milizia poteva affermare: «finalmente è comparsa  la traduzione del Signor Marchese GALIANI, la quale a guisa del Sole ha fatto sparire tutte le altre»[75]. Si trattò quindi di una tappa di fondamentale importanza per la fama di Berardo il quale, proprio grazie all’apprezzamento suscitato da tale brillante pubblicazione, il 22 settembre 1759 veniva eletto membro dell’Accademia della Crusca[76], un riconoscimento che si andava ad aggiungere a quelli conseguiti pochi anni addietro, dei quali ci dà notizia ancora una volta Ferdinando: «A 13 Aprile 1755 dall’Accademia di San Luca di Roma fu ascritto come -Accademico di merito. «A 22 Aprile 1758 con real dispaccio fu eletto Accademico Ercolanese[77]». Purtroppo però, anche in questo momento apparentemente così felice per la sua vita, le difficoltà finanziarie continuarono ad amareggiare l’esistenza di Berardo, ed anzi esse furono aggravate, per ironia della sorte, proprio dalle spese sostenute per la pubblicazione di quel volume che gli procurava tanta ammirazione nel mondo letterario. Si ricordi una patetica lettera scritta nel 1760 al ministro Bernardo Tanucci, nella quale, come si è visto in precedenza, egli dichiarava di non avere al momento nemmeno il denaro necessario per ritirare il diploma che certificava il titolo di Marchese che, morto il padre Matteo, spettava a lui in quanto primogenito. In quella lettera egli sottolineava di essere stato costretto addirittura a lasciare la città di Napoli[78], e a ritirarsi in una casa di campagna a Sant’Agata di Sessa[79]. Un certo respiro alle sue disastrate finanze era dato dalla carica di «Governatore dell’Arrendamento de’ sali de’ quattro fondaci»[80], conferitagli dal Re nel 1756, dalla quale doveva trarre un minimo guadagno. Berardo poi era solito tenere alcune persone a pensione nella sua casa, tra le quali va ricordata Lucrezia Castelli, uno degli amori napoletani di Giacomo Casanova, che, secondo quanto riferito da quest’ultimo, era «un’amica intima della Marchesa»[81]. Lo stesso Casanova, inoltre, si giovò della sua ospitalità (presumibilmente a titolo di pura amicizia) nel 1760, allorché, nel corso di una precipitosa quanto roccambolesca fuga strategica dalla capitale borbonica, la sua carrozza si ribaltò nella campagna tra Francolise e Sessa, e nel pieno della notte fu costretto ad accettare l’ospitalità di GALIANI che abitava nei pressi, soprattutto a causa del fatto che “Don Ciccio Alfani[82], suo compagno di viaggio, non era in grado di ripartire senza aver prima ricevuto le necessarie cure mediche[83]. L’impressione che egli ebbe di Berardo fu molto positiva sotto il profilo culturale, anche se questi «non aveva lo spirito brillante di suo fratello, che avevo conosciuto a Parigi [....]. Il marchese mi presentò a sua moglie, che io sapevo essere l’amica intima della mia cara Lucrezia. Questa dama aveva qualche cosa d’angelico, circondata da tre o quattro bambini di pochi anni, dava l’aria della Sacra Famiglia»[84], e, per fortuna di Berardo, ad altra erano rivolti gli interessi di Casanova in quella casa. Fra gli esponenti dell’ambiente artistico che furono ospitati nella dimora galianea, si ha notizia del pittore Anton Raphael Mengs, chiamato a dipingere il ritratto di Ferdinando IV nel 1759[85], mentre invece l’anno precedente Johann Joachim Winckelmann descriveva il suo primo viaggio nel Mezzogiorno in una lettera a Muzel Stosch, raccontandogli che: «Da Portici me ne andava due volte la settimana a Napoli, e per osservare le monete del Duca di Noja, e per abboccarini col Marchese GALIANI, e per pranzare infine col Conte di Firmian»[86]. L’archeologo di Dresda, però, non ricambiò la cortesia e la cordialità dei napoletani, anzi diede alle stampe la velenosa Lettera sulle scoperte di Ercolano al signor Conte Enrico di Brühl (Dresda 1762), che gli attirò la collera della corte borbonica e l’indignazione dello stesso Berardo, le quali furono manifestate nell’opuscolo anonimo (ma in realtà pubblicato da Mattia Zarrillo) intitolato Giudizio dell’opera dell’abbate Winckelmann sopra le scoperte di Ercolano (Napoli 1765)[87], in gran parte tratto da un precedente scritto di GALIANI: i due comunque si riappacificarono definitivamente nell’autunno del 1767, in occasione dell’ultimo viaggio dell’abate prussiano nel sud, e in quella circostanza anche gli alti uffici governativi si mostrarono clementi, permettendogli di vedere ancora una volta i siti archeologici e i reperti del museo di Portici[88]. Nel frattempo anche la carriera forense stava andando avanti, e il 16 gennaio 1762 GALIANI venne nominato Ufficiale Maggiore della Real Segreteria di Stato di Grazia e Giustizia[89], anche se probabilmente la sua candidatura fu appoggiata dal ministro Bernardo Tanucci in seguito al l’intercessione del fratello Ferdinando[90], che col Ministro era in ottimi rapporti. Due anni dopo Berardo doveva, con suo grande rammarico, contribuire all’elogio funebre del grande giurista Niccolò Fraggianni [91] il cui carisma, negli anni trascorsi presso la dimora di monsignor Celestino, poteva aver pesato in una certa misura sulla scelta di vita presa da Berardo, dal momento che egli per seguire quella carriera che tanto lo attraeva rinunciò alla vita religiosa, con tutti i probblemi economici che ne seguirono. Berardo Galiani aveva la peculiarità di riunire in una sola persona sia una profonda cultura critico-artistica che la conoscenza dell’apparato giuridico del Regno, e probabilmente proprio per questa singolare simbiosi che in varie occasioni fu richiesta la sua consulenza per far luce su questioni che vedevano confondersi e sfumare l’uno nell’altro il campo artistico e i problemi legali. Mi riferisco[92]in particolare a due episodi: per uno di essi, però, non è stato possibile andare oltre la semplice individuazione del fatto, che è contenuta nel più volte citato scritto di Ferdinando GALIANI: «A 9 febbraio 1765 (Berardo) fu destinato dalla Maestà del Re ad intervenire col Principe Dentice Delegato della Regal Casa, e coll’Uditori de’Reali eserciti al riesame de’ testimoni per il furto de’ disegni del fu Don Carlo Weber»[93]. Nell’unico altro accenno a noi noto riguardo a tale vicenda [94] risulta che egli ebbe il compito di osservare le carte ritrovate, per poi indicare ai giudici se esse erano quelle lasciate dal Weber [95] e che egli aveva avuto modo di vedere in occasione di una ricognizione fatta subito dopo la morte di questi. Per quanto concerne invece l’altro episodio, e stato possibile ricostruire i termini generali della vicenda, ed anche se non sono emersi elementi precisi sull’opera svolta da GALIANI, essa può essere apprezzata per i fatti che ne furono la conseguenza. Un fatale incendio, sviluppatosi nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1757, aveva completamente distrutto la copertura della chiesa dell’Ave Gratia Plena (ossia l’Annunziata) di Napoli [96] ed in seguito a ciò il 7 aprile dell’anno successivo il Sovrano ordinava la riedificazione dell’intero edificio[97], essendo naufragata ben presto l’ipotesi del semplice rifacimento del tetto, sotto il quale sarebbe dovuta essere realizzata una volta finta «di canne e cerchia»*****.Quindi nel marzo 1760 Luigi Vanvitelli, coadiuvato da Costantino Manni[98], e inaspettatamente dal suo eterno antagonista Mario Gioffredo, dava inizio ai lavori[99]. Contro il parere della maggioranza Fuga e lo stesso Vanvitelli proposero di costruire una volta vera (o ‘lamia’) mentre Bibiena propendeva per un compromesso fra le due ipotesi. Secondo il progetto di Vanvitelli la cupola doveva essere realizzata con l’uso di pietre pomici, e rinforzando preventivamente le mura laterali con speroni. Si deve ricordare che egli stesso poco tempo addietro aveva presentato anonimamente una soluzione inusuale per il consolidamento della cupola di San Pietro, la quale prevedeva proprio una corona di archi rampanti per contenerne lo spanciamento. Per i problemi statici dell’edificio e le soluzioni si vedano le relazioni pubblicate in appendice a d’Addosio (1883) che furono portati avanti fra non poche difficoltà di natura sia tecnica[100] che economica. Ma in seguito a gravi dissapori con gli amministratori della Real Casa, i quali vedevano i costi lievitare giorno per giorno, specialmente a causa della grande cupola, Vanvitelli fu costretto a rinunziare all’incarico nel 1769, e nello stesso anno i lavori passarono nelle mani di Gioffredo, che in questo modo si prese una rilevante rivalsa (quanto effimera) nei confronti dell’invidiato artefice casertano che per molto tempo lo aveva completamente oscurato dal punto di vista professionale.È a questa fase che risale l’intervento di Berardo GALIANI il quale[101]: «Nel 1768 dal Re fu destinato a rivedere le controversie intercorse fra Vanvitelli, e li governanti della Chiesa dell’A.G.P.»[102]. In sostanza quindi Berardo dovette tentare di far convergere le preoccupazioni degli uni, con le istanze formali dell’altro (che peraltro conosceva e stimava moltissimo), e chi meglio di lui avrebbe potuto svolgere un compito di tale difficoltà? Allorquando infatti i rapporti tra i committenti e il progettista sono estremamente tesi, e le loro posizioni apparentemente inconciliabili, la mediazione di un legale che sia nello stesso tempo anche un validissimo conoscitore dell’architettura è quanto di meglio ci si possa augurare. Sfortunatamente allo stato attuale non mi[103] è stato ancora possibile consultare l’Archivio dell’Annunziata ove ritengo possano essere reperibili i resoconti della vicenda[104], e di conseguenza non sono nelle condizioni di definire in quali termini abbia avuto luogo la mediazione di Berardo; malgrado ciò si può ipotizzare che alla lunga il suo lavoro fosse coronato dal successo, in quanto nel 1771 gli amministratori della Real Casa richiamarono Vanvitelli e accettarono il suo progetto che prevedeva comunque la costruzione della costosa cupola[105]. Quanto un tale ripensamento sia stato dovuto al l’intercessione di GALIANI è, al momento, tutt’altro che chiaro, ma è bene sottolineare che il risultato finale dimostra quanto Vanvitelli avesse visto giusto nel difendere strenuamente la sua cupola, che, come ancora oggi si può osservare[106], è inequivocabilmente il cardine delle valenze luministiche e spaziali della chiesa.

La prematura fine
L’ultimo decennio della vita di Berardo fu certamente la fase più feconda della sua attività di studioso d’architettura, se si esclude il periodo di tempo in cui si dedicò interamente al commento del testo vitruviano; negli anni che vanno dal 1764 al 1774, infatti, egli elaborò due pareri scritti ed un più esteso trattato di estetica che nel loro complesso costituiscono un corpus sostanzialmente sconosciuto,ma di notevole importanza ai fini di una più corretta collocazione di Berardo GALIANI nel quadro del dibattito critico settecentesco. Il primo di questi lavori, in ordine di tempo, è il Parere del M.se GALIANI dato sulla copertura del Palco del Teatro Olimpico (1764)[107], nel quale affronta il probblema della esistenza o meno di una copertura a se stante sul Palcoscenico dei teatri antichi, una struttura distinta dal Velario che veniva invece disteso sopra la Cavea per proteggere gli spettatori dalle intemperanze atmosferiche. Il problema filologico gli era stato proposto dai membri della Accademia Olimpica di Vicenza, i quali dovendosi restaurare la copertura dell’omonimo Teatro realizzato secondo il disegno di Andrea Palladio, si erano chiesti se il nuovo apparato decorativo andasse realizzato in modo uniforme su tutto l’invaso, o se invece questo stesso dovesse essere bipartito in maniera da presentare un soffitto cassettonato sul Palcoscenico, e l’immagine del cielo aperto al di sopra della Cavea. Le diverse ipotesi erano caldeggiate rispettivamente dai due eruditi Ottone Calderari ed Enea Arnaldi, e poiché nessuna di esse riusciva a prevalere sull’altra, fu deciso di chiamare in causa altri studiosi d’architettura estranei all’ambiente vicentino, con lo scopo di garantire una reale imparzialità di giudizio. Uno dei prescelti fu appunto il marchese GALIANI, la cui posizione sembra dettata più dal buon senso che non dalla interpretazione dogmatica delle indicazioni fornite da Vitruvio. In sostanza egli muoveva dalla constatazione che sebbene Palladio avesse avuto intenzione di realizzare un teatro simile a quello antico, ne aveva poi opportunamente modificato alcuni aspetti, in quanto era sua intenzione venire anche incontro alle esigenze dettate dal genere di spettacoli che vi si doveva rappresentare nella sua epoca; per questo motivo Berardo invitava gli Accademici a lasciare da parte le dispute filologiche sulla reale morfologia di quello, ed a ripristinare invece l’apparato decorativo così come appariva in una stampa di Ottavio Revesi-Bruti del 1620 (che presentava la copertura bipartita), per il fatto che reputava la soluzione rappresentatavi molto vicina a quella immaginata da Palladio e mai realizzata. Di fatto, quindi, GALIANI abbracciava la causa del cosiddetto partito divisionistà[108], ovvero quello che faceva capo ad Enea Arnaldi. In quello stesso periodo di tempo, poi, Berardo si stava dedicando ad un’opera di ben più ampio respiro, che se ultimata non avrebbe per nulla sfigurato rispetto alla nota traduzione commentata del De Architectura; egli si era infatti proposto di realizzare un grande trattato di architettura, suddiviso secondo la triade vitruviana di fortezza, comodo e bellezza, e strutturato come un corpus di lezioni, opera che però non riuscì a portare a termine prima della fine dei suoi giorni[109]. Terminata, invece, è una «dissertazione metafisica» intitolata Del Bello (1765)[110] che, nelle intenzioni del suo autore, avrebbe dovuto costituire una sezione di quella parte del trattato dedicata alla Venustas, o meglio questa è l’ipotesi che Benedetto Croce ha dedotto dalla lettura del manoscritto[111]. A giudizio dell’autore di quest’opera, le cose stanno in modo leggermente diverso: con la pubblicazione di quest’opera di estetica GALIANI si proponeva di sottoporre al giudizio del pubblico (vengono citate le sue stesse parole) quel «certo sistema scientifico, il quale ragionatamente mi ha condotto in tutte le rispettive parti»[112], ovviamente del Trattato a venire; essa quindi doveva costituire una sorta di prodromo metodologico, vale a dire un banco di prova finalizzato a verificare la validità del suo approccio scientifico nei confronti della Architettura, e soprattutto in vista della futura stampa del già menzionato grande Trattato generale[113]
Dalle sue parole quindi affiora quella forma mentis saldamente razionale che, affondando le radici nell’ambiente illuministico del salotto celestiniano, ne permeò costantemente la vita e le opere e che era talmente radicata che egli non esitò a sconfessare quello stesso Vitruvio da lui profondamente stimato, a causa del fatto che l’autore latino «trattava dell’Architettura, come di una arte, non come di una scienza»[114]. Nell’Avviso al lettore che apre la sua dissertazione, Berardo cita un gran numero di filosofi che nei loro scritti si erano occupati del trattato di estetica, come ad esempio Platone e Sant’Agostino, tra quelli antichi, ed ancora Batteux, Hogarth e Spalletti, tra i suoi contemporanei[115]. L’autore pensa che questa parte posta all’inizio del manoscritto, sia stata aggiunta in un secondo momento, ed è convinto di ciò sia per il fatto che essa reca una numerazione diversa rispetto al trattato vero e proprio, ma anche e soprattutto per quanto ha avuto modo di leggere in un documento che ha rinvenuto presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Si tratta, in sostanza, di una lettera inviata da un non meglio precisato Matteo allo stesso GALIANI[116], ove si apprende che l’ignoto interlocutore aveva avuto in prestito quello che chiama il «quaderno de’vostri pensieri sopra al Bello», e che, avendolo letto, si apprestava a restituire; alle parole di elogio fa seguito il suggerimento di consultare la appena uscita Enciclopedia francese, affinché Berardo potesse apprendere il pensiero degli altri autori che avevano avuto modo di trattare quello stesso argomento: il Bello. Ed in effetti da un rapido confronto risulta che le grandi personalità citate nell’Avviso al lettore sono sostanzialmente proprio quelle menzionate nel paragrafo corrispondente alla voce ‘beaù della grandiosa opera generale di Diderot. Per quanto riguarda il Trattato in sé, l’unico giudizio moderno esistente è quello di Benedetto Croce che, per quanto breve, ha il pregio di tentare la ricerca di un comunque debole punto di contatto tra i concetti espressi da Berardo e la molto nota Interesselosigkeit Kantiana[117] L’autore di questo libro, Tommaso Carrafiello, che ha ultimato la trascrizione del manoscritto, spera di pubblicarne al più presto una edizione critica; fin d’ora, però, gli preme sottolineare il fatto che uno dei temi fondamentali, e fra quelli trattati più ampiamente nella «dissertazione», è costituito dall’analogia tra le leggi proporzionali in architettura e in campo musicale, con l’intento di dare un fondamento scientifico all’utilizzo, nell’arte edificatoria, di quegli stessi rapporti numerici elementari che sono alla base delle cosiddette consonanze. L’esperienza del monocorde[118], quindi è per GALIANI una legge di natura, dalla quale non è possibile prescindere né in campo musicale, né tantomeno in quello architettonico, poiché questa si trova già all’interno di entrambi, ne è l’essenza, la regola immanente; in tal modo viene dunque riaffermata quell’affinità elettiva tra le due arti (o, come presumibilmente avrebbe preferito dire Berardo, due scienze) che fa riferimento ad una tradizione plurisecolare che, passando anche per Vitruvio, fa capo all’antico mito di Orfeo[119]. Allo stesso tempo si segnala la sostanziale adesione dello studioso napoletano alle teorie del Sensismo di Condillac, filosofia che rivestiva una funzione preponderante nell’ambito del pensiero estetico del ‘secolo dei lumì. L’intenzione di pubblicare le Lezioni d’Architettura conferma che in quegli anni il suo impegno intellettuale andava costantemente lievitando, ed allora Berardo, che alla mondanità della capitale aveva sempre preferito la tranquillità dei piccoli centri, prese la decisione di rinunciare alla sua carica presso la Segreteria di Grazia e Giustizia, e di ritirarsi a Sorrento, ove gli furono affidati altri incarichi[120], che gli consentivano comunque di coltivare i suoi studi prediletti[121]. Il suo trasferimento nell’amena località costiera, comunque, non dovette aver luogo prima del mese di maggio del 1771 come si evince da una lettera inviata al barone Gian Lorenzo Galiani di Montoro[122]; questi era un suo lontano parente col quale aveva riallacciato i contatti, e i loro rapporti erano diventati così cordiali che il 31 ottobre 1770 fu proprio la carrozza del Marchese Berardo GALIANI, venuto appositamente per questo matrimonio nel piccolo paese dell’avellinese, che Caterina, figlia del Barone di Montoro, fu condotta in chiesa dove la aspettava il suo futuro marito Giuseppe Pepe[123]. Quello stesso anno era stata portata a termine la compilazione della carta geografica del Regno di Napoli patrocinata con ferma determinazione dall’abate GALIANI[124]; Ferdinando, che a quel tempo si trovava a Parigi come segretario d’ambasciata, aveva intuito «la somma importanza che ha per un popolo l’esatta conoscenza del suo ambiente esterno, necessaria per reagire in certo qual modo alla sua azione modificatrice, e, nello stesso tempo, per soddisfare vitali bisogni economici»[125]; e probabilmente fu proprio la prospettiva di un incremento dei commerci a convincere il ministro Tanucci, eternamente preoccupato per le sorti dell’erario, della necessità di tale opera che nemmeno la grande e pìù ricca Spagna aveva ancora iniziato. La carta fu compilata principalmente sulla base dell’immenso patrimonio cartografico esistente nel Depôt de la Guerre[126], confrontato con altro materiale e specialmente con quello che, a più riprese, Berardo fece recapitare al fratello, come risulta dalla corrispondenza tra i due negli anni parigini di Ferdinando[127]. Un anno prima della morte, Berardo elaborò uno scritto che, a differenza di tutti quelli precedenti, si segnala per una serie di osservazioni che denotano una conoscenza molto approfondita delle tecniche costruttive, e soprattutto di quelle nozioni di meccanica che, secondo la cultura del tempo, erano alla base del comportamento statico degli edifici; per la prima volta, quindi, nel Parere del M GALIANI sui danni della Trinità Maggiore e su i ripari e rifazioni(1773)[128], Berardo mette da parte le dissertazioni filologiche per affrontare, con una insospettata competenza, un problema di natura strettamente pratica, ovvero il consolidamento di un edificio: ed il suo intervento «nonostante fusse singolare fu stimato da tutti per il migliore»[129]. Egli già dal novembre 1769 era stato chiamato a far parte della commissione degli esperti che doveva esprimere una valutazione sul progetto di restauro della chiesa elaborato da Ferdinando Fuga[130] e che, dopo un anno e mezzo di lavori , si era pronunciata a favore della sua attuazione. Col passare del tempo, però, le condizioni statiche dell’edificio sembravano estremamente peggiorate, e così la stessa commissione appoggiò una nuova proposta di Fuga[131] che prevedeva l’abbattimento e la successiva ricostruzione della grandiosa cupola, una decisione che però incontrò la più totale disapprovazione da parte di Berardo GALIANI, il quale chiese ed ottenne di redigere un suo parere[132], ultimato poi nel settembre 1773. In questo scritto egli sconfessava totalmente quel catastrofismo che era stato alla base di una così grave risoluzione, un atteggiamento a suo credere dettato da un eccesso di prudenza e relativo al fatto che: «Avviene (…) ed avverrà sempre, che ove chiamisi consultori per determinarsi ad alcun partito di precauzione contro una minaccia che si è concepita di male, sempre le consulte eccederanno dalla parte delle cautele. Ogniuno per coscenziato che sia, non sa spogliarsi dell’amor proprio e sempre dubita che possa accadere caso di cui resti mallevadore per non aver proposte cautele maggiori»[133]. Berardo, poi, esprime la sua convinzione che l’alterazione dell’equilibrio statico della chiesa fosse dovuta in gran parte dall’eccessiva spinta delle volte, non sufficientemente contrastata dal ridotto spessore delle murature, ed alla quale contribuiva in maniera determinante la copertura poggiante direttamente sull’estradosso delle volte stesse; infine propone un suo progetto di consolidamento alquanto articolato, ma incentrato sulla rimozione della causa stessa del dissesto mediante la sostituzione del tetto esistente con una struttura a capriate. Mettendo da parte la validità delle sue proposte, che pure sembravano essere perfettamente fondate, lo scritto mostra con evidenza quello spirito profondamente razionale che permeava tutta l’attività di GALIANI, come dimostrato dalla lunga serie di osservazioni sia sul campo che su elementari modelli teorici di meccanica, e confermato da un’attenta analisi del contestato progetto di Fuga, che ne rivela tutta la pretestuosità.Restano infine da menzionare due ultimi scritti sui quali, però, non è possibile avere altro che la notizia della loro stesura, poiché quanto entrambi sono tutt’ora dispersi; il primo di essi è una Dissertazione sulla musica[134], un’arte che era particolarmente cara a Berardo, forse proprio in conseguenza dell’importanza attribuitagli da Vitruvio che, nei libri I e V del suo trattato, da l’avvio ad un lungo dibattito sull’analogia esistente fra questa e l’architettura. Per quanto riguarda poi l’ultimo lavoro galianeo ad essere ricordato, l’unico riferimento ci è dato dalle parole di Giuseppe Castaldi, che così scrive: «Da una lettera autografa di esso GALIANI del 18 novembre 1767 indirizzata a Francesco Daniele, che da me si conserva, rilevo che egli aveva dettato de’notamenti, e aggiunte al vocabolario del Baldinucci, che tratta dell’arte del disegno, coll’idea forse di pubblicarle, ma queste anche rimasero manoscritte»[135]. Di fronte a una tale mole di progetti che Berardo aveva in cantiere, e che non giunse mai ad ultimare, non può che crescere il rammarico per il fatto che la letteratura artistica non abbia potuto ancora rendere onore all’opera di un così insigne studioso, troppo spesso dimenticato, o addirittura confuso con i suoi ben più celebri familiari, Ferdinando e Celestino. Il destino, purtroppo, ha voluto che la morte lo cogliesse nel pieno della sua attività letteraria, prima ancora che avesse compiuto cinquant’anni; Berardo GALIANI, stroncato da un colpo apoplettico l’11 marzo 1774, fu sepolto nella chiesa della “Vergine Madre” del «Real Convitto della Coccumella»[136] che egli aveva diretto negli ultimi anni della sua troppo breve esistenza[137], e subito dopo fu, soppresso trasferendo i giovani allievi a Napoli nell’abolito collegio gesuitico di San Giuseppe alla Riviera di Chiaia[138]. Il 12 agosto di quello stesso anno Agnese Mercadante-Capece e Ferdinando GALIANI scrivevano al primo ministro marchese Bernardo Tanucci: «La vedova Marchesa GALIANI e l’Abate cons. GALIANI supplicano la M.V. per ott. il permesso di porre nella sepoltura del fu March. GALIANI nella Chiesa della Cocumella
una lapide con l’iscrizione che accludono»[139]. Ancora oggi (1995) tale lapide è al suo posto sulla parete sinistra della chiesa appena varcata la soglia d’ingresso e, sotto lo stemma della famiglia GALIANI[140], reca queste parole.




HEIC JACETMARCHIO BERARDUS GALIANUS
FERDINANDUS GALIANUS ABBAS
MARCH. MATTHEI REG. CONS. F
CAELESTINI ARCHIEP. TARENTINI
ET CAPPELLANI MAIORIS
EX FRATRE FILIUS
VIR
INGENIO DOCTRINA INTEGRITATE
DIGNUS MEIORE FATO
VIX. ANN. L. DECESSO VI. NON
MART. MDCCLXXIV
CENTULENSIS REG. CON.
FRATRI BENEMERENTI P.
LOCUS DATUS EX INDULGENTIA
FERDINANDI IV. OP. PRINCIP.

A conclusione di queste note biografiche rincresce dover sottolineare che purtroppo neanche l’iscrizione funebre rende pienamente onore a quelli che furono i meriti di Berardo GALIANI, in quanto ancora una volta sembra che la commemorazione del nobile letterato debba passare attraverso la celebrazione dei suoi più noti familiari invece che evidenziare quella che fu la sua specifica opera, e soprattutto il prezioso contributo nell’ambito del dibattito settecentesco sul: l’architettura; di ben altro tono è invece un epigramma, consegnato alla storia dalla penna di Emmanuele Campolongo
ARCHITECTONES OMNES
QUI QUI ESTIS
HAC COMMEANTES
HEIC QUIESCENTI
ANTESIGNANO VESTRO

EGREGIO INCOMPARABILI

MARCHIONI BERARDO GALIANO
HAVE DICERE NE DEDIGNEMINI[141]

Veduta del Vesuvio dalla terrazza del Real Convitto della Cocomella, oggi Hotel Cocomella (Sorrento).



don Giovanni "de Natale Sifola Galiani in visita
alla chiesa della
Vergine Madre alla Cocumella (Sorrento).
In visita alla tomba del suo avo Berardo Galiani


Lo studio dell’Antico: «Post fata resurgo».

La complessa e controversa vicenda degli scavi di Ercolano e delle altre città vesuviane, o meglio la sua fase ‘eroicà iniziata durante il regno di Carlo di Borbone e proseguita fino alla fine del XVIII secolo per volontà di suo figlio Ferdinando IV, deve essere considerata senza ombra di dubbio la più importante impresa ‘antiquaria’ di tutto il Settecento, la cui ampiezza di prospettive ne fa una delle tappe fondamentali dell’archeologia di ogni tempo, nonostante i pesanti limiti che ne caratterizzarono la gestione, sia dal punto di vista strettamente tecnico, sia per quanto riguardava lo studio e la divulgazione di un patrimonio culturale senza precedenti analoghi, di vaste proporzioni e virtualmente unico.
In effetti la pubblicazione dei reperti faticosamente sottratti all’oblio nel quale erano stati precipitati dallo «sterminator Vesevo»[142], era stata riservata strettamente all’autorità reale a partire dal 1738, anno in cui Re Carlo diede inizio ai primi scavi archeologici d’iniziativa statale di cui si abbia memoria, ponendo termine così ad una sconsiderata attività predatoria che troppo spesso si era conclusa con la dispersione degli oggetti d’arte, in gran parte sculture, che venivano via via rinvenuti[143]. Ma purtroppo, mentre gli eruditi di tutta Europa fremevano nell’attesa di poter finalmente vedere pubblicate le incisioni dei reperti ercolanensi, dei quali si avevano notizie ancora frammentarie e in qualche caso fantasiose[144], a Napoli vedeva la luce soltanto il Prodromo delle antichità di Ercolano[145], cinque immani calepini[146] nei quali l’autore, monsignor Ottavio Antonio Bayardi[147], muovendo dalla narrazione delle sette fatiche di Ercole[148] si perdeva in innumerevoli e pedanti discettazioni metereologiche, cronologiche, sui vari Ercoli [149] dando solamente sfoggio di grande eloquenza e abilità dialettica. «Il mondo letterario ne fu atterrito», ha scritto Michelangelo Schipa[150], poiché l’infaticabile scrittore «riempì a migliaia le pagine senza giungere neppure a sfiorare il vero argomento della sua ricerca»[151], dando origine in tal modo a quello che può essere definito uno «spettacolare trofeo della erudition inutile[152], mentre nello stesso tempo gli impazienti lettori dovettero constatare, con non poca delusione, la totale mancanza delle attese illustrazioni. La vicenda fece scandalo anche al di la dei confini del Regno, tantoché il Sovrano ed i suoi collaboratori si videro costretti a correre ai ripari, e l’immediato provvedimento che venne adottato per fare fronte alla imbarazzante situazione venutasi a creare fu appunto la fondazione della Regale Accademia Ercolanese, il cui unico ufficio doveva essere quello di curare la pubblicazione illustrata degli oggetti rinvenuti nel corso degli scavi[153]. Il collegio era composto da quindici eminenti filologi scelti quasi esclusivamente nell’ambiente culturale partenopeo e riuniti sotto la presidenza del Primo Ministro del Regno, il fiorentino marchese Bernardo Tanucci, che era stato ispettore di quella istituzione reale; i nomi dei membri originari[154] sono stati menzionati da Giuseppe Castaldi nella sua fondamentale opera sulla storia dell’Accademia, ove si aggiunge che: «di questi [soci], essendone mancati due, vi furono successivamente il Marchese Berardo GALIANI e Giovan Battista Basso Bassi, il primo de’ quali con somma avvedutezza nominato socio, giacché per le sue grandi cognizioni specialmente in Architettura si rendea molto utile in quest’Accademia per la definizione, ed illustrazione, che spesso dovea farsi di tanti diversi fabbricati antichi»[155]. Berardo quindi fu nominato accademico ercolanese in un secondo tempo, e precisamente il 22 Aprile 1758[156], lo stesso anno in cui veniva data alle stampe la prima edizione del De Architettura da lui sapientemente chiosata, grazie alla quale Berardo ebbe l’onore di essere nominato anche Accademico della Crusca il 22 settembre 1759[157]. Nel frattempo le ricerche proseguivano, ma non tutto quello che si aveva la fortuna di incontrare nelle viscere del suolo vesuviano era facilmente recuperabile, ci si riferisce specialmente a tutti gli apparati decorativi, dipinti parietali e mosaici, che ricoprivano le superfici interne delle antiche dimore. In questi casi agli uomini del settecento si presentava una sola alternativa: o l’asportazione a massello, oppure la riproduzione grafica, operazione quest’ultima che doveva però essere svolta in condizioni estremamente precarie, a circa venti metri di profondità sotto la luce tremolante delle torce, nel continuo timore di crolli o di esalazioni venefiche, non certo improbabili in un territorio vulcanico come quello che si andava esplorando. Gioverà infatti ricordare che l’antica Ercolano giaceva sepolta e quasi imprigionata da una coriacea colata indurita di fango e lava, sopra la quale erano stati successivamente edificati i moderni centri di Portici e Resina[158], la qual cosa se da un lato rendeva sostanzialmente impossibile il dissotterramento integrale della città romana, dall’altro rendeva lo scavo dei cunicoli sotterranei estremamente difficoltoso e pericoloso. In tali condizioni la riproduzione figurativa non poteva dare sufficienti garanzie di somiglianza all’originale, e si potrebbe pensare che l’asportazione a massello fosse la strada più frequentemente praticata, ma si tenga conto del fatto che anche segare ed estrarre dalle profonde gallerie le porzioni di muro dipinte issandole su per i pozzi, costituiva un’impresa di non poca difficoltà; era quindi necessario valutare con attenzione ogni caso separatamente prendendo in considerazione sia il presunto interesse dell’opera d’arte che le difficoltà tecniche specifiche, in modo da scegliere la soluzione più adeguata alle circostanze. Spesso erano gli stessi accademici, il cui incarico principale era proprio quello di curare la riproduzione a stampa di quei reperti, a decidere la più opportuna procedura d’intervento. Tre di essi scrivevano al ministro Tanucci il 10 settembre 1760, suggerendo che «incontrandosi qualche pezzo di pittura o di Mosaico debba destinarsi un accademico ad osservarlo se meriti di tagliarsi, e qualora non possa togliersi e abbia del merito, debba farsi almeno il disegno della parte o della stanza dipinta. Qualora il Re approvasse questo sentimento di destinarsi un Accademico, ci sembrerebbe propriissimo il Marchese GALIANI il quale ha dato bastante saggio della sua abilità nell’ Architettura e dell’Intelligenza che ha dell’Antico»[159]. Da queste parole affiora la possibilità che allorché il ruolo dell’Accademia si fosse allargato, come in effetti avvenne inevitabilmente, fino a comprendere anche l’attività di consulenza tecnico-artistica nell’ambito della fase di scavo, con molta probabilità sarebbe stato proprio Berardo GALIANI ad essere incaricato di tale ufficio. Ed infatti dai resoconti degli scavi del 1761 risulta che in occasione della scoperta di un mosaico presso la masseria Iraci, fu richiesta l’assistenza di Berardo GALIANI, «per decidere il da farsi»[160]. L’atteggiamento degli accademici, intenzionati a salvare almeno l’immagine delle opere figurative scoperte e non recuperabili, come pure la cautela degli addetti agli scavi costituiscono l’embrionale preludio di un lento passaggio dall’interesse per l’oggetto antico in sé, a quello per il valore documentario dei reperti[161], sebbene nelle intenzioni del Sovrano il compito dell’Accademia doveva limitarsi a concorrere alla esaltazione di quell’inestimabile patrimonio archeologico da esibire come testimonianza dello splendore del Regno. Berardo invece, ben distante da tali finalità politiche , era animato da un chiaro interesse filologico, e la sua competenza doveva essere invero molto apprezzata se nel 1763 l’architetto svizzero Karl Weber[162], dichiarava di fare affidamento proprio sulla erudizione del Marchese GALIANI, nel novero dei quindici Accademici, per la revisione e la correzione di un volume che si proponeva far stampare, e che doveva essere dedicato specificamente all’illustrazione degli edifici dissotterrati nelle antiche località di Stabia, Pompei ed Ercolano[163]. Se Berardo poteva essere considerato una figura di primo piano dell’ambiente antiquario partenopeo, Weber non era da meno, visto che ebbe l’onore fra tutti i suoi colleghi, di godere della stima persino di Winckelmann[164], sempre molto polemico nei confronti dei napoletani che si occupavano di archeologia. L’architetto svizzero aveva lavorato fin dall’inizio ad Ercolano come assistente del colonnello Rocco Gioacchino Alcubierre, e quando quest’ultimo preferì indirizzare le sue ricerche nell’area dei Campi Flegrei (intorno al 1750) gli succedette nella carica di direttore degli scavi già avviati, in particolare a Pompei e Stabia[165]. Da quel momento in poi Weber si propose di migliorare il livello scientifico dell’attività archeologica dando corso ad alcune importanti iniziative, la prima delle quali fu l’elaborazione di una mappa relativa alla fitta rete di cunicoli e gallerie sotterranee realizzate nel corso delle precedenti campagne di ricerca[166], in quanto si rendeva conto, a differenza del suo predecessore che stante la deplorevole consuetudine di colmare le gallerie già esplorate con la terra di riporto estratta da quelle in fase di scavo, senza un preciso riferimento topografico troppo spesso gli operai erano ritornati sui luoghi già sondati in precedenza, con grave dispendio di energie e col pericolo di compromettere ulteriormente la stabilità degli edifici soprastanti [167] Ma il nome del coscenzioso e metodico architetto d’oltralpe deve essere ricordato soprattutto per la più importante delle sue iniziative, vale a dire la generale riforma della tecnica degli scavi che consisteva nel procedere al disseppellimento sistematico degli edifici, abbandonando così il criterio dei sondaggi isolati[168]. Questa apprezzabile proposta però , poté essere attuata unicamente nel sito di Civita, ove i ruderi, oltre a trovarsi in un’area completamente sgombra dall’edilizia moderna, erano ricoperti soltanto da un fitto e poco profondo strato di ceneri, molto più leggere e facili da rimuovere rispetto alla coriacea colata solidificata che imprigionava i resti di Ercolano. Quando infatti, il 16 agosto 1763, una epigrafe appena recuperata diede la certezza che la collina di Civita ricopriva la città di Pompei, il Tanucci, cedendo alle sue richieste, ordinò che da quel momento le rovine non fossero più rinterrate[169], ma sfortunatamente soli sei mesi più tardi Karl Weber[170] passò a miglior vita, lasciando comunque un inestimabile patrimonio di documenti e disegni relativi al proprio incarico, e che per la maggior parte passarono nelle mani del suo successore Francesco La Vega[171].
Il « teatro antico» di Resina
Per effettuare la ricognizione di tali rilevanti carte e deciderne il destino furono convocati i nominati La Vega e Alcubierre, ed infine il marchese GALIANI[172], al quale ultimo furono affidate alcune delle tavole elaborate dal direttore degli scavi prematuramente scomparso, come risulta della relazione stesa alla fine della riunione nella quale si legge: «In quinto luogo finalmente si sono riconosciuti e separati dall’altri, nove disegni parte messi in pulito e parte in schizzi appartenenti tutti al Teatro antico di Resina[173], li quali si consegnano al Marchese Galeani, e in mano del medesimo si trovano altri due disegni in pulito al compimento di undici, quali sono stati fatti dall’enunciato defunto Ingegnero ordinario D. Carlo Weber»[174]; lo stesso Berardo poi, firmava la seguente dichiarazione: «lo sottoscritto ho ricevuto dalla R. Segr. di Stato e Casa Reale de’ disegni lasciati dal defunto Ing. Ord. D. Carlo Weber i soprariferiti nove disegni appartenenti al Teatro antico di Resina, oltre i due altri ch’erano già in mio potere. Portici 30 Settembre 1764 M. Berardo GALIANI»[175]. Da queste parole risulta pertanto che egli, all’epoca della morte di Weber, era già in possesso di due disegni di quell’edificio, ai quali, con unanime consenso, fu affiancato tutto il rimanente materiale grafico che poteva completarne la conoscenza; viene dunque spontaneo chiedersi quali ragioni spingevano l’eminente studioso di Vitruvio ad interessarsi proprio del Teatro, e non dei tanti altri edifici che giacevano nel ventre del sottosuolo vesuviano, e ancora per quale motivo egli era già in possesso di due di quei disegni. Si aggiunga che il Teatro di Ercolano aveva suscitato una particolare attenzione nello stesso Weber, il quale nel 1760 presentò un progetto molto dettagliato per il suo completo disseppellimento corredato anche da un piano finanziario; egli sperava di ottenere il consenso dell’operazione contando sul fatto che il mirabile edificio, pur trovandosi in un’area densamente popolata, per una felice circostanza era situato sotto l’orto di un convento, e che quindi nessun fabbricato doveva essere abbattuto per liberarne i ruderi dallo spesso strato di depositi vulcanici che lo ricopriva[176]. Purtroppo la sua interessante proposta non fu ascoltata, e nel 1764 Wickelmann sottolineava polemicamente che l’architetto svizzero solo «per proprio impulso, e per lo più nelle ore di libertà, che gli lasciava il suo impiego, fece scavare la scena, e ben prima per mezzo suo avremmo avuto degli schiarimenti, se il suo colonnello [ossia Rocco Alcubierre] invidioso dell’onore che a lui deriverebbe da quella scoperta, non avrebbe più volte proibito i lavori»[177]. La chiave di lettura di tutto questo interesse venutosi a creare intorno al Teatro ercolanese risiede nella possibilità che si presentava agli studiosi partenopei di fare luce su uno dei passi più oscuri del De Architectura di Vitruvio[178], come risulta evidente dalle parole di alcuni accademici ercolanesi, i quali per dimostrare l’utilità del citato volume che Weber si proponeva di pubblicare[179], portano come esempio proprio il caso dei Teatri: «Non ostante gli sforzi di tanti uomini grandi non si è potuto ancora fissare la vera struttura de’ teatri antichi, ne’ capirsi la situazione e la forma della Scena e del Proscenio. La sola pianta vera ed esatta del Teatro d’Ercolano ci metterebbe al giorno e dileguerebbe le tenebre in cui siamo in questa parte di Erudizione»[180]. Lo stesso Berardo, nelle note di commento al testo vitruviano, si era rammaricato di non aver potuto fare affidamento sui resti dei teatri antichi a quei tempo conosciuti [181] per chiarificare su questa base le parole dello stimato, ma spesso poco comprensibile, autore latino: «Se è stata deplorabile per l’intelligenza degli autori antichi - scrive il napoletano - la perdita di tanti bei monumenti periti per la voracità del tempo, e più per la barbarie, o ignoranza degli uomini, lo sarà sempre soprattutto questa de’ teatri»[182]. Ed in effetti in una rara pubblicazione

Frontespizio dell'opera letteraria del m.se Berardo Galiani

Un disegno del m.se Berardo Galiani nell'Opera
L'architettura di M. Vitruvio Pollione
di Giuseppe Fiorelli[183], alcuni documenti da lui attribuiti a Berardo GALIANI[184] (i quali, essendo ancora oggi sostanzialmente sconosciuti proprio a causa della rarità di quel fascicolo ove furono trascritti per la prima volta, sono stati portati in appendice) permettono di affermare senza timore di smentita che il 13 dicembre 1763 il ministro Tanucci fece consegnare all’eminente commentatore di Vitruvio i due nominati disegni, consistenti nella «pianta e il profilo del teatro d’Erculano fatto da D. Carlo Weber, insieme con una di lui relazione», affinché questi esprimesse il suo proprio parere in merito alla loro pubblicazione.Berardo rispose[185] a quest’interpellanza proponendo una serie di sondaggi da effettuare nel luogo ove era sepolto il teatro che doveva servire a fare chiarezza sulla morfologia di alcune parti della fabbrica che a suo credere non erano state rilevate con esattezza, ma dedotte facendo eccessivo affidamento sulle descrizioni di Vitruvio. Uno di questi saggi poi, doveva avere lo scopo di chiarire la struttura della Scena, ed in particolare «se mai fosse in questa parte coperto il teatro»[186], un interrogativo che proprio in quegli anni vedeva i soci della Accademia Olimpica di Vicenza schierati in due opposte fazioni, poiché dalla sua chiarificazione dipendevano le sorti del magnifico Teatro che Andrea Palladio aveva realizzato traendo spunto da quelli antichi. In seguito a questa polemica i vicentini avevano richiesto anche il parere di Berardo GALIANI, contando certamente sulla cospicua capacità maturata attraverso lo studio approfondito di Vitruvio e palesata nell’apprezzato commento al De Architectura; ma purtroppo il loro interrogativo giungeva troppo presto perché Berardo potesse integrare la sua già vasta cultura antiquaria con le informazioni tratte dai previsti sondaggi[187], e di conseguenza il napoletano nel rispondere all’Accademia Olimpica con uno scritto che rivela la sua notevole competenza in merito all’argomento dibattuto, dovette dichiarare con una punta di rammarico: «In altre fatiche, che ho per le mai, spero con più chiarezza, distinzione, e precisione far meglio acquistare sempre più chiara idea del Teatro antico»[188]. Berardo doveva essere ben felice dell’incarico affidatogli dal marchese ministro Tanucci, che gli consentiva di approfondire le sue conoscenze su di un argomento ancora molto nebuloso per gli studiosi di architettura contemporanei, infatti, nella citata lettera in risposta al Primo Ministro, esprimeva senza mezzi termini la sua completa disponibilità ad occuparsi egli stesso della pubblicazione dei disegni che gli erano stati consegnati, i quali a suo dire necessitavano di essere ridotti ad una grandezza che permettesse la stampa di ogni tavola in una sola pagina[189]; e come ulteriore conferma del suo interessamento Berardo, sempre in quella lettera, faceva presente di essere pronto in qualsiasi momento a mostrare al suo interlocutore un piccolo plastico del Teatro ercolanese, che aveva realizzato facendo affidamento sulle pur incomplete informazioni tratte dal materiale che aveva per le mani[190]. I sondaggi, iniziati nel maggio 1765 e proseguiti fino a tutto il 1774, furono diretti da Francesco La Vega «secondo gli avvertimenti del Marchese GALIANI e della Accademia»[191], ma purtroppo anche questi ulteriori scavi non consentirono di far luce sulla dibattuta questione della copertura in quanto la parte alta della scena era troppo rovinata per poter fare delle valutazioni attendibili sulla esistenza della copertura del palcoscenico[192].Un ultimo episodio poi, doveva far associare il nome del nobile commentatore vitruviano a quello dell’architetto Weber, e a darcene notizia è Ferdinando GALIANI, che annota: «A 9 Febbraio 1765 (Berardo GALIANI) fu destinato dalla Maestà del Re ad intervenire col Principe Dentice Delegato della Regal casa, e coll’Uditori de’ Reali Eserciti al riesame de’ testimoni per il furto de’ disegni del fu D. Carlo Veber»[193].
Evidentemente il passaggio di consegne tra il defunto direttore degli scavi ed il suo successore La Vega non fu del tutto indolore, ma per buona sorte secondo le scarse notizie attinte dalle fonti, estremamente reticenti su questa vicenda, il materiale trafugato fu recuperato in breve tempo, e già l’ 11 marzo di quello stesso anno il principe Dentice riceveva comunicazione che il marchese GALIANI aveva riconosciuto come scritte da Weber le carte mostrategli dall’«Ajutante delle Reali Guardie Svizzere D. Rocco Rermer»[194], ossia a giudizio del Dott. Caffariello, quelle che Ferdinando dichiara essere state trafugate. Fra le tante carte che furono osservate in quella occasione, Berardo notò un volume manoscritto che recava il titolo Le piante di alcuni edificij sotterranei.... ed altre. Tomo III, si trattava cioè proprio di quella pubblicazione per la quale Weber aveva chiesto la sua consulenza[195] in quanto, a differenza dei precedenti due tomi delle Antichità Ercolanesi ove erano illustrati solo i dipinti, doveva essere dedicato interamente ai fabbricati degli antichi popoli vesuviani: pubblicazione per la quale però lo svizzero non era mai riuscito ad ottenere benestare da parte dell’amministrazione reale. In definitiva dalle ricerche effettuate emerge un particolare aspetto dell’attività di Berardo GALIANI che, apprezzato per la sua vasta erudizione nel campo dell’architettura antica, pur non essendo stato presumibilmente investito di alcuna carica specifica nell’ambito dell’Accademia Ercolanese, prestava in varie occasioni la sua autorevole consulenza in favore della nascente attività archeologica, la quale proprio in quegli anni cercava faticosamente (ed anche per merito di Weber e GALIANI) di emanciparsi dal l’osservazione meramente estetica delle ‘anticaglie’, per indirizzarsi verso un’analisi protoscientifica rivolta al reperto (nella sua accezione più ampia possibile) inteso come documento di scienza, oggetto di studio e di ricerca. È in quest’ottica infatti che vanno lette la riforma delle tecniche di scavo, gli studi sugli edifici dell’antichità, lo sviluppo delle pratiche documentative[196], come pure tutta una serie di episodi collaterali quali la insistente ricerca di un metodo valido per svolgere i papiri pressoché carbonizzati che erano stati rinvenuti nella Villa dei Pisoni; la creazione di complessi museali di straordinaria importanza visitabili dal pubblico[197] come il museo di Portici o il palazzo di Capodimonte, quest’ultimo fra le primissime strutture europee a fungere soprattutto da museo artistico[198]; ed ancora la costante lotta per preservare dalla rovina gli intonaci dipinti che, estratti dagli edifici sepolti, figuravano «come tanti bei quadri»[199] nella raccolta reale di Portici, ma che insieme con l’umidità perdevano presto anche il colore; per essi, è bene sottolinearlo, nessuno avanzò mai proposte di «’rinfrescar’ le pitture e reintegrarne le parti cadute»[200], come spesso ancora si praticava a quell’epoca. Queste interessanti iniziative però, dovevano rappresentare ben poca cosa per chi, come Winckelmann, in quegli anni andava lasciando velenosi strali, spesso purtroppo a ragione, contro gli aspetti estremamente negativi che troppo spesso ebbero la meglio sulle buone intenzioni dei napoletani, i quali, feriti su uno di quei temi che all’epoca era per essi fra le maggiori fonti d’orgoglio, cercarono di trovare una figura capace di tenere testa anche nell’uso della penna al caustico studioso sassone, e la trovarono proprio in Berardo GALIANI.
La polemica con Winckelmann
Di ritorno da Napoli Johann Joachim Winckelmann scrisse allo scultore danese Giovanni Wiedewelt(19 dicembre 1767) raccontandogli del suo recente viaggio (il quarto)[201]nella capitale borbonica, ed accennando per l’ultima volta agli scavi archeologici di Ercolano e Pompei che aveva avuto modo di visitare in varie occasioni. In questa lettera l’archeologo di Dresda non poté fare a meno di manifestare la sua grande meraviglia per l’accoglienza ricevuta, e specialmente per la disponibilità degli alti uffici governativi che, a suo dire, giungeva decisamente inaspettata, poiché si rendeva perfettamente conto di quanto fossero state pesanti le sue accuse in merito alla gestione della grande impresa archeologica. Ecco quanto egli scrive: «Oggi è appunto un mese che sono tornato da Napoli, ove soggiornai due mesi presso un amico. Mi recai colà propriamente coll’intenzione di passare poscia in Sicilia dubitando di trovarvi buona accoglienza presso il primo ministro e di ottenere il libero accesso al Museo[202]. Ma avendolo trovato propenso ai miei desideri al di sopra d’ogni mia aspettativa, cambiai il mio piano, e mi riuscì difatti di superare tutte le difficoltà, e di riconciliarmi con tutti i partiti offesi, fra cui principalmente il Marchese GALIANI»[203]. Winckelmann aveva conosciuto Berardo in occasione del suo primo viaggio a Napoli nel 1758, e ne aveva avuto una buona impressione, definendolo qualche tempo dopo come un «uomo illibato, buon amico e buon letterato ad un tempo»[204]. In quell’occasione l’abate prussiano venne a conoscenza di una serie di pressappochismi e manomissioni che l’allora direttore degli scavi, colonnello Rocco Alcubierre, andava perpetrando ai danni delle antichità; egli poteva agire pressoché indisturbato nel riserbo garantitogli delle buie gallerie, e senza che il Sovrano potesse rendersene conto, pur seguendo con interesse[205] le ricerche sulla base delle relazioni che quotidianamente l’ufficiale era chiamato ad inviare a palazzo. Winckelmann aveva appreso queste notizie da padre Antonio Piaggi[206] il quale, malvisto dagli altri addetti agli scavi, voleva in tal modo ottenere una rivalsa nei loro confronti[207], ed il tedesco non esitò a denunciare ciò che stava accadendo ad Ercolano nella Lettera al Conte di Brühl pubblicata nel 1762, ove ironizzava sulla competenza di Alcubierre che per l’archeologo (parafrasando un proverbio italiano) «non aveva mai avuto a che fare colle antichità più della luna coi gamberi»[208].
La contestazione principale riguardava il principio stesso secondo il quale si procedeva preoccupandosi soltanto di asportare, con metodi spesso distruttivi, gli oggetti più integri e vistosi, quelli cioè che avrebbero potuto meglio figurare nel Museo di Portici; bronzi suppellettili e soprattutto dipinti, venivano estratti dai cunicoli come se si trattasse di una miniera, a volte sfondando muri delle antiche dimore senza preoccuparsi delle decorazioni che potevano esserci sulla parete opposta[209], e arrecando in tal modo l’ultimo oltraggio ai ruderi di Ercolano. Tali critiche erano certamente motivate in ragione delle esigenze di studio e classificazione verso le quali tendeva l’archeologo sassone, ma le difficili condizioni in cui avvenivano gli scavi di Ercolano avrebbero potuto stemperare allora (ed anche ridimensionare oggi) i toni della polemica, specie se si pensa che quando le possibilità tecniche lo permisero[210], gli edifici furono disseppelliti integralmente, alcuni addirittura ripristinati parzialmente, e nelle pubblicazioni che seguirono [211] i dipinti che come gli altri reperti iniziarono ad essere conservati in loco, furono rappresentati nel loro contesto originario[212]. Ma questa non era l’unica accusa: Winckelmann raccontava delle iscrizioni smontate e gettate alla rinfusa nelle ceste senza nemmeno averle trascritte, delle statue lucidate e private tal modo della «bella patina antica», infine dello sciagurato episodio della quadriga bronzea che ornava il teatro di Ercolano: Giuseppe Canart infatti, incaricato di occuparsi dei numerosi frammenti che venivano recuperati dagli scavi, spaventato del loro numero prese la pazzesca decisione di fonderli, e dal dorso dell’auriga, che non era in grado di ricostruire, ricavò dei grossi medaglioni con l’effige del Re e della Regina, statue di Santi e candelabri[213]. Non era necessaria la censura di Winckelmann per capire che una tale operazione era inammissibile, malauguratamente però il secco divieto del Sovrano arrivò quando già una parte dei bronzi era andata irrimediabilmente perduta. Le accuse dell’archeologo di Dresda erano, purtroppo, in gran parte fondate, e vanno lette come il risultato dell’atteggiamento sostanzialmente discontinuo (se non addirittura contraddittorio) tenuto dagli amministratori partenopei in quanto, come ha avuto modo di osservare Fausto Zevi, «a momenti di rigorismo filologico, altri ne succedono in cui senza esitare si pone mano al piccone demolitore. La corte sembra colta di sorpresa dalle critiche esterne; si imboccano strade che conducono ad errori grossolani, e poi proteste e scandali inducono a repentini mutamenti di rotta; dal palazzo si alternano, a breve distanza, rescritti contrastanti»[214]. In sostanza bisogna riscontrare, specialmente nelle iniziali degli scavi, l’effettiva assenza di una reale politica della ricerca archeologica che, affidata a semplici ingegneri militari, restauratori e disegnatori in continuo conflitto tra di loro, aveva come unico scopo l’incremento del prestigio del Regno conseguente al possesso delle magnifiche collezioni di antichità. Il polverone suscitato dalle denunce dell’abate prussiano era stato tale che, senza affatto esagerare, «nel 1765, il ‘caso Winckelmann’era diventato alla corte di Napoli quasi un affare di stato»[215], p. 46), e l’egemone ministro marchese Bernardo Tanucci, di concerto con l’abate Ferdinando GALIANI, era intenzionato ad affidare a Pasquale Carcani (1721-1783), membro e segretario dell’Accademia Ercolanese, il compito di replicare opportunamente alle accuse del goto[216]; questo progetto non andò a buon fine cosicché la sola risposta fu quella dell’abate Mattia Zarrillo[217], il quale diede alle stampe un Giudizio dell’opera dell’abate Winckelmann[218], a suo dire ispirato ad alcune riflessioni fatte in proposito dal marchese Berardo GALIANI[219], ma che in realtà, come si è avuto modo di accertare, era per la maggior parte una vera e propria copia integrale di un precedente scritto di Berardo GALIANI. Infatti poco tempo dopo l’uscita di questo opuscolo, Francesco Daniele[220] ne pubblicò anonimamente un altro di sei pagine intitolato: Considerazioni sopra la lettera dell’abate Winckelmann, facendolo procedere da un Avviso al lettore nel quale accusava Zarrillo di aver plagiato lo scritto di Berardo GALIANI che egli ora pubblicava integralmente. In realtà le nominate Considerazioni erano effettivamente opera di Berardo, sebbene nelle intenzioni del vero autore, come testimoniano le parole di suo fratello Ferdinando esse erano destinate a rimanere «una memoria segreta e un appuntamento fatto con se medesimo per guardarsi esso di rispondere alle lettere che riceveva dal Winckelmann[221], vedendo da costui tradito ogni segreto e propalato per le stampe quanto dagli amici gli veniva in confidenza detto o scritto»[222]. La responsabilità della pubblicazione ricadde, per ironia della sorte, proprio su Berardo che quasi certamente non aveva avuto alcuna parte nell’iniziativa presa da Francesco Daniele[223], ma che invece subì un duro richiamo da parte di Pasquale Carcani[224], il quale in una severa lettera gli rimproverava di aver coinvolto il nome dello stesso ministro Tanucci nella sua personale polemica contro lo Zarrillo, chiamandolo in causa in quell’Avviso al lettore del quale Berardo era ancor meno responsabile. Fatto sta che il Primo Ministro ordinò che fossero ritirate dalla circolazione tutte le copie di quell’opuscolo, operazione che dovette essere eseguita in maniera attentissima visto che, nonostante approfondite ricerche, non è stato possibile rintracciare alcun esemplare nelle biblioteche di Napoli; lo stesso Franco Strazzullo, che in un suo saggio commenta il Giudizio avvisando che esso in gran parte attinge dalle riflessioni di GALIANI, cita le Considerazioni senza però darne alcun riferimento bibliografico né come pubblicazione, né tanto meno sotto forma di manoscritto[225]. In compenso tra i manoscritti della Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, è conservato proprio l’autografo di Berardo GALIANI[226], che era stato erroneamente catalogato (una volta di più) come uno scritto del fratello Ferdinando e che forse proprio per questa ragione era passato pressoché inosservato e mai segnalato. Dal confronto con il menzionato Giudizio risulta che lo Zarrillo copiò integralmente le osservazioni galianee, aggiungendovi due brani [227] che contenevano principalmente delle polemiche riguardo ad alcune iscrizioni in lingua latina che Winckelmann, a detta del napoletano, aveva trascritto o interpretato erroneamente. Tutta l’impostazione generale del Giudizio è quindi opera di GALIANI ma, a discarico del presunto plagiario , bisogna precisare che in realtà era stato lo stesso Berardo a permettergli di prendere spunto dalle sue Considerazioni[228], ed ancora una volta è Ferdinando a raccontare come in realtà si svolsero i fatti in un suo scritto di tono scherzoso in cui immagina che i protagonisti della vicenda siano chiamati a giudizio sul Parnaso, al cospetto di Apollo: «(Il Marchese rispose) che il Zarrillo non era plagiario perché esso GALIANI gli aveva accordato il permesso di soccorrere co’suoi concetti, ove ne mancassero a lui, ma tanto dovea considerarsi come reo per non aver saputo scrivere gli stessi concetti con altre parole e con lo stile proprio simile al resto delle Giunte fatte [ ... ]. Ma che il Daniele non meritava alcuna scusa per aver voluto uscire in campo ad offendere il Zarrillo in cosa che non meritava tanta pena e per aver voluto pubblicare il segreto foglio di esso GALIANI e senza carta di procura entrare ad accusare altri di plagio e a difendere le pretese ragioni, abusando dell’amicizia accordatagli»[229]. La conseguenza di tutto questo complicato intreccio di citazioni, presunti plagi e successivi chiarimenti, è che anche i più autorevoli studiosi sono caduti in equivoco , come ad esempio Franco Strazzullo, il quale commenta le parti del Giudizio scritte da Berardo GALIANI come se fossero di Zarrillo[230]; o peggio come Pierluigi Panza, che addirittura confonde Berardo con Ferdinando GALIANI, attribuendo a quest’ultimo e non all’eminente studioso d’architettura le Considerazioni[231]. Roberto Pane invece, oltre a ravvisare giustamente in Berardo GALIANI l’autore essenziale della replica a Winckelmann, ritiene che questa sia sostanzialmente ingenua e inefficace[232], confortato in questa opinione anche dal parere di Fausto Zevi[233]; ed in effetti Berardo, pur attribuendo ad ignobili pettegolezzi le accuse avanzate dall’archeologo prussiano, non può fare a meno, per esempio, di confermare l’inautenticità del cavallo esposto a Portici[234], dovuta al fatto che questo era stato ricomposto impiegando i frammenti eterogenei recuperati da quelli delle quattro statue equestri che componevano l’antica quadriga bronzea[235] essendo oramai impossibile ricostituire l’intero gruppo che un tempo ornava il teatro di Ercolano. Per quanto riguardava poi lo scarso interesse per i frammenti, GALIANI risponde affermando che sarebbe stato necessario sloggiare il Re dalla reggia di Portici per conservalli tutti, ed ancora difendeva il rozzo Alcubierre il quale da buon ingegnere militare avrebbe «ben disimpegnata la sua incombenza», consistente essenzialmente in due compiti, ovvero quelli di «diriggere uno scavo sotterraneo in modo, che non pericolasse, e di saper prendere le piante degli Edificj, che vi s’incontrassero». «Come si vede dunque, sono parole di Roberto Pane, gli argomenti addotti dall’erudito Berardo, in difesa del patrio loco, non fanno che confermare, senza volerlo, il severo giudizio pronunciato da Winckelmann[236], ma bisogna considerare che risollevare le sorti degli antiquari partenopei doveva essere un compito alquanto difficile per chiunque, ed allora Berardo GALIANI non trovò niente di meglio che ricambiare le offese del suo avversario definendolo ingiustamente «Goto divenuto antiquario a forza di pratica»[237] alla stregua di un qualunque cicerone, ed aggiungendo più avanti che «i Goti non gustano se non l’impossibile, o almeno il difficile; principio, come abbiamo sperimentato, riuscito utile solamente per la perfezione della Chimica, ed in qualche modo delle arti Meccaniche».
Si osservi che se l’epiteto «goto» viene usato, come evidenzia Fausto Zevi, oltre che per disprezzo nazionale anche in relazione al ‘Goticò, e cioè «lo stile in cui l’estetica del tempo ravvisava l’anticlassico e la negazione del bon goût»[238], nello stesso tempo dietro la generica definizione di «arti Meccaniche» potrebbe celarsi anche l’apprezzamento di GALIANI[239] per la cospicua competenza dei tedeschi sul comportamento strutturale degli edifici che le cattedrali, col loro ardito slancio verticale, esprimevano in modo inequivocabile e mirabile.
Berardo non rinunciò comunque a prendersi una piccola rivincita nel campo che gli era più congeniale, vale a dire nella filologia architettonica, ove non temeva affatto il confronto con nessuno; l’archeologo prussiano infatti, aveva fatto una serie di errori nel descrivere il teatro di Ercolano, e soprattutto preso un grosso abbaglio confondendo i vomitoria, ossia gli accessi alla cavea, con le scalette che dipartendosi da tali uscite permettevano agli spettatori di raggiungere il proprio posto sulle gradinate[240].
L’occasione era troppo ghiotta perché Berardo GALIANI non ne approfittasse, e Winckelmann dovette ingoiare il rospo condito con l’invito a leggere con attenzione Vitruvio nonché con la sarcastica frase[241]: «Come il Signor Abbate tanto dotto chiama VOMITORIA le scale ? Qui ci cape, che ha a che fare la Luna cò granchi?»[242]. Ma a suscitare l’estrema indignazione nel napoletano è il fatto che Winckelmann avesse anticipato al pubblico dei lettori molte notizie sugli scavi di Ercolano senza curarsi del divieto impostogli dalle autorità, tradendo così la fiducia del Re il quale, pur avendolo favorito rispetto a tanti altri, vedeva ora il suo governo e il suo Paese oggetto delle ingiurie e delle offese da parte di chi era stato accolto e trattato invece con estremo riguardo. Già in precedenza si è accennato al fatto che il Sovrano avesse «voluto serbare a sé il piacere di pubblicare colla maggior possibile esattezza, ed esame le scoverte portentose fatte sotto il suo felice Regno», ma era pressoché impossibile per le autorità intervenire fuori dai confini dello stato per impedire la stampa delle varie pubblicazioni sull’argomento le quali, attingendo a fughe di notizie e appunti di viaggio, si moltiplicavano facendo presa sul grande desiderio di informazione da troppo tempo represso e frustrato dal sostanziale silenzio delle fonti ufficiali, in quanto bisogna considerare che la stampa delle Antichità Ercolanesi ebbe inizio solo molto tempo dopo l’avvio delle ricerche archeologiche, proseguendo poi con estrema lentezza; di conseguenza al Sovrano non restava altro che cercare di impedire la diffusione di quegli scritti se non all’estero, almeno entro i confini del Regno, ove infatti l’applicazione dei divieti era estremamente rigorosa.
Per i letterati napoletani al danno del privilegio reale, che di fatto impediva la stampa di qualsiasi lavoro sugli scavi[243] si aggiungeva la beffa di vedere gli stranieri appropiarsi della prestigiosa scoperta, e così, paradossalmente, proprio coloro che avrebbero dovuto annunziare all’estero le grandi scoperte erano estremamente penalizzati, estromessi dal dibattito internazionale se non addirittura, come da parte dello stesso Winckelmann, tacciati di neghittosità. È per questo motivo che bisogna riflettere con attenzione sull’impietoso giudizio di Anna Ottani Cavina la quale nota in modo alquanto sprezzante che in quegli anni anche gli artisti partenopei apparivano estremamente refrattari, indifferenti al fascino del Sublime e dell’Antico, attribuendone la ragione alla «ottica differenziata con cui l’immagine di una città agisce su uno straniero oppure su un nativo»[244]; infatti se per quanto riguarda le sollecitazioni dell’irrazionale, del romantico «che il Vesuvio scatenato ed in fiamme proponeva alla sensibilità dei nordici»[245] non si può che rilevare una evidente impermeabilità della cultura figurativa autoctona, diverso è il discorso nei confronti della fascinazione esercitata dai luoghi fatidici dell’archeologia: in realtà gli artisti napoletani erano di fatto tagliati fuori dalla ricaduta culturale di quel dibattito sull’Antico che entusiasmava l’Europa, e che con notevole difficoltà, spesso solo grazie ai personali rapporti epistolari[246] un numero estremamente esiguo di letterati riusciva a condividere. E per capire quanto fossero energici i provvedimenti adottati dagli amministratori per impedire la partecipazione di cerchie culturali più vaste all’impresa ercolanese, basta pensare al fatto che la misura introdotta per evitare il trafugamento dei reperti fu, per un certo periodo, la insensata distruzione di quanto non era considerato tanto appariscente da poter essere esposto nel museo di Portici; ben presto però le proteste dell’intellettualità internazionale costrinsero il ministro Tanucci[247] a ritirare nel 1763 quella precedente disposizione, ed a proibire in modo categorico ogni altra distruzione[248].
Nonostante ciò affermare[249] che «Negli anni cruciali, a metà del Settecento, prevalgono a Napoli autarchia e regressione»[250], sembra eccessivo nei confronti di una nazione che, pur protestando per le fughe di notizie, era stata sempre attenta ai segnali provenienti dall’esterno, operando opportuni cambiamenti di rotta ogni volta che la cultura internazionale[251] puntava il dito accusatore contro gli errori compiuti nella gestione della grandiosa impresa.
In questi casi alla protesta ufficiosa, si veda il caso delle Considerazioni galianee, non seguiva la ritorsione nei confronti della persona[252], ma anzi si cercava di fare tesoro delle indicazioni allogene che spesso venivano attuate, pur nei limiti delle costanti difficoltà economiche del Regno; il risanamento delle pubbliche finanze infatti, che all’inizio aveva dato ottimi risultati grazie al riscatto degli arrendamentì[253], fu pregiudicato negli anni quaranta del secolo XVIII dallo scatenarsi di un’epidemia di peste[254] e soprattutto dal coinvolgimento nella guerra di successione austriaca , quasi imposto dalle circostanze al fine di assicurare almeno il ducato di Parma e Piacenza a Filippo V, fratello di Carlo[255]. Un’ultima riflessione va fatta, infine, per sottolineare il fatto che l’atteggiamento della corte partenopea, gelosa di quell’immane raccolta di antichità che si andava recuperando, ebbe un effetto estremamente positivo sul complessivo patrimonio artistico del Regno impedendo la dispersione mediante un severissimo controllo che non aveva pari in nessun altra nazione[256], come fa notare Francis Haskell quando afferma che «i risultati di quegli scavi[257] furono tenacemente salvaguardati per il Regno di Napoli in un periodo in cui, a Roma i papi combattevano una battaglia perduta contro il continuo saccheggio da parte dei collezionisti locali e degli stranieri speculatori in antichità»[258]. In parole povere proprio la miopia di un’impresa condotta solamente nel segno del prestigio del Sovrano, ha consentito paradossalmente di preservare i tesori artistici partenopei da un altrove incontrollabile saccheggio; ed è forse doveroso far notare che forse il reale beneficiario della grande impresa archeologica doveva essere, almeno nelle intenzioni poi troppo spesso mal realizzate del Re, la stessa Napoli, alla quale Carlo di Borbone non volle sottrarre neanche una minima parte di quel patrimonio, lasciando nella città, allorché ascese al trono di Spagna, tutti i tesori del suo primo Regno, dalla stupenda Collezione Farnese all’anello che portava al dito.
La copertura del Teatro Olimpico: vicende storiche
Di quel meraviglioso organismo architettonico quale è il Teatro Olimpico palladiano[259], la copertura sovrastante e la cavea e la scena ha catalizzato, in varie occasioni, l’attenzione di numerosi eruditi e studiosi d’architettura (nonché gli stessi accademici vicentini) intorno a problematiche le quali, pur se originate da esigenze di ordine pratico, necessariamente travalicavano in considerazioni di natura teoretico-filologica, a causa della esplicita citazione del teatro antico che emergeva dalla morfologia di quello splendido edificio. Tali vicende affondavano le radici nella stessa sua redazione originaria, lasciata incompiuta dal genio di Andrea Palladio, sviluppandosi nel corso dei secoli successivi fino agli inizi di quello contemporaneo, allorché la copertura assunse l’aspetto che ha conservato fino ai nostri giorni[260]. Infatti, benché sia stato possibile ricostruire le modifiche di cui quest’ultima è stata oggetto nelle varie epoche[261], è invece molto problematico cercare di recuperare l’originale idea palladiana, se mai fu espressa, stante l’estrema reticenza delle fonti autografe che mostrino, o lascino intendere, l’aspetto che avrebbe dovuto assumere l’aula[262] nelle intenzioni del suo creatore. Allo stato attuale è noto un unico foglio, custodito presso il Royal Institute of British Architects[263], sul quale la mano di Andrea[264] ha tracciato due proposte alternative per la morfologia della scaenae frons; purtroppo in questo importante disegno è completamente assente qualsiasi indicazione inerente proprio il modo di realizzare la copertura dell’invaso. Disperso, invece, è il modello di tutto l’edificio, che Palladio stesso avrebbe realizzato intorno al 1580[265]. La prima fonte che ci dia l’immagine attendibile della copertura nella veste originaria è l’incisione di Ottavio Revesi-Bruti[266] datata 1620[267], che, accompagnata da una pianta e da una lettera descrittiva sul Teatro, costituirà un documento di fondamentale importanza nell’ambito del dibattito settecentesco. In essa il soffitto che sovrasta la scena è compartito in sette lacunari, la cui scansione rispecchia in alto il ritmo scandito frontalmente della scaenae frons; i lacunari di numero dispari sono poi ulteriormente suddivisi in tre spazi ciascuno, con la sola esclusione di quello centrale , il quale, perché corrispondente all’ampiezza della porta regia, presenta inscritto un cassettone ottagonale con dipinti allegorici. Riguardo al soffitto della cavea, non visibile nell’incisione, la decorazione consisteva in un grande affresco ad imitazione del cielo, secondo quanto scritto dallo stesso Revesi-Bruti nell’ampia legenda descrittiva allegatavi[268]. Tale soluzione voleva, probabilmente, essere un artificio adottato per superare la profonda contraddizione venutasi a creare tra un impianto formale, quello del teatro antico, destinato a rimanere scoperto e la sua traduzione moderna (rinascimentale), che al contrario doveva essere, per pura necessità pratica, non altro che uno spazio chiuso; in parole povere - afferma Roberto Pane - tale contraddizione veniva aggirata alludendo «artisticamente» ad un ambiente non coperto[269]. In sostanza la soffittatura realizzata negli ultimi anni del XVI secolo, sanciva il principio di dissociazione tra i due spazi del palcoscenico e della cavea, destinati l’uno alla rappresentazione, l’altro alla fruizione dello spettacolo perseguita mediante la differenziazione figurativa dell’apparato decorativo; dissociazione considerata da Lionello Puppi il punto di arrivo di un atteggiamento impostato già da Vincenzo Scamozzi e Angelo Ingegneri, in ossequio alle ragioni della pratica teatrale contemporanea, e palesato da quella sorta di embrionale boccascena[270] venutosi a formare per la giustapposizione delle due ali di muratura che inquadrano le cosiddette “versure”, nonché della lunga trave composta che divide in due settori distinti il cielo dell’aula teatrale. Il pavimento del palcoscenico infine, rappresentato nella incisione a pendant del soffitto, suggella il presunto “tradimento” di quella che doveva essere stata l’idea palladiana, maturata nel corso di approfonditi studi e ricerche che spaziavano dal rilevamento archeologico alle meditazioni sul testo vitruviano[271], e che sarebbe dovuta essere volta «all’affermazione di una misura unitaria di spazio, imperniata sul cardine del proscenio, la cui asserzione imperiosa subordinava a sé cavea e prospettive in un contesto organico ove s’annullasse la dissociazione figurativa [ ... ] tra l’ambito riservato agli spettatori e quello affidato agli attori»[272], esattamente il contrario, quindi, di quanto era stato poi effettivamente fatto. Quando, nel 1764, Berardo GALIANI sarà chiamato a pronunciarsi proprio sull’episodio della copertura, non potrà fare a meno di notare e sottolineare le molte licenze prese nei confronti della vera struttura del «teatro antico», e le attribuirà a Palladio stesso, ritenendo poco probabile l’ipotesi che i suoi continuatori ne avessero potuto alterare il disegno senza incontrare la forte opposizione degli Accademici, o comunque senza che tale (a suo credere) inevitabile opposizione fosse segnalata nelle cronache dell’epoca[273]. Ma già molto tempo prima della querelle settecentesca nella quale fu coinvolto Berardo GALIANI, la copertura richiamò l’attenzione dei vicentini a causa di non lievi problemi concernenti in primo luogo la sua sicurezza statica, infatti non era trascorso neanche mezzo secolo dalla sua realizzazione, che le precarie condizioni in cui versava resero improrogabile un intervento anche sul suo apparato decorativo. Come quest’ultimo sia stato affrontato, e con quale incisività, non ci è dato sapere, ma è certo che quando i lavori furono terminati [274] l’impostazione bipartita della decorazione del soffitto non risultò affatto alterata[275].
La disputa settecentesca
Il cassettonato alla ducale ed il cielo stellato[276] furono rimossi e liquidati nell’ambito dei frettolosi lavori condotti negli anni trenta del XVII secolo sulla carpenteria della copertura. Questo nuovo e drastico intervento si rese necessario per far fronte al processo di grave decadenza che aveva interessato il prestigioso Teatro, e che pur se dovuto principalmente alla deteriorabilità dei materiali impiegati in precedenza, era stato ulteriormente aggravato anche dal quasi totale abbandono dell’aula per decenni. Di fatto solo in occasione di qualche ricevimento e delle rare adunanze accademiche ne veniva eseguita una sommaria manutenzione o la semplice pulizzia, cosicché il 14 marzo 1733 gli Accademici non poterono che constatare «l’estraordinaria premura di riparare questo teatro il cui tetto minaccia imminente rovina, come dalla perizia di Gaetano Farina perito»[277]. Nell’ambito della nuova fase di restauri fu posto in opera un tavolato che ricoprì uniformemente l’intero invaso dell’Olimpico, e la nuova decorazione[278], pur mantenendo la differenzazione tra i due settori dell’aula, fece della grossolanità il corrispettivo della fretta con cui fu realizzata. In particolare, il settore rettangolare del soffitto soprastante la scena fu impropriamente tripartito, con lo sgradevole risultato che le sue suddivisioni battevano in falso rispetto alla scansione della scaenae frons[279]; mentre invece, riguardo alla decorazione del cielo della cavea, i documenti parlano di una tela «malamente dipinta», senza specificarne il soggetto, fosse stato un cielo o l’antico aere pinto[280]. Ben presto, però, gli Accademici dovettero accorgersi che l’esito di questi ultimi lavori, oltre che figurativamente sgrammaticato, era carente anche dal punto di vista statico[281], cosicché deliberarono (nell’adunanza dei giorno 23 aprile 1755) che insieme all’ennesimo consolidamento, si procedesse anche a ripristinare quell’apparato demolito nel 1734 e che essi ritenevano rispecchiare il pensiero dello stesso Palladio[282]. È a quest’epoca, quindi, che risale la presa di coscienza critica del problema della copertura[283], nell’ambito della quale si sviluppano quei due partiti contrapposti, che Franco Barbieri chiama degli «unionisti» e dei «divisionisti», incarnati rispettivamente dalle persone di Ottone Calderari ed Enea Arnaldi[284]. Tali felici denominazioni palesano l’argomento concreto della disputa, incentrata sulla opportunità, o meno, di adottare nuovamente la soluzione rappresentata nella incisione del Revesi-Bruti, e caratterizzata dalla bipartizione del soffitto, già descritta in precedenza. Contro la deliberazione dell’aprile 1755 [285] si era infatti levata la voce di Ottone Calderari, secondo il quale la copertura raffigurata nella stampa seicentesca non rispecchiava affatto la soluzione realmente immaginata da Andrea Palladio, ma costituiva, invece, un’interpolazione del suo progetto operata dai continuatori in sede esecutiva e al di là di qualsiasi possibilità di controllo da parte del defunto artefice. Quella stessa immagine, quindi, che i seguaci del partito “divisionista[286]consideravano una documentazione inoppugnabile, diventava per i loro antagonisti la prova manifesta di un tradimento; allo stesso modo, le teorie di Vitruvio e le altre argomentazioni degli uni risultavano con abilissima dialettica, ribaltati fino a confortare l’assunto degli altri[287]. Calderari insisteva sulla presunta volontà del glorioso architetto padovano di far rivivere nell’Olimpico la struttura del teatro antico, e concludeva il suo Discorso proponendo l’uso di «una vela, o tenda che ugualmente cuopra tutto il Teatro, fatta a similitudine di quella che adoperavano gli Antichi ne’loro teatri (...). Questa vela, perfettamente stesa, si potrebbe attaccare al mal commesso tavolato esistente, facendola dipingere da buon pittore, adornandola con stelle d’oro»[288]. In sostanza egli voleva ricreare almeno la suggestione di quel «velario», che veniva anticamente disteso per preservare gli spettatori dalle intemperie atmosferiche, sebbene fosse disposto (in ultima istanza) ad accettare un soffitto cassettonato «alla ducale» su tutta l’aula, purché non venisse a mancare quella «uniformità» ritenuta condizione essenziale ed irrinunciabile[289].I due antagonisti espressero i loro convincimenti davanti all’adunanza plenaria degli Olimpici, ed alla presenza dei più colti cittadini di Vicenza[290], ma, effettuata la votazione, il partito di Enea Amaldi, pur essendo maggioritario, non raggiunse i due terzi dei suffraggi necessari per dar corso alla proposta[291], cosicché Calderari riuscì ad ottenere che la decisione finale avesse luogo dopo la valutazione dei pareri espressi da altri «intendenti d’architettura», chiamati a giudizio da tutta la penisola col fine di stemperare la fazziosità della polemica ed assicurare una reale imparzialità di giudizio
Il.«Parere» galianeo
In seguito a questa seconda risoluzione presa dagli accademici olimpici, la contoversia sul modo di realizzare il nuovo soffitto del teatro palladiano si allargava agli studiosi non vicentini, e sia Ottone Calderari che Enea Arnaldi (impegnati sui due fronti della disputa) si mossero alla ricerca di autorevoli alleanze su tutto il territorio italiano[292]. A favore del primo si schierarono Tommaso Temanza, Francesco Algarotti, ed il Conte Girolamo Dal Pozzo. Il secondo, invece, godeva dell’appoggio di un «dilettante d’architettura», il casalese Francesco Ottavio Magnocavalli, Conte di Varengo, ma la loro amicizia era troppo nota perché quest’ultimo potesse dare ufficialmente il suo parere sulla questione, senza essere tacciato di parzialità[293]. Ciò non impedì ad Enea di chiedere consiglio all’amico affinché gli suggerisse i nomi di alcuni eruditi che avessero potuto appoggiare la sua causa, allineandosi sulle posizioni divisioniste e suffragandole con solide argomentazioni teoretico-filologiche[294] (cosa, quest’ultima, non certo alla portata di tutti gli architetti o esperti in materia, per quanto di chiara fama). Di qui il coinvolgimento di Berardo GALIANI, che Magnocavalli segnalò al vicentino insieme ad un non meglio precisato Bartoli[295], all’Accademia di Parigi, ed in seguito, a Giovan Battista Borra. Berardo GALIANI appoggiò con convinzione le tesi di Arnaldi, costringendo quest’ultimo a ricredersi sulla iniziale diffidenza nei suoi confronti dovuta al timore che Calderari, in occasione di un suo recente viaggio a Napoli, lo avesse persuaso delle proprie idee[296]
A parere di Giulio Ieni dal carteggio Arnaldi-Magnocavalli (1750-70) emerge il singolare ruolo assunto da quest’ultimo nell’ombra, rispetto ad un Arnaldi protagonista in prima persona: una sorta di eminenza grigia, quindi che diede un forte contributo teorico nell’ambito della polemica. Infatti, le stesse posizioni che Berardo espresse nel Parere mostrano una sostanziale convergenza, se non coincidenza, con quelle del nobile casalese[297], che gli erano note tramite una pubblicazione ove Arnaldi riaffermava le sue concezioni «divisioniste»[298]. Questo inedito Parere galianeo era noto fino ad oggi solo grazie a due manoscritti, il primo dei quali, conservato presso la Biblioteca del Museo Civico di Padova[299], è una copia ottocentesca[300] dell’altro che invece risale al settecento; quest’ultimo fa parte di una raccolta di documenti sul Teatro Olimpico custodito nella stessa città di Vicenza presso la Biblioteca Civica Bertoliana[301]. Alcuni studiosi ritengono che anche il manoscritto vicentino sia solo una trascrizione dell’originale che Berardo GALIANI inviò all’Accademia Olimpica nel 1764[302] : per tale motivo assume un certo interesse il rinvenimento dell’autografo galianeo presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Esso fa parte di un volume rilegato di carte manoscritte della famiglia GALIANI[303] ed è articolato in tre capitoli preceduti da una breve introduzione. Il manoscritto napoletano, però, è mancante della tavola allegata[304] e che rappresenta le triangolazioni vitruviane applicate alla pianta del Teatro Olimpico[305]; dei due disegni, quello accluso al testo conservato a Vicenza, è stato pubblicato di recente, e segnalato come autografo[306]Nella descrizione di questo studio planimetrico[307] Berardo GALIANI sottolinea la sostanziale corrispondenza formale fra l’aula palladiana e il teatro romano così come viene raffigurato nella edizione del De Architectura di Daniele Barbaro[308], con la sola differenza che a Vicenza la cavea presenta la pianta di forma ellittica invece che semicircolare. Egli, infatti, ben sapeva della stretta collaborazione fra Barbaro e Palladio che era stata alla base di quella pubblicazione, sì da ritenere che la tavola presa come termine di paragone fosse estremamente prossima all’idea che Andrea si era fatto del «teatro antico», in seguito agli approfonditi studi vitruviani e agli attenti rilievi antiquari[309]. Ma per un purista del proporzionamento e della «regola vitruviana», quale era Berardo, impregnato di quella cultura razionalista che fin dall’infanzia aveva recepito nella prestigiosa dimora dello zio Monsignore, non poteva passare inosservato il fatto che i quattro triangoli equilateri da lui stesso tratteggiati sulla pianta del teatro vicentino non ne informassero tutte le parti nei modi e nelle forme istituite dal De Architectura. In particolare, gli sembrava scorretto che «la base del triangolo equilatero cadesse [ ... ] non avanti il fronte della scena [bensì dietro; e che] le due porte laterali non vengano equalmente divise da’lati de’due altri triangoli»[310]. Tali differenze rispetto al teatro di Vitruvio, risultano evidenti mettendo a confronto il disegno padovano con la tavola XVI[311] della sua edizione del De Architectura; in essa il lato perpendicolare al proscenio di due dei triangoli che definiscono la pianta suddivide la porta minore in parti eguali, mentre la base del triangolo fondamentale cade lungo quel lato della scaenae frons che è rivolto verso la cavea. Alcuni anni dopo anche Ottavio Bertotti Scamozzi(1719-1790)[312] applicò lo schema delle triangolazioni vitruviane alla pianta dell’Olimpico, ed il suo disegno conferma quanto rilevato da Berardo. Berardo GALIANI, però, riteneva molto improbabile che tali inesattezze fossero da imputarsi a Palladio, aggiungendo di nutrire forti dubbi sull’esattezza del rilievo contenuto nel volume del conte Giovanni Montenari[313] sul quale aveva basato il suo studio pianimetrico, e che gli era stato inviato[314] da Vicenza affinché avesse a disposizione tutti gli elementi necessari per produrre il suo Parere con cognizione di causa. GALIANI diffidava apertamente della precisione con cui era stata misurata e disegnata la fabbrica palladiana, in quanto la pianta pubblicata da Montenari si discostava in molti punti da quella contenuta nell’opera di Giorgio Fossati[315], che gli era nota e che probabilmente faceva parte della sua biblioteca[316]; tantopiù che in precedenza il napoletano aveva già avuto modo di criticare Montenari per il fatto che nel suo scritto accennava appena al fatto che il teatro vicentino fosse stato ideato secondo «il gusto antico», aggiungendo inoltre di non saperne il modo[317]. Gli fece eco ancora Bertozzi-Scamozzi, secondo il quale il dotto aristocratico «non fece né meno il più piccolo passo per rintracciare per quali strade, e con qual filo il nostro Architetto [Palladio] sia giunto a sistemare con tanta proprietà, e riuscita il suo lavoro»[318]. In sostanza Berardo percepiva lo stridente contrasto fra il poderoso svilupparsi della disputa teorica a fronte di una conoscenza non abbastanza approfondita dell’oggetto stesso della polemica, il Teatro Olimpico, coi rischio nient’affatto remoto di scivolare sui binari di una pedantesca e sterile contesa accademica, nella quale il problema reale sembrava passare in secondo piano rispetto alla contrapposizione fra le due fazioni. È anche per questo motivo che egli invita la «cospicua Accademia a darne un disegno esatto e ragionato»[319], vale a dire elaborato soprattutto sulla scorta dei dati oggettivi della fabbrica esistente, ed alla luce degli insegnamenti vitruviani confrontati con gli esempi ancora parzialmente conservati; in ultima istanza anche nel rilievo era necessario, a suo credere, ripercorrere mentalmente quell’iter che era stato alla base della maturazione di Palladio stesso, e che quindi ne aveva guidato il progetto per l’Olimpico. L’erudizione di Montenari subisce una ulteriore critica da parte di Berardo GALIANI, in merito alla corretta interpretazione del significato del Podium della scena; le sue parole a tal riguardo sono più chiare di ogni altra spiegazione: «Questo [il Podium] da quanto ho detto nelle mie note al Cap. 7 del Lib. V di Vitruvio, parmi che chiaramente conoscasi non essere altro chè’l piedistallo del primo ordine di essa Scena, e credasi pure un equivoco del Montenari il prendere il Podium di cui parla Vitruvio per quell’ordine Attico che il Palladio volle mettere sopra i due ordini della Scena. Questo attico corrisponde benissimo al terzo ordine che costumavasi, e Vitruvio lo chiama “tertia episcenos”»[320]. Quest’ultimo fendente, a credere di Tommaso Carrafiello, non arrivò mai a ferire l’orgoglio degli Accademici, in quanto, con molta probabilità, il brano citato[321] fu eliminato dalla versione finale del Parere spedita a Vicenza per il fatto che esso non figura nel manoscritto conservato a Padova, copia ottocentesca dell’esemplare vicentino. Al di là delle polemiche comunque, il pensiero di Berardo GALIANI sulla questione della copertura, è riassumibile in poche righe: egli, pur essendo convinto che nell’antichità la scena fosse coperta, ritiene che Palladio per l’Olimpico avesse di sicuro previsto il contrario, per il fatto che la sua interpretazione dello spazio scenico allude alla sala di una casa, e non ad una piazza o ad una strada secondo quanto invece il napoletano credeva fosse stata la vera indicazione data da Vitruvio. Nello stesso tempo Berardo congetturava che l’architetto rinascimentale era giunto a questa soluzione «sia perché così credesse, che avessero fatto gli Antichi, sia perché, e con troppo onesta licenza prevedesse dovere in tale forma essere di maggiore uso per le opere, che si meditavano di rappresentarvici»[322], vale a dire le Tragedie.
Il nocciolo della questione era, quindi, la diversa interpretazione dell’ambiente rappresentato con lo spazio scenico; tutto il primo capitolo del Parere, infatti, è dedicato alla dimostrazione che nell’Antichità esso rappresentasse una strada, una piazza, comunque uno spazio all’aperto, al quale non competeva certamente una copertura stabile. La ragione fondamentale adottata da GALIANI a prova di ciò è il fatto che gli accessi ricavati nelle «versure» mettevano la Scena simbolicamente in comunicazione l’uno con il «foro», l’altro con la «campagna», rappresentavano, cioè, gli sbocchi su una piazza di due strade. In questo lungo capitolo[323] Berardo GALIANI smentisce una ad una tutte le motivazioni secondo le quali la scena anticamente sarebbe stata coperta, interpretando a suo vantaggio anche quei testi di autori latini[324] che entrambe le fazioni avevano citato per sostenere le proprie diverse tesi.
La innegabile competenza di Berardo GALIANI riguardo al teatro dell’antichità, era confortata anche dalla conoscenza diretta che egli aveva del Teatro di Ercolano e dall’avere in suo possesso il rilievo eseguito dall’architetto Karl Weber[325] che costituì la guida sua e dell’abate Winckelmann fra i cunicoli degli scavi, ancora sotterranei, di quell’edificio altrimenti impossibile da visitare[326].
Come visto in precedenza, i disegni del Teatro erano stati consegnati a Berardo affinché desse il suo parere sulla possibilità della loro pubblicazione[327], ed egli, pur elogiando il lavoro dello svizzero, propose di compiere alcuni saggi, per accertare la morfologia di certe parti che non risultavano ben definite nel rilievo dello svizzero; uno di questi piccoli scavi doveva servire proprio a fare luce sul tormentoso dubbio della copertura della scena[328]. I lavori furono eseguiti nei mesi di maggio e giugno 1765, ma con disappunto di Berardo, non poterono fornire alcun elemento di chiarimento in merito alla questione in oggetto, in quanto la parte alta delle versurae e della scaenae frons risultò interamente perduta. La via della osservazione archeologica era, però, giusta, ed infatti oggi la conservazione e la conoscenza dei teatri Orange e di Aspendos ha offerto indicazioni sufficienti per poter concludere senza ombra di dubbio che effettivamente sulle versurae e sulla scaenae frons poggiava una copertura stabile, ma purtroppo nel Settecento i protagonisti del dibattito vicentino non potevano contare su queste acquisizioni, cosicché la conclusione di GALIANI fu che «nel dubbio se il Pulpito antico fosse coperto, o no ha molto maggior partito il no»[329]. Alla fine dell’ultimo capitolo del Parere viene anche fatto un breve accenno a questi studi che egli stava portando avanti riguardo la vera struttura del teatro antico, e che probabilmente si apprestava a pubblicare[330]. Affrontata e risolta, per quanto possibile, la questione nel caso del teatro romano, nel secondo capitolo Berardo GALIANI passa a trattare dell’Olimpico, segnalando tutti quegli elementi formali che, a suo credere, confortavano l’ipotesi che lo stesso Palladio avesse pensato ad una sala nel progettarne la scena, e che quindi l’idea originale non fosse stata alterata dai continuatori[331]. Come si può ancora oggi ossevare, infatti, le strade che giungono alle versure (che GALIANI ricorda essere chiamate da Vitruvio: «itinera versurarum», e non «valvas»)[332] sono ridotte, nella fabbrica vicentina, a piccole porte; da esse, e dalle altre tre porte della frons scaenae, si scorge la fuga prospettica di un totale di sette strade[333], le quali sono quindi da considerarsi ‘fuori’ rispetto al ‘dentro’ rappresentato dallo spazio dalla scena[334]. Allo stesso modo è evidente che le statue alla sommità della scaenae frons non hanno la funzione di acroteri[335], ma sono addossate ad un terzo «ordine Attico, [che] mostra a sufficienza di voler essere un appoggio d’una copertura»[336]. Nel breve capitolo conclusivo poi Berardo esprime in modo conciso la sua posizione in merito alla dibattuta polemica del soffitto: in primo luogo invita gli Accademici a lasciare da parte le ricerche e le discussioni volte a determinare la reale morfologia del teatro antico, ed, in seconda battuta, propone di ridare dignità all”aula, recuperando il progetto originale di Palladio. E poiché anche a quell’epoca non si avevano notizie certe sulle intenzioni dell’architetto padovano, Berardo GALIANI suggerisce di rifare la copertura così come era stata rappresentata nell’incisione seicentesca di Ottavio Revesi-Bruti. Berardo appoggiava questa soluzione avendo osservato che già nel 1591, a pochi anni dalla morte di Andrea, nelle cronache contemporanee era stata dichiarata l’intenzione di realizzare sulla scena, un soffitto «alla ducale»[337], senza che nessuna voce si fosse levata contro tale proposito, per il fatto che «non vi fosse eseguita la mente del Palladio»[338]. I recenti studi di Licisco Magagnato tendono a dimostrare come il cassettonato sopra la scena sia un elemento da attribuire proprio ad Andrea Palladio, e che la sua presenza fosse prevista fin dall’epoca in cui l’architetto padovano presentò all’Accademia Olimpica il modello del teatro che si proponeva di realizzare[339].
Magagnato è giunto a tali conclusioni mettendo a confronto l’analisi del disegno palladiano RIBA X (fol.3 ) con l’osservazione delle strutture di fondazione sotto il palcoscenico dell’Olimpico: l’autografo londinese rappresenta una possibile ricostruzione del Teatro di Pola, ove la particolare tipologia delle versure e l’esistenza di colonne nei quattro angoli del palcoscenico, contribuiscono a far luce sul perché Palladio, nel gettare le fondamenta dell’Olimpico, si fosse preoccupato di rinforzare i punti angolari del palcoscenico; a suo credere, infatti, tali precauzioni si resero necessarie in vista dell’intenzione di appoggiare sulle colonne versurali una copertura lignea, che doveva quindi essere molto simile a quella rappresentata nella incisione del 1620. Non sarebbe allora un caso il fatto che la lunga trave composta che divide la soffiatura in due settori ben distinti rispecchi il alto il tracciato delle fondamenta, queste ultime sicuramente realizzate all’epoca in cui Andrea era ancora vivo[340]. Alla luce di questi ultimi studi, allora, si può considerare superata l’ipotesi di «tradimento dell’idea palladiana» a cui si è fatto riferimento in precedenza, in quanto sarebbe stato lo stesso Palladio ad adeguare le strutture del teatro antico ad un ambiente chiuso, destinato a rappresentazioni di tipo moderno [341] senza però che ne risultasse pregiudicata la sintesi unitaria. Tale forza unificante non andrebbe ricercata, dunque, nell’osmosi figurativa tra gli spazi della cavea e della scena, bensì nel richiamarsi alla «norma proporzionale ed armonica dei principi rinascimentali prediletti dal Palladio», nonché nel ricorso allo schema geometrico vitruviano che [342] mostra di adattarsi in modo soddisfacente al rilievo del Teatro Olimpico che è stato eseguito in occasione dei recenti restauri[343], il sospetto di Berardo GALIANI riguardo la precisione della pianta pubblicata da Montenari, aveva dunque, un qualche fondamento. Vengono così a cadere in primo luogo l’ipotesi che l’Olimpico sia frutto della sedimentazione di elementi anacronisticamente combinati, per volere di vari (irrispettosi) continuatori e, in secondo luogo, l’eventualità che quell’edificio sia stato concepito come una pedante quanto inutile imitazione pedissequa di un simile edificio antico[344]. L’originalità della posizione galianea risiede, quindi, proprio nell’aver intuito già ai suoi tempi l’infondatezza di entrambe queste supposizioni, e nell’avere rivendicato l’originalità di concezione del Teatro Olimpico nell’ambito delle regole classiche; una intuizione estremamente precoce, confermata solo in tempi molto recenti dalle conclusioni di Magagnato. Non a caso, infatti, la fabbrica palladiana è considerata da Berardo GALIANI degna di essere studiata alla stregua dei monumenti dell’antica Roma, così come gli scultori studiano con eguale interesse sia le statue greche e romane, sia quelle di Michelangelo[345].
La soluzione definitiva
L’erudita tenzone a colpi di autorevoli pareri, si trascinò fino al 1765 circa, senza peraltro portare a risultati concreti a breve termine, anche per il fatto che la grossa responsabilità della quale si vedeva investita l’Accademia Olimpica ebbe come risultato la sospensione del giudizio ed un sostanziale immobilismo, se si escludono i piccoli, ma costanti interventi di manutenzione eseguiti premurosamente sotto la direzione di Ottavio Bertotti Scamozzi, fino a quando[346] il Teatro Olimpico fu ceduto alla rappresentanza municipale vicentina, e con esso tutto il peso delle relative responsabilità. Il passaggio di consegne al soggetto pubblico contribuì a risolvere[347] i problemi principalmente economici che ostacolavano il rifacimento della mirabile fabbrica e la nuova decorazione del soffitto fu portata a termine solo nel 1829, nell’ambito di grandi restauri generali[348]. La soluzione adottata in quella circostanza decretava di fatto la (temporanea) vittoria postuma di Ottone Calderari per il fatto che grazie all’influenza dell’architetto municipale Bartolomeo Malacarne[349] su tutto lo spazio sovrastante la cavea, orchestra e scena era stata affrescata l’immagine di un velario con le relative funi di sostegno, le quali si dipartivano a raggiera da una colossale corona centrale ellittica. Nel 1866 poi, in occasione della visita del re Vittorio Emanuele alla città di Vicenza, l’affresco fu sostituito da un velario più realistico sospendendo al soffitto una vera tela dipinta. Ma per quelli che, come GALIANI, avevano sostenuto la posizione di Enea Arnaldi[350], non era detta l’ultima parola, poiché ben presto questo velario fu ridotto «ad un immane ed indecente straccio», e si dovette correre ai ripari. Riemersa per l’ennesima volta la questione della copertura, si diede credito stavolta alla nota stampa di Bruti Revesi[351] e il cassettonato alla «ducale», nonché il «il finto aere», ricomparivano ove erano stati sino dall’origine per rimanervi fino ad oggi e speriamo per molto tempo ancora.
Il restauro della ‘Trinità Maggiore’: le due cupole
Il viaggiatore che giunga per la prima volta nella città di Napoli, non può che restare sorpreso ed affascinato dalla inusuale facciata della chiesa del Gesù Nuovo[352], il cui severo aspetto, sebbene contraddetto dai portali barocchi, rimanda, più che all’ immagine di un edificio religioso, a quella di un arcigno palazzo, se non addirittura di una prigione come ebbe a dire Francesco Milizia[353]. Nella piazza antistante la guglia dell’Immacolata (1747‑51) svetta verso il cielo e, poco più avanti, la gialla massa tufacea della chiesa di Santa Chiara, con il meraviglioso chiostro maiolicato, completa questo straordinario concentrato d’arte, sito alle porte del cuore pulsante della città vecchia. Eppure, quando per la prima volta l’autore di questa opera ebbe l’opportunità di visitare la metropoli partenopea, la sua fantasia infantile fu fortemente colpita proprio dalle ombre che le luci della notte, ormai sopraggiunta, disegnavano sulle bugne di piperno[354] lavorate a punta di diamante di quella facciata[355], la cui mole catafratta costituisce il ricordo più vivo di quella breve giornata. L’insolita facciata del Gesù Nuovo è quanto resta dell’antico Palazzo Sanseverino, maestosa residenza del Principe di Salerno costruita nel 1470 su disegno di Novello da Sanlucano[356], e trasformato sul finire del XVI secolo in una chiesa a pianta centrale da padre Giuseppe Valeriano(1542-96)[357], il quale ne riutilizzò il fronte e le due mura laterali il progetto era stato approntato fin dal 1584[358], ma alla data della consacrazione (7 ottobre 1601), l’edificio mancava ancora dell’episodio conclusivo costituito da una grande cupola centrale che fu iniziata solo nel 1629; il risultato dovette essere veramente maestoso, se si pensa che essa era inferiore in altezza solo a quelle di San Pietro e di Santa Maria del Fiore[359], mentre ad esaltarne la sontuosità contribuivano gli affreschi di Giovanni Lanfranco[360], allievo e collaboratore dei Carracci, il quale terminò il suo lavoro nel 1636[361]. La struttura a doppia calotta della fabbrica consentiva di ascendere fino al cupolino, sorretto da otto colonne di piperno dolce ed adorno di vasi e balaustri. Fu proprio una di queste colonne che, secondo le cronache contemporanee, causò il crollo dell’intera struttura[362], in seguito al terremoto del 1688; il sostegno lapideo infatti, essendosi incrinato, era stato rifatto in muratura ma, racconta Carlo Celano, «mentre il cupolino stava con la cupola ballando, venne meno [ ... ]; onde [la cupola] mancandogli un piede cadde, e le altre colonne e pezzi precipitando per l’altezza con violenza servirono di catapulte dove arrivavano. Si rovesciò dalla parte di ponente; ed avendo fracassata una gran parte della cupola, arrivarono sulla volta del cappellone di Santo Ignazio, che faceva croce[363], e la fecero andar tutta giù[364]». I danni maggiori, quindi, furono il crollo della volta di un cappellone laterale[365], e quello della grande cupola centrale, che lasciò intatti solo i quattro pennacchi sui quali il Lanfranco aveva raffigurato gli Evangelisti: Dopo solo sei mesi, però, i padri Gesuiti potevano lasciare la vicina chiesa di Santa Chiara[366] e tornare nella propria, riparata velocemente e messa in condizione di poter accogliere i fedeli. La volta del cappellone era stata completamente ricostruita, mentre invece su l’ampio spazio della crociera, in luogo della cupola, era stato realizzato un temporaneo tetto a padiglione rivestito con lastre di piombo, e poggiante sul tamburo, quest’ultimo ricostruito in modo da ricalcare fedelmente quello esistente prima del terremoto[367]. La nuova cupola, opera di Arcangelo Guglielminelli, fu iniziata solamente nel 1692 ed affrescata nel 1717 da Paolo De Matteis(1662-1728)[368]; a differenza di quella originaria, della quale non si hanno che descrizioni, essa fu realizzata a calotta unica anziché doppia[369], e con il cupolino sorretto da pilastri invece che colonne[370].
Nuovi timori e proposte d’intervento
Con l’espulsione dei Gesuiti dal Regno delle Due Sicilie, la chiesa assunse il nome di Trinità Maggiore (1768), ma già in precedenza (quello stesso anno) i vecchi abitatori avevano cominciato a preoccuparsi per lo stato di salute dell’edificio; di questi timori ci dà notizia proprio Berardo GALIANI nei brevi cenni storici che aprono il suo Parere, aggiungendo che gli esperti interpellati dai Gesuiti avevano osservato delle preoccupanti lesioni; e «vi conficcarono due codi di rondine di Marmo per farsi certi di altri nuovi movimenti»[371]. Gli eventi che seguirono distolsero l’attenzione dei padri da quel probblema, e nulla fu fatto finché nel 1769 l’architetto Ferdinando Fuga ricevette l’ordine reale di verificare lo stato della chiesa, ed eventualmente proporre gli adeguati rimedi[372]. Dal suo resoconto al ministro marchese Tanucci[373] si arguisce che i danni riguardavano principalmente il pilastro della crociera detto di San Luca, ed i due archi che scaricano su di esso; le lesioni erano talmente estese da rendere sconsigliabile l’intervento diretto, ossia il rifacimento integrale del pilone previo puntellamento delle parti da esso sostenute, un’operazione che Fuga definiva «azzardosissima». In alternativa a ciò egli proponeva di realizzare dei contropilastri e sottarchi per sostenere le strutture murarie lesionate, estendendo poi l’intervento a tutta la chiesa per evidenti ragioni di estetica e simmetria[374]. La variazione geometrica[375] della sezione, che aumentava la superficie resistente a compressione, permetteva il contenimento della funicolare dei carichi entro il nuovo, e più ampio spessore della fabbrica, secondo una tecnica di consolidamento molto nota[376]ed ampiamente usata in epoca barocca, allorché, le esili colonne delle antiche basiliche paleocristiane furono o fagocitate dalla muratura dei nuovi pilastri, oppure inserite nell’ambito di una diversa articolazione del gruppo sintattico colonna-pilastro-setto murario. Ma oltre alla compromissione stilistica che una tale operazione avrebbe generato, e malgrado il vantaggio di un rafforzamento dell’intero edificio, il progetto di Ferdinando Fuga peccava di alcuni notevoli difetti: in primo luogo una eccessiva spesa per fondare, murare, decorare ed incrostare di marmi corpi di fabbrica che non erano, per la maggior parte, indispensabili alle esigenze statiche della fabbrica; questi ultimi inoltre avrebbero ridotto la luminosità di un ambiente già di per sé oscuro; ed infine, cosa che doveva essere particoarmente sgradita a Berardo GALIANI, la modifica degli spessori di quei piedritti avrebbe compromesso inevitabilmente (quanto inutilmente) quell’aulico proporzionamento che era alla base di tutte le dimensioni della chiesa[377]. Fuga concludeva supplicando il Re (che non lo esaudì) di essere esentato dall’incarico di occuparsi di quel restauro, suggerendo di affidarlo al regio ingegnere Pasquale Monzo, il quale a suo dire già si occupava degli altri edifici confiscati ai Gesuiti; si ha quasi la sensazione che egli, occupato in altri compiti forse più prestigiosi e gratificanti (si ricordi il colossale albergo dei Poveri, concepito per accogliere tutti gli indigenti del Regno, o gli edifici per la manifattura delle porcellane, ed ancora gli immensi Granili) avesse maturato frettolosamente questa drastica (anche se staticamente sicura) soluzione senza curarsi eccessivamente del suo notevole impatto formale, quasi a volersi liberare da una fastidiosa incombenza. E che l’architetto fiorentino fosse interessato poco o niente a quel lavoro lo dimostra il fatto che aveva effettuato il sopralluogo solo dopo le forti pressioni della Giunta di Economia[378], la quale si era vista costretta a richiedere un espresso comando da parte di Sua Maestà per costringere il riluttante artista ad occuparsi di quella questione[379]. Ma, come era facilmente prevedibile, i Francescani della Trinità Maggiore[380] non gradirono quel progetto che, con i soprarchi e contropilastri, avrebbe inevitabilmente alterato la bella struttura del loro tempio, cosicché chiesero ed ottennero che fosse costituita una apposita commissione di esperti, della quale fecero parte Giuseppe Astarita, Mario Gioffredo, Giuseppe Pollio e Pasquale Monzo. Ferdinando Fuga, posto a capo di quella giunta, volle che ai nominati fossero aggiunti Felice Bottiglieri ed il marchese Berardo GALIANI[381]. Dopo un anno e mezzo di lavori, sondaggi e consultazioni reciproche, gli esperti produssero una relazione [382] favorevole all’attuazione del progetto proposto da Fuga, con la sola opposizione di Gioffredo, secondo il quale era verosimilmente praticabile la via del rifacimento integrale del solo pilastro incrinato che sosteneva la cupola, ed i lavori erano appena iniziati, quando un giovane ingegnere, Vincenzo Lamberti, chiese di essere ascoltato (come poi avvenne) ritenendo che fossero altre le cause del dissesto, e di conseguenza diversi gli interventi da porre in opera. Nel conseguente parere scritto[383] egli attribuiva la causa del cedimento del pilone alle infiltrazioni d’acqua che ne minacciavano le fondamenta, sostenendo che era necessario allontanare le prime per poi procedere al consolidamento delle seconde; ma il suo progetto era ben più articolato di un se plice drenaggio, contemplando altresì la messa in opera di piastre di ferro incatenate, per bloccare l’avanzare delle lesioni, e di un certo numero di arcate esterne che scaricassero la spinta della cupola sulle fabbriche ad essa adiacenti[384] Le sue idee furono sottoposte al giudizio di Luigi Vanvitelli, il quale lo contraddisse in toto adducendo ragioni meccaniche e costruttive[385]. Secondo il pensiero dello studioso Guido Guerra[386], i due contendenti incarnavano lo scontro tra due diverse generazioni di architetti, che facevano riferimento a culture scientifiche ormai troppo distanti. Vanvitelli basava le sue affermazioni su La science des ingénieurs di Bernard Forest de Belidor, un trattato che affrontando il solo caso delle volte a botte (senza accennare affatto alla statica delle cupole) in effetti sarebbe stato presto sostituito da nuovi testi, come ad esempio quelli di Lorenzo Mascheroni e Leonardo Salimbeni[387], che facevano riferimento a ricerche e studi molto più recenti e completi. Non deve quindi stupirci «la decisa presa di posizione di un giovane ingegnere delle qualità del Lamberti, che invece viveva in pieno questo clima di ribollente progresso nel campo delle teorie statiche», e che proprio in questa materia, in seguito alla pubblicazione dell’autorevole volume Statica degli edifici (1781), riscosse l’apprezzamento persino del Bernouilli. Inoltre le diverse interprertazioni date dai due architetti sull’equilibrio statico dell’edificio, evidenziano quella doppia contraddizione che percorre tutta la cultura architettonica del ‘700, consistente nella radicalizzazione del «divario esistente tra i poli estremi di una teoria completamente avulsa dalla pratica e di un professionalismo totalmente ignaro della ricerca teorica»[388], e sintetizzato dall’aforisma bottariano secondo il quale chi studia l’architettura non la professa, e chi la professa non la conosce[389].
In merito alla questione della cupola, si delineano così due chiari schieramenti: da un lato l’anziano Vanvitelli [390] e l’indaffaratissimo Fuga, entrambi architetti «ufficiali», che monopolizzavano buona parte dei lavori più prestigiosi commissionati dalla Casa Reale; dall’altra il giovane quanto brillante Lamberti, nonché l’eterno antagonista di Vanvitelli, Mario Gioffredo[391], che impegnandosi a fondo (e con la passione che mancava ai primi due) per assicurare la salvezza dell’integrità del monumento[392], speravano di farsi spazio tra le file dei già affermati colleghi, ed entrare nelle grazie del Re[393]. A questi ultimi si affiancò successivamente Berardo GALIANI, il quale, pur non essendo spinto dalla volontà di accattivarsi il favore di nessuno, fu mosso come loro dalla intenzione di impedire lo scempio della demolizione della cupola, come poi invece (purtroppo) avvenne.
L’originale posizione di Berardo GALIANI: il suo «Parere»
Quando la commissione di esperti si riunì nel mese di maggio 1773, erano state ultimate le puntellature del pilone fatiscente e delle quattro arcate che vi poggiavano sopra, secondo quanto prescritto da Ferdinando Fuga, il quale aveva fatto in modo che la chiesa della Trinità Maggiore restasse chiusa ai fedeli, per evitare ogni pericolo ed intralcio ai lavori[394]. In quella circostanza fu presa anche l’infausta decisione di abbattere la cupola per maggiore sicurezza suffragata da presunti vantaggi economici che ne sarebbero derivati, ma di fronte a tale gravissima decisione GALIANI[395] si vide costretto a prendere le distanze dalle deliberazioni della commissione, e a dichiarare la sua reale opinione sullo stato della chiesa, sulle cause del dissesto e sui possibili metodi di intervento. Le sue convinzioni erano note grazie ad una sintesi contenuta in un manoscritto anonimo[396] ove sono compendiate le diverse relazioni presentate, ma oltre ad esso alla Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria si trova anche il suo Parere autografo nella forma completa[397]. La stesura originaria di questo risale alla fase iniziale del dibattito sullo stato di salute della chiesa napoletana, presumibilmente poco tempo dopo quel novembre 1769 in cui Berardo venne chiamato a far parte della giunta di esperti; quando poi egli decise di renderne pubblico il contenuto a causa delle già esposte motivazioni, operò un rimaneggiamento molto ampio del testo, aggiungendovi notizie su ciò che nel frattempo era cambiato[398]. In questo scritto egli ricusa principalmente il catrastrofismo della commissione[399], a detta della quale il peso della cupola, la sua (presunta) frettolosa ricostruzione, ed infine le conseguenze del terremoto del 1688 avevano compromesso in maniera gravissima l’equilibrio statico di tutto l’edificio. Per GALIANI, invece, alla minaccia del monumento contribuiva una causa ben più grave che egli definisce «sostanziale, intrinseca e permanente»[400], costituita dalla eccessiva spinta delle volte in relazione al ridotto spessore delle mura, ed aggravata dalla errata costruzione del tetto delle navate, poiché quest’ultimo era stato realizzato (a suo dire) con due semplici puntoni poggianti lateralmente sui muri perimetrali e, al centro, su pilastrini in muratura direttamente posati sull’estradosso delle volte stesse, con l’inevitabile conseguenza di generare una componente orizzontale di spinta ancora maggiore. A risentire in modo notevole di questo squilibrio sarebbe stato proprio il pilastro detto di S. Luca[401], sollecitato all’estremità superiore dalla risultante delle spinte relative alle volte della navata principale e del cappellone di S. Ignazio, longitudinalmente ortogonali fra loro; le gravi lesioni sul pilone, quindi, sarebbero state causate dalla sua rotazione rispetto ad un piano verticale posto in prossimità della bisettrice fra questi due bracci della croce[402]. La proposta di consolidamento di Berardo (alquanto articolata) comporta la messa in discussione e la generale correzione dello schema statico dell’edificio. il riferimento fondamentale per tutte le aggiunte di fabbrica è, inequivocabilmente, la regola classica delle proporzioni, che il napoletano conosceva in maniera molto approfondita stante il suo attento studio del testo vitruviano; ma nella tipologia d’intervento[403] affiora, sebbene a livello non cosciente, l’esperienza del Gotico, peraltro apertamente (e per certi versi sorprendentemente) citata come esempio quando GALIANI[404] respinge l’accusa secondo la quale i pilastri della chiesa sarebbero stati troppo snelli[405]. In quel fugace accenno viene riconosciuto all’architettura che Vasari aveva definito «mostruosa e barbara», almeno un valore nel campo della conoscenza, seppur ancora intuitiva ed empirica, del comportamento strutturale degli edifici, che le fabbriche gotiche, col loro ardito slancio verticale, esprimevano al massimo grado. L’elemento fondamentale di questa correzione dell’equilibrio statico era, comunque, costituito dalla rimozione della causa stessa del dissesto, mediante la sostituzione della copertura esistente con un «tetto a cavallo armato»[406], ovvero un tetto a capriate, ove la catena inferiore, assorbendo le spinte orizzontali, consentisse di trasmettere alle mura perimetrali la sola componente verticale. Queste ultime opportunamente irrobustite avrebbero meglio contrastato la spinta delle volte soprastanti, e allo stesso tempo sarebbero state sgravate del peso della copertura che, essendo stato ricondotto sulla verticale dall’uso delle capriate, poteva al contrario contribuire ulteriormente alla stabilità dell’intera struttura. I vantaggi derivanti dall’uso delle capriate erano comunque noti da tempo immemorabile, ma il loro utilizzo nell’ambito di un intervento di consolidamento richiama alla memoria i suggerimenti di Leon Battista Alberti in merito al recupero dell’antica basilica paleocristiana di San Pietro a Roma(NOTA: L. B. Alberti, De re aedificatoria, 1485, libro X, cap. XVII): questi infatti , nell’ultimo libro della sua più importante opera letteraria, propone proprio l’utilizzo di «capre» per realizzare una nuova copertura che non destabilizzasse più il vetusto e malandato tempio romano. Non è assolutamente dimostrabile che Berardo, al momento di stendere il suo Parere, avesse in mente questa precedente proposta dell’Alberti, e comunque la cosa non avrebbe grossa rilevanza ai fini di questo studio; ma è singolare notare che il nome della Basilica Vaticana[407] ricorra ben due volte nello scritto sulla Trinità Maggiore. Il primo accenno riguarda la «giunta fatta dal Maderni al superbo disegno dato dal divino Buonarroti per la Basilica di San Pietro»[408], a proposito della quale l’autore non tollera che si sia alterato il progetto originale a croce greca, compromettondone in modo inevitabile il proporzionamento, e di conseguenza la venustà che del primo, se correttamente realizzato, è il necessario effetto. Per un analogo motivo deplora infatti anche la proposta del sottarchi e contropilastri avanzata da Fuga, che «si volle ostinatamente sostenere» anche dopo la decisione di smantellare la Cupola, affermando pretestuosamente «che tutta la chiesa fosse fracida»[409]. Le aggiunte murarie non erano tutte indispensabili per il consolidamento e che la loro edificazione fu proposta «ove per necessità, ove per cautela ed ove per Euritmia»[410], avrebbero comportato una considerevole, quanto ingiustificata lievitazione dei costi. Nel V capitolo del Parere, quindi, Berardo GALIANI attacca apertamente il progetto di restauro approntato da Fuga, dimostrando quanto in esso vi fosse di velleitario e, mediante una serie di considerazioni estetiche, tecniche ed economiche, arriva a smantellarlo punto per punto; infine, puntando l’indice contro l’alterazione del raffinato proporzionamento di quel monumento, manifesta quanto la sua intergrità gli stesse a cuore, alla stregua dei già citati Vincenzo Lamberti e Mario Gioffredo. Siamo di fronte a due concezioni di intervento diametralmente opposte: da un lato la semplice cura degli effetti[411], e dall’altro un modo di procedere che muovendo da una razionale elaborazione teorica, si traduce nella concreta rimozione delle cause stesse del dissesto. Berardo GALIANI era evidentemente convinto, che la cupola non fosse in imminente pericolo di crollo; le drastiche decisioni della commissione di esperti, quindi, sarebbero dovute ad un eccesso di cautela secondo una consuetudine purtroppo assai diffusa: «Basta che si cominci a vociferare alcun pericolo, che sia di pubblico interesse, perché la fama di bocca in bocca passando cresca ed urti con tanto impeto, che tolga a chicchessia quella indifferenza che potrebbe fare spassionatamente giudicare»[412]. A conferma di questa opinione porta l’esempio (e siamo al secondo accenno) di quanto era accaduto per la Cupola Vaticana: «Uscita che fu la voce d’essere lesa e in pericolo la Cupola di San Pietro di Roma, non vi fu modo di far capire le ragioni di coloro, che sostenevano essere vecchie e di nessuna conseguenza imminente le lesioni, essere le simili di tutte le altre cupole. E la fantasia non s’acchetò, se non quando vide tutta la cupola cerchiata di catene, e Dio faccia che siano questa state rimedio, e non cagioni motrici di nuovi mali»[413].
L’influsso di Giovanni Bottari
Da queste parole emerge un GALIANI perfettamente al corrente di quell’dibattito sviluppatosi alla metà del ‘700, e nettamente schierato dalla parte dei non interventisti, vale a dire a fianco di monsignor Giovanni Gaetano Bottari personaggio che egli conosceva molto bene in quanto quest’ultimo era stato molto amico di suo zio monsignor Celestino GALIANI[414], succedendogli [415] nella cattedra di Storia Ecclesiastica e di Controversie presso l’Università della Sapienza[416]. Ma i legami tra la famiglia GALIANI e il dotto prelato fiorentino passavano anche attraverso la persona di Bartolomeo Intieri, uno dei protagonisti dell’illuminismo napoletano, frequentatore del salotto culturale galianeo, grande amico dei suoi animatori ed amministratore delle vaste proprietà nel Mezzogiorno della famiglia Corsini, alla quale Bottari era a sua volta molto legato, essendo considerato addirittura il braccio destro del cardinale Neri Corsini, a sua volta nipote di Clemente XII[417]. I contatti diretti di Bottari con Berardo GALIANI risalivano poi all’epoca in cui Berardo aveva affrontato il commento del testo Vitruviano basandosi su vari manoscritti, fra i quali due testi molto antichi[418] conservati presso la Biblioteca vaticana, della quale era custode lo stesso Bottari[419]; contatti quindi che avevano avuto modo di consolidarsi in un tempo immediatamente successivo a quello in cui aveva avuto luogo il dibattito sul restauro della cupola di San Pietro, se non addirittura nel pieno del suo svolgimento. Fra i due studiosi d’architettura era intercorsa una fitta corrispondenza[420] nella quale essi si confrontavano sulla corretta interpretazione degli insegnamenti di Vitruvio, collazionandone le versioni in loro possesso. Bottari aveva preso parte, come si sa, alla polemica sul presunto dissesto della fabbrica michelangiolesca prendendone chiaramente posizione contro il progetto di restauro presentato da Vanvitelli[421], il quale a sua volta definisce Bottari stesso «uno degli anticupolai»[422] e, in una lettera del 29 dicembre 1754, così scrive al proprio fratello:«Questa mattina dal Marchese GALIANI, il quale fa una traduzione di Vitruvio e spesso conferisce meco, ho saputo che il Bottari, quando fu a Napoli per la morte del Principe Corsini D. Bartolomeo, ha detto tutto quello che puotea dirsi contro me, e quanto puotesse dire per esaltare il Fuga»[423]. Non sarebbe troppo ardito, allora, congetturare che Berardo GALIANI abbia potuto avere, in quella o in altra simile occasione, uno scambio di opinioni con Bottari riguardo al problema della Cupola di S. Pietro e probabilmente anche sul comportamento strutturale delle cupole in generale, visto che il nome della Basilica Vaticana ricorre per ben due volte, come si è ricordato il quel Parere ove non a caso si affronta proprio il problema del consolidamento di un’altra cupola, quella della Trinità Maggiore. Sembra quasi che a Napoli si proponga, seppur con echi ben più limitati, la polemica romana nella quale era stato chiamato in causa Bottari, e che Berardo GALIANI prenda posizione tra le file dei non interventisti proprio come aveva fatto il prelato venti anni prima riguardo alla fabbrica michelangiolesca[424]. In effetti entrambe le considerazioni sul maggiore tempio della cristianità contenute nel manoscritto galianeo, rispecchiano in maniera evidente quanto affermato dal prelato nei Dialoghi sopra le tre arti del Disegno; e se l’intervento di Carlo Maderno è oggetto solo di una fugace deplorazione da parte di Berardo GALIANI, che non si sofferma sulle ragioni che lo animano[425], in merito alla questione della Cupola Vaticana la convergenza di opinioni fra i due studiosi è molto chiaramente esplicita: nella nota a pagina 82 del secondo dialogo, infatti, Bottari riassume con toni polemici, molto simili a quelli che saranno poi di Berardo, la vicenda della cerchiatura della cupola[426]. A mio credere (commenta il dott. Carrafiello) è possibile che le osservazioni di GALIANI sui due interventi alla Basilica di San Pietro maturarono alla luce del pensiero bottariano appreso in ipotesi dalla sua viva voce, e certamente grazie alla lettura dei Dialoghi che molto probabilmente figuravano nella sua vasta biblioteca[427]. D’altronde Berardo non fu il solo nel sostenere queste idee, anche Lorenzo Iaccarino[428] si associò alla sua posizione, seppur senza troppa risoluzione[429]. Ma quantunque il Parere di Berardo (a detta del fratello Ferdinando) «fu stimato da tutti per il migliore»[430], non sortì l’effetto sperato di far recedere la giunta di esperti dal proposito di demolire la cupola. A nulla valsero un nuovo intervento di Lamberti ed il progetto di Michelangelo Arinelli[431], cosicché , nell’autunno del 1775, si diede inizio all’abbattimento dell’opera del Guglielminelli. Solo dieci anni dopo[432] Ignazio Di Nardo sostituì la diroccata cupola con una semplice calotta ad incannicciata sospesa al tiburio[433], ovvero, come si legge nel piano di intervento elaborato dalla Camera Abbreviata[434], una «lamia[435] finta di stucco, intessuta di legname, e coverta a tetto, che sarà durevole come se fosse a masso, anche per evitarsi le conseguenze funeste di un enorme peso»[436]. L’accento veniva messo, ancora una volta, sul peso della copertura, eppure oggi su quei pilastri, che all’epoca di cui si discorre furono comunque consolidati, grava un tetto in cemento armato realizzato, forse con eccessiva leggerezza filologica, nel 1973, per mano di tecnici certamente più vicini all’(«ufficiale») architetto Fuga, che non al paladino dell’integrità del monumento, il marchese Berardo GALIANI.


[1] Abbreviazioni: AAO - Atti originali dell'Accademia Olimpica, Vicenza; ASN - Archivio di Stato di Napoli; BBV - Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza; BCP - Biblioteca del Museo Civico di Padova; BNN - Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, Napoli; BSNSP - Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli; PTM - Parere del M. GALIANI sui danni della Trinità Maggiore e sui ripari e rifazioni (BSNSP, ms. XXX. C., ff. 95r - 123v); PTO - Parere del M. GALIANI dato sulla Copertura del Palco del Teatro Olimpico (BSNSP, ms. XXXI. A. 8, ff. 271r - 291v);
[2] L’elenco complessivo dei manoscritti galianei è contenuto in Nicolini 1903; la maggior parte di essi è stata pubblicata, a cura dello stesso Nicolini Fausto, in diversi articoli apparsi su questa Rivista. Alla biblioteca della Società napoletana di Storia Patria egli donò successivamente tutto il materiale in suo possesso
[3] Schipa 1904, pp. 219-26.
[4] Nel palazzo Gravina.
[5] Della quale monsignor GALIANI divenne membro nel 1735.
[6] Purtroppo ampiamente ridimensionato rispetto alla stesura iniziale che aveva elaborato di suo pugno.
[7] Nicolini 1918/20, p. 156.
[8] Nicolini 1918/20, ivi più avanti.
[9] Nel presente lavoro è stata tralasciata completamente la trattazione di questa che costituisce senza ombra di dubbio la maggiore opera di Galiani, per il fatto che essa, data la sua importanza, meriterebbe uno studio ed un commento completamente a parte).
Il testo di Vitruvio aveva conosciuto la splendida traduzione di Cesare Cesariano, allievo del Bramante, considerata la più bella pubblicazione in assoluto del rinascimento con le sue 117 inciusioni in legno, alcune delle quali attribuite a Leonardo: De Architectura Libri diece traducti de Latino in volgare, Como, Gottardo da Ponte,1521. Altra edizione quella di Fr.Lucio Durantino:quella Venezia, Sabio, 1524 e meglio ancora: M.L. Vitruvio Pollione di Architectuta dal vero esemplare latino nella volgare lingua tradotto e con figure ai suoi luoghi con mirando ordine insignito, mai più da alcun altro sin al presente stampato a grande utilità di ciascuno studioso, Venezia, per Nicolò de Aristotele detto Zoppino, 1535. Segue il testo quello del Cesariano e nelle illustrazioni la edizione latina del 1511, la prima edizione figurata, Venezia, Giovanni da Tridino, 1511. Oltre a queste i dieci libri dell’Architettura tradotti e commentati da Daniele Barbaro, Venezia, Fr.Marcolini, 1556. La stessa Venezia, Fr. De Franceschi, 1586.
[10] Che fu letto ed apprezzato da Benedetto Croce; Croce 1910, pp. 390-2.
[11] Rinvenuti nel corso di questa ricerca.
[12] I cui testi ‑ integrali sono pubblicati in appendice.
[13] Per quanto consentito dalla scarna documentazione.
[14] La sua stessa casa a Sant’Anna di Palazzo fu per molti anni il più importante salotto letterario napoletano e quella in cui si godeva della maggiore libertà di parola, nonostante il fatto che egli riunisse in sé il triplice ruolo di frate, arcivescovo ed alto magistrato; Per ulteriori notizie si veda Nicolini 1931 e Nicolini 1951; V. Ferrone, Scienza, natura, religione, ecc., Napoli 1982.
[15] Castaldi 1840, p. 146, si veda anche l’inedita autobiografia di monsignor Galiani [BSNSP, mss. Galiani XXIX. C. 7] citata in Nicolini 1918, p. 107 nota 1.
[16] Matteo Galiani nacque a Foggia nel 1683 da Domenico GALIANI, oriundo di Montoro (Avellino) ove la sua famiglia è segnalata tra i Patrizi della città (BSNSP, mss.GALIANI XXX. C. 7, f. 208)
[17] Lo stesso cognome Galiani deriverebbe dal toponimo Caliano, uno dei casali di Montoro che probabilmente fu il luogo d’origine della famiglia, infatti il bisnonno di Berardo su chiamava appunto Stefano Caliano.
[18] De Sanctis 1986, p. 11.
[19] In seguito alla quale la città di Napoli era divenuta «colta e nello stesso tempo depressa»: Ajello 1980, p. 16.
[20] Avviato già da alcuni decenni, e poi culminato con la formazione di una nuova classe dirigente ed intellettuale.
[21] Il risanamento delle finanze pubbliche diede ottimi risultati nei primi dieci anni del regno di Carlo di Borbone, ma fu poi sostanzialmente paralizzato da un'epidemia di peste che sterminò gran parte della popolazione di Messina, propagandosi poi in Calabria (1743), e dal coinvolgimento nella guerra di successione austriaca (1742): Ajello 1980, p. 18.
[22] De Marco 1980, p.28.
[23]  De Sanctis 1986, p. 12.
[24] Nato a Montespertoli (Firenze) nel 1678, Bartolomeo Intieri si diede agli studi di matematica, economia, agricoltura e meccanica. Intorno al 1696 si stabilì a Napoli e fu amministratore dei beni posseduti dai Medici, Corsini e Rinuccini nel Regno delle Due Sicilie. Un preciso profilo di Intieri è in F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969, pp. 553-65; si veda anche M. Fujano, Aspetti della cultura e dell’editoria napoletana nel settecento, in «Archivio Storico per le Province Napoletane» s III, vol. XII (1974), pp. 257-79 [riferimenti bibliografici tratti da Strazzullo 1982, p. 248.
[25] Celestino godeva anche del sostegno del Principe di Scalea F. Spinelli, il quale fornì le macchine per gli esperimenti. Per la breve ma feconda vita dell'Accademia Galianea si vedano Nicolini 1974; De Sanctis 1986, p. 12; Maylander, Storia delle Accademie d'Italia, Bologna 1976; Minieri Riccio, Cenno storico delle accademie fiorite nella città di Napoli, in "Archivio Storico per le Province Napoletane",vol.V, 1880.
[26] «Le indicazioni di GALIANI, anche se non furono del tutto realizzate, raccoglievano suggerimenti del nuovo metodo razionale e scientifico di porsi di fronte alla natura. Questo risultò anche dai nuovi insegnamenti istituiti. Le cattedre di matematica divennero due; venne sdoppiata la cattedra di anatomia e chirurgia; si fondò una cattedra di botanica e chimica. Venne creata anche una cattedra di fisica sperimentale, che però ebbe vita breve» (De Sanctis 1986, p. 12). Oltre all'istituzione di queste cattedre in sintonia con l'avvento del 'secolo dei lumì, ne furono abolite delle altre ritenute oramai inattuali. Il programma abbozzato da Celestino, in qualità di Prefetto degli Studi, prevedeva ancora il ritorno della sede universitaria nel Palazzo degli Studi, che sotto la dominazione austriaca era stato invaso dalle milizie, ed infine l'aumento della retribbuzione dei docenti; proprio quest'ultima disposizione però ebbe la conseguenza di creare grosse difficoltà a causa dell'aggravio economico che ne conseguiva.
[27]  BSNSP, mss Galiani, XXXI.C.22, f.145: «1o venni da Montefusco a Napoli a dì 4 luglio 1735», citato in Nicolini 1918, p. 105 nota 3.
[28]  Schipa 1904, pp.219-26.
[29] Naturalisti, matematici, astronomi, nonché economisti e politici del calibro del già citato Bartolomeo Intieri.
[30]  Castaldi 1840. p. 147.
[31] Futuro arcivescovo di Palermo, Nicolini 1918, p. 113.
[32] Nato a Barletta il 25 aprile 1686, ricoprì la carica di Presidente della Camera di Santa Chiara e Delegato della Real Giurisdizione, morì in Napoli il 9 aprile del 1763 (Diaz 1961, p. 200; AA.VV. 1818, vol. V).
[33]  Nicolini 1918, pp. 110-11.
[34] B. GALIANI, Lettera scritta ad un amico impegnandolo all'esecuzione di un pubblico Monumento, che propone ergersi alla memoria del perduto e sempre desiderabile Marchese Niccolò Fraggianni, in AA. VV., Componimenti in morte del Marchese Niccolò Fraggianni, Napoli 1763, p. XXX (citato in bibliografia come GALIANI 1763); si tratta dell'unico scritto di Berardo GALIANI, se si esclude il De Architettura, ad essere stato pubblicato.
[35] Futuro membro della Reale Accademia Ercolanense come Berardo.
[36] Nicolini 1951, p. 119, e Nicolini 1918, pp. 111-13.
[37] Dove fu istruito in lingua latina da don Giacomo Catalano(Nicolini 1918, p. 106) grazie al quale a soli 13 anni era già in grado di corrispondere in latino corretto col dotto consanguineo che lo aveva preso presso di se(Nicolini 1951, p. 119)
[38] Castaldi 1840, pp.146-7.
[39] Che era stato compagno di convento del Cappellano Maggiore, e diventerà in seguito generale dell'Ordine Celestino.
[40] Nicolini 1918, p. 109.
[41] Castaldi 1840, p.147.
[42] F. GALIANI, Notizie.
[43] F. GALIANI, Notizie, e Nicolini 1918, p. 115 nota 5.
[44] «Ego D. Bernardus GALIANUS civitatis Terami provinciae Aprutii Citerioris, spondeo, voveo et juro, sic me Deus adjuvet et haec sancta Dei Evangelia»,citato in Settembrini 1874, p.958.
[45] Che costituiscono il documento biografico più attendibile in assoluto.
[46] «E circa lo stesso anno 1745 fu dottorato in ambo le leggi» (F: GALIANI, notizie).
[47] Nicolini 1951, tutto il volume è svolto a dimostrare tale assunto.
[48] Celestino a Ferdinando GALIANI, 18 dicembre 1751: «Io di voi ricevo buone novelle da tutte le parti, e da tutti, con molta vostra lode, anche da cardinali, ne ricevo congratulazioni. Il che se mi piace e mi rallegri, potete voi immaginarlo, che sapete quanto sempre vi ho amato e vi amo, e quante cure mi son preso per l'educazione vostra e di vostro fratello (Berardo), fin a perdervi talvolta la mia quiete ed esser da voi due stimato per molesto ed incontentabile: quando dovevate riflettere che era tutto per vostro bene e che le cose, che io da voi pretendeva, erano ragionevolissime,(…)» (BSNSP, mss. GALIANI, XXXI. C. 16, f. 82, citata in Nicolini 1918, p. 107 nota 2).
[49] Si segnalano alcuni scritti dell'illuminista napoletano Ferdinando GALIANI, riguardanti la gestione del territorio e le sue implicazioni economiche : il primo di essi è una proposta di opere di risanamento per l'area di Baia e dintorni che prevedeva la ricostruzione del locale porto utilizzando a tale scopo i piloni della fabbrica imperiale, detta opus ilium, e allo stesso tempo la riapertura del 'Mare Morto’, vale a dire quello che era stato anticamente il porto di Miseno, sfruttando anche in questo caso l'antico molo romano; (Pane 1980). La seconda segnalazione riguarda invece le proposte fatte all'indomani del rovinoso terremoto che sconvolse la Calabria nel 1783; in questo caso l'intervento di ricostruzione sarebbe dovuto essere, nelle intenzioni del lungimirante Ferdinando, strettamente connesso all'azione riformatrice, volta a scardinare lo strapotere baronale-ecclesiastico per stimolare le forze veramente produttive della regione; (BSNSP, ms. XXX. D. 3: Proposte di F. GALIANIper la ricostruzione della Calabria dopo il terremoto del 1783, pubblicate in «Cronache Meridionali», n’3, Napoli 1955, pp.235‑40)
[50] Queste notizie e le due citazioni sono tratte da Napoli Signorelli 1793, tomo V, p.508.
[51] Componimenti varii per la morte di Domenico Iannaccone Carnefice della Gran Corte della Vicaria, raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio Avvocato Napoletano, Napoli 1749, in realtà composto da Ferdinando GALIANI e Pasquale Carcani.
[52]  La vicenda, della quale fu complice Pasquale Carcani 1721-1783, si concluse con l'intervento da parte del ministro Bernardo Tanucci il quale, divertito della loro arguzia, non inflisse ai due altra pena che quella dell'obbligo agli esercizi spirituali per dieci giorni; in merito a tutto l'episodio si vedano Diodati 1788, p. 6 e Ugoni 1856, vol.I, p. 195. Sugli scritti satirici, e in generale su Ferdinando GALIANI come scrittore arguto si veda A: Altamura, Frizzi e sorrisi dell'abate GALIANI, Napoli 1977.
[53] Nicolini 1951, p. 119.
[54] Citato in Nicolini 1918-20, p. 156; e vedere anche le Memorie di Giacomo Casanova.
[55] Sebbene di alta Nobiltà. Infatti il padre discendeva dai conti di Caserta della Racta e dalla nobilissima casa Marzana, e cioè dal viceré Antonio(Antonello) de Racta e Margherita Marzano sepolti nella Chiesa di Sant’Agostino in Sessa Aurunca.
[56]  «Nel 1749 sposò D. Agnese Mercadante di Sessa, figlia di don Leone e D. Ippolita Gattola» (F. Galiani, Notizie).
[57] E come restò male quando, nel 1748, da S.Agata di Sessa, Berardo gli mandò a dire d'aver sposato colà, senza far saper nulla ad alcuno, una fanciulla senza un soldo e di fare affidamento sulla generosità dello zio! S'infuriò, minacciò, tempestò: poi, naturalmente, perdonò tenendosi in casa il figliol prodigo con moglie, e gioiendo come un vecchio nonno sempre che costei gli regalasse qualcuna di quelle pronipoti che Ferdinando un giorno renderà celebri :Anna Maria e Gaetana(Nicolini 1951, p. 121)
[58] : Il seguente è il testo della lettera scritta da Berardo GALIANI al primo ministro Bernardo Tanucci nella quale chiede di intercedere presso il Re, affinché gli venga concessa una dilazione nel pagamento degli oneri per ricevere il diploma di Marchese, è il seguente:
«Eccellenza,
 A nessuno meglio che all’E. V. che ha avuta frequentemente la pacienza di prestare benigne orecchie alle mie suppliche, sarà noto lo stato miserabile in cui sono rimasto dopo la morte de’miei Maggiori, specialmente di Monsignore mio zio. È ugualmente nota più che ad ogni altro la grande spesa che ho dovuto soffrire per la nota edizione di Vitruvio. Ma se questo non bastasse, il volontario esilio dalla Capitale, per restringermi in una casetta di campagna, spero convincerà l’E.V. dell'estrema miseria a cui mi hanno i debiti forzosi ridotto.
 In questo stato di cose mi si notifica il Real Ordine di riscuotere il diploma del Titolo che la Maestà del Re Cattolico si degnò concedere a mio padre, sotto pena di nullità della grazia. La premura di conservar nella Casa l'unica memoria de’fedeli servizj de’miei Maggiori è grande, ma massima la miseria, che non mi apre altra strada da soddisfare que’pochi diritti che restano, se non con togliere il pane alla mia famiglia.
 Questo ho esposto con umil supplica alla Maestà Sua, chiedendo da lui come Padre pio e grato il modo da poter soddisfare o dilazione fino a miglior fortuna. Questa supplica avvalorata dall'autorità e protezione di V. E. può presagirmi il desiderato effetto e dare un contrassegno de’favori che han ricevuto tutti gli altri della mia Casa anche a me, che mi giorio de essere di V.E.
S.Agata di Sessa 24 Aprile 1760,

 Um.mo dev.mo obb.mo Servitore

 Marchese Berardo GALIANI»
ASN, Casa Reale Antica, fascio 857, pubblicata in Strazzullo 1982, pp. 239-42.
[59] I due gravi lutti, e i costanti problemi economici.
[60] Bisogna però sottolineare che monsignor GALIANI, preoccupato per il futuro del nipote, aveva ottenuto di poter disporre dei suoi risparmi per testamento, in deroga al diritto canonico secondo il quale egli, poiché viveva fuori del monastero, avrebbe dovuto devolvere alla Camera degli Spogli i suoi beni; tale privilegio gli fu concesso da Benedetto XIV (Nicolini 1951, p.122).
[61] lettera di Ferdinando GALIANI a Domenico Sgueglia (Venezia 17 giu. 1752) citata in AA: VV. 1975, p.829.
[62] L'incisione fu mostrata al Nicolini Fausto dal Dott. Aurelio Pironti discendente da un ramo dei Galiani (che non ha nulla a che vedere con i discendenti diretti di Berardo che sono i de NATALE SIFOLA GALIANI di Casapulla (CE) per successione di Anna Maria prima figlia ed i VENUTI-GALIANI per successione Gaetana seconda figlia) di Montoro, che ne era il possessore.
[63] Ugoni 1856, p.285.
[64] Tanucci 1914, p.174 nota 2.
[65] In cambio del suo aiuto Ferdinando ebbe in dono «alcuni doppioni di Portogallo» (Ugoni 1856, p. 285).
[66] Duhamel, già famoso tra noi per l'usurpazione del seminatore di padre Lama e per molt’altre: (Ugoni 1856, p. 286).
[67] Ferdinando espresse il proprio rammarico per l'accaduto in una lettera alla sua corrispondente francese, Madame D'Epinay (Napoli, 13 dicembre 1770), nella quale dice: «Je suis enchanté à present qu’il servira à decouvrir un plagiat affreux et malhonnêt que fit M. Duhamel, qui s’attribua l'invention de cette machine, pendant qu’il ne fit que faire regraver les dessin qu’en avait faits mon frère, et qu’il lui avait envoyès»(AA.VV. 1975, p. 1056).
[68] Giuseppe Maria Assemanni (1687-1768) bibliotecario della Vaticana ed erudito, era un maronita italianizzato.
[69] Si trattava dei Codici Vitruviani alle segnature 1504 e 2079 (GALIANI 1790, p. V).
[70] GALIANI 1790, p. V nota 1.
[71] Felici 1972, p. 175.
[72] Le lettere di Ferdinando a Bottari sono conservate presso la Biblioteca Corsiniana di Roma, mentre quelle del prelato a Ferdinando sono presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, su questo carteggio consultare Felici 1972.
[73] Lettera di Bottari a Ferdinando GALIANI (Roma, 25 mag. 1756) conservata a Napoli (B.S.N.S.P., ms. XXXI. C., ff. 114r/115r), e pubblicata in Felici 1972, n° 7.
[74] Vedere lettera di Bottari a Ferdinando (Roma, 13 ago. 1754), B.S.N.S.P., ms. XXXI. B. 18, ff. 230r/231v, pubblicata in Felici 1972, n° 5.
[75] Malizia 1781, tomo I, p. 56.
[76] F.GALIANI, Notizie, e Castaldi 1840, p. 147. Sull'argomento si vedano anche i documenti conservati presso l'archivio dell'Accademia della Crusca e cioè la minuta autografa della lettera scritta da Rosso Antonio Martini a Berardo per comunicargli la sua elezione ad accademico nel mese di settembre 1759 (carte Martini n'54), e la successiva lettera di ringraziamento inviata da GALIANI il 25 dicembre 1759 (carte Martini n’61), il nome di Berardo poi, è menzionato anche nel Diario dell'Accademia, cominciato dallo Schermito, e continuato dal Ripurgato, e dopo la morte di questo dal Divagato([cod.26, seconda parte, anno 1759, pp. 123‑5) per quanto concerne la proposta della sua nomina ad Accademico, nelle sedute del 2, 15 e 22 sett. 1759, che fu accolta a pieni voti.
[77] F.GALIANI, Notizie.
[78] Grave decisione in un regno dal capo mostruosamente grande sopra un corpo gracilissimo (Ajello 1980, p. 15), in quanto la quasi totalità delle risorse culturali, economiche e sociali era concentrato nella capitale.
[79] Paese natale della sua consorte; quantunque sia credibile che tale decisione fosse stata dettata in gran parte dalla necessità, ritengo (Carrafiello) che Berardo non disdegnasse affatto la tranquilla vita che faceva a Sessa, in quanto essa gli consentiva di portare avanti i suoi studi nella quiete della campagna; infatti in una lettera di qualche anno prima, quando la situazione non doveva essere ancora tanto difficile per lui, così si esprime Ferdinando, che doveva conoscerlo meglio di ogni altro: «Egli (Berardo) al presente è a Sessa, e far quella vita, che suo zio sospirò fin che visse, ma non poté, e forse non era atto a fare benché la lodasse sommamente. Io sebbene sia qui fo una vita poco diversa dalla sua, e (quel ch'è ridicolo) anelo di farne una simile a quella di mio zio, e tengo per fermo che affatto non ci riuscirei» (Lettera a Giovanni Gaetano Bottari: Napoli 3 ago 1754, Biblioteca Corsiniana, Cors. 1851, 32. F. 2, cc. 243r/244v, pubblicata in Felici 1972, n.4)
[80] F GALIANI, Notizie; l'esazione dei tributi era stata data in appalto ai privati dando così origine agli arrendamentì (dallo spagnolo arrendar: appaltare), favorendone l'azione vessatoria a scapito della complessiva economia dello Stato. I Governatori erano responsabili degli impegni assunti dal vincitore dell'appalto nel corso della gara e la loro nomina era diretta essendo riservata al governo. Il nome dell’arrendamento dei quattro fondaci deriva dal fatto che proprio quattro erano i principali (Napoli, Gaeta, Salemo e Policastro). Sotto il regno dei Borbone, allora, la pubblica amministrazione tentò di rientrarne in possesso, per consentire il rilancio del commercio, con la fondazione della Giunta delle ricompre (1751). Su questi argomenti si veda: L De Rosa, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli, Napoli 1958.
[81] Casanova 1910, tomo V, p.268, se ne accenna anche in Nicolini 1918/20, p. 155.
[82] Francesco Maria Alfani, amico di Berardo che gli affidò talune ricerche genealogiche (si veda: BSNSP, mss. XXX. C. 7, pasim ma specialmente ff. 307‑89) le quali facevano seguito ad una lettera (BSNSP, ms. XXXI. A. 8, f. 209 ss.) scritta nel giugno 1766 a Berardo da Carlo Giacinto Principe di Gallèan»(Nicolini 1918/20, p. 136). (In realtà Alfani era imparentato con il Galiani la cui sorella Settimia aveva sposato Andrea Alfani “Fausto Nicolini, in Archivio Storico Italiano, La Famiglia dell’Abate Galiani”, LXXII,vol.2,disp. 3-4, 1918).  
[83] Casanova 1910, tomo V, p. 281.
[84] Ibidem.
[85] «Il pittore Mengs sta facendo il ritratto del giovane Re di Napoli (Ferdinando IV); ne ho veduto l'abbozzo, il quale senza complimento mi piace assai poco, ma vedremo in appresso. Egli è andato a stare in casa del Marchese Galeani, il quale gli presta un paio di camere del suo appartamento» (lettera di Luigi Vanvitelli a suo fratello Urbano, Napoli, 6 nov. 1759, pubblicata in Winckelmann 1981, p. 12.
[86] Opere di G.G. Winckelmann, Prato 1832, vol.X, p.407, citato in Winckelmann 1981, p.23.
[87] Citato in bibliografia come GALIANI-Zarrillo 1765.
[88] Si veda la lettera a Giovanni Wiedewelt (19 dic. 1767), pubblicata in Winckelmann 1981, p. 58.
[89] F. GALIANI, Notizie.
[90] Si veda la lettera di Ferdinando GALIANI a Bernardo Tanucci (Portici, 19 ott. 1764) pubblicata in Tanucci 1914, p. 195 nota, ove Berardo viene raccomandato dal fratello per ottenere la nomina)
[91] Galiani 1763.
[92] dott.Caffariello.
[93] F.GALIANI, Notizie.
[94] Si tratta di una lettera scritta da Francesco La Vega (che aveva preso il posto di Weber alla direzione degli scavi) al Principe Dentice, e costituisce l’unico riscontro documentario dell’episodio del furto segnalato da Ferdinando Galiani; essa è stata pubblicata in Ruggiero 1881, p. 211.
[95] Il direttore degli scavi archeologici.
[96] Della precedente struttura il fuoco aveva risparmiato la sagrestia, le cappelle Carafa e del Tesoro, l'Ospedale e il Conservatorio che accoglieva i bambini illegittimi, o nati da famiglie estremamente povere, i quali venivano lasciati sulla Ruota degli Espostì. Si trattava quindi di una istituzione sociale di fondamentale importanza per la città di Napoli, tanto da essere posta sotto la regia tutela. Sulla storia dell'Annunziata si vedano Venditti 1973, e D'Addosio 1883. Berardo GALIANI dà notizia di questo sfortunato evento a Giovanni Gaetano Bottari nella lettera del 25 gen. 1757: «Questa notte è andata a fuoco la nostra chiesa della Nunziata ricca delle più belle, e antiche pitture» (Biblioteca Corsiniana, mss.32.E. 1, già Cors. 1580)
[97] Su tutta la vicenda si veda Licenziati 1959, p.388 ss.
[98] «Ingegnere Ordinario e Tavolario della Sacra Real Casa dell'Annunziata».
[99] I governanti della Real Casa avevano convocato i migliori architetti del tempo che operavano a Napoli, tra i quali Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Mario Gioffredo e un non meglio precisato Bibiena (Carlo in Venditti 1973, o Giovanni in D’Addosio 1883).
[100] Il rallentamento delle opere di fondazione fu causato dal ritrovamento di un mausoleo di epoca romana e dalle abbondanti infiltrazioni d'acqua (lettera di Vanvitelli al fratello Urbano, 17 giu. 1760), Biblioteca Palatina di Caserta, Galatina 1976, p. 534, n° 755.
[101] È sempre suo fratello Ferdinando a scrivere.
[102] F. GALIANI, Notizie.
[103] dott. Caffariello.
[104] L’Archivio non è aperto agli studiosi; molto del materiale cartaceo, comunque, è stato restaurato negli anni settanta, e riordinato da Giuseppe Mauri Mori. Sull’argomento si veda G. Guerrieri, L’importante patrimonio storico dell’Archivio dell’Annunziata, in «La Rota», a. II, n° 1 magg.-giu. 1969, p. 58 ss.
[105] Il destino però non volle che Vanvitelli potesse vedere terminato il suo lavoro, ed in particolare proprio quella cupola così fortemente voluta, la quale nel 1773, anno della sua morte, non era ancora iniziata.L'opera fu poi condotta a termine da suo figlio Carlo nel 1778.
[106] Allo stato attuale, versa in completo abbandono.
[107] Di questo scritto sono noti tre esemplari, il primo è a Vicenza (BBV, mss. Gonzati: 25. 10. 105-112), da questo è stato copiato nel 1810 il secondo che invece è a Padova(BCP, ms. BP, 2537, vol. VI, ff. 130r-147r), mentre infine l’autografo si trova a Napoli(BSNSP, ms. XXXI. A.8, ff. 271r-291v) e sarà indicato d’ora in poi come PTO.
[108] Barbieri 1972, pp. 41-2.
[109] F.GALIANI, Notizie, e Croce 1910, p. 390. Di quest'opera ci dà notizia per due volte Fausto Nicolini (Nicolini 1903, p. 395, e Tanucci 1914, p. 195, nota A) il quale afferma di essere ancora in possesso di parecchi volumi manoscritti contenenti abbozzi, appunti ed altro materiale relativo all'opera che si apprestava a compiere, ma della quale non si è avuta più alcuna notizia. Poiché tutto l'archivio GALIANI è passato, per volontà dello stesso Nicolini, alla Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, si ritiene che anche il «Corso di lezioni d'architettura» giaccia tra il materiale ancora non catalogato di questa istituzione)
[110] Del Bello - Dissertaz.e metafisica del M.B.G., Napoli MDCCLXV (BNN, ms, XII. D. 94), d’ora in poi semplicemente: Del Bello.
[111] Croce 1910, p.390.
[112] Del Bello, Avviso al lettore.
[113] L'autore di questo libro (Il dott. Caffariello) trascrive integralmente il brano che lo ha indotto a pensare ciò: «La premura mia nasce perché volendo soddisfare alla promessa già fatta al pubblico di un’altra mia fatica sull’Architettura sono ora nel capo di palesare, che questa fatica è un trattato intero di Architettura diretto all'istruzione de’principianti: questa è divisa in tre libri: in uno trattasi della Bellezza, nell'altro del Comodo, e finalmente nel terzo della Fortezza. il primo di questi riflessi deve essere quello della Bellezza. Sono tutti e tre a qualche buon partito, ma non permettendomi le altre doverose occupazioni di potere per ora seriamente applicare a questi studi, ma solo a tempo, come suol dirsi, rubato, vorrei almeno cominciare dal pubblicare il primo libro sul Bello: ma come ho fissata la mira a voler ridurre, il più che si può, l'Architettura a scienza, così per non fare quello che ciecamente han fatto gli altri, cioè dare disegni, e disegni senza almeno una probabile ragione di un si fatto operare, mi ho formato un certo sistema scientifico, il quale ragionevolmente mi ha condotto in tutte le rispettive parti. Facilmente si creda ciocché si vuole. Forse la passione mi avrà indotto a dar troppa fede a questo mio sistema. Attendo, perciò, dal pubblico un giudizio spassionato: perché incontrando la sorte di vederlo approvato, possa con animo ilare dar ultimo pulimento, e pubblicare il primo libro. O pure illuminato variar sistema, e tirarlo a compimento sulle nuove tracce» (Del Bello, Avviso al lettore); da tali parole risulterebbe che il primo volume doveva essere già a buon punto nel 1765.
[114] Del Bello, Avviso al lettore.
[115] Gli autori citati sono: Platone, Sant’Agostino, Nifo, Wolff, Crousaz, Hutcheson, Padre Andrè, Hogarth, Batteaux, Spalletti, La Chambre, Briseux e, in una carta aggiunta, Spagni.
[116] Da Matteo [?] a Berardo GALIANI, s.1., nov. 1764, BSNSP, ms XXXI. B. 17.
[117] Quello di Benedetto Croce è l'unico commento critico moderno sul Del Bello di Berardo GALIANI; se ne trascrivono le parti salienti:«Il GALIANI si ingegna a distinguere la bellezza assoluta da quella relativa, il bello essenziale da quello accidentale (terminologia che ha una lunga storia e che egli attinse, forse, dall'Andrè). La sua definizione generale suona: "Il bello è quello che eccita un sentimento di piacere e d'approvazione senza rapporto di utile". Quest'ultima determinazione potrebbe sembrare notevole come precorrimento della celebre Interesselosigkeit del Kant: se l'assenza dell'interesse e la mancanza di un rapporto con l'utile non fossero pensieri e parole comunissimi negli scrittori del sec. XVIII, dai quali Kant li tolse, insieme con tante altre idee, che concorsero a formare la Critica del Giudizio». In nota poi è aggiunto il seguente riferimento bibliografico: «Sui precedenti della Interesselosigkeit, si veda una lunga nota in : SCHLAPP O., Kant's Lehre vom Fente und die Entstehung der Kritik der Urtheilskraft, (Göttingen, 1901, pp. 189 91); libro accuratissimo sulle fonti del pensiero Kantiano» (Croce 1910, p. 390).
[118] Una corda tesa messa in vibrazione emette un determinato suono; se poi essa viene divisa a metà, il suono ottenuto sarà la stessa nota di prima, ma all’ottava superiore. Dividendo sempre la corda originaria in altre diverse parti, i suoni ottenuti saranno più o meno
[118] Del Bello, Avviso al lettore.
[118] Gli autori citati sono: Platone, Sant’Agostino, Nifo, Wolff, Crousaz, Hutcheson, Padre Andrè, Hogarth, Batteaux, Spalletti, La Chambre, Briseux e, in una carta aggiunta, Spagni.
[118] Da Matteo [?] a Berardo GALIANI, s.1., nov. 1764, BSNSP, ms XXXI. B. 17.
[118] Quello di Benedetto Croce è l'unico commento critico moderno sul Del Bello di Berardo GALIANI; se ne trascrivono le parti salienti:«Il GALIANI si ingegna a distinguere la bellezza assoluta da quella relativa, il bello essenziale da quello accidentale (terminologia che ha una lunga storia e che egli attinse, forse, dall'Andrè). La sua definizione generale suona: "Il bello è quello che eccita un sentimento di piacere e d'approvazione senza rapporto di utile". Quest'ultima determinazione potrebbe sembrare notevole come precorrimento della celebre Interesselosigkeit del Kant: se l'assenza dell'interesse e la mancanza di un rapporto con l'utile non fossero pensieri e parole comunissimi negli scrittori del sec. XVIII, dai quali Kant li tolse, insieme con tante altre idee, che concorsero a formare la Critica del Giudizio». In nota poi è aggiunto il seguente riferimento bibliografico: «Sui precedenti della Interesselosigkeit, si veda una lunga nota in : SCHLAPP O., Kant's Lehre vom Fente und die Entstehung der Kritik der Urtheilskraft, (Göttingen, 1901, pp. 189 91); libro accuratissimo sulle fonti del pensiero Kantiano» (Croce 1910, p. 390).
[118] Una corda tesa messa in vibrazione emette un determinato suono; se poi essa viene divisa a metà, il suono ottenuto sarà la stessa nota di prima, ma all’ottava superiore. Dividendo sempre la corda originaria in altre diverse parti, i suoni ottenuti saranno più o meno consonanti con quello della corda intera a seconda del rapporto numerico secondo il quale è stata suddivisa la corda. E quindi se, come abbiamo visto, al rapporto ½ corrisponde l’intervallo musicale di ottava (ad esempio: do-do), a quello di 3/2 corrisponde la quinta (do-sol), a quello di 4/3 corrisponde la quarta (do-fa), e così via. Più i rapporti numerici sono elementari, e più gli intervalli sono consonanti, ossia gradevoli all’ascolto. «Dicono alcuni matematici che un insieme di suoni è tanto più consonante quanto più i loro rapporti di frequenza possono essere ridotti ad una frazione semplice. Dicono alcuni fisici che la consonanza è tanto più perfetta quanto più lìonda sonora è priva di distorsioni e di battimenti» [P. Righini, Il suono e la teoria delle proporzioni, Milano 1952]. Secondo Angelo Comolli il trattato di GALIANI era il più importante della sua epoca tra quelli che affrontavano il tema della «architettura armonica»(Comolli 1788/92, vol. III, p. 233)
[119] Si racconta che Orfeo avesse edificato una intera città suonando la lira, le cui note inducevano le pietre a staccarsi dalle montagne circostanti e a configurarsi in case, strade, palazzi seguendo gli stessi principi ritmici della musica. Roberto Pane, però, fa notare che:«l'abate (Ferdinando) GALIANI, in uno dei suoi opuscoli giocosi, racconta che casi simili a quello di Orfeo accadevano spesso a Napoli, che pure è città di origine greca, quando venivano lanciati sassi contro i cattivi cantanti. Ora Orfeo, aggiunge l'abate, dovette cantare in modo eccezzionalmente stonato dal momento che sassi ne ricevette tanti da trovarsene intorno quanti ne occorrevano per costruire una città!»(R. Pane, Attualità e dialettica del Restauro, Chieti 1987, p. 73)
[120] Berardo divenne rettore del collegio nautico che il Re aveva fondato a Sorrento, con sede nell'edificio della Coccumella appartenuto già ai gesuiti (Castaldi 1840, p. 149); il collegio era destinato all'educazione degli orfani dei marinai locali e della costiera amalfitana (Errichetti 1978, p. 70). Nelle sue note biografiche Ferdinando GALIANI afferma che il fratello fu nominato nello stesso tempo anche «intendente della Casa Regale di Massa» (F. GALIANI, Notizie). In una lettera del 20 settembre 1771 inviata da Sorrento Berardo comunica al ministro Bernardo Tanucci una terna di nomi per la scelta di un nuovo Cappellano del Real Convitto (ASN, Casa Reale Antica, fascio 1328).
[121] «II marchese Tanucci lo fece uffiziale maggiore della Segreteria di Stato e di Giustizia, ove servì con onore per più anni . Ma finalmente volendo il GALIANI condurre una vita tranquilla, si ritirò a Sorrento (   )» (AAVV 1793, tomo XII, p.56).
[122] Estratto dalla minuta (Napoli, 30 mar. 1771): «Confuso de’continui vostri favori vi rendo distinte: grazie del felice augurio e del prezioso salame favoritomi. Nel dubitare, ove io mi trovi, mi cacciate d'impaccio in non avervi prima scritto, ed avvisato ove poter voi diriggere i vostri comandi. Io sono ancora nella segreteria, non partirò probabilmente pel nuovo destino fino a Maggio»(BSNSP, mss. XXVI. B.6).
[123] Questa notizia, è contenuta nei diari della famiglia Galiani, fu data al dott. Caffariello dal dott. Aurelio Pironti il quale è in possesso di buona parte dei documenti relativi al ramo montorese della famiglia
[124] Sull'interessamento di Ferdinando GALIANI alla elaborazione delle carte geografiche del Regno di Napoli si veda Blessich 1896, nonché De Seta-Di Mauro 1980, in particolare le schede: 281, 283 e 284, p.32 ss.
[125] F. GALIANI citato in Blessic 1896, p. 146.
[126] Ottenuto per vie spesso non ufficiali, vale a dire sotterranee e spregiudicate.
[127] Si vedano le lettere tra i due fratelli BSNSP, ms. XXXI. B. 17, passim.
[128] BSNSP, ms. XXX. C. 6, ff. 96r-123v, d'ora in poi PTM.
[129] F. GALIANI, Notizie.
[130] Errichetti 1962, p. 179.
[131] MAGGIO 1773.
[132] «Nel 1772 fu eletto dalla Maestà del Re a proponere i mezzi per riparare la cadente chiesa e cupola del Gesù Nuovo (vale a dire Trinità Maggiore), sul quale punto diede in iscritto il suo parere che non ostante fusse singolare fu stimato da tutti per il migliore» (F. GALIANI, Notizie)
[133] PTM, f. 121r.
[134] F. GALIANI, Notizie.
[135] Castaldi 1840,152, punto 4.
[136]  Sulla storia della Coccumella si veda Errichetti 1978.
[137] F. GALIANI, Notizie: dopo la morte di Berardo fu il fratello ad occuparsi della cognata e delle nipoti, le quali sposarono negli anni immediatamente successivi alla morte del padre, grazie proprio all'interessamento di Ferdinando. Si vedano le sue lettere a Madame d'Epinay, in particolare quelle del 3 set. 1774 (Il 10 Agosto 1744 si era sposata nella chiesa di Sant’Anna di Palazzo in Napoli la prima figlia di Berardo Anna Maria Galiani col marchese Marcello de NATALE-SIFOLA di Casapulla villaggio della Diocesi di Capua), del 16 set. 1775, e del 24 mag. 1777 pubblicate in L'Abbè F. GALIANI, Correspondance avec Madame d'Epinay, Paris 1881, nonché AA.VV. 1975, p. 1115 nota 3, ed ancora Ademollo 1880, passim)
[138] Errichetti 1978, p.70.
[139] ASN, Casa Reale Antica, fascio 1355.
[140] Lo stemma dei Galiani è costituito da un gallo in campo azzurro che poggia su di un capitello stilizzato e guarda verso una stella dorata a sei punte posta a sinistra.
[141] Traduzione: «0 voi tutti architetti, chiunque voi siate, che vi trovate a passare per questo luogo, non disdegnate di porgere un saluto al marchese Berardo GALIANI, egregio ed incomparabile vostro antesignano che qui riposa»: E. Campolongo, Sepulcretum amicabile, Neapoli 1781, p. 11, citato in Castaldi 1840, p. 153.
[142] A. Maiuri Saggi, di varie antichità, Venezia 1954, p. 365, citato in Panza 1990, p. 50.
[143] A titolo d'esempio si ricordi il destino delle tre statue di Vestali, originariamente collocate nel teatro dell'antica Ercolano, che erano state rinvenute fortunosamente durante i lavori di scavo per un pozzo: «Nel 1707 poi essendo venuto in questa capitale (Napoli) Emmanuele Maurizio di Lorena principe di Elboeuf in qualità di generale al servizio dell'Imperatore Carlo VI, ed avendo impalmata la figlia unica dei duca di Salsa Teresa Strabone qui fissò sua fissa dimore. ( ... ). Alcune statue da lui ritrovate furono donate al principe Eugenio di Savoia, che le fece situare nel suo giardino di Vienna. Tre di esse dopo la morte del principe furono vendute dall'erede al re di Polonia per 6000 fiorini circa, e furono poste nel gran giardino regale fuori la città di Dresda, in unione di altre antiche statue, e busti della famiglia Chigi di Roma, che Augusto re di Polonia aveva comprati mediante 600.000 scudi» (Castaldi 1840, cap. Ì, pp. 17-9); fu proprio in quest'ultima città che esse furono osservate con ammirazione da Winckelmann, il quale dal 1748 si era trasferito nel vicino centro di Notenitz, essendo stato assunto colà dal Conte di Bunau come bibliotecario (Ottani Cavina 1982, p. 606, nota 3).
[144] Ad esempio si era sparsa la voce del ritrovamento di una statua di Giove tutta d'oro, come pure di una trireme da guerra conservatasi integralmente e completa delle parti in ferro e bronzo; o ancora si favoleggiava riguardo alla scoperta di un fiume sotterraneo che avrebbe, nei tempi antichi, attraversato Ercolano, (A.F. Gori, Notizie del memorabile scoprimento dell'antica città di Ercolano, Firenze 1748, p. XI, citato in Zevi 1980, p.64).
[145] O.A. Bayardi, Prodromo delle antichità di Ercolano, Napoli 1752; ma i tomi III-V, sebbene rechino la stessa data, in realtà risalgono al 1756. Le Antichità di Ercolano esposte furono poi pubblicate in otto tomi fra il 1757 e il 1792 a cura della Regale Accademia Ercolanense.
[146] Ne erano previsti sette.
[147] Ottavio Antonio Bayardi(Parma 1694-1764) ebbe l'incarico di illustrare i monumenti di Ercolano per la grande fama di dotto, ma forse anche per l'interessamento di suo cugino il marchese Giovanni Fogliani, che era ministro di Carlo di Borbone; ma quando questi fu sostituito dal marchese Tanucci (giugno 1755) anche la posizione di Bayardi ne risultò alquanto scossa, ed egli, pur essendo stato nominato accademico ercolanese, un anno dopo chiese congedo e si ritirò a Roma. Si veda Castaldi 1840, pp. 32-3, e pp. 91-2; Schipa 1923, vol. II, pp.42-3, 207, 229, 232, ss., 274.
[148] Eponimo dell'antica città da poco riscoperta.
[149] Greco, egizio, tirio, ed altri ancora.
[150] Schipa 1923, vol.II, p.233.
[151] Zevi 1980, p.66.
[152] Ibidem.
[153] Sulla storia dell'Accademia si veda Castaldi 1840.
[154] Tra i quali figurava anche Ferdinando GALIANI.
[155] Castaldi 1840, p. 35.
[156] F:GALIANI, Notizie.
[157] Castaldi 1840, p. 148. Sull'argomento si vedano anche i documenti conservati presso l'archivio dell'Accademia della Crusca (carte Martini n'54, 61 e Diario dell'Accademia cod. 26, seconda parte, anno 1759, pp. 1235).
[158] L’odierna Ercolano.
[159] Lettera degli accademici Mazzocchi, Ignarra e Carcani (Napoli, 10 settembre 1760) indirizzata al Tanucci, e pubblicata in Ruggiero 1881, p. 134.
[160] Comunicazione di Karl Weber al ministro Tanucci (Portici, 19 nov. 1761) pubblicata in Ruggiero 1881, p. 164.
[161] Che si sviluppò molto tardi, e certamente dopo la riforma delle tecniche di scavo.
[162] Prima collaboratore , e poi egli stesso direttore degli scavi.
[163] Il proposito di Weber è contenuto in una lettera da lui inviata al ministro Tanucci (Portici, 6 lug. 1762) pubblicata in Ruggiero 1881, p. 173, della quale segue la trascrizione: «Lunbes el dia 5 se ha puesto man en la antigua Estabia o Barano de Castelamar y tendrè cuente à fin que se escave con buen orden para poder descrivir sus edificios, y formar un tomo separado que esplicalas habitaciones y el uso de aquellos antiguos pueblos [por qual fin ya havia hecho el consavido pequeño trababajo y exemplo], par la formacion del cual necesito la corecion de los Academicos y el ayudo del Marques GALIANI(que creo particular en esta materia); y sobre todo el examen, doctrina y aprobacion de V. E.... ».
[164] Winchelmann 1981, passim e specialmente p. 142.
[165] Panza 1990, p. 52.
[166] Corti 1957, p. 137.
[167] Zevi 1980, p. 61.
[168] Corti 1957, p. 152.
[169] ibidem.
[170] «En 15 de Febrero 1764, Murio Weber» (G: Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, Vol. 1, Pars.11, Neapoli 1860/62, p. 146, citato in Ruggiero 1881, p. 207)
[171] Ruggero 1885, p. 448: L'elenco completo delle carte che passarono nelle mani di Francesco La Vega è in Ruggiero 1881 pp. 207-8.
[172] La relazione finale di questa riunione è stata pubblicata in : Ruggiero 1881, p. 208, mentre un sunto è contenuto in Ruggiero 1885, p. 448. Da questi stessi due volumi sono tratte tutte le notizie che seguono.
[173] Ossia: Ercolano.
[174] Relazione del 1 agosto 1764, pubblicata in Ruggiero 1881, p. 208.
[175] Ibidem.
[176] Zevi 1980, p. 61.
[177] Il brano è tratto dalla Lettera al Signor Enrico Fuess1y, par. 10, come pubblicata in Winckelmann 1981, p. 142. In essa lo studioso prussiano precisa che i sondaggi relativi alla Scena avevano avuto inizio solo due anni prima, e cioè nel 1762.
[178] Lo stimato testo di Vitruvio che nel settecento costituiva ancora un riferimento di fondamentale importanza per la cultura architettonica contemporanea.
[179] E che doveva contenere le piante degli edifici ritrovati.
[180] Lettera degli accademici ercolanesi Alessio Simmaco Mazzocchi, Nicola Ignarra e Pasquale Carcani al ministro Tanucci (Napoli 10 set. 1760) nella quale i tre firmatari esprimono le loro valutazioni in merito al volume che Karl Weber avrebbe voluto far accettare come terzo tomo delle Antichità di Ercolano esposte; la lettera è stata pubblicata in Ruggiero 1881, p. 132 e segg.; questo proposito dell'architetto svizzero è confermato anche da una lettera di Francesco La Vega inviata al Principe Dentice (Portici, 9 mar. 1765) pubblicata in Ruggiero 1881, p. 211.
[181] L'edizione galianea fu pubblicata per la prima volta nel 1758.
[182] Prosegue poi GALIANI: « Egli è vero, che non vi è piccolo paese, ove non se ne veggano delle rovine, sopra le quali hanno alle volte molti valenti agli anfiteatri, de’ quali se ne conservano ancora taluni; ma nessuno fin’oggi uomini studiato, ed anche scritto: ma è vero ancora, che tutti, o quasi tutti hanno impiegate le fatiche, e riflessioni solamente sopra il giro de’ sedili: cosa la quale era facilissima ad intendersi, anche perché somiglia in tutto in ciò ha saputo comprendere di quanto maggiore importanza era lo studiare riflettere, e scavare nel sito della scena, perché da qualche residuo almeno di pianta si sarebbe potuto prendere in ciò qualche norma. Io ho veduti peraltro molti disegni di teatri disotterrati: ma in tutti o non si vede affatto vestigio di scena, o quel che è peggio, vi è finto e aggiungo dal capriccio di qualche ingegnoso Architetto» (GALIANI 1758, libro V, capitolo VII, p. 116 continuazione della nota 2 a p. 115).
[183] Fiorelli 1850. Il fascicolo è rarissimo, l'unica copia è conservata presso la Biblioteca del Museo Nazionale di Napoli (XXI. C. 16), ad ogni modo le menzionate carte galianee sul teatro ercolanese sono integralmente anche in Fiorelli 1851 che si possono consultare presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (Misc. XVII. C. 4¹³).
[184] I documenti che Fiorelli attribuisce a GALIANI consistono in: A) Indicazione di una pianta del teatro; è formata delle legende relative ai due disegni di Weber, alle quali fa seguito una breve Riflessione, nella quale l'autore conclude che «questo teatro non è positivamente né greco né romano, bensì fatto con più comodo e meno dispendio dell'uno e dell'altro, come dalla costruzione sua si dimostra»; però, si potrebbe trattare invece della relazione allegata alle tavole secondo quanto affermato da Berardo GALIANI stesso nel documento di cui al punto «B», e che quindi il vero autore dello scritto sia in realtà Karl Weber, come confermato anche dal fatto che in origine il documento era in lingua spagnola, mai usata da Berardo in tutti gli autografi che si è avuto modo di consultare, e datato 22 giu. 1762, data in cui Berardo non era ancora entrato in possesso dei menzionati disegni (si veda la citazione fatta da Fiorelli a p. XLII). Solo l'osservazione diretta del manoscritto potrebbe risolvere tale dubbio, ma Fiorelli non indica dove essi siano conservati. B) Rappresentanza del Marchese GALIANI al Marchese Tanucci sulla relazione e su i disegni del teatro ercolanense. C) Scavi richiesti dalla R. Accademia Ercolanese per la formazione della pianta; non è certo che l'autore di questo scritto sia Berardo, ma è possibile che, dato l'argomento, gli Accademici abbiano affidato proprio a lui il compito di stendere tale richiesta. D) Lavori eseguiti nel maggio e giugno 1765; quest'ultimo scritto dovrebbe essere il resoconto degli scavi proposti, fatto a GALIANI da Francesco La Vega, il quale aveva ricevuto l'incarico di eseguirli (Ruggiero 1885, p. XVIII). In definitiva, soltanto il documento «B» sarebbe un autografo galianeo, non tutti e quattro come invece ha lasciato intendere, con palese leggerezza, Fiorelli stesso (Fiorelli 1851, p. XLI).
[185] La risposta di GALIANI consiste nel documento «B» segnalato alla nota 165 di questo lavoro, che risale ad un lasso di tempo compreso tra la data della morte di Weber (15feb. 1764) e la fine di quello stesso anno. Una diversa versione della stessa è costituita da una lettera inviata a Bernardo Tanucci (Napoli 14 feb. 1765), e pubblicata in Ruggiero 1885, p. 456. Ruggiero afferma che quest’ultima è il parere originale di Berardo, ma potrebbe trattarsi di una rielaborazione in forma ridotta della sopracitata «rappresentanza» pubblicata da Fiorelli, in quanto in essa Berardo esprime i medesimi concetti in maniera sintetica. La lettera pubblicata da Ruggiero sarebbe quindi uno scritto formale ricavato da un precedente elaborato di lavoro, ed in questo caso la data del 13 dicembre 1753 dovrebbe essere corretta in 1763).
[186] Fiorelli 1851, p. XLV, capoverso 4.
[187] Il Parere sulla copertura del Teatro Olimpico è datata 1764, mentre invece i lavori proposti da GALIANI iniziarono nel maggio 1765.
[188] PTO, f. 290v.
[189] Fiorelli 1851, p. XLV.
[190] «Quando però la brevità mi abbia fatto oscuro, perché non se Le accresca la noia con altra lettura, che sempre oscura sarà a chi non abbia potuto visitare gli scavi, ad ogni semplice cenno mi darò l'onore di presentare all’E.V. un rozzo modello, che espressamente ha formato di tutto ciò che finora in questo teatro ho scoperto» (Fiorelli 1851, p. XLV).
[191] Ruggiero 1885, p. XVIII.
[192] GALIANI fu informato di quei lavori almeno nei primi due mesi (maggio e giugno 1765) come risulta dal documento «D» citato in questo lavoro, ove si legge: «Si sono fatte delle pruove, per riconoscere se esistesse in qualche luogo l'intera altezza della scena, ma questa l'ho trovata in tutta la sua sommità diroccata, benché la parte che esiste, è con tutto ciò delle maggiori che si osservi in qualunque altro antico teatro» (Fiorelli 1851, p. XLVI); i disegni degli edifici ercolanesi furono pubblicati solo un secolo più tardi, ed in più riprese, da Minervini, Ruggiero e De Petra.
[193] F: GALIANI, Notizie.
[194] Questa lettera di La Vega al Principe Dentice costituisce l'unico riscontro documentario dell'episodio del furto segnalato da Ferdinando GALIANI, ed è stata pubblicata da Ruggiero 1881, p. 211.
[195] Per l'inventario delle carte di Karl Weber si veda Ruggiero 1881, p. VII e ss., e soprattutto il più recente Fonti documentarie per la storia degli Scavi di Pompei, Ercolano e Stabbia, Napoli 1979.
[196] Oltre alla pubblicazione delle Antichità Ercolanesi furono fatti redigere un numero notevole di rilievi e mappe, quali ad esempio la pianta di Civita (alias Pompei), quella della Villa Giulio Felice, (entrambe di Weber), il Tempio di Iside restaurato graficamente da Francesco La Vega (Panza 1990, p. 55).
[197] ZEVI 1980, p. 58.
[198] «Iniziata nel 1738 come Palazzo Reale, Capodimonte è stata in seguito soprattutto usata come museo d’arte, ed occupa pertanto un posto nella protostoria dei musei d'Europa. La più antica collezione pubblica d’arte è la Raccolta Capitolina di Sisto IV, risalente al 1471, che trovò il suo attuale alloggiamento in un’ala del Vaticano, non realizzata per servire da museo, soltanto nel 1734. Forse la più antica galleria d’arte ancora in uso con la medesima funzione è quella di Sabbioneta presso Mantova, costruita per Vespasiano Gonzaga nel 1560 circa. Si veda Mordaunt Crook, The British Museum, New York 1972, p. 26»(Cit. in Hersey 1982, p. 216 nota 9).
[199] Cit. in Zevi 1980, p. 58.
[200] ZEVI 1980, p. 59.
[201] Winckelmann fu a Napoli quattro volte: dal febbraio all'aprile 1758, nel gennaio 1762, in febbraio e marzo 1764, ed infine, dal settembre al novembre 1767, la lettera citata si riferisce a quest’ultimo viaggio.
[202] Winckelmann si riferisce al Museo di Portici, nel quale erano gelosamente custoditi i reperti recuperati nelle varie campagne di scavo.
[203] Lettera del 19 dic. 1767, pubblicata in Winckelmann 1981, p. 58 ss.
[204] Lettera a Hieronymus Dietrich Berends del maggio 1758, citata in Winckelmann 1981, p.45.
[205] Zevi 1980, p. 61.
[206] Padre Antonio Piaggi venne chiamato a Napoli dalla Corte Borbonica nel luglio 1753, per occuparsi dello svolgimento dei papiri che erano stati rinvenuti nella Villa dei Pisoni l'anno precedente; per tale delicatissima operazione inventò una macchina, ma anche con l'aiuto di questo strumento i tempi erano lentissimi, e dal 1754 al 1798 furono svolti soltanto 18 papiri (Winckelmann 1981, p. 22, nota 28).
[207] Panza 1990, p. 63.
[208] J.J: Winckelmann, Lettera sulle scoperte di Ercolano al signor Conte Enrico di Bruhl, Dresda 1762, par. 29, come trascritta in Wilckelmann 1981, p. 79.
[209] Il 6 agosto 1740 le autorità erano dovute intervenire prescrivendo ad Alcubierre di seguire le pareti lungo il perimetro, per poi entrare nelle case attraverso porte o finestre, evitando quindi di sfondare i muri (Ruggiero 1885, p.81 1).
[210] E cioè nel sito di Civita a partire dal 1765.
[211] Si ricordi gli Ornati delle pareti e pavimenti delle stanze dell'antica Pompei, pubblicati negli anni '60 del secolo XVIII.
[212] Panza 1990, pp.53 e 55.
[213] E. Corti, Ercolano e Pompei morte e rinascita di due città, trad. it. a cura di S. Lupo, Napoli 1985, p. 131; citato in Panza 1990, p. 51.
[214] Zevi 1980, p. 59.
[215] F: Strazzullo in Winckelmann 1981.
[216] Panza 1990, p. 67.
[217] Capodrise 1729 - Napoli 1804; fece parte dei primi quindici membri dell’Accademia Ercolanese e, nel 1748, Ferdinando IV lo nominò custode del Real Museo di Capodimonte,Castaldi 1840, pp. 251 - 4
[218] Giudizio dell’opera dell’Abate Winckelmann intorno alle scoverte di Ercolano contenuto in una lettera ad un amico, Napoli 1765, segnalato in bibliografia come GALIANI - Zarrillo 1765.
[219] Lettera di Zarrillo a Tanucci (Napoli 6 mag. 1765) custodita presso l'Archivio di Stato di Napoli (Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) e pubblicata in Winckelmann 198 1, p. 45, nota 63.
[220] Francesco Daniele, nato a San Clemente(Caserta) 11 aprile 1740 fu l'autore del 'codice Fridericianò che detiene tutta la legislazione di Ferdinando IV fu nominato nel 1778 Regio storiografo dallo stesso Re; fu uomo dottissimo e membro di molte accademie italiane ed estere.
[221] Non si è riusciti a trovare alcuna notizia di questo carteggio; si deve però ricordare che la maggioranza delle carte galianee, non tutte classificate, sono conservate presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria.
[222] Questa citazione è tratta da un manoscritto di tono scherzoso che Fausto Nicolini attribuisce all'abate GALIANI intitolato Ragguagli di Parnaso sotto il 13 maggio 1765, pubblicato da F. Strazzullo in Winckelmann 1981, pp. 183-90; in esso l'autore, ispirandosi ai Ragguagli di Parnaso (1606-12) di Traiano Boccalini, immagina che la faccenda del plagio, e delle sue conseguenze, fosse discussa sul Parnaso alla corte di Apollo. Questo scritto può essere considerato attendibile al fine di fare luce sulle reali intenzioni di Berardo in merito alla nota polemica.
[223] Il fatto che sia stato Francesco Daniele e non Berardo GALIANI a pubblicare le Considerazioni risulta evidente dalla lettura dello scritto di Ferdinando GALIANI menzionato nella nota precedente (passim), inoltre lo è lo stesso Zarrillo a darcene conferma in una lettera scritta a Tanucci (Napoli 6 mag. 1765; ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12, pubblicata integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63) ove scrive che la pubblicazione avvenne «senza intelligenza dei GALIANI».
[224] La lettera di Carcani a Berardo (Caserta, 4 mag. 1765; BSNSP ms. XXX. D. 5, f. 108) è stata pubblicata integralmente in Winckelmann 1981, p. 180, nota 7.
[225] Winckelmann 1981, p. 179, nota 3; una copia però era nella collezione di libri di Leopoldo Cicognara, allegato alla prima lettera di Winckelmann (Catalogo ragionato dei libri d'Arte e d'Antichità posseduti dal Conte Cicognara, Pisa 1821, vol.11, p.33, n’2721), e dovrebbe quindi essere ora nella Biblioteca Apostolica Vaticana insieme a tutti gli altri suoi volumi.
[226] Osservazioni di Ferdinando GALIANI alla lettera di Winckelmann sugli scavi d'Ercolano, BSNSP ms. XXX. C. ff. 149r-154v. I primi 5 fogli sono scritti nella metà destra sia sul recto che sul verso; il sesto è scritto allo stesso modo ma solo sul recto, e reca sul verso solamente: «Per Ercolano contra Winckelmann», apposta dallo stesso Berardo.
[227] Le parti aggiunte da Zarrillo sono: A) pp. 8-19, da «Ma che!» a «ma nequicquam compreso un passo piuttosto volgare in difesa di Alessio Simmaco Mazzocchi che Winckelmann aveva criticato in modo altrettanto scurrile (Lettera sulle scoperte di Ercolano al Sig. Conte Enrico di Brühl, paragrafo 138, come pubblicata in Winckelmann 1981, p. 129); B) p. 24-7, da «Egli si millanta» a «sta così»: compresa la successiva abbreviazione epigrafica tratta da un sigillo; infine nel manoscritto galianeo non figurano le due parole di commiato: «Conservatevi, Addio»)
[228] Zarrillo afferma in una lettera al ministro marchese Tanucci (Napoli, 6, mag. 1765) di aver avuto da Berardo il permesso di citare le sue osservazioni; la lettera (ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) è stata pubblicata integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63.
[229] F. GALIANI, Ragguaglio di Parnaso sotto i 13 maggio 1765, pubblicato in : Winckelmann 1981, pp. 183-90.
[230] Nota introduttiva di Franco Strazzullo in Winckelmann 1981, pp. 46-8
[231] Panza 1990, p. 67.
[232] Ferdinando GALIANI e l'antico, in Pane 1980, p. 2 10.
[233] Zevi 1980, p. 59.
[234] GALIANI-Zarrillo 1765, p. 6.
[235] O meglio quelli salvati dai furti e dalla fusione.
[236] Pane 1980, pp. 210.
[237] GALIANI - Zarrillo 1765, pp. 3-4.
[238] Zevi 1980, pp. 59-60.
[239] Che peraltro traspare anche da un breve accenno contenuto in un suo scritto del 1773: Ci si riferisce al Parere del Marchese GALIANI sui danni della Trinità Maggiore (BSNSP, ms. XXX. C. 6 f. 104r, aggiunta a margine.
[240] Lettera sulle scoperte di Ercolano al Sig. conte Enrico di Brühl, paragr. 38, come trascritta in Winchelmann 1981, p. 83.
[241] Che faceva riferimento al proverbio citato dal tedesco per offendere Alcubierre.
[242] GALIANI Zarrillo 1765, pp. 23-4; le maiuscole sono autografe.
[243] I due tomi dell'opera De Regia Theca Calamaria (Napoli 1756) di Giacomo Orazio Martorelli (Napoli 1699-1777) furono sequestrati in tipografia proprio perché violavano la volontà del Re anticipando notizie delle quali si stava occupando l'Accademia Ercolanese, appositamente istituita (Winckelmann 1981, p. 47, nonché Zevi 1980, p. 64).
[244] Ottani Cavina 1982, p. 622.
[245] Ottani Cavina 1982, p. 621.
[246] Fatti salvi i pochissimi privilegiati quali Berardo GALIANI.
[247] Il quale malgrado provenisse da una regione, la Tascana, storicamente sensibile al fascino dell’arte ed a quel tempo in prima linea nel campo della cultura antiquaria, aveva autorizzato l’uso del 'piccone demolitore.
[248] Zevi 1980, p. 60.
[249] E' sempre la Ottani Cavina a parlare.
[250] Peraltro in una fase storica che Benedetto Croce ha definito: «anni di risoluto progresso ( ... ) non vertiginoso e neppure rapido; ma certamente nuovi mali non si aggiunsero agli antichi, e gli antichi furono attenuati, e il paese respirò»): Cit. in Moscati 1970, p. 37.
[251] «accidiosa, pronta alla polemica, ma anche attentissima agli scavi di Ercolano»): Zevi 1980, p.60.
[252] Winckelmann, come si è visto all’inizio, ottenne anche nel 1767, quando le sue critiche erano già ben note alla corte, il permesso di vedere nuovamente il Museo Borbonico, e il marchese GALIANI non gli negò la riconciliazione; Al contrario Winckelmann nella seconda lettera (Notizie sulle antiche scoperte d’Ercolano al Signor Enrico Füessly, Dresda 1764) continuò a seminare insolenze contro la gestione degli scavi, accanendosi particolarmente contro la Regale Accademia Ercolanese; il commento di Franco Strazzullo è: «Della generale inerzia dell’Accademia Ercolanese potremmo dargli anche ragione, ma non andiamo lontano dal vero se affermiamo che tanta acredine gli veniva principalmente dalla delusione di non essere annoverato tra i membri di quel prestigioso consesso. E che egli ci tenesse a quella nomina appare dalla sua lettera del del 5 febbraio 1758 all’amico Berends, nella quale annunziava il suo primo viaggio a Napoli: Ma quel che più rileva, io ci vo’ nell’intento di diventare uno dei membri della Società che scrive sulle Antichità»(Winckelmann 1981, p. 39).
[253] Il sistema di riscossione delle tasse (arredamenti) e dei dazi doganali, era stato dato in appalto ai privati, o venduto ai creditori dello Stato in piena proprità; Carlo di Borbone allora costituì una Giunta delle ricompre incaricata di riscattare il patrimonio finanziario pubblico che era stato in tal modo alienato. Per il successo della riforma finanziaria, e per tutta la politica economica di Carlo di Borbone si veda De Marco 1980.
[254] Che propagatasi in Sicilia e Calabria rese nulli d’un colpo tutti gli sforzi fatti dall’amministrazione borbonica per lo sviluppo del commercio.
[255] Ajello 1980, p. 18.
[256] Haskell 1982, p. 20.
[257] Archeologici.
[258] Haskell 1980, p. 30.
[259] Sul Teatro Olimpico di Vicenza si vedano la recente monografia Magagnato 1992, le due pubblicazioni di L. Puppi, Il Teatro Olimpico (Vicenza 1963) e Andrea Palladio (Milano 1973), ed ancora Pane 1962.
[260] Le notizie sull'annoso problema della decorazione del soffitto, ove non sia diversamente precisato, sono state tratte da Puppi 1975.
[261] Grazie alle incisioni e ai documenti coevi.
[262] Ed in particolare la copertura interna.
[263] X111,5.
[264] O di altro discepolo che comunque ha solo messo su carta l'idea del maestro.
[265] Puppi 1975, p. 310; Wittkower 1964, p. 71 e nota 1.
[266] Vale a dire Ottavio Orefici (cfr. Magagnato 1992, p. 225), o ancora Ottavio Bruto Revese; si è preferita la grafia adottata dal Pallucchini nella scheda del Thieme-Becker (s.v., vol. XXVIII, p. 206). Per questo personaggio, che fu lettore ordinario della Accademia Olimpica nel 1605 e 1608, si veda L. Puppi, Profilo di O. Revese Bruti, in «Bollettino del CISA “A. Palladio”», 111 (1961 ).
[267] Solo recentemente è stata rintracciata l'incisione originaria, segnalata in Magagnato 1992, p. 225.
[268] «Coperto il resto del sito col medesimo livello essendo finto aere»(O. Revese Bruti, Lettera descrittiva allegata alla stampa, cit. in Puppi 1975, p. 313).
[269] Pane 1962, p. 364.
[270] Il boccascena nasce in ambiente toscano nella prima metà del cinquecento, ed è singolare che nell’Olimpico, lo si trovi associato ad una scaenae frons; filologicamente corretta (cf. Magagnato 1992, p. 69).
[271] Palladio aveva collaborato con Daniele Barbaro per la sua edizione del De Architectura (pubblicata a Venezia nel 1556), contribuendo anche all’elaborazione delle tavole.
[272] Puppi 1975, p. 310.
[273] Parere del M.se Berardo GALIANI dato sulla copertura del Palco del Teatro Olimpico (d'ora in poi: PTO), 1764, f. 290v.
[274] Intorno al 1648.
[275] Puppi 1975, p. 317, 318 e relative note.
[276] Che nel frattempo, in una data imprecisabile, aveva sostituito il finto aere al quale faceva riferimento Revesi-Bruti.
[277] Atti originali dell’Accademia Olimpica (d’ora in poi: AAO) b. 3, fasc. 17, c. 92r (cit. in Puppi 1975, p. 320).
[278] Quella che GALIANI cita come contemporanea; PTO, f. 271 v.
[279] Come risulta dalla lettera di Enea Arnaldi a Francesco Ottavi Magnocavalli del 4 feb. 1764 (originale inedito presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, Archivio Magnocavalli, scatola da inventariare, minuta autografa presso la BBV, Libreria Gonzati, parzialmente pubblicata in Ieni 1987, p. 301). La conseguenza immediata di ciò fu che, semplificata la soffittatura “alla ducale”, il pavimento della scena fu ridotto a «tavole senza lavoro alcuno» (G. Montenari, Del Teatro Olimpico, Padova 1749, p. 45, cit. in Puppi 1975, p. 330 nota 37, in fondo).
[280] Il soffitto della scena fu dipinto da Angelo Rossi e Antonio Fossati per 500 ducati (AAO = b.1: Repertorio Atti dell’Accademia Olimpica, fasc. 1, n° 24; cit. in Puppi 1975, p. 320 e nota 36 a p. 330).
[281] Enea Arnaldi denunciò l’uso di legno poco stagionato (cfr. Puppi 1975, p. 320).
[282] AAO = b. 6: fasc. n’82 (parti 1740-1780), cc. 19r ss (cit. in Puppi 1975, p. 330 nota 39).
[283] Per la bibliografia completa su tutta la vicenda settecentesca, alla quale prese parte anche GALIANI, si veda Magagnato 1992, p. 252 ss. Schede 2.48a, 2.48b, e 2.49.
[284] Barbieri 1972, p. 41-2.
[285] Replicata il 20 giugno.
[286] O arnaldiano.
[287] Ibidem.
[288] O. Calderari, Discorso intorno alla copertura da farsi al pulpito dei Teatro Olimpico di Vicenza, Padova 1762 (cit. in Puppi 1975, p. 322).
[289] Barbieri 1972, p. 41‑2.
[290] Olivato-Puppi 1980, p. 200 scheda 227.
[291] F. Anti, Relazione sopra la copertura del Teatro Olimpico, Vicenza 1909, pp. 18-9 (cit. in Puppi 1975, p. 330 nota 43).
[292] I pareri degli studiosi Calderari, Temanza, GALIANI, Magnocavalli, Borra, e Tortosa, sono riassunti nello scritto dell’abate Capperozzo, Memorie riguardanti la copertura del Teatro Olimpico (BBV mss. Gonzati, 25. 10. 105-112, Miscellanea di carte manoscritte mm 284x220; cit. in Olivato-Puppi 1980, p. 200 scheda 227).
[293] E: Arnaldi, Idea di un Teatro Ecc. [ ... ], Vicenza 1762 e Ieni 1987, p. 301.
[294] Come risulta dalla citata lettera di Arnaldi a Magnocavalli del 4 feb. 1764, pubblicata in Ieni 1987, p. 301.
[295] Sulle ipotesi di identificazione di questi, si veda: Ieni 1987, p. 304 e nota 26.
[296] Ieni 1987, p. 303 e nota 23.
[297] (Non essendo stato ritrovato, ad oggi, il parere specifico che egli aveva indirizzato ad Arnaldi nell’agosto nel 1764, la posizione teorica del Conte Magnocavalli è nota principalmente tramite una lettera che quest’ultimo inviò al canonico Ignazio de Giovanni, destinato a fare da intermediario con il nominato Sig. Bartoli (Ieni 1987, p. 304 e nota 26): Lettera del Conte F. O. Magnocavallo al signor canonico De Giovanni sulla copertura del pulpito del Teatro di Vicenza (BBV, mss. Gonzati 25.10.109), pubblicata da N. Carbonieri, Riflessi Palladiani nell’epistolario Arnaldi-Magnocavalli, in «Arte Veneta», n. XXXII, (1978), p. 443-5)
[298] E. Arnaldi, Idea di un Teatro, Vicenza 1762. Insieme a questa pubblicazione, furono inviati a Berardo GALIANI altri due volumi, affinché avesse i necessari elementi per elaborare il suo Parere (PTO, f. 271r); questi erano : O. Calderari, Discorso intorno alla copertura da farsi al pulpito del Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza 1762; e G. Montenari, del Teatro Olimpico, Padova 1749.
[299] Ms BP 2537, vol. VI, ff. 130r-147r.
[300] A differenza di quanto affermato in Ieni 1987, poiché in fondo al manoscritto si legge: «Copia fatta il mese di Giugno 1810 essendo a prendere le acque di Recoaro» (f. 147r).
[301] mss. Gonzati 25. 10. 105-112.
[302] Cfr. Olivato 1990, p. 208 scheda 5.12: Olivato Puppi 1980, p. 200 scheda 227; Ieni 1987, p. 303 nota 24.
[303] BSNSP, ms. XXXI. A. 8, ff. 271r-291v. La numerazione indicata, apposta a matita, è relativa a tutto il volume; essa si affianca (e in alcune pagine si sovrappone) a quella autografa, apposta dall’autore, a penna, solo su recto dei fogli il alto a destra, e che va da 1 a 20.
[304] Presente invece in entrambi gli esemplari già noti.
[305] Ad essa nell’esemplare napoletano viene fatto comunque riferimento: «Tutto si può chiaramente vedere nell’annessa figura» (PTO, f. 284r).
[306] Penna e inchiostro su carta vergata e filigranata, in Magagnato 1992, pag. 254..
[307] PTO f. 284r.
[308] Della quale era evidentemente in possesso. Nella prefazione alla sua edizione dello stesso testo, Berardo GALIANi elenca tutte le altre traduzioni ed i commenti pubblicati fino al suo tempo, nonché i due antichi testi della Biblioteca Vaticana che egli aveva studiato e collazionato con gli altri a lui noti.
[309] PTO, f. 283r: «Come pensasse Palladio intorno a’ Teatri antichi, ( ... )»; I dieci libri dell'Architettura di M Vitruvio tradutti et commentati da monsignor Barbaro, Venezia 1556, libro I, cap. 6, p. 40, citato in Wittkower 1964, p.68.
[310] PTO, f. 284r.
[311] Anche questa disegnata da Berardo GALIANI.
[312] Questo profondo studioso e documentatore dell’opera palladiana, avendo beneficiato una borsa di studio istituita da Vincenzo Scamozzi col fine di mantenere viva la propria memoria, assunse il cognome di quest’ultimo per adempiere ad una specifica clausola prevista dal suo testamento. L. Vagnetti, L’architetto nella storia di Occidente, Firenze 1974, p. 257 e nota 18.
[313] La prima monografia in assoluto sul Teatro Olimpico.
[314] La pianta criticata da GALIANI (che figurava in G: Montenari, Del Teatro Olimpico, Padova 1733) era opera di Francesco Zucchi, ed è stata pubblicata in Magagnato 1992, p. 233. A Berardo furono inviati altri due libri, nei quali i due antagonisti, Calderari ed Amaldi, esprimevano le rispettive posizioni sulla questione della copertura.
[315] G: Fossati, Fabbriche inedite di Andrea Palladio, Venezia 1740/45, tav. I; presso la Biblioteca del Museo Civico Correr (St.Correr 59/61/66/68), pubblicata anche in: F. Muttoni, Delle fabbriche inedite di Andrea Palladio vicentino arricchite di tavole, Venezia 1760, tomo I. Al confronto con questa, la pianta di Zucchi appare decisamente grossolana, anche per quanto attiene alle proporzioni delle aperture della scaenae frons.
[316] PTO, f. 284r.
[317] G. Montenari, Del Teatro Olimpico, Padova 133, paragrafo 11, p. 8.
[318] O. Bertotti Scamozzi, op. cit., tomo I, p. 19; citato in Pane 1962, p. 362.
[319] PTO, f. 284r. Il corsivo è del dott.Tommaso Carrafiello.
[320] Ivi, f. 288r; i corsivi sono autografi.
[321] Che nell’esemplare napoletano è evidenziato con una riga nera apposta sul margine esterno del foglio.
[322] Ivi, ff. 285r in fondo e 285v.
[323] Che occupa più della metà dell’intero Parere.
[324] Compreso Vitruvio.
[325] Weber era stato prima collaboratore e poi direttore degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei; elogiato da Winckelmann, a lui si devono una serie di progetti tendenti a riformare la tecnica degli scavi, consistenti principalmente nell’abbandono della politica di saccheggio, sostituendola col disseppellimento sistematico.
[326] Winckelmann 1981, pp. 45 e 145.
[327] Le notizie su questa parte, relativa ai saggi di scavo nel teatro ercolanese, sono state tratte da Ruggiero 1885 e dallo scritto di Giuseppe Fiorelli contenuto in Minervini 185l; da essi si apprende che Berardo aveva anche realizzato un modello grossolano dell’edificio per il ministro Tanucci.
[328] È singolare notare che nelle Observations sur les Antiquités de la Ville d'Herculanum, pubblicate dal disegnatore C. N. Cochin e dall’architetto Jérome Bellicard nel 1754, le due immagini del teatro di Ercolano (la prima rappresentava la superficie del teatro al momento del rinvenimento, mentre con la seconda gli autori avevano cercato di ricostruire lo stato originario) erano messe a confronto proprio con la pianta del Teatro Olimpico, al quale era dedicata una terza tavola (Panza 1990, p. 56).
[329] PTO, f. 288v.
[330] «in altre fatiche, che ho per le mani, spero con più chiarezza, distinzione, e precisione far meglio acquistare sempre più chiara idea del Teatro antico» (Ivi, f. 290v).
[331] Per i motivi che lo spingevano a credere ciò si veda PTO, f. 290v.
[332] Ivi, f. 285v.
[333] Dalla ianua regia infatti si scorge la prospettiva di ben tre strade diverse.
[334] Si tenga presente però, che le prospettive sono opera di Vincenzo Scamozzi; sulle intenzioni di Palladio riguardo a questa parte dell’Olimpico, si veda la più volte citata monografia Magagnato 1992.
[335] Come invece quelle poste sopra la balaustra della cavea.
[336] PTO, f. 285v.
[337] J. Marzari, Historia di Vicenza, Vicenza 1591, parte 1 (cit. in Puppi 1975, p. 312, e nota 7 a p. 328).
[338] PTO, f. 290v.
[339] Magagnato 1992, p. 66.
[340] Magagnato p. 69.
[341] E quindi con esigenze del tutto diverse.
[342] Adeguatamente modificato, per essere applicato ad una cavea di forma ellittica.
[343] Questo rilievo, e l’applicazione su di esso dello schema vitruviano sono stati pubblicati ivi.
[344] Fatto, quest’ultimo, che aveva dato occasione alle ormai note interminabili dissertazioni archeologiche.
[345] PTO, f. 289r.
[346] nel 1813.
[347] Anche se non con la solerzia che si sperava.
[348] Tutte le note ottocentesche sono trattate in Puppi 1975, p. 322-7 e relative note.
[349] Suo fedele discepolo.
[350] Come pure, è il caso di sottolinearlo, di Francesco Ottavio Magnocavalli.
[351] Nel 1902.
[352] La chiesa del Gesù divenne Trinità Maggiore a partire dal 1768, quando, cacciati i Gesuiti dal Regno delle Due Sicilie, fu assegnata ai Francescani Riformati dei due conventi della Croce e della Trinità di Palazzo; solo nel 1804 Ferdinando IV, il quale a malinquore li aveva dovuti allontanare 37 anni prima, riammise la Compagnia nel Regno. L’autore ha preferito conservare questa denominazione nel titolo, poiché consente anche la collocazione storica dei fatti di cui si argomenta. Per la storia della chiesa si vedano De Biase 1952, Errichetti 1974, e Montini 1956 che ne pubblica la pianta.
[353] Cit. in Montini 1956, p. 16.
[354] Roccia eruttiva estratta esclusivamente nell’area flegrea. F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze 1953, pp. 362, 368, 385-6, 392.
[355] Roberto Pane in Architettura del Rinascimento a Napoli, fa notare che l’edificio napoletano è più antico del palazzo di Biagio Rossetti a Ferrara (detto dei “Diamanti”) e della dimora bolognese dei Bevilacqua.
[356] Cfr. G. Ceci, Il Palazzo dei Sanseverino, principi di Salerno, in «Napoli Nobilissima», VIII (1989), pp. 81-5)
[357] Galiani ne attribuisc erroneamente il progetto a padre Pietro Provedo (Parere del M.se Galiani sui danni della Trinità Maggiore, BSNSP ms. XXX. C. 6, inedito, d'ora in poi: PTM, f. 123r), e come lui molti altri autori contemporanei fra i quali addirittura Francesco Milizia [cit. in Sasso 1856]. L’equivoco è dovuto al fatto che il Valeriano portava avanti conemporaneamente un gran numero di lavori per i confratelli gesuiti, ed era molto spesso assente dai suoi cantieri, cosicché i sostituti ed i continuatori si permettevano talora di modificare i disegni, passando per gli effettivi artefici di quelle fabbriche. Fra questo p. Provedo, che entrò nella Compagnia nel 1600, a quattro anni dalla morte do Valeriano, e al quale sono state attribuiti i finestroni e le volute laterali della facciata; queste ultime sono simili a quelle del Gesù vignolesco a Roma, ma si accartocciano all’infuori, anziché in dentro (Montini 1965 passim e Sasso 1856 p. 155 ss.).
[358] La pianta è stata definita «geniale fusione in un rettangolo perimetrale della michelangiolesca croce greca del San Pietro e della forma basilicale del Gesù di Roma» (De Biase 1952, pp. 279-92). Si tratta infatti di una croce greca, ma a bracci disuguali inscritta in un rettangolo, i cui spazi angolari ospitano tre cappelle per lato, due prima e una dopo il più breve braccio traverso; si veda la pianta in Montini 1956.
[359] De Biase 1952, p. 283.
[360] Giovanni Lanfranco nacque a Terenzo il 26 gennaio 1582, fra i Carracci fu legato in particolare ad Annibale col quale lavorò a Roma; a Napoli arrivò nel 1633-34 e vi rimase fino al 1646, lasciando alla città opere di singolare grandiosità, quali quelli alla Certosa di San Martino. Tornato  Roma, vi morì il 30 novembre 1647.
[361] Su questa primitiva cupola si veda Errichetti 1962, pp. 177, in particolare le note 4 e 6, nonché la minuta descrizione in Celano-Chiarini 1856, vol.III, pp. 350-352.
[362] O almeno vi contribuì notevolmente.
[363] La chiesa è a croce greca a bracci disuguali, in quanto la tribuna si estende oltre la crociera per una lunghezza pari a quella della nave maggiore, e la cappella di S. Ignazio  ne costituisce un braccio laterale.
[364] Celano-Chiarini 1856, vol. III, p. 351.
[365] Che corrisponde ad un braccio del transetto.
[366] Ove nel frattempo avevano officiato le loro funzioni.
[367] GALIANI, al pari dei suoi contemporanei, riteneva invece che in sei mesi fosse stata ricostruita anche la cupola (PTM, f. 123).
[368] Errichetti 1962/63, pp. 177-8.
[369] Tanto da risultare più bassa della precedente.
[370] Il disegno originale dell’architetto Giuseppe Monzo, datato 1769, è stato distrutto durante un incendio nel 1943, ma non è andato perduto essendo già stato riprodotto in Sasso 1956, tav. 13.
[371] PTM, f. 100r.
[372] Errichetti 1962/63; si veda inoltre l’importante manoscritto: Riassunto di tutte le relazioni fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore (BSNSP, XXIX. A. 10, ff. 197-204), nel quale sono compendiate tutte le relazioni presentate fino al maggio 1774 (segnalato in Ceci 1921, p. 92, n. 2).
[373] Che porta la data del 15 maggio: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1306.
[374] Ma Berardo GALIANI, più correttamente dirà «Euritimia»: B. GALIANI, PTM; passim, e specialmente f. 109r, si veda anche quanto egli afferma nella «Idea generale dell’Architettura, estratta da’ dieci Libri di M. Vitruvio Pollione», che precede la sua edizione dell’antico testo: « » (GALIANI 1758, p. XIV).
[375] Oggi anche i più assennati e pratici Architetti confondono l’effetto dell’Euritmia con quello della Simmetria in modo, che avendo perduto fin anche l’uso della voce Euritmia, chiamano tutto Simmetria
[376] della quale il Serlio ci ha tramandato anche un esempio grafico: Si tratta di un disegno inerente il consolidamento di un porticato, da lui stesso eseguito a Bologna (S. Serlio, I sette libri dell'Architettura, Venezia 1584, libro VII, cap. LXIII, nona propositione, p. 158).
[377] Del quale, peraltro Berardo GALIANI prende nota diligentemente nel suo Parere: Si vedano le misure appuntate al foglio 98 recto e verso, alla luce di quanto viene detto nel Capitolo II, intitolato appunto: Proporzioni della Chiesa.
[378] Amministratrice dei beni espropriati ai Gesuiti.
[379] Errichetti 1962/63, p. 178.
[380] Che nel frattempo avevano preso il posto dei gesuiti.
[381] Era il novembre 1769 (Errichetti 1962/63, p. 1791).
[382] 10 giugno 1771.
[383] 5 gennaio 1772.
[384] Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[385] Parere di Vincenzo Lamberti e lettera di Luigi Vanvitelli: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1336; minuta di quest’ultima: BNN, ms, XV. A. 8-3.
[386] Guerra 1967, pp. 391-3; l’articolo contiene delle osservazioni molto interessanti sulle teorie statiche che furono alla base dello scontro tra Vanvitelli e Lamberti.
[387] B.F. Belidor, La science de l’ingenieur dans la conduite des travaux de fortification et d'architecture civile, 1729; L. Mascheroni, Nuove ricerche sull'equilibrio delle volte, Bergamo 1785; L. Salimbeni, Degli archi e delle volte, Verona 1787; tutti citati in Guerra 1967.
[388] De Fusco 1973, p. 30.
[389] Bottari 1754, passim.
[390] Sarebbe morto l’anno successivo, il 1773.
[391] «Vanvitelli non solo combatte a Napoli questo professionista locale, ma tenta di impedirgli persino di realizzare qualsiasi opera altrove»(De Fusco 1973, p. 30); su Gioffredo si veda R. Pane, L'architettura nell'età barocca in Napoli, Napoli 1939.
[392] «E quanto la contesa sia stata a cuore ai due difensori della integrità del Tempio lo si vede dal fatto che, mentre il Lamberti dedicava quasi un decennio della sua attività scientifica a problemi evidentemente maturati in connessione con quello della cupola del Gesù Nuovo, il Gioffredo progettava e contruiva la più imponente e più bella delle attuali cupole napoletane, cioè quella dello Spirito Santo, cupola che, nel panorama di Napoli, ha preso, sia pure un po’ in sordina, l’eminenza che aveva una volta quella del Tempio della Casa Professa» (Guerra 1967, p. 393).
[393] Mario Gioffredo divenne Architetto di Corte nel 1783, solo due anni prima della sua morte (Sasso 1856).
[394] Relazione degli ingegneri, con lunga lettera del Regio Consigliere Gennaro Pallante a Tanucci: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1334 (segnalato in Errichetti 1962/63, p. 183, nota 24).
[395] Che la definì «scandalosa», (PTM, f. 96).
[396] Riassunto di tutte le Relazioni fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore, BSNSP ms. XXIX. A. 10, ff. 197-204, segnalato in Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[397] Parere del M. GALIANI sui danni della Trinità Maggiore e sui ripari e rifazioni, ms. XXX. C. 6, ff. 95r-123v; a causa di questa «M.» il manoscritto era stato erroneamente attribuito (come risultava dal catalogo e dall’indice sommario del volume rilegato che lo contiene) a monsignor Celestino GALIANI, zio ed educatore di Berardo, il quale, però, oltre a non essersi mai interessato di architettura, era già passato a miglior vita nel 1753, e non poteva quindi aver apposto su quel manoscritto la data invece presente del 2 settembre 1773.
[398] PTM, f. 96v.
[399] Vale a dire di Ferdinando Fuga.
[400] PTM, f. 111r.
[401] Il nome deriva dall’Evangelista raffigurato nel soprastante pennacchio.
[402] «Ecco per li preposti lemmi come si vede fendersi l’interposto angolo del pilone, separarsi, e scappar fuori diagonalmente verso libeccio», ossia Sud-Ovest (PTM, f. 113r-v).
[403] con quel complesso di speroni e contrafforti atti a distribuire il peso e le spinte delle coperture voltate.
[404] Sempre nel Parere.
[405] PTM, f. 104r, aggiunta a margine.
[406] PTM, f. 115r.
[407] l’attuale, non quella a cui si riferiva la trattatista rinascimentale.
[408] PTM, f. 106v.
[409] PTM, f. 101v.
[410] PTM. f. 122r.
[411] Accettando tutte le conseguenze che ne derivano.
[412] PTM, f. 121r.
[413] PTM, f. 121r-v.
[414] Celestino fece parte de «L’Archetto», il circolo culturale formatosi intorno allo stesso Bottari, al cardinale Neri Corsini e a Gaspare Cerati, nell’ambito del quale si cercava un punto d’incontro tra il Giansenismo e l’ortodossia cattolica, «tra la cultura cartesiana e quella lockiana, tra la fisica dei tourbillons e quella della gravitazione, tra l’erudizione e la politica utilizzazione delle sorprendenti scoperte del passato etrusco, greco e romano, tra la tecnica giuridica ed un nuovo senso storico del diritto»(F. Venturi, Settecento riformatore, Torino 1969, p. 22; cit. in : De Fusco 1973, p. 39, nota 11).
[415] A partire dal 1731.
[416] Monsignor GALIANI insegnò all’Università della Sapienza fino al 1728, anno in cui fu eletto abate generale dell’Ordine Celestino; oltre che negli anni degli studi ecclesiastici, fu a Roma dal 1737 al 1741, dovendosi occupare del difficilissimo concordato fra la Santa Sede ed il Regno di Napoli (Nicolini 1951, p. 107 e 109).
[417] «Attraverso i numerosi discepoli o estimatori di monsignor Celestino GALIANI, e per i rami della principesca famiglia fiorentina, il giro delle comuni amicizie si estendeva dalla Toscana fino alle terre del Regno (delle due Sicilie), toccando le varie sfere della società notabile settecentesca: l’aristocrazia, la classe politica, l’alto clero, l’élite intellettuale» (Felici, 1972, p. 176).
[418] E tra i meno corrotti del De Architettura.
[419] «La scelta però de’due citati (codici manoscritti) la debbo al purgato giudizio di Mons. Assemanni e di mons. Bottari, Custodi della medesima, a’quali non cesserò mai di professarne ìnfinite obbligazioni» (Felici, 1972, p. 176).
[420] Come si evince dal carteggio fra il prelato fiorentino e Ferdinando GALIANI(Felici 1972 le lettere di Ferdinando datate 27 lug. e 3 ago. 1754, nonché quelle di Bottari del 2 e 30 lug., 13 ago. 1754, 25 feb., 25 mag. e 1 giu. 1756).
[421] Strazzullo 1973, p. 269.
[422] Di Stefano1973, p. 221. Alludendo probabilmente anche a Ferdinando Fuga che in quell’occasione si mostrò molto più acuto riguardo agli interventi di consolidamento di quanto non fece poi a Napoli, aderendo al partito non interventista del prelato.
[423] Cit. in Strazzullo 1973, p. 271, nota 20.
[424] Si tenga presente, però, che a Roma erano le lesioni lungo i meridiani della cupola a destare le maggiori preoccupazioni, mentre invece nella chiesa della Trinità Maggiore le crepe interessavano principalmente le sottostanti strutture verticali. Ciò che si vuole sottolineare, invece, è l’atteggiamento non interventista e rispettoso del manufatto originario, che era comune ai due eruditi.
[425] Bottari aveva espresso esplicitamente le sue critiche nei confronti di Maderno, colpevole di aver adoperato delle colonne, invece che pilastri, nella nuova facciata (Bottari 1754, Dialogo II, p. 122), ed aggiunge, per bocca di Carlo Maratta: «Voi non potreste credere, quanto mi offenda ogni volta, che vado a S. Pietro, il vedere quel frontespizio posto non in cima, ma poco più della metà di quell’enorme facciata, sul qual frontespizio di poi posa un ordine attico, del quale taglia traverso nella più sconcia guisa, che si possa mai vedere, le finestre» (Bottari 1754, Dialogo III, p. 251): Ma il vero motivo del suo disappunto riguarda lo stesso principio di trasformare la pianta della chiesa da croce greca a croce latina, pregiudicandone totalmente il meccanismo proporzionale impostato da Bramante, e rispettato dai continuatori, dal quale deriva l’armonia, e quindi la bellezza, della Basilica Vaticana (Bottari 1754, Dialogo II, p. 96).
[426] «Risuscitò questa voce nel 1742, che tutta la cupola di S. Pietro rovinava, e fu ascoltata così benignamente, che quantunque alcuni disappassionati ed intendenti, altamente reclamassero, non furono ascoltati, e bisognò più per la politica, che per fortificazione cerchiarla come una botte con quattro cerchi con danno grave della Cupola, e con ispesa di molte dozzine di migliaia di scudi, e con piacere, e utile degli Architetti. Veggasi la vita del senator Nelli, stampata in Firenze nel 1753 e le scritture ad esse annesse, fatte molti anni avanti a questi romori, le quali disapprovano con ottime prove questi cerchi» (Bottari 1754, Dialogo II, nota a p. 82).
[427] Questa vasta raccolta di volumi, riguardanti le materie artistiche ed in particolare l’architettura, alla morte di Berardo fu venduta da Ferdinando GALIANI a Caterina II tramite l’intercessione di Friedrich Melchior von Grimm e trasferita in Russia (cfr.: L’Abbé F. GALIANI, Correspondance avec Madame d'Epinay, Paris 1881, vol. II, pp. 457, 465, 504, 514; cit. in: AA. VV. 1975, P. 1138; L. Gambacorta, Ferdinando GALIANI e la Russia, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», vol. 106, 1988, pp. 335-345. In occasione di questa alienazione fu stampato un Catalogo della collezione di libri appartenenti alle belle arti, e all'agricoltura del fu Marchese Berardo GALIANI accademico ercolanese, Napoli 1776, in 8° [Comolli 1788/92, vol. I, p.77] ben compilato e diviso in XIV classi. Inoltre presso la Biblioteca Nazionale di Napoli [S. C. Bib. Gen. B. 96. IV] è conservato un Catalogo di altri libri appartenenti alla libreria che non sono nella collezione del fu Marchese Berardo GALIANI, s.l., s.d.; si tratta di 28 paginette a stampa ove si comunica che la vendita sarebbe avvenuta il 21 marzo [presumibilmente del 1776] al primo piano della casa del defunto a Sant'Anna di Palazzo).
[428] Che aveva nel frattempo sostituito Gioffredo, allontanatosi per le discordanze con gli altri esperti.
[429] Ceci 1921, p. 92, nota in fondo.
[430] F. GALIANI, Notizie.
[431] Rispettivamente: relazioni del 3 feb. 1774 e del 15 giu. 1774 (cfr. Errichetti 1974, p. 66).
[432] Era il 1786.
[433] Nel frattempo Ferdinando Fuga aveva proposto un, altro progetto, che certo non gli fa onore, poiché, con lo scopo di finanziare i lavori di restauro, comportava la riduzione della chiesa alla sola navata centrale, la riconversione delle laterali ad abitazioni, e la vendita dei marmi e dei dipinti rimossi (ASN, Casa Reale Antica, fascio 1396, segnalato in Errichetti 1974, p. 68).
[434] Essa, dal 1778, aveva preso il posto della Giunta degli Abusi (che fino ad allora si era interessata di tutti gli affari gesuitici) nella cura dell’Azienda di Educazione; quest’ultima, dal 1773, si occupava delle proprietà confiscate ai Gesuiti, e che infatti erano stateestinate all’erezione di Istituti di Educazione, da cui il nome.
[435] Termine usato ancora oggi in area napoletana per indicare la volta a botte.
[436] ASN, Casa Reale Antica, fascio 1418, segnalato in Errichetti 1962/3, p. 182.
[437] I tre documenti che seguono sono stati tratti da uno scritto di Giuseppe Fiorelli - Il giornale degli scavi di Pompei - il quale, a suo dire, ne aveva rinvenuto gli originali tra le carte di Berardo GALIANI. Si tratta di una pubblicazione rarissima, infatti l'unico esemplare noto all'architetto Tommaso Carrafiello è conservato presso la Biblioteca del Museo Nazionale di Napoli (XXL. C. 16), che ha potuto constatare che le carte galianee sul teatro ercolanese sono integralmente riportate anche in Fiorelli 1851, che ha consultato invece presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (Misc. XVII. C. 4¹³). Lo stesso Fiorelli lascia intendere che Berardo sia anche l'autore dei documenti da lui pubblicati (Fiorelli 1851, p. XLI), ma Carrafiello ritiene che questa sua deduzione sia quasi completamente errata, in quanto solo uno di essi può essere attribuito con assoluta certezza all’illustre commentatore di Vitruvio, vale a dire quello intitolato Rappresentanza del Marchese GALIANI al Marchese Tanucci sulla relazione e su i disegni del Teatro Ercolanese, che qui compare per primo. Per quanto riguarda gli altri, invece, è molto probabile che GALIANI ne fosse solo il possessore, come risulta abbastanza chiaro dalla loro lettura. Infatti di essi uno è una richiesta formale fatta dall'Accademia Ercolanese affinché venissero avviati quegli scavi proposti da Berardo (Scavi richiesti dalla R. Accademia Ercolanese per la formazione della pianta), e che quindi al massimo potrebbe essere stato redatto da questi dietro incarico della Accademia stessa, sebbene non è da escludere che lo scritto fosse arrivato nelle sue mani soltanto per conoscenza della comunicazione fatta all’amministrazione reale; l'altro e ultimo scritto (Lavori eseguiti nel maggio e giugno 1765) l'architetto Carrafiello ritiene sia quasi certamente un resoconto fatto pervenire a Berardo da Francesco La Vega, vale a dire colui che aveva ricevuto l'incarico di eseguire i più volte menzionati lavori. Nell'opuscolo di Fiorelli, figurava la trascrizione di un quarto documento (Indicazione di una pianta del teatro), anch'esso attribuito erroneamente a GALIANI, e formato da due legende corredate di una breve Riflessione ; questi tre scritti nel loro complesso dovrebbero costituire proprio quella «relazione» allegata alle tavole che furono consegnate nelle mani di Berardo, come egli stesso afferma nella sopracitata Rappresentanza.Si tratterebbe, quindi di scritti dovuti all'architetto svizzero Karl Weber, in sostanza la stessa persona che aveva disegnato quella pianta e quel profilo del Teatro Ercolanese che si aveva intenzione di pubblicare. Solamente l'analisi dei manoscritti originali potrebbe permettere di far luce su tali dubbi nella attribuzione, ma Fiorelli non indica ove questi siano conservati.

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