dott. Berardo
GALIANI
Marchese
Autore di
questa opera:
Tommaso Carrafiello
Estratto dalI‘Archivio Storico per le Province
Napoletane
CXIII dell’intera collezione
Il primo grande biografo moderno della famiglia Partenopea-Foggiana-Montorese
“GALIANI”, e tutt’ora uno dei fondamentali, è stato certamente Fausto Nicolini,
il quale, senza voler per questo fare alcun torto alle sue indubbie qualità di
studioso, si trovava in una posizione di netto privilegio nei confronti di ogni
altro ricercatore per il fatto stesso di essere il possessore pressoché
assoluto del vasto archivio galianeo. Ne facevano parte non solo un numero
cospicuo di scritti autografi dovuti alla penna di Celestino, Ferdinando e
Berardo GALIANI, ma anche gran parte dei loro carteggi ed una raccolta di
documenti fra i più disparati (fatture, fedi di battesimo, promemoria, ed altro
ancora) che nel loro complesso costituiscono il fondo di maggiore importanza
per ricostruire le vicende storiche della illustre famiglia meridionale
originaria di Montoro, una località oggi in provincia di Avellino.
Per questo motivo la biografia successiva ha risentito in modo pesante
della impostazione dovuta al Nicolini. Egli da un lato non poteva che
allinearsi con la già grande considerazione per l’opera teorica dell’abate
Ferdinando, mentre dall’altro esaltava la figura di monsignor Celestino Cappellano maggiore e di conseguenza
Prefetto degli Studi per i suoi meriti non solo in campo diplomatico (si
ricordino le trattative per il concordato tra il Vaticano e il Regno delle Due
Sicilie che egli portò a compimento nel 1741)[3], ma
anche e soprattutto per l’attitudine ad essere un valente educatore. Il
biografo dei GALIANI vedeva le radici di questo interesse da parte di Celestino
per gli studi, ed in particolare per la formazione dei giovani, negli anni in
cui questi aveva insegnato a Roma prima nel convento di Sant’Eusebio e
successivamente alla Sapienza, per poi continuare in tale indirizzo con la
fondazione a Napoli di un’Accademia delle
Scienze[4] che s’ispirava al modello dell’Accadèmie
des Sciences e della Royal Society[5], un’iniziativa
quindi che metteva la città meridionale nella scia delle altre grandi capitali
europee come Parigi e Londra; Infine l’opera, dello zio paterno di Berardo,
vedeva il suo pieno coronamento nella riforma
degli studi universitari, che egli perseguì nel corso di tutto il suo
mandato di Prefetto degli studi,
ottenendo un notevole risultato con l’approvazione del programma di
riorganizzazione[6] avvenuta nel 1735. In
definitiva, però, nello schema di lettura tracciato da Nicolini, la figura di
Berardo rimaneva schiacciata tra le poderose moli dei due suoi illustri
consanguinei, così da meritare soltanto episodici riferimenti, se non
addirittura l’accusa di essere, a differenza del suo più scaltro fratello, inettissimo alla vita pratica[7]. Quest’ultima
affermazione nasceva dalla riflessione su alcune scelte ed altri avvenimenti
della vita del Nostro, i quali, oltre a procurargli gravi e costanti difficoltà
economiche, lo videro in serio imbarazzo per le conseguenze della sua eccessiva
fiducia, vale a dire ingenuità nei
confronti delle persone con cui veniva a stringere rapporti sia di lavoro che
di carattere più personale, quali il matrimonio
d’amore che fu fonte per lui d’infiniti debiti[8], l’abbandono della
carriera ecclesiastica che comportava la perdita dei relativi usufrutti, le
eccessive confidenze fatte a Winckelmann sugli sviluppi degli scavi archeologici
di Ercolano, l’avventatezza di affidare nelle mani di Francesco Daniele la sua
risposta manoscritta alle denunce dell’archeologo di Dresda, per finire con la
leggerezza nel rendere noti i disegni della macchina per l’essiccazione del
grano che ne causò il plagio in Francia. Comunque, nonostante tali disavventure
personali, la fama della erudizione di Berardo, che derivava soprattutto dalla pubblicazione della eccellente versione
tradotta e commentata del De Architectura di Vitruvio[9] nel 1758 aveva di gran lunga
travalicato i confini del Regno di Napoli, giungendo a Firenze, ove fu nominato
Accademico della Crusca (22 settembre
1759), ed in seguito anche a Vicenza, città dalla quale fu richiesto il suo parere su una disputa che infiammava gli
animi degli accademici olimpici, e che riguardava alcuni aspetti filologici
dell’omonimo Teatro progettato da Andrea Palladio (1764). Stranamente, però, la
grande stima per il lavoro di GALIANI sul testo vitruviano, sebbene fosse
giunta fino ai nostri giorni, si scontrava con la quasi totale assenza di altri
riferimenti biobibliografici, in parte certamente imputabili alla mancata
pubblicazione di alcuni fra suoi lavori più importanti, come ad esempio il
trattato di estetica intitolato Del Bello[10]; la dispersa Dissertazione sulla musica ed, infine,
le mai ultimate Lezioni di Architettura.
Ad aggravare le cose si è poi aggiunta la soverchiante autorità dei suoi più
celebri consanguinei, nel senso che alcuni fra i manoscritti di Berardo[11]
erano stati erroneamente attribuiti ora a Ferdinando, ora a Celestino. A due di
essi[12] è
stata qui dedicata un’ampia trattazione nella seconda parte; nei primi
paragrafi, invece, si è tentato di delineare[13] le
vicende biografiche del loro autore e, più in particolare, i suoi studi antiquarì, con la speranza di dare in
questo modo un contributo alla conoscenza della figura dell’insigne personaggio
che fu non solo commentatore di Vitruvio, ma anche grande erudito e studioso
d’architettura.
Le radici culturali
Nella vita di ogni uomo vi sono
singoli avvenimenti che possono cambiare radicalmente il corso avenire, e
cogliere al volo le rare occasioni che ci vengono offerte dalla sorte è,
probabilmente, il passaggio decisivo per cominciare a fare breccia nell’inesorabile
anonimato nel quale generalmente ci relega lo scorrere del tempo. Il momento
cruciale nella vita di Berardo GALIANI fu certamente il viaggio con il quale
nel gennaio dei 1732, a
soli 7 anni, giunse a Napoli insieme con lo zio paterno, monsignor Celestino
GALIANI[14] che si trasferiva definitivamente nella
capitale per insediarsi nella carica di Cappellano Maggiore[15].
La famiglia del futuro commentatore di Vitruvio non era nuova ai cambiamenti di
residenza: suo padre Matteo[16]
per portare avanti la carriera giudiziaria fu costretto a trasferirsi più di
una volta, passando da Teramo, ove il 19 dicembre 1724 nacque Berardo. Lo
stesso Matteo poi, pur essendo nato a Foggia, era originario di quella Montoro
che Domenico GALIANI, padre suo e di monsignor Celestino, aveva dovuto lasciare
(ancora una volta) per motivi di lavoro[17].
Il Nostro era arrivato a Napoli nel momento in cui la città si apprestava a
vivere un grande fermento culturale e politico, in quanto la riconquistata
indipendenza dall’Austria stava creando i presupposti per consolidare lo
sviluppo della nascente cultura illuministica. Come la capitale del Regno
cresceva e progrediva sotto il governo del suo nuovo Sovrano così il giovane
Berardo approfondiva la propria formazione seguendo la guida energica ma
valente del colto zio monsignore che oltre a conoscere le opere di Cartesio,
Locke e Leibnitz era un tenace sostenitore delle idee di Newton, ma la sua
posizione di ecclesiastico e di universitario pontificio lo aveva obbligato
alla prudenza, e gran parte della sua opera di diffusore di Newton l’aveva
svolta soltanto verbalmente e per via epistolare[18].
L’entrata a Napoli di Carlo di Borbone (1734) affrancò il regno delle Due
Sicilie da una posizione periferica e subalterna in cui era stato relegato
negli anni della dominazione austriaca[19]
e segnò il punto d’arrivo di un processo di sviluppo culturale[20]
che da quel momento in poi costituirà il riflesso della politica illuminata e
riformatrice sviluppata dal governo borbonico, e che vedrà proprio Celestino
GALIANI a mediare le istanze del mondo intellettuale con i limiti
dell’amministrazione, spesso soffocata dalle difficoltà economiche[21].
Per una singolare simmetria allora, mentre il Sovrano attuava la sua politica antifeudale
ed anticuriale[22], parallelamente monsignor GALIANI
perseguiva la documentazione della natura fisica, geografica economica e
sociale del Meridione, con l’intento dichiarato esplicitamente di non farsi
deviare da alcuna preoccupazione teologica o da altri problemi di ordine
metafisico e filosofico[23].
Ciò avveniva nell’ambito dell’Accademia
delle Scienze, fondata da Celestino GALIANI insieme con il
toscano Bartolomeo Intieri[24]
ed il medico Nicola Cirillo[25],
membro dell’Accademia delle Scienze di Londra, ma aveva inevitabili riflessi
anche sulla vita dell’Università napoletana, per la
quale egli, in qualità di Prefetto degli Studi, presentò due poderosi programmi
di una riforma, che fu poi avviata nel 1735 grazie soprattutto alla sua ferma
determinazione[26].
Ecco quindi in quale clima di fervore intellettuale si trovò a maturare Berardo, al quale nel 1735 si era
aggiunto il fratello Ferdinando[27], più giovane di quattro anni,
specialmente quando monsignor Celestino, tornato
a Napoli dopo l’approvazione del Concordato tra il Vaticano e il Regno delle
Due Sicilie (1741)[28], gli concesse finalmente di
accedere in quel salone ove si radunavano i grandi
protagonisti della cultura partenopea, e che per molti anni fu il
più importante salotto letterario napoletano. Lungo sarebbe menzionare
opportunamente i tanti uomini dotti[29]
che frequentavano la dimora galianea, e ci asterremmo dal farlo se
ciò non fosse imposto dalla costatazione
che alcuni di essi furono anche maestri dei fratelli GALIANI, come ricorda
Giuseppe Castaldi nei brevi accenni che
costituiscono l’unica, per quanto concisa, biografia del Nostro: «Giovan
Battista Vico, Alessio Simmaco
Mazzocchi,
Niccola
Capasso, Marcello
Cusano,
Agostino
Ariani e Francesco Serao
erano frequentemente di tal compagnia, de’quali i primi due diressero i GALIANI
nello studio delle lingue dotte, e dell’eloquenza, il Capasso nella poesia, il Cusano insegnò loro il diritto, l’Ariani le matematiche, ed il Serao le scienze fisiche»[30].
Fu quindi Marcello Cusano [31]
a istruire Berardo in diritto civile e canonico ed
essendo questi intenzionato a seguire le orme di suo padre, a mio credere
doveva ricevere un forte stimolo in tale direzione dalla presenza in casa di
Celestino del grande giurista Niccolò Fraggianni[32],
tra i più assidui frequentatori di quel circolo culturale[33],
in memoria del quale proporrà (diversi anni dopo) l’erezione di un grandioso
monumento a Barletta, sua città natale, dando ampia descrizione delle
decorazioni allegoriche che, secondo il suo proggetto, dovevano concorrere a
celebrarne l’operato[34].
Ma certamente tra le tante eminenti personalità che frequentavano la dimora
galianea a Sant’Anna di Palazzo, alcune in particolare dovettero attrarre
l’attenzione del giovane studente: si trattava della cerchia degli eruditi antiquarì
che, insieme al Mazzocchi[35],
annoverava Giacomo Martorelli (autore della eruditissima De regia theca calamaria) e l’anziano Matteo Egizio, i quali, a
quel tempo, stavano di certo discorrendo sui primi ritrovamenti ercolanensi;
non sarebbe infatti un azzardo eccessivo ritenere che la frequentazione di tali
eccellenti studiosi abbia avuto il suo peso nello stimolare quell’interesse per
l’archeologia e le belle arti, in particolare per l’Architettura, che il Nostro
ebbe modo di dimostrare fin dalla giovane età[36].
Negli anni che avevano preceduto questa fase così determinante della sua vita,
l’illustre commentatore di Vitruvio aveva ricevuto una severa istruzione prima
nella casa dello zio Monsignore[37],
ed in seguito, quando questi dovette recarsi a Roma per trattare il noto
Concordato, i due fratelli andavano a vivere e studiare temporaneamente nel
convento di San Pietro a Maiella, che era retto proprio da monaci celestini[38].
Durante i mesi in cui Celestino era lontano da Napoli, l’istruzione dei suoi
nipoti fu affidata a don Celestino Orlandi[39],
ad un non meglio precisato Antonio Morlando, ed al più noto padre Appiano
Buonafede[40].
Già da alcuni anni comunque , Berardo si era avviato alla vita religiosa,
avendo ricevuto gli ordini minori il 24 dicembre del 1737[41],
ed in seguito di ciò il 17 marzo dell’anno successivo gli fu conferito «il
beneficio di Santa Caterina de Celanis [
] con breve pontificio»[42];
egli però usufruì di questo diritto solo per poco tempo, dal momento che nel
1745 decise di intraprendere la carriera giudiziaria e quindi fu costretto a
cedere tale privilegio al fratello Ferdinando[43].
Fra le antiche carte dell’Università di Napoli, Luigi Settembrini ha avuto
l’opportunità di rinvenire il giuramento che il Nostro, come era obbligo di
tutti i laureandi partenopei, dovette firmare per dichiarare le proprie
generalità e la indispensabile illibatezza sotto il profilo penale[44],
essendo sul punto di diventare dottore in utroque,
vale a dir in diritto sia civile che ecclesiastico; il documento risale
all’anno 1744, ed è l’unico riferimento certo per collocare cronologicamente
l’addottoramento di Berardo, in quanto anche nelle note stese dal fratello
Ferdinando[45]
l’anno in cui egli si laureò non è riferito in modo esatto[46].
Questa stessa data , quindi, segna il momento in cui lo studioso d’architettura
passò al di la della conradiana linea d’ombra, la demarcazione tra
giovinezza ed età adulta che ogni uomo è destinato prima o poi a varcare. È
bene sottolineare ad onor del vero il fatto che se Celestino GALIANI fu senza
ombra di dubbio e secondo il giudizio dello stesso Fausto: Nicolini[47]
un grande educatore in senso assoluto, certamente lo è stato in misura ancora
maggiore per i figli del fratello Matteo, che egli amava come fossero suoi[48],
ed è innegabile, vista la loro opera complessiva[49],
che l’istruzione dei due nipoti sia stata, in tale ambito, il suo personale
capolavoro.
L’esordio dei fratelli GALIANI
Dal 1745 e fino al 1750 molti
«eruditi giovinetti» napoletani si riunivano periodicamente per dedicarsi allo
studio della giurisprudenza e delle «umane lettere» in quella che fu denominata
Accademia degli Emuli, fondata nella casa di Girolamo Pandolfelli, e poi
trasferita in quella di Niccolò Centomani[50].
Divenuto membro di questo circolo culturale, Berardo GALIANI ricevette
l’incarico di comporre un’Orazione in lode di Maria Vergine, protettrice
dell’Accademia, e di declamarla nel corso di una loro assemblea. Il destino
però, volle che nei giorni immediatamente precedenti alla data convenuta egli
dovesse recarsi necessariamente a Chieti, per sbrigare alcune faccende
familiari, ed allora fu costretto a pregare suo fratello, che come lui era
iscritto a quel consesso, di sostituirlo in questo importante compito. Malgrado
Ferdinando si fosse impegnato a fondo nello stendere il componimento, gli fu
impedito di leggerlo in quanto il presidente dell’Accademia, Giannantonio
Sergio, fece notare che egli era troppo giovane per poter essere ascoltato in
quel contesto, e lesse un proprio discorso in sostituzione della prevista
orazione. Ferito nell’amor proprio, e deluso, l’intraprendente giovinetto si
vendicò dando alle stampe un piccolo volume di tono satirico intitolato: Componimenti in morte del boia della Vicaria
Domenico Iannaccone[51],
una sorta di parodia con la quale mise in ridicolo l’Accademia stessa, imitando
lo stile retorico dei suoi più prestigiosi membri [52]
e così fu grazie a Berardo che il futuro grande illuminista cominciò a mettersi
in evidenza negli ambienti culturali, dando un saggio di quella gaia esuberanza
che lo accompagnerà tutta la vita, così lontana dal pedante sussiego, alternato
ad un eccessivo sentimentalismo, che Fausto Nicolini invece attribuisce a
Berardo[53].
E probabilmente fu proprio a causa di tale sentimentalismo che il
primogenito dei fratelli GALIANI decise di prendere in moglie una ragazza che
pur essendo «un’angelo di bonta», secondo l’impressione avutane da
Giacomo Casanova[54],
in effetti proveniva da una famiglia non certo benestante[55],
come avrebbe invece preferito monsignor Celestino che, si preoccupava per il
futuro dei suoi nipoti anche sotto il profilo economico. Il matrimonio con
Agnese Mercadante[56],
infatti, peggiorò la già precaria situazione finanziaria di Berardo,
costringendolo più di una volta a chiedere l’aiuto di quello che era ormai
diventato un secondo padre[57]
(Nel
Catasto Onciario del 1751 conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli la
situazione del nucleo familiare del marchese Berardo Galiani è la seguente:
all’epoca della dichiarazione Berardo aveva 27 anni, corrispondente alla
nascita del 1724, si professa napoletano, con lui vive la moglie Agnese
Mercadante di anni 18, appartenente ad una nobile e cospicua famiglia sessana,
la figlia Marianna (Anna Maria) di mesi 4, il padre di Agnese, Leone Mercadante
di anni 48 e la moglie di questo Ippolita Gattola di anni 50. Nel nucleo
familiare sono compresi i servitori Francesco Vitale di anni 50, Salvatore
Esposito di anni 21, Girolama Asciolla di anni 30 e la nutrice Rosa Caracci di
anni 30. La famiglia vive nella casa di sua proprità sita in Sessa al vicolo
detto della Catena, confinante con Beatrice Pascali e li beni del Nicola
Passaretta. Nella famiglia di Leone Mercadante sono comprese anche Maria Maddalena
sorella di Leone, monaca in S.Germano di Sessa e Vincenza e Teresa figlie di
Leone monache a Teano nel convento di S.Maria de Foris. Un’altra figlia di
Leone Mercadante di nome Maria Giuseppa di anni 24 nello stesso Catasto è sposa
di Saverio Zattera figlio del marchese Ottavio di anni 25 e dal matrimonio è
già nata Girolama di anni 3). Quando poi, nel 1753, la morte lo privò
anche dell’appoggio di quest’ultimo, le difficoltà economiche crebbero a tal
punto da impedirgli sinanche di ritirare, per molto tempo, la certificazione
del titolo di Marchese[58],
la cui consegna era subbordinata al pagamento degli oneri di successione,
avendolo ereditato dal padre Matteo, che era venuto a mancare nel 1748.
Comunque, malgrado tali spiacevoli circostanze[59],
che nel loro complesso pesarono notevolmente sulle sorti di Berardo GALIANI[60],
negli anni cinquanta del secolo dei lumì egli diede un grande impulso a
quegli studi sull’architettura in generale, e sul testo vitruviano in
particolare, che lo avrebbero reso noto e stimato sino ai nostri giorni; ed
anche Ferdinando aveva la sua parte di merito nello stimolare gli studi del
fratello, mettendolo al corrente delle novità che il mercato letterario offriva
in quelle città che aveva modo di visitare nel corso dei suoi molti viaggi,
come si evince, ad esempio, da una lettera scritta da Venezia, ove propone a
Berardo l’acquisto di alcune incisioni: «Dite a Berardo che qui si vendono i
52 disegni di prospettive del Bibiena per 56 carlini napoletani. Se gli vuole
me lo avvisi»[61].
L’interesse per i disegni non deve sorprendere, in quanto Berardo, pur
coltivando gli studi filologici, si dilettava egli stesso nell’arte figurativa
con risultati niente affatto scadenti, e le tavole allegate alla sua versione
del De Architectura ne sono un chiaro
esempio. Oltre a queste è nota una incisione che rappresenta l’eruzione del
Vesuvio del 1739 (di sapore più descrittivo e documentario che pittoresco)[62]
e soprattutto i disegni tecnico-costruttivi di una macchina per essiccare il
grano, trattamento che serviva a preservarlo dal deterioramento. Inventore
della cosiddetta stufà per il grano, che veniva usata in varie parti del
Regno sin dal 1731[63],
era stato il più volte nominato Bartolomeo Intieri nel 1726[64],
ma essendo il toscano già vecchio, e non molto abile nell’arte letteraria
incaricò Ferdinando GALIANI di scrivere un trattatello che ne descrivesse l’uso[65],
ed infatti questi nel 1754 diede alle stampe il libro Della perfetta conservazione del grano, indicandone come autore lo
stesso Intieri, e giovandosi dell’aiuto di Berardo che ne disegnò tutte le
tavole (sette tecniche ed una artistica). Berardo però, un anno prima che lo
scritto del fratello vedesse la luce, aveva ingenuamente inviato quegli stessi
disegni all’agronomo francese Henry-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782), ed il
transalpino, che non era affatto nuovo a simili episodi di plagio[66],
si affrettò a riprodurli ed a pubblicare un Traité
de la conservation del grains (Paris
1753), nel quale si spacciava come inventore della macchina[67].
Non si trattò, comunque, dell’unico episodio in cui venne a galla il carattere
poco battagliero di Berardo, tanto meticoloso negli studi quanto malaccorto
nelle relazioni sociali, ma, nonostante tutto, i tempi erano ormai maturi
perché egli cominciasse a raccogliere i frutti di tutto il suo impegno, cosa
che avvenne con la pubblicazione, nel 1758, del De Architettura di Vitruvio tradotta e commentata.
( La situazione economica e
finanziaria del marchese Berardo Galiani nel 1763 è la seguente da come risulta
per quanto riportato nel Catasto Onciario di Sessa conservato presso il Comune della
stessa Sessa: “Una casa di più membri dentro di questa città di Sessa nel luogo
detto le Crocelle affittata per annui ducati 24, de quali dedotto del quarto
resta ducati 18 per once 60. Esige per l’affitto della casa palaziata a S.Maria
a Castellone cioè del quarto superiore e delle due stanze terranee con stalle
disotto la suddetta casa nel luogo detto S.Maria a Castellone annui ducati 48
che dedotto del quarto per gli accomodi resta ducati 36 per once 120 più un
centimolo atto a macinare olive al di sotto alla casa detta alle Crocelle di rendita
dedotte le spese annui carlini 30 per once 10, più una masseria di moggia 40
nel luogo detto S.Agata confinante con li beni di Nicola di Paolo, strada regia
e beni del seminario di rendita annui ducati 60 per once 200; più altra
masseria con edificio di casa di moggia 65 nel luogo detto a Fiello di rendita
di annui ducati 90 per once 300; più altra masseria con casa palaziata nel
luogo detto a S.Agata confinante con altri beni di don Marcantonio di Transo di
moggia 8 e della rendita di annui ducati 26 per once 86.20; più un territorio
arbustato di moggia 7 a
Capo di pesce confinante con altri beni del marchese Galiani e via pubblica (
in una nota posteriore la stessa partita è intestata al seminario) di rendita
di annui ducati 24 per once 80.
A questo punto alla data di questo Onciario cioè nel
1763 il marchese Galiani già non abita stabilmente a Sessa ed è considerato tra
i bonatenenti forestieri. La casa descritta da Giacomo Casanova viene qui
assegnata più che al vicolo detto della Catena al luogo detto S.Maria a
Castellone. In pratica è la stessa cosa perché il luogo si identifica con il
territorio di competenza della parrocchia di S.Maria a Castellone. La famiglia
Mercadante in questo periodo è rappresentata da un Giulio morto all’età di 59
anni il 30 agosto 1783 e registrato nella parrocchia di S.Onofrio, il reverendo
Fiore Mercadante morto a 66 anni il primo settembre 1783, nella stessa
parrocchia, un altro Giulio a 5 anni il 21 febbraio 1789. In periodo
posteriore agli inizi dell’Ottocento è rappresentata a Sessa da Tommaso
curialista, cioè giudice a contratto, quando muore il 3 luglio 1809 Rosa Jovino di anni 51
lasciando il marito Tommaso Mercadante di anni 51 ed i figli Fiore di 17,
Felice Antonia di 20 e Michele di 18. Abitano in via Santi Paoli o Paolini. Nel
1810 Fiore, figlio di Tommaso, dichiara avere 23 anni. Il 3 dicembre muore un
suo figlio di appena 12 giorni, al quale è stato imposto il nome di Giulio).
La maturità
Per portare a termine un impegno
di si vaste proporzioni, Berardo aveva impiegato diversi anni, e si era giovato
dell’aiuto di monsignor Giovanni Gaetano Bottari che, insieme con monsignor
Giuseppe Maria Assemanni[68],
era Custode della Biblioteca Vaticana; furono proprio loro, infatti, a
consigliare al napoletano l’analisi comparata dei due codici latini conservati
in quella biblioteca [69]
in quanto ritenevano che questi, essendo i più antichi, dovevano essere anche i
meno alterati dalle trascrizioni degli amanuensi, e potevano quindi costituire
un fondamento valido per l’auspicato lavoro di traduzione[70].
Bottari, in particolare, era legato alla famiglia GALIANI da un profondo
rapporto di amicizia che risaliva al tempo in cui monsignor Celestino si
trovava a Roma, e quando quest’ultimo aveva deciso di trasferirsi a Napoli, era
stato proprio il bibliotecario del Vaticano a prendere il posto di GALIANI
nella cattedra di Storia Ecclesiastica e Controversie presso
l’Università della Sapienza cui questi aveva dovuto rinunciare[71].
Anche Ferdinando ebbe una lunga corrispondenza con l’erudito prelato [72]
che, nel 1756, così gli scriveva: «Mi riverisca il Sig.Marchese suo
fratello, e gli dica, che gli ho spedito parecchi quaderni del suo Vitruvio
collazionato»[73].
Dallo studio del carteggio fra l’abate GALIANI e il suo corrispondente romano inoltre,
si evince che quest’ultimo oltre a fornire il prezioso materiale letterario per
la traduzione, fu tra i primi a poter leggere il frutto delle fatiche di
Berardo il quale di volta in volta gli inviava le parti già terminate affinché
Bottari potesse esprimere un giudizio su di esse e quindi dargli dei
suggerimenti per il prosieguo del suo lavoro[74].
La traduzione commentata del De
Architettura, che costituisce l’opera di maggior rilievo pubblicata da
Berardo, vide finalmente la luce nel 1758, riscuotendo immediatamente notevoli
consensi da ogni parte d’Italia, tanto che alcuni anni dopo Francesco Milizia
poteva affermare: «finalmente è comparsa
la traduzione del Signor Marchese GALIANI, la quale a guisa del Sole ha
fatto sparire tutte le altre»[75].
Si trattò quindi di una tappa di fondamentale importanza per la fama di Berardo
il quale, proprio grazie all’apprezzamento suscitato da tale brillante
pubblicazione, il 22 settembre 1759 veniva eletto membro dell’Accademia della
Crusca[76],
un riconoscimento che si andava ad aggiungere a quelli conseguiti pochi anni
addietro, dei quali ci dà notizia ancora una volta Ferdinando: «A 13 Aprile
1755 dall’Accademia di San Luca di Roma fu ascritto come -Accademico di merito.
«A 22 Aprile 1758 con real dispaccio fu eletto Accademico Ercolanese[77]».
Purtroppo però, anche in questo momento apparentemente così felice per la sua
vita, le difficoltà finanziarie continuarono ad amareggiare l’esistenza di
Berardo, ed anzi esse furono aggravate, per ironia della sorte, proprio dalle
spese sostenute per la pubblicazione di quel volume che gli procurava tanta
ammirazione nel mondo letterario. Si ricordi una patetica lettera scritta nel
1760 al ministro Bernardo Tanucci, nella quale, come si è visto in precedenza,
egli dichiarava di non avere al momento nemmeno il denaro necessario per
ritirare il diploma che certificava il titolo di Marchese che, morto il padre
Matteo, spettava a lui in quanto primogenito. In quella lettera egli
sottolineava di essere stato costretto addirittura a lasciare la città di
Napoli[78],
e a ritirarsi in una casa di campagna a Sant’Agata di Sessa[79].
Un certo respiro alle sue disastrate finanze era dato dalla carica di «Governatore
dell’Arrendamento de’ sali de’ quattro fondaci»[80],
conferitagli dal Re nel 1756, dalla quale doveva trarre un minimo guadagno.
Berardo poi era solito tenere alcune persone a pensione nella sua casa, tra le
quali va ricordata Lucrezia Castelli, uno degli amori napoletani di Giacomo
Casanova, che, secondo quanto riferito da quest’ultimo, era «un’amica intima
della Marchesa»[81].
Lo stesso Casanova, inoltre, si giovò della sua ospitalità (presumibilmente a
titolo di pura amicizia) nel 1760, allorché, nel corso di una precipitosa
quanto roccambolesca fuga strategica dalla capitale borbonica, la sua carrozza
si ribaltò nella campagna tra Francolise e Sessa, e nel pieno della notte fu
costretto ad accettare l’ospitalità di GALIANI che abitava nei pressi,
soprattutto a causa del fatto che “Don Ciccio Alfani[82],
suo compagno di viaggio, non era in grado di ripartire senza aver prima
ricevuto le necessarie cure mediche[83].
L’impressione che egli ebbe di Berardo fu molto positiva sotto il profilo
culturale, anche se questi «non aveva lo spirito brillante di suo fratello,
che avevo conosciuto a Parigi [....]. Il marchese mi presentò a sua moglie, che
io sapevo essere l’amica intima della mia cara Lucrezia. Questa dama aveva
qualche cosa d’angelico, circondata da tre o quattro bambini di pochi anni,
dava l’aria della Sacra Famiglia»[84],
e, per fortuna di Berardo, ad altra erano rivolti gli interessi di Casanova in
quella casa. Fra gli esponenti dell’ambiente artistico che furono ospitati
nella dimora galianea, si ha notizia del pittore Anton Raphael Mengs,
chiamato a dipingere il ritratto di Ferdinando IV nel 1759[85],
mentre invece l’anno precedente Johann Joachim Winckelmann descriveva il suo
primo viaggio nel Mezzogiorno in una lettera a Muzel Stosch, raccontandogli
che: «Da Portici me ne andava due volte la settimana a Napoli, e per
osservare le monete del Duca di Noja, e per abboccarini col Marchese GALIANI, e
per pranzare infine col Conte di Firmian»[86].
L’archeologo di Dresda, però, non ricambiò la cortesia e la cordialità dei
napoletani, anzi diede alle stampe la velenosa Lettera sulle scoperte di Ercolano al signor Conte Enrico di Brühl
(Dresda 1762), che gli attirò la collera della corte borbonica e l’indignazione
dello stesso Berardo, le quali furono manifestate nell’opuscolo anonimo (ma in
realtà pubblicato da Mattia Zarrillo) intitolato Giudizio dell’opera dell’abbate Winckelmann sopra le scoperte di
Ercolano (Napoli 1765)[87],
in gran parte tratto da un precedente scritto di GALIANI: i due comunque si
riappacificarono definitivamente nell’autunno del 1767, in occasione
dell’ultimo viaggio dell’abate prussiano nel sud, e in quella circostanza anche
gli alti uffici governativi si mostrarono clementi, permettendogli di vedere
ancora una volta i siti archeologici e i reperti del museo di Portici[88].
Nel frattempo anche la carriera forense stava andando avanti, e il 16 gennaio
1762 GALIANI venne nominato Ufficiale Maggiore della Real Segreteria di
Stato di Grazia e Giustizia[89],
anche se probabilmente la sua candidatura fu appoggiata dal ministro Bernardo
Tanucci in seguito al l’intercessione del fratello Ferdinando[90],
che col Ministro era in ottimi rapporti. Due anni dopo Berardo doveva, con suo
grande rammarico, contribuire all’elogio funebre del grande giurista Niccolò
Fraggianni [91]
il cui carisma, negli anni trascorsi presso la dimora di monsignor Celestino,
poteva aver pesato in una certa misura sulla scelta di vita presa da Berardo,
dal momento che egli per seguire quella carriera che tanto lo attraeva rinunciò
alla vita religiosa, con tutti i probblemi economici che ne seguirono. Berardo
Galiani aveva la peculiarità di riunire in una sola persona sia una profonda
cultura critico-artistica che la conoscenza dell’apparato giuridico del Regno,
e probabilmente proprio per questa singolare simbiosi che in varie occasioni fu
richiesta la sua consulenza per far luce su questioni che vedevano confondersi
e sfumare l’uno nell’altro il campo artistico e i problemi legali. Mi riferisco[92]in
particolare a due episodi: per uno di essi, però, non è stato possibile andare
oltre la semplice individuazione del fatto, che è contenuta nel più volte
citato scritto di Ferdinando GALIANI: «A 9 febbraio 1765 (Berardo) fu
destinato dalla Maestà del Re ad intervenire col Principe Dentice Delegato
della Regal Casa, e coll’Uditori de’Reali eserciti al riesame de’ testimoni per
il furto de’ disegni del fu Don Carlo Weber»[93].
Nell’unico altro accenno a noi noto riguardo a tale vicenda [94]
risulta che egli ebbe il compito di osservare le carte ritrovate, per poi
indicare ai giudici se esse erano quelle lasciate dal Weber [95]
e che egli aveva avuto modo di vedere in occasione di una ricognizione fatta
subito dopo la morte di questi. Per quanto concerne invece l’altro episodio, e
stato possibile ricostruire i termini generali della vicenda, ed anche se non
sono emersi elementi precisi sull’opera svolta da GALIANI, essa può essere
apprezzata per i fatti che ne furono la conseguenza. Un fatale incendio,
sviluppatosi nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1757, aveva completamente
distrutto la copertura della chiesa dell’Ave
Gratia Plena (ossia l’Annunziata) di Napoli [96]
ed in seguito a ciò il 7 aprile dell’anno successivo il Sovrano ordinava la
riedificazione dell’intero edificio[97],
essendo naufragata ben presto l’ipotesi del semplice rifacimento del tetto,
sotto il quale sarebbe dovuta essere realizzata una volta finta «di canne e
cerchia»*****.Quindi nel marzo 1760 Luigi Vanvitelli, coadiuvato da
Costantino Manni[98],
e inaspettatamente dal suo eterno antagonista Mario Gioffredo, dava inizio ai
lavori[99].
Contro il parere della maggioranza Fuga e lo stesso Vanvitelli proposero di
costruire una volta vera (o ‘lamia’) mentre Bibiena propendeva per un
compromesso fra le due ipotesi. Secondo il progetto di Vanvitelli la cupola
doveva essere realizzata con l’uso di pietre pomici, e rinforzando preventivamente
le mura laterali con speroni. Si deve ricordare che egli stesso poco tempo
addietro aveva presentato anonimamente una soluzione inusuale per il
consolidamento della cupola di San Pietro, la quale prevedeva proprio una
corona di archi rampanti per contenerne lo spanciamento. Per i problemi statici
dell’edificio e le soluzioni si vedano le relazioni pubblicate in appendice a
d’Addosio (1883) che furono portati avanti fra non poche difficoltà di natura
sia tecnica[100]
che economica. Ma in seguito a gravi dissapori con gli amministratori della
Real Casa, i quali vedevano i costi lievitare giorno per giorno, specialmente a
causa della grande cupola, Vanvitelli fu costretto a rinunziare all’incarico
nel 1769, e nello stesso anno i lavori passarono nelle mani di Gioffredo, che
in questo modo si prese una rilevante rivalsa (quanto effimera) nei confronti
dell’invidiato artefice casertano che per molto tempo lo aveva completamente
oscurato dal punto di vista professionale.È a questa fase che risale l’intervento
di Berardo GALIANI il quale[101]:
«Nel 1768 dal Re fu destinato a rivedere le controversie intercorse fra
Vanvitelli, e li governanti della Chiesa dell’A.G.P.»[102].
In sostanza quindi Berardo dovette tentare di far convergere le preoccupazioni
degli uni, con le istanze formali dell’altro (che peraltro conosceva e stimava
moltissimo), e chi meglio di lui avrebbe potuto svolgere un compito di tale
difficoltà? Allorquando infatti i rapporti tra i committenti e il progettista
sono estremamente tesi, e le loro posizioni apparentemente inconciliabili, la
mediazione di un legale che sia nello stesso tempo anche un validissimo
conoscitore dell’architettura è quanto di meglio ci si possa augurare.
Sfortunatamente allo stato attuale non mi[103]
è stato ancora possibile consultare l’Archivio dell’Annunziata ove ritengo
possano essere reperibili i resoconti della vicenda[104],
e di conseguenza non sono nelle condizioni di definire in quali termini abbia
avuto luogo la mediazione di Berardo; malgrado ciò si può ipotizzare che alla
lunga il suo lavoro fosse coronato dal successo, in quanto nel 1771 gli
amministratori della Real Casa richiamarono Vanvitelli e accettarono il suo
progetto che prevedeva comunque la costruzione della costosa cupola[105].
Quanto un tale ripensamento sia stato dovuto al l’intercessione di GALIANI è,
al momento, tutt’altro che chiaro, ma è bene sottolineare che il risultato
finale dimostra quanto Vanvitelli avesse visto giusto nel difendere
strenuamente la sua cupola, che, come ancora oggi si può osservare[106],
è inequivocabilmente il cardine delle valenze luministiche e spaziali della
chiesa.
La
prematura fine
L’ultimo decennio della vita di
Berardo fu certamente la fase più feconda della sua attività di studioso
d’architettura, se si esclude il periodo di tempo in cui si dedicò interamente
al commento del testo vitruviano; negli anni che vanno dal 1764 al 1774,
infatti, egli elaborò due pareri scritti ed un più esteso trattato di estetica
che nel loro complesso costituiscono un corpus sostanzialmente sconosciuto,ma
di notevole importanza ai fini di una più corretta collocazione di Berardo
GALIANI nel quadro del dibattito critico settecentesco. Il primo di questi
lavori, in ordine di tempo, è il Parere
del M.se GALIANI dato sulla copertura del Palco del Teatro Olimpico (1764)[107],
nel quale affronta il probblema della esistenza o meno di una copertura a se
stante sul Palcoscenico dei teatri antichi, una struttura distinta dal Velario
che veniva invece disteso sopra la Cavea per proteggere gli spettatori dalle
intemperanze atmosferiche. Il problema filologico gli era stato proposto dai
membri della Accademia Olimpica di Vicenza, i quali dovendosi restaurare la
copertura dell’omonimo Teatro realizzato secondo il disegno di Andrea Palladio,
si erano chiesti se il nuovo apparato decorativo andasse realizzato in modo
uniforme su tutto l’invaso, o se invece questo stesso dovesse essere bipartito
in maniera da presentare un soffitto cassettonato sul Palcoscenico, e
l’immagine del cielo aperto al di sopra della Cavea. Le diverse ipotesi erano
caldeggiate rispettivamente dai due eruditi Ottone Calderari ed Enea Arnaldi, e
poiché nessuna di esse riusciva a prevalere sull’altra, fu deciso di chiamare
in causa altri studiosi d’architettura estranei all’ambiente vicentino, con lo
scopo di garantire una reale imparzialità di giudizio. Uno dei prescelti fu
appunto il marchese GALIANI, la cui posizione sembra dettata più dal buon senso
che non dalla interpretazione dogmatica delle indicazioni fornite da Vitruvio.
In sostanza egli muoveva dalla constatazione che sebbene Palladio avesse avuto
intenzione di realizzare un teatro simile a quello antico, ne aveva poi
opportunamente modificato alcuni aspetti, in quanto era sua intenzione venire
anche incontro alle esigenze dettate dal genere di spettacoli che vi si doveva
rappresentare nella sua epoca; per questo motivo Berardo invitava gli
Accademici a lasciare da parte le dispute filologiche sulla reale morfologia di
quello, ed a ripristinare invece l’apparato decorativo così come appariva in una
stampa di Ottavio Revesi-Bruti del 1620 (che presentava la copertura
bipartita), per il fatto che reputava la soluzione rappresentatavi molto vicina
a quella immaginata da Palladio e mai realizzata. Di fatto, quindi, GALIANI
abbracciava la causa del cosiddetto partito divisionistà[108],
ovvero quello che faceva capo ad Enea Arnaldi. In quello stesso periodo di
tempo, poi, Berardo si stava dedicando ad un’opera di ben più ampio respiro,
che se ultimata non avrebbe per nulla sfigurato rispetto alla nota traduzione
commentata del De Architectura; egli
si era infatti proposto di realizzare un grande trattato di architettura,
suddiviso secondo la triade vitruviana di fortezza, comodo e bellezza, e
strutturato come un corpus di
lezioni, opera che però non riuscì a portare a termine prima della fine dei
suoi giorni[109].
Terminata, invece, è una «dissertazione metafisica» intitolata Del Bello (1765)[110]
che, nelle intenzioni del suo autore, avrebbe dovuto costituire una sezione di
quella parte del trattato dedicata alla Venustas,
o meglio questa è l’ipotesi che Benedetto Croce ha dedotto dalla lettura del
manoscritto[111].
A giudizio dell’autore di quest’opera, le cose stanno in modo leggermente
diverso: con la pubblicazione di quest’opera di estetica GALIANI si proponeva
di sottoporre al giudizio del pubblico (vengono citate le sue stesse parole)
quel «certo sistema scientifico, il quale ragionatamente mi ha condotto in
tutte le rispettive parti»[112],
ovviamente del Trattato a venire; essa quindi doveva costituire una sorta di
prodromo metodologico, vale a dire un banco di prova finalizzato a verificare
la validità del suo approccio scientifico nei confronti della Architettura, e
soprattutto in vista della futura stampa del già menzionato grande Trattato
generale[113]
Dalle sue parole quindi affiora quella forma mentis saldamente razionale che,
affondando le radici nell’ambiente illuministico del salotto celestiniano, ne
permeò costantemente la vita e le opere e che era talmente radicata che egli
non esitò a sconfessare quello stesso Vitruvio da lui profondamente stimato, a
causa del fatto che l’autore latino «trattava dell’Architettura, come di una
arte, non come di una scienza»[114]. Nell’Avviso al
lettore che apre la sua dissertazione,
Berardo cita un gran numero di filosofi che nei loro scritti si erano occupati
del trattato di estetica, come ad esempio Platone e Sant’Agostino, tra quelli
antichi, ed ancora Batteux, Hogarth e Spalletti, tra i suoi contemporanei[115]. L’autore pensa che questa parte posta all’inizio del
manoscritto, sia stata aggiunta in un secondo momento, ed è convinto di ciò sia
per il fatto che essa reca una numerazione diversa rispetto al trattato vero e
proprio, ma anche e soprattutto per quanto ha avuto modo di leggere in un
documento che ha rinvenuto presso la Biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria. Si tratta, in sostanza, di una lettera inviata da un non meglio
precisato Matteo allo stesso GALIANI[116], ove si apprende che l’ignoto interlocutore aveva
avuto in prestito quello che chiama il «quaderno de’vostri pensieri sopra al
Bello», e che, avendolo letto, si apprestava a restituire; alle parole di
elogio fa seguito il suggerimento di consultare la appena uscita Enciclopedia francese, affinché Berardo
potesse apprendere il pensiero degli altri autori che avevano avuto modo di
trattare quello stesso argomento: il Bello. Ed in effetti da un rapido
confronto risulta che le grandi personalità citate nell’Avviso al lettore sono sostanzialmente proprio quelle menzionate
nel paragrafo corrispondente alla voce ‘beaù della grandiosa opera generale di
Diderot. Per quanto riguarda il Trattato in sé, l’unico giudizio moderno
esistente è quello di Benedetto Croce che, per quanto breve, ha il pregio di
tentare la ricerca di un comunque debole punto di contatto tra i concetti espressi
da Berardo e la molto nota Interesselosigkeit
Kantiana[117] L’autore di questo libro, Tommaso Carrafiello,
che ha ultimato la trascrizione del manoscritto, spera di pubblicarne al più
presto una edizione critica; fin d’ora, però, gli preme sottolineare il fatto
che uno dei temi fondamentali, e fra quelli trattati più ampiamente nella
«dissertazione», è costituito dall’analogia tra le leggi proporzionali in
architettura e in campo musicale, con l’intento di dare un fondamento
scientifico all’utilizzo, nell’arte edificatoria, di quegli stessi rapporti
numerici elementari che sono alla base delle cosiddette consonanze. L’esperienza del monocorde[118], quindi è per GALIANI una legge di natura, dalla
quale non è possibile prescindere né in campo musicale, né tantomeno in quello
architettonico, poiché questa si trova già all’interno di entrambi, ne è
l’essenza, la regola immanente; in tal modo viene dunque riaffermata
quell’affinità elettiva tra le due arti (o, come presumibilmente avrebbe
preferito dire Berardo, due scienze) che fa riferimento ad una tradizione
plurisecolare che, passando anche per Vitruvio, fa capo all’antico mito di
Orfeo[119]. Allo stesso tempo si segnala la sostanziale adesione
dello studioso napoletano alle teorie del Sensismo di Condillac, filosofia che
rivestiva una funzione preponderante nell’ambito del pensiero estetico del ‘secolo dei lumì. L’intenzione di
pubblicare le Lezioni d’Architettura
conferma che in quegli anni il suo impegno intellettuale andava costantemente
lievitando, ed allora Berardo, che alla mondanità della capitale aveva sempre
preferito la tranquillità dei piccoli centri, prese la decisione di rinunciare
alla sua carica presso la Segreteria di Grazia e Giustizia, e di ritirarsi a
Sorrento, ove gli furono affidati altri incarichi[120], che gli consentivano comunque di coltivare i suoi
studi prediletti[121]. Il suo trasferimento nell’amena località costiera,
comunque, non dovette aver luogo prima del mese di maggio del 1771 come si
evince da una lettera inviata al barone Gian Lorenzo Galiani di Montoro[122]; questi era un suo lontano parente col quale aveva
riallacciato i contatti, e i loro rapporti erano diventati così cordiali che il
31 ottobre 1770 fu proprio la carrozza del Marchese Berardo GALIANI, venuto
appositamente per questo matrimonio nel piccolo paese dell’avellinese, che
Caterina, figlia del Barone di Montoro, fu condotta in chiesa dove la aspettava
il suo futuro marito Giuseppe Pepe[123]. Quello stesso anno era stata portata a termine la
compilazione della carta geografica del Regno di Napoli patrocinata con ferma
determinazione dall’abate GALIANI[124]; Ferdinando, che a quel tempo si trovava a Parigi
come segretario d’ambasciata, aveva intuito «la somma importanza che ha per
un popolo l’esatta conoscenza del suo ambiente esterno, necessaria per reagire
in certo qual modo alla sua azione modificatrice, e, nello stesso tempo, per
soddisfare vitali bisogni economici»[125]; e probabilmente fu proprio la prospettiva di un
incremento dei commerci a convincere il ministro Tanucci, eternamente preoccupato
per le sorti dell’erario, della necessità di tale opera che nemmeno la grande e
pìù ricca Spagna aveva ancora iniziato. La carta fu compilata principalmente
sulla base dell’immenso patrimonio cartografico esistente nel Depôt de la Guerre[126], confrontato con altro materiale e specialmente con
quello che, a più riprese, Berardo fece recapitare al fratello, come risulta
dalla corrispondenza tra i due negli anni parigini di Ferdinando[127]. Un anno prima della morte, Berardo elaborò uno
scritto che, a differenza di tutti quelli precedenti, si segnala per una serie
di osservazioni che denotano una conoscenza molto approfondita delle tecniche
costruttive, e soprattutto di quelle nozioni di meccanica che, secondo la
cultura del tempo, erano alla base del comportamento statico degli edifici; per
la prima volta, quindi, nel Parere del M
GALIANI sui danni della Trinità Maggiore e su i ripari e rifazioni(1773)[128], Berardo mette da parte le dissertazioni filologiche
per affrontare, con una insospettata competenza, un problema di natura
strettamente pratica, ovvero il consolidamento di un edificio: ed il suo
intervento «nonostante fusse singolare fu stimato da tutti per il migliore»[129]. Egli già dal novembre 1769 era stato chiamato a far
parte della commissione degli esperti che doveva esprimere una valutazione sul
progetto di restauro della chiesa elaborato da Ferdinando Fuga[130] e che, dopo un anno e mezzo di lavori , si era
pronunciata a favore della sua attuazione. Col passare del tempo, però, le
condizioni statiche dell’edificio sembravano estremamente peggiorate, e così la
stessa commissione appoggiò una nuova proposta di Fuga[131] che prevedeva l’abbattimento e la successiva
ricostruzione della grandiosa cupola, una decisione che però incontrò la più
totale disapprovazione da parte di Berardo GALIANI, il quale chiese ed ottenne
di redigere un suo parere[132], ultimato poi nel settembre 1773. In questo scritto
egli sconfessava totalmente quel catastrofismo che era stato alla base di una
così grave risoluzione, un atteggiamento a suo credere dettato da un eccesso di
prudenza e relativo al fatto che: «Avviene (…) ed avverrà sempre, che
ove chiamisi consultori per determinarsi ad alcun partito di precauzione contro
una minaccia che si è concepita di male, sempre le consulte eccederanno dalla
parte delle cautele. Ogniuno per coscenziato che sia, non sa spogliarsi
dell’amor proprio e sempre dubita che possa accadere caso di cui resti
mallevadore per non aver proposte cautele maggiori»[133]. Berardo, poi, esprime la sua convinzione che
l’alterazione dell’equilibrio statico della chiesa fosse dovuta in gran parte
dall’eccessiva spinta delle volte, non sufficientemente contrastata dal ridotto
spessore delle murature, ed alla quale contribuiva in maniera determinante la
copertura poggiante direttamente sull’estradosso delle volte stesse; infine
propone un suo progetto di consolidamento alquanto articolato, ma incentrato
sulla rimozione della causa stessa del dissesto mediante la sostituzione del
tetto esistente con una struttura a capriate. Mettendo da parte la validità
delle sue proposte, che pure sembravano essere perfettamente fondate, lo
scritto mostra con evidenza quello spirito profondamente razionale che permeava
tutta l’attività di GALIANI, come dimostrato dalla lunga serie di osservazioni sia
sul campo che su elementari modelli teorici di meccanica, e confermato da
un’attenta analisi del contestato progetto di Fuga, che ne rivela tutta la
pretestuosità.Restano infine da menzionare due ultimi scritti sui quali, però,
non è possibile avere altro che la notizia della loro stesura, poiché quanto
entrambi sono tutt’ora dispersi; il primo di essi è una Dissertazione sulla musica[134], un’arte che era particolarmente cara a Berardo,
forse proprio in conseguenza dell’importanza attribuitagli da Vitruvio che, nei
libri I e V del suo trattato, da l’avvio ad un lungo dibattito sull’analogia
esistente fra questa e l’architettura. Per quanto riguarda poi l’ultimo lavoro
galianeo ad essere ricordato, l’unico riferimento ci è dato dalle parole di
Giuseppe Castaldi, che così scrive: «Da una lettera autografa di esso
GALIANI del 18 novembre 1767 indirizzata a Francesco Daniele, che da me si
conserva, rilevo che egli aveva dettato de’notamenti, e aggiunte al vocabolario
del Baldinucci, che tratta dell’arte del disegno, coll’idea forse di
pubblicarle, ma queste anche rimasero manoscritte»[135]. Di fronte a una tale mole di progetti che Berardo
aveva in cantiere, e che non giunse mai ad ultimare, non può che crescere il
rammarico per il fatto che la letteratura artistica non abbia potuto ancora
rendere onore all’opera di un così insigne studioso, troppo spesso dimenticato,
o addirittura confuso con i suoi ben più celebri familiari, Ferdinando e
Celestino. Il destino, purtroppo, ha voluto che la morte lo cogliesse
nel pieno della sua attività letteraria, prima ancora che avesse compiuto
cinquant’anni; Berardo GALIANI, stroncato da un colpo apoplettico l’11 marzo
1774, fu sepolto nella chiesa della
“Vergine Madre” del «Real Convitto
della Coccumella»[136] che egli aveva diretto negli ultimi anni della sua
troppo breve esistenza[137], e subito dopo fu, soppresso trasferendo i giovani
allievi a Napoli nell’abolito collegio gesuitico di San Giuseppe alla Riviera
di Chiaia[138]. Il 12 agosto di quello stesso anno Agnese
Mercadante-Capece e Ferdinando GALIANI scrivevano al primo ministro marchese
Bernardo Tanucci: «La vedova Marchesa GALIANI e l’Abate cons. GALIANI
supplicano la M.V. per ott. il permesso di porre nella sepoltura del fu March.
GALIANI nella Chiesa della Cocumella
una
lapide con l’iscrizione che accludono»[139]. Ancora oggi (1995) tale lapide è al suo posto sulla
parete sinistra della chiesa appena varcata la soglia d’ingresso e, sotto lo
stemma della famiglia GALIANI[140], reca queste parole.
HEIC JACETMARCHIO
BERARDUS GALIANUS
FERDINANDUS GALIANUS ABBAS
FERDINANDUS GALIANUS ABBAS
MARCH. MATTHEI
REG. CONS. F
CAELESTINI
ARCHIEP. TARENTINI
ET CAPPELLANI MAIORIS
EX FRATRE FILIUS
VIR
INGENIO
DOCTRINA INTEGRITATE
DIGNUS
MEIORE FATO
VIX.
ANN. L. DECESSO VI. NON
MART. MDCCLXXIV
CENTULENSIS
REG. CON.
FRATRI BENEMERENTI P.
LOCUS
DATUS EX INDULGENTIA
FERDINANDI IV. OP. PRINCIP.
A conclusione di queste note biografiche rincresce dover sottolineare
che purtroppo neanche l’iscrizione funebre rende pienamente onore a quelli che
furono i meriti di Berardo GALIANI, in quanto ancora una volta sembra che la
commemorazione del nobile letterato debba passare attraverso la celebrazione
dei suoi più noti familiari invece che evidenziare quella che fu la sua
specifica opera, e soprattutto il prezioso contributo nell’ambito del dibattito
settecentesco sul: l’architettura; di ben altro tono è invece un epigramma,
consegnato alla storia dalla penna di Emmanuele Campolongo
ARCHITECTONES OMNES
QUI QUI ESTIS
HAC COMMEANTES
HEIC QUIESCENTI
ANTESIGNANO
VESTRO
EGREGIO INCOMPARABILI
MARCHIONI
BERARDO GALIANO
Veduta
del Vesuvio dalla terrazza del Real Convitto della Cocomella, oggi Hotel
Cocomella (Sorrento).
don
Giovanni "de Natale Sifola Galiani in visita
alla
chiesa della
Vergine
Madre alla Cocumella (Sorrento).
In visita
alla tomba del suo avo Berardo Galiani
Lo
studio dell’Antico: «Post fata resurgo».
La complessa e controversa
vicenda degli scavi di Ercolano e delle altre città vesuviane, o meglio la sua
fase ‘eroicà iniziata durante il regno di Carlo di Borbone e proseguita fino
alla fine del XVIII secolo per volontà di suo figlio Ferdinando IV, deve essere
considerata senza ombra di dubbio la più importante impresa ‘antiquaria’ di
tutto il Settecento, la cui ampiezza di prospettive ne fa una delle tappe
fondamentali dell’archeologia di ogni tempo, nonostante i pesanti limiti che ne
caratterizzarono la gestione, sia dal punto di vista strettamente tecnico, sia
per quanto riguardava lo studio e la divulgazione di un patrimonio culturale
senza precedenti analoghi, di vaste proporzioni e virtualmente unico.
In effetti la pubblicazione dei
reperti faticosamente sottratti all’oblio nel quale erano stati precipitati
dallo «sterminator Vesevo»[142],
era stata riservata strettamente all’autorità reale a partire dal 1738, anno in
cui Re Carlo diede inizio ai primi scavi archeologici d’iniziativa statale di
cui si abbia memoria, ponendo termine così ad una sconsiderata attività
predatoria che troppo spesso si era conclusa con la dispersione degli oggetti
d’arte, in gran parte sculture, che venivano via via rinvenuti[143].
Ma purtroppo, mentre gli eruditi di tutta Europa fremevano nell’attesa di poter
finalmente vedere pubblicate le incisioni dei reperti ercolanensi, dei quali si
avevano notizie ancora frammentarie e in qualche caso fantasiose[144],
a Napoli vedeva la luce soltanto il Prodromo
delle antichità di Ercolano[145],
cinque immani calepini[146]
nei quali l’autore, monsignor Ottavio Antonio Bayardi[147],
muovendo dalla narrazione delle sette fatiche di Ercole[148]
si perdeva in innumerevoli e pedanti discettazioni metereologiche, cronologiche,
sui vari Ercoli [149]
dando solamente sfoggio di grande eloquenza e abilità dialettica. «Il mondo
letterario ne fu atterrito», ha scritto Michelangelo Schipa[150],
poiché l’infaticabile scrittore «riempì a migliaia le pagine senza giungere
neppure a sfiorare il vero argomento della sua ricerca»[151],
dando origine in tal modo a quello che può essere definito uno «spettacolare
trofeo della erudition inutile[152],
mentre nello stesso tempo gli impazienti lettori dovettero constatare, con non
poca delusione, la totale mancanza delle attese illustrazioni. La vicenda fece
scandalo anche al di la dei confini del Regno, tantoché il Sovrano ed i suoi
collaboratori si videro costretti a correre ai ripari, e l’immediato
provvedimento che venne adottato per fare fronte alla imbarazzante situazione
venutasi a creare fu appunto la fondazione della Regale Accademia Ercolanese,
il cui unico ufficio doveva essere quello di curare la pubblicazione illustrata
degli oggetti rinvenuti nel corso degli scavi[153].
Il collegio era composto da quindici eminenti filologi scelti quasi
esclusivamente nell’ambiente culturale partenopeo e riuniti sotto la presidenza
del Primo Ministro del Regno, il fiorentino marchese Bernardo Tanucci, che era
stato ispettore di quella istituzione reale; i nomi dei membri originari[154]
sono stati menzionati da Giuseppe Castaldi nella sua fondamentale opera sulla
storia dell’Accademia, ove si aggiunge che: «di questi [soci], essendone
mancati due, vi furono successivamente il Marchese Berardo GALIANI e Giovan
Battista Basso Bassi, il primo de’ quali con somma avvedutezza nominato socio,
giacché per le sue grandi cognizioni specialmente in Architettura si rendea
molto utile in quest’Accademia per la definizione, ed illustrazione, che spesso
dovea farsi di tanti diversi fabbricati antichi»[155].
Berardo quindi fu nominato accademico ercolanese in un secondo tempo, e
precisamente il 22 Aprile 1758[156],
lo stesso anno in cui veniva data alle stampe la prima edizione del De Architettura da lui sapientemente
chiosata, grazie alla quale Berardo ebbe l’onore di essere nominato anche Accademico
della Crusca il 22 settembre 1759[157].
Nel frattempo le ricerche proseguivano, ma non tutto quello che si aveva la
fortuna di incontrare nelle viscere del suolo vesuviano era facilmente
recuperabile, ci si riferisce specialmente a tutti gli apparati decorativi,
dipinti parietali e mosaici, che ricoprivano le superfici interne delle antiche
dimore. In questi casi agli uomini del settecento si presentava una sola
alternativa: o l’asportazione a massello, oppure la riproduzione grafica,
operazione quest’ultima che doveva però essere svolta in condizioni
estremamente precarie, a circa venti metri di profondità sotto la luce
tremolante delle torce, nel continuo timore di crolli o di esalazioni
venefiche, non certo improbabili in un territorio vulcanico come quello che si
andava esplorando. Gioverà infatti ricordare che l’antica Ercolano giaceva
sepolta e quasi imprigionata da una coriacea colata indurita di fango e lava,
sopra la quale erano stati successivamente edificati i moderni centri di
Portici e Resina[158],
la qual cosa se da un lato rendeva sostanzialmente impossibile il
dissotterramento integrale della città romana, dall’altro rendeva lo scavo dei
cunicoli sotterranei estremamente difficoltoso e pericoloso. In tali condizioni
la riproduzione figurativa non poteva dare sufficienti garanzie di somiglianza
all’originale, e si potrebbe pensare che l’asportazione a massello fosse la
strada più frequentemente praticata, ma si tenga conto del fatto che anche
segare ed estrarre dalle profonde gallerie le porzioni di muro dipinte
issandole su per i pozzi, costituiva un’impresa di non poca difficoltà; era
quindi necessario valutare con attenzione ogni caso separatamente prendendo in
considerazione sia il presunto interesse dell’opera d’arte che le difficoltà
tecniche specifiche, in modo da scegliere la soluzione più adeguata alle
circostanze. Spesso erano gli stessi accademici, il cui incarico principale era
proprio quello di curare la riproduzione a stampa di quei reperti, a decidere
la più opportuna procedura d’intervento. Tre di essi scrivevano al ministro
Tanucci il 10 settembre 1760, suggerendo che «incontrandosi qualche pezzo di
pittura o di Mosaico debba destinarsi un accademico ad osservarlo se meriti di
tagliarsi, e qualora non possa togliersi e abbia del merito, debba farsi almeno
il disegno della parte o della stanza dipinta. Qualora il Re approvasse questo
sentimento di destinarsi un Accademico, ci sembrerebbe propriissimo il Marchese
GALIANI il quale ha dato bastante saggio della sua abilità nell’ Architettura e
dell’Intelligenza che ha dell’Antico»[159].
Da queste parole affiora la possibilità che allorché il ruolo dell’Accademia si
fosse allargato, come in effetti avvenne inevitabilmente, fino a comprendere
anche l’attività di consulenza tecnico-artistica nell’ambito della fase di
scavo, con molta probabilità sarebbe stato proprio Berardo GALIANI ad essere
incaricato di tale ufficio. Ed infatti dai resoconti degli scavi del 1761
risulta che in occasione della scoperta di un mosaico presso la masseria Iraci,
fu richiesta l’assistenza di Berardo GALIANI, «per decidere il da farsi»[160].
L’atteggiamento degli accademici, intenzionati a salvare almeno l’immagine
delle opere figurative scoperte e non recuperabili, come pure la cautela degli
addetti agli scavi costituiscono l’embrionale preludio di un lento passaggio
dall’interesse per l’oggetto antico in sé, a quello per il valore documentario
dei reperti[161],
sebbene nelle intenzioni del Sovrano il compito dell’Accademia doveva limitarsi
a concorrere alla esaltazione di quell’inestimabile patrimonio archeologico da
esibire come testimonianza dello splendore del Regno. Berardo invece, ben
distante da tali finalità politiche , era animato da un chiaro interesse
filologico, e la sua competenza doveva essere invero molto apprezzata se nel
1763 l’architetto svizzero Karl Weber[162],
dichiarava di fare affidamento proprio sulla erudizione del Marchese GALIANI,
nel novero dei quindici Accademici, per la revisione e la correzione di un volume
che si proponeva far stampare, e che doveva essere dedicato specificamente
all’illustrazione degli edifici dissotterrati nelle antiche località di Stabia,
Pompei ed Ercolano[163].
Se Berardo poteva essere considerato una figura di primo piano dell’ambiente antiquario
partenopeo, Weber non era da meno, visto che ebbe l’onore fra tutti i suoi
colleghi, di godere della stima persino di Winckelmann[164],
sempre molto polemico nei confronti dei napoletani che si occupavano di
archeologia. L’architetto svizzero aveva lavorato fin dall’inizio ad Ercolano
come assistente del colonnello Rocco Gioacchino Alcubierre, e quando
quest’ultimo preferì indirizzare le sue ricerche nell’area dei Campi Flegrei
(intorno al 1750) gli succedette nella carica di direttore degli scavi già
avviati, in particolare a Pompei e Stabia[165].
Da quel momento in poi Weber si propose di migliorare il livello scientifico
dell’attività archeologica dando corso ad alcune importanti iniziative, la
prima delle quali fu l’elaborazione di una mappa relativa alla fitta rete di
cunicoli e gallerie sotterranee realizzate nel corso delle precedenti campagne
di ricerca[166],
in quanto si rendeva conto, a differenza del suo predecessore che stante la
deplorevole consuetudine di colmare le gallerie già esplorate con la terra di
riporto estratta da quelle in fase di scavo, senza un preciso riferimento
topografico troppo spesso gli operai erano ritornati sui luoghi già sondati in
precedenza, con grave dispendio di energie e col pericolo di compromettere
ulteriormente la stabilità degli edifici soprastanti [167]
Ma il nome del coscenzioso e metodico architetto d’oltralpe deve essere
ricordato soprattutto per la più importante delle sue iniziative, vale a dire
la generale riforma della tecnica degli scavi che consisteva nel procedere al
disseppellimento sistematico degli edifici, abbandonando così il criterio dei
sondaggi isolati[168].
Questa apprezzabile proposta però , poté essere attuata unicamente nel sito di
Civita, ove i ruderi, oltre a trovarsi in un’area completamente sgombra dall’edilizia
moderna, erano ricoperti soltanto da un fitto e poco profondo strato di ceneri,
molto più leggere e facili da rimuovere rispetto alla coriacea colata
solidificata che imprigionava i resti di Ercolano. Quando infatti, il 16 agosto
1763, una epigrafe appena recuperata diede la certezza che la collina di Civita
ricopriva la città di Pompei, il Tanucci, cedendo alle sue richieste, ordinò
che da quel momento le rovine non fossero più rinterrate[169],
ma sfortunatamente soli sei mesi più tardi Karl Weber[170]
passò a miglior vita, lasciando comunque un inestimabile patrimonio di
documenti e disegni relativi al proprio incarico, e che per la maggior parte
passarono nelle mani del suo successore Francesco La Vega[171].
Il « teatro antico» di Resina
Per effettuare la ricognizione
di tali rilevanti carte e deciderne il destino furono convocati i nominati La
Vega e Alcubierre, ed infine il marchese GALIANI[172],
al quale ultimo furono affidate alcune delle tavole elaborate dal direttore
degli scavi prematuramente scomparso, come risulta della relazione stesa alla
fine della riunione nella quale si legge: «In quinto luogo finalmente si sono
riconosciuti e separati dall’altri, nove disegni parte messi in pulito e parte
in schizzi appartenenti tutti al Teatro antico di Resina[173],
li quali si consegnano al Marchese Galeani, e in mano del medesimo si trovano
altri due disegni in pulito al compimento di undici, quali sono stati fatti
dall’enunciato defunto Ingegnero ordinario D. Carlo Weber»[174];
lo stesso Berardo poi, firmava la seguente dichiarazione: «lo sottoscritto
ho ricevuto dalla R. Segr. di Stato e Casa Reale de’ disegni lasciati dal
defunto Ing. Ord. D. Carlo Weber i soprariferiti nove disegni appartenenti al
Teatro antico di Resina, oltre i due altri ch’erano già in mio potere. Portici
30 Settembre 1764 M. Berardo GALIANI»[175].
Da queste parole risulta pertanto che egli, all’epoca della morte di Weber, era
già in possesso di due disegni di quell’edificio, ai quali, con unanime
consenso, fu affiancato tutto il rimanente materiale grafico che poteva
completarne la conoscenza; viene dunque spontaneo chiedersi quali ragioni
spingevano l’eminente studioso di Vitruvio ad interessarsi proprio del Teatro,
e non dei tanti altri edifici che giacevano nel ventre del sottosuolo
vesuviano, e ancora per quale motivo egli era già in possesso di due di quei
disegni. Si aggiunga che il Teatro di Ercolano aveva suscitato una particolare
attenzione nello stesso Weber, il quale nel 1760 presentò un progetto molto
dettagliato per il suo completo disseppellimento corredato anche da un piano
finanziario; egli sperava di ottenere il consenso dell’operazione contando sul
fatto che il mirabile edificio, pur trovandosi in un’area densamente popolata,
per una felice circostanza era situato sotto l’orto di un convento, e che
quindi nessun fabbricato doveva essere abbattuto per liberarne i ruderi dallo
spesso strato di depositi vulcanici che lo ricopriva[176].
Purtroppo la sua interessante proposta non fu ascoltata, e nel 1764 Wickelmann
sottolineava polemicamente che l’architetto svizzero solo «per proprio
impulso, e per lo più nelle ore di libertà, che gli lasciava il suo impiego,
fece scavare la scena, e ben prima per mezzo suo avremmo avuto degli
schiarimenti, se il suo colonnello [ossia Rocco Alcubierre] invidioso
dell’onore che a lui deriverebbe da quella scoperta, non avrebbe più volte
proibito i lavori»[177].
La chiave di lettura di tutto questo interesse venutosi a creare intorno al
Teatro ercolanese risiede nella possibilità che si presentava agli studiosi
partenopei di fare luce su uno dei passi più oscuri del De Architectura di Vitruvio[178],
come risulta evidente dalle parole di alcuni accademici ercolanesi, i quali per
dimostrare l’utilità del citato volume che Weber si proponeva di pubblicare[179],
portano come esempio proprio il caso dei Teatri: «Non ostante gli sforzi di tanti uomini grandi non si è potuto ancora
fissare la vera struttura de’ teatri antichi, ne’ capirsi la situazione e la
forma della Scena e del Proscenio. La sola pianta vera ed esatta del Teatro
d’Ercolano ci metterebbe al giorno e dileguerebbe le tenebre in cui siamo in
questa parte di Erudizione»[180].
Lo stesso Berardo, nelle note di commento al testo vitruviano, si era
rammaricato di non aver potuto fare affidamento sui resti dei teatri antichi a
quei tempo conosciuti [181]
per chiarificare su questa base le parole dello stimato, ma spesso poco comprensibile,
autore latino: «Se è stata deplorabile
per l’intelligenza degli autori antichi - scrive il napoletano - la perdita di
tanti bei monumenti periti per la voracità del tempo, e più per la barbarie, o
ignoranza degli uomini, lo sarà sempre soprattutto questa de’ teatri»[182].
Ed in effetti in una rara pubblicazione
Frontespizio dell'opera letteraria del m.se Berardo
Galiani
Un disegno del m.se Berardo
Galiani nell'Opera
L'architettura di M. Vitruvio Pollione
di Giuseppe Fiorelli[183],
alcuni documenti da lui attribuiti a Berardo GALIANI[184]
(i quali, essendo ancora oggi sostanzialmente sconosciuti proprio a causa della
rarità di quel fascicolo ove furono trascritti per la prima volta, sono stati
portati in appendice) permettono di affermare senza timore di smentita che il
13 dicembre 1763 il ministro Tanucci fece consegnare all’eminente commentatore
di Vitruvio i due nominati disegni, consistenti nella «pianta e il profilo del
teatro d’Erculano fatto da D. Carlo Weber, insieme con una di lui relazione», affinché
questi esprimesse il suo proprio parere in merito alla loro
pubblicazione.Berardo rispose[185]
a quest’interpellanza proponendo una serie di sondaggi da effettuare nel luogo
ove era sepolto il teatro che doveva servire a fare chiarezza sulla morfologia
di alcune parti della fabbrica che a suo credere non erano state rilevate con
esattezza, ma dedotte facendo eccessivo affidamento sulle descrizioni di
Vitruvio. Uno di questi saggi poi, doveva avere lo scopo di chiarire la
struttura della Scena, ed in particolare «se mai fosse in questa parte coperto
il teatro»[186],
un interrogativo che proprio in quegli anni vedeva i soci della Accademia
Olimpica di Vicenza schierati in due opposte fazioni, poiché dalla sua
chiarificazione dipendevano le sorti del magnifico Teatro che Andrea Palladio
aveva realizzato traendo spunto da quelli antichi. In seguito a questa polemica
i vicentini avevano richiesto anche il parere di Berardo GALIANI, contando
certamente sulla cospicua capacità maturata attraverso lo studio approfondito
di Vitruvio e palesata nell’apprezzato commento al De Architectura; ma purtroppo il loro interrogativo giungeva troppo
presto perché Berardo potesse integrare la sua già vasta cultura antiquaria con
le informazioni tratte dai previsti sondaggi[187],
e di conseguenza il napoletano nel rispondere all’Accademia Olimpica con uno
scritto che rivela la sua notevole competenza in merito all’argomento
dibattuto, dovette dichiarare con una punta di rammarico: «In altre fatiche,
che ho per le mai, spero con più chiarezza, distinzione, e precisione far
meglio acquistare sempre più chiara idea del Teatro antico»[188].
Berardo doveva essere ben felice dell’incarico affidatogli dal marchese
ministro Tanucci, che gli consentiva di approfondire le sue conoscenze su di un
argomento ancora molto nebuloso per gli studiosi di architettura contemporanei,
infatti, nella citata lettera in risposta al Primo Ministro, esprimeva senza
mezzi termini la sua completa disponibilità ad occuparsi egli stesso della
pubblicazione dei disegni che gli erano stati consegnati, i quali a suo dire
necessitavano di essere ridotti ad una grandezza che permettesse la stampa di
ogni tavola in una sola pagina[189];
e come ulteriore conferma del suo interessamento Berardo, sempre in quella
lettera, faceva presente di essere pronto in qualsiasi momento a mostrare al
suo interlocutore un piccolo plastico del Teatro ercolanese, che aveva
realizzato facendo affidamento sulle pur incomplete informazioni tratte dal
materiale che aveva per le mani[190].
I sondaggi, iniziati nel maggio 1765 e proseguiti fino a tutto il 1774, furono
diretti da Francesco La Vega «secondo gli avvertimenti del Marchese GALIANI e
della Accademia»[191],
ma purtroppo anche questi ulteriori scavi non consentirono di far luce sulla
dibattuta questione della copertura in quanto la parte alta della scena era
troppo rovinata per poter fare delle valutazioni attendibili sulla esistenza
della copertura del palcoscenico[192].Un
ultimo episodio poi, doveva far associare il nome del nobile commentatore
vitruviano a quello dell’architetto Weber, e a darcene notizia è Ferdinando
GALIANI, che annota: «A 9 Febbraio 1765 (Berardo GALIANI) fu destinato dalla
Maestà del Re ad intervenire col Principe Dentice Delegato della Regal casa, e
coll’Uditori de’ Reali Eserciti al riesame de’ testimoni per il furto de’
disegni del fu D. Carlo Veber»[193].
Evidentemente il passaggio di
consegne tra il defunto direttore degli scavi ed il suo successore La Vega non
fu del tutto indolore, ma per buona sorte secondo le scarse notizie attinte
dalle fonti, estremamente reticenti su questa vicenda, il materiale trafugato
fu recuperato in breve tempo, e già l’ 11 marzo di quello stesso anno il
principe Dentice riceveva comunicazione che il marchese GALIANI aveva
riconosciuto come scritte da Weber le carte mostrategli dall’«Ajutante delle
Reali Guardie Svizzere D. Rocco Rermer»[194],
ossia a giudizio del Dott. Caffariello, quelle che Ferdinando dichiara essere
state trafugate. Fra le tante carte che furono osservate in quella occasione,
Berardo notò un volume manoscritto che recava il titolo Le piante di alcuni edificij sotterranei.... ed altre. Tomo III, si trattava cioè proprio di
quella pubblicazione per la quale Weber aveva chiesto la sua consulenza[195]
in quanto, a differenza dei precedenti due tomi delle Antichità Ercolanesi ove
erano illustrati solo i dipinti, doveva essere dedicato interamente ai
fabbricati degli antichi popoli vesuviani: pubblicazione per la quale però lo
svizzero non era mai riuscito ad ottenere benestare da parte
dell’amministrazione reale. In definitiva dalle ricerche effettuate emerge un
particolare aspetto dell’attività di Berardo GALIANI che, apprezzato per la sua
vasta erudizione nel campo dell’architettura antica, pur non essendo stato
presumibilmente investito di alcuna carica specifica nell’ambito dell’Accademia
Ercolanese, prestava in varie occasioni la sua autorevole consulenza in favore
della nascente attività archeologica, la quale proprio in quegli anni cercava
faticosamente (ed anche per merito di Weber e GALIANI) di emanciparsi dal
l’osservazione meramente estetica delle ‘anticaglie’, per indirizzarsi verso
un’analisi protoscientifica rivolta al reperto (nella sua accezione più ampia
possibile) inteso come documento di scienza, oggetto di studio e di ricerca. È
in quest’ottica infatti che vanno lette la riforma delle tecniche di scavo, gli
studi sugli edifici dell’antichità, lo sviluppo delle pratiche documentative[196],
come pure tutta una serie di episodi collaterali quali la insistente ricerca di
un metodo valido per svolgere i papiri pressoché carbonizzati che erano stati
rinvenuti nella Villa dei Pisoni; la creazione di complessi museali di
straordinaria importanza visitabili dal pubblico[197]
come il museo di Portici o il palazzo di Capodimonte, quest’ultimo fra le
primissime strutture europee a fungere soprattutto da museo artistico[198];
ed ancora la costante lotta per preservare dalla rovina gli intonaci dipinti
che, estratti dagli edifici sepolti, figuravano «come tanti bei quadri»[199]
nella raccolta reale di Portici, ma che insieme con l’umidità perdevano presto
anche il colore; per essi, è bene sottolinearlo, nessuno avanzò mai proposte di
«’rinfrescar’ le pitture e reintegrarne le parti cadute»[200],
come spesso ancora si praticava a quell’epoca. Queste interessanti iniziative
però, dovevano rappresentare ben poca cosa per chi, come Winckelmann, in quegli
anni andava lasciando velenosi strali, spesso purtroppo a ragione, contro gli
aspetti estremamente negativi che troppo spesso ebbero la meglio sulle buone
intenzioni dei napoletani, i quali, feriti su uno di quei temi che all’epoca
era per essi fra le maggiori fonti d’orgoglio, cercarono di trovare una figura
capace di tenere testa anche nell’uso della penna al caustico studioso sassone,
e la trovarono proprio in Berardo GALIANI.
La polemica con Winckelmann
Di ritorno da Napoli Johann
Joachim Winckelmann scrisse allo scultore danese Giovanni Wiedewelt(19 dicembre
1767) raccontandogli del suo recente viaggio (il quarto)[201]nella
capitale borbonica, ed accennando per l’ultima volta agli scavi archeologici di
Ercolano e Pompei che aveva avuto modo di visitare in varie occasioni. In
questa lettera l’archeologo di Dresda non poté fare a meno di manifestare la
sua grande meraviglia per l’accoglienza ricevuta, e specialmente per la
disponibilità degli alti uffici governativi che, a suo dire, giungeva
decisamente inaspettata, poiché si rendeva perfettamente conto di quanto
fossero state pesanti le sue accuse in merito alla gestione della grande impresa
archeologica. Ecco quanto egli scrive: «Oggi è appunto un mese che sono
tornato da Napoli, ove soggiornai due mesi presso un amico. Mi recai colà
propriamente coll’intenzione di passare poscia in Sicilia dubitando di trovarvi
buona accoglienza presso il primo ministro e di ottenere il libero accesso al
Museo[202]. Ma
avendolo trovato propenso ai miei desideri al di sopra d’ogni mia aspettativa,
cambiai il mio piano, e mi riuscì difatti di superare tutte le difficoltà, e di
riconciliarmi con tutti i partiti offesi, fra cui principalmente il Marchese
GALIANI»[203].
Winckelmann aveva conosciuto Berardo in occasione del suo primo viaggio a
Napoli nel 1758, e ne aveva avuto una buona impressione, definendolo qualche
tempo dopo come un «uomo illibato, buon amico e buon letterato ad un tempo»[204].
In quell’occasione l’abate prussiano venne a conoscenza di una serie di
pressappochismi e manomissioni che l’allora direttore degli scavi, colonnello
Rocco Alcubierre, andava perpetrando ai danni delle antichità; egli poteva
agire pressoché indisturbato nel riserbo garantitogli delle buie gallerie, e
senza che il Sovrano potesse rendersene conto, pur seguendo con interesse[205]
le ricerche sulla base delle relazioni che quotidianamente l’ufficiale era
chiamato ad inviare a palazzo. Winckelmann aveva appreso queste notizie da
padre Antonio Piaggi[206]
il quale, malvisto dagli altri addetti agli scavi, voleva in tal modo ottenere
una rivalsa nei loro confronti[207],
ed il tedesco non esitò a denunciare ciò che stava accadendo ad Ercolano nella
Lettera al Conte di Brühl pubblicata nel 1762, ove ironizzava sulla competenza
di Alcubierre che per l’archeologo (parafrasando un proverbio italiano) «non
aveva mai avuto a che fare colle antichità più della luna coi gamberi»[208].
La contestazione principale riguardava
il principio stesso secondo il quale si procedeva preoccupandosi soltanto di
asportare, con metodi spesso distruttivi, gli oggetti più integri e vistosi,
quelli cioè che avrebbero potuto meglio figurare nel Museo di Portici; bronzi
suppellettili e soprattutto dipinti, venivano estratti dai cunicoli come se si
trattasse di una miniera, a volte sfondando muri delle antiche dimore senza
preoccuparsi delle decorazioni che potevano esserci sulla parete opposta[209],
e arrecando in tal modo l’ultimo oltraggio ai ruderi di Ercolano. Tali critiche
erano certamente motivate in ragione delle esigenze di studio e classificazione
verso le quali tendeva l’archeologo sassone, ma le difficili condizioni in cui
avvenivano gli scavi di Ercolano avrebbero potuto stemperare allora (ed anche
ridimensionare oggi) i toni della polemica, specie se si pensa che quando le
possibilità tecniche lo permisero[210],
gli edifici furono disseppelliti integralmente, alcuni addirittura ripristinati
parzialmente, e nelle pubblicazioni che seguirono [211]
i dipinti che come gli altri reperti iniziarono ad essere conservati in loco,
furono rappresentati nel loro contesto originario[212].
Ma questa non era l’unica accusa: Winckelmann raccontava delle iscrizioni
smontate e gettate alla rinfusa nelle ceste senza nemmeno averle trascritte,
delle statue lucidate e private tal modo della «bella patina antica», infine
dello sciagurato episodio della quadriga bronzea che ornava il teatro di
Ercolano: Giuseppe Canart infatti, incaricato di occuparsi dei numerosi frammenti
che venivano recuperati dagli scavi, spaventato del loro numero prese la
pazzesca decisione di fonderli, e dal dorso dell’auriga, che non era in grado
di ricostruire, ricavò dei grossi medaglioni con l’effige del Re e della
Regina, statue di Santi e candelabri[213].
Non era necessaria la censura di Winckelmann per capire che una tale operazione
era inammissibile, malauguratamente però il secco divieto del Sovrano arrivò
quando già una parte dei bronzi era andata irrimediabilmente perduta. Le accuse
dell’archeologo di Dresda erano, purtroppo, in gran parte fondate, e vanno
lette come il risultato dell’atteggiamento sostanzialmente discontinuo (se non
addirittura contraddittorio) tenuto dagli amministratori partenopei in quanto,
come ha avuto modo di osservare Fausto Zevi, «a momenti di rigorismo
filologico, altri ne succedono in cui senza esitare si pone mano al piccone
demolitore. La corte sembra colta di sorpresa dalle critiche esterne; si
imboccano strade che conducono ad errori grossolani, e poi proteste e scandali
inducono a repentini mutamenti di rotta; dal palazzo si alternano, a breve
distanza, rescritti contrastanti»[214].
In sostanza bisogna riscontrare, specialmente nelle iniziali degli scavi,
l’effettiva assenza di una reale politica
della ricerca archeologica che, affidata a semplici ingegneri militari,
restauratori e disegnatori in continuo conflitto tra di loro, aveva come unico
scopo l’incremento del prestigio del Regno conseguente al possesso delle
magnifiche collezioni di antichità. Il polverone suscitato dalle denunce
dell’abate prussiano era stato tale che, senza affatto esagerare, «nel 1765,
il ‘caso Winckelmann’era diventato alla corte di Napoli quasi un affare di
stato»[215],
p. 46), e l’egemone ministro marchese Bernardo Tanucci, di concerto con l’abate
Ferdinando GALIANI, era intenzionato ad affidare a Pasquale Carcani
(1721-1783), membro e segretario dell’Accademia Ercolanese, il compito di
replicare opportunamente alle accuse del goto[216];
questo progetto non andò a buon fine cosicché la sola risposta fu quella
dell’abate Mattia Zarrillo[217],
il quale diede alle stampe un Giudizio
dell’opera dell’abate Winckelmann[218],
a suo dire ispirato ad alcune riflessioni fatte in proposito dal marchese
Berardo GALIANI[219],
ma che in realtà, come si è avuto modo di accertare, era per la maggior parte
una vera e propria copia integrale di un precedente scritto di Berardo GALIANI.
Infatti poco tempo dopo l’uscita di questo opuscolo, Francesco Daniele[220]
ne pubblicò anonimamente un altro di sei pagine intitolato: Considerazioni sopra la lettera dell’abate
Winckelmann, facendolo procedere da un Avviso
al lettore nel quale accusava Zarrillo di aver plagiato lo scritto di
Berardo GALIANI che egli ora pubblicava integralmente. In realtà le nominate Considerazioni erano effettivamente
opera di Berardo, sebbene nelle intenzioni del vero autore, come testimoniano
le parole di suo fratello Ferdinando esse erano destinate a rimanere «una
memoria segreta e un appuntamento fatto con se medesimo per guardarsi esso di
rispondere alle lettere che riceveva dal Winckelmann[221],
vedendo da costui tradito ogni segreto e propalato per le stampe quanto
dagli amici gli veniva in confidenza detto o scritto»[222].
La responsabilità della pubblicazione ricadde, per ironia della sorte, proprio
su Berardo che quasi certamente non aveva avuto alcuna parte nell’iniziativa
presa da Francesco Daniele[223],
ma che invece subì un duro richiamo da parte di Pasquale Carcani[224],
il quale in una severa lettera gli rimproverava di aver coinvolto il nome dello
stesso ministro Tanucci nella sua personale polemica contro lo Zarrillo,
chiamandolo in causa in quell’Avviso al
lettore del quale Berardo era ancor meno responsabile. Fatto sta che il
Primo Ministro ordinò che fossero ritirate dalla circolazione tutte le copie di
quell’opuscolo, operazione che dovette essere eseguita in maniera attentissima
visto che, nonostante approfondite ricerche, non è stato possibile rintracciare
alcun esemplare nelle biblioteche di Napoli; lo stesso Franco Strazzullo, che
in un suo saggio commenta il Giudizio
avvisando che esso in gran parte attinge dalle riflessioni di GALIANI, cita le Considerazioni senza però darne alcun
riferimento bibliografico né come pubblicazione, né tanto meno sotto forma di
manoscritto[225].
In compenso tra i manoscritti della Biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria, è conservato proprio l’autografo di Berardo GALIANI[226],
che era stato erroneamente catalogato (una volta di più) come uno scritto del
fratello Ferdinando e che forse proprio per questa ragione era passato
pressoché inosservato e mai segnalato. Dal confronto con il menzionato Giudizio
risulta che lo Zarrillo copiò integralmente le osservazioni galianee,
aggiungendovi due brani [227]
che contenevano principalmente delle polemiche riguardo ad alcune iscrizioni in
lingua latina che Winckelmann, a detta del napoletano, aveva trascritto o
interpretato erroneamente. Tutta l’impostazione generale del Giudizio è quindi opera di GALIANI ma, a
discarico del presunto plagiario , bisogna precisare che in realtà era stato lo
stesso Berardo a permettergli di prendere spunto dalle sue Considerazioni[228],
ed ancora una volta è Ferdinando a raccontare come in realtà si svolsero i
fatti in un suo scritto di tono scherzoso in cui immagina che i protagonisti
della vicenda siano chiamati a giudizio sul Parnaso, al cospetto di Apollo:
«(Il Marchese rispose) che il Zarrillo non era plagiario perché esso GALIANI
gli aveva accordato il permesso di soccorrere co’suoi concetti, ove ne
mancassero a lui, ma tanto dovea considerarsi come reo per non aver saputo
scrivere gli stessi concetti con altre parole e con lo stile proprio simile al
resto delle Giunte fatte [ ... ]. Ma che il Daniele non meritava alcuna scusa
per aver voluto uscire in campo ad offendere il Zarrillo in cosa che non meritava
tanta pena e per aver voluto pubblicare il segreto foglio di esso GALIANI e
senza carta di procura entrare ad accusare altri di plagio e a difendere le
pretese ragioni, abusando dell’amicizia accordatagli»[229].
La conseguenza di tutto questo complicato intreccio di citazioni, presunti
plagi e successivi chiarimenti, è che anche i più autorevoli studiosi sono
caduti in equivoco , come ad esempio Franco Strazzullo, il quale commenta le
parti del Giudizio scritte da Berardo
GALIANI come se fossero di Zarrillo[230];
o peggio come Pierluigi Panza, che addirittura confonde Berardo con Ferdinando
GALIANI, attribuendo a quest’ultimo e non all’eminente studioso d’architettura
le Considerazioni[231].
Roberto Pane invece, oltre a ravvisare giustamente in Berardo GALIANI l’autore
essenziale della replica a Winckelmann, ritiene che questa sia sostanzialmente
ingenua e inefficace[232],
confortato in questa opinione anche dal parere di Fausto Zevi[233];
ed in effetti Berardo, pur attribuendo ad ignobili pettegolezzi le accuse
avanzate dall’archeologo prussiano, non può fare a meno, per esempio, di
confermare l’inautenticità del cavallo esposto a Portici[234],
dovuta al fatto che questo era stato ricomposto impiegando i frammenti
eterogenei recuperati da quelli delle quattro statue equestri che componevano
l’antica quadriga bronzea[235]
essendo oramai impossibile ricostituire l’intero gruppo che un tempo ornava il
teatro di Ercolano. Per quanto riguardava poi lo scarso interesse per i
frammenti, GALIANI risponde affermando che sarebbe stato necessario sloggiare
il Re dalla reggia di Portici per conservalli tutti, ed ancora difendeva il
rozzo Alcubierre il quale da buon ingegnere militare avrebbe «ben disimpegnata
la sua incombenza», consistente essenzialmente in due compiti, ovvero quelli di
«diriggere uno scavo sotterraneo in modo, che non pericolasse, e di saper
prendere le piante degli Edificj, che vi s’incontrassero». «Come si vede
dunque, sono parole di Roberto Pane, gli argomenti addotti dall’erudito
Berardo, in difesa del patrio loco, non fanno che confermare, senza volerlo, il
severo giudizio pronunciato da Winckelmann[236],
ma bisogna considerare che risollevare le sorti degli antiquari partenopei
doveva essere un compito alquanto difficile per chiunque, ed allora Berardo
GALIANI non trovò niente di meglio che ricambiare le offese del suo avversario
definendolo ingiustamente «Goto divenuto antiquario a forza di pratica»[237]
alla stregua di un qualunque cicerone, ed aggiungendo più avanti che «i
Goti non gustano se non l’impossibile, o almeno il difficile; principio, come
abbiamo sperimentato, riuscito utile solamente per la perfezione della Chimica,
ed in qualche modo delle arti Meccaniche».
Si osservi che se l’epiteto «goto»
viene usato, come evidenzia Fausto Zevi, oltre che per disprezzo nazionale
anche in relazione al ‘Goticò, e cioè «lo stile in cui l’estetica del tempo
ravvisava l’anticlassico e la negazione del bon goût»[238],
nello stesso tempo dietro la generica definizione di «arti Meccaniche»
potrebbe celarsi anche l’apprezzamento di GALIANI[239]
per la cospicua competenza dei tedeschi sul comportamento strutturale degli
edifici che le cattedrali, col loro ardito slancio verticale, esprimevano in
modo inequivocabile e mirabile.
Berardo non rinunciò comunque a
prendersi una piccola rivincita nel campo che gli era più congeniale, vale a
dire nella filologia architettonica, ove non temeva affatto il confronto con
nessuno; l’archeologo prussiano infatti, aveva fatto una serie di errori nel
descrivere il teatro di Ercolano, e soprattutto preso un grosso abbaglio
confondendo i vomitoria, ossia gli
accessi alla cavea, con le scalette
che dipartendosi da tali uscite permettevano agli spettatori di raggiungere il
proprio posto sulle gradinate[240].
L’occasione era troppo ghiotta
perché Berardo GALIANI non ne approfittasse, e Winckelmann dovette ingoiare il
rospo condito con l’invito a leggere con attenzione Vitruvio nonché con la
sarcastica frase[241]:
«Come il Signor Abbate tanto dotto chiama VOMITORIA le scale ? Qui ci cape,
che ha a che fare la Luna cò granchi?»[242].
Ma a suscitare l’estrema indignazione nel napoletano è il fatto che Winckelmann
avesse anticipato al pubblico dei lettori molte notizie sugli scavi di Ercolano
senza curarsi del divieto impostogli dalle autorità, tradendo così la fiducia
del Re il quale, pur avendolo favorito rispetto a tanti altri, vedeva ora il
suo governo e il suo Paese oggetto delle ingiurie e delle offese da parte di
chi era stato accolto e trattato invece con estremo riguardo. Già in precedenza
si è accennato al fatto che il Sovrano avesse «voluto serbare a sé il
piacere di pubblicare colla maggior possibile esattezza, ed esame le scoverte
portentose fatte sotto il suo felice Regno», ma era pressoché impossibile
per le autorità intervenire fuori dai confini dello stato per impedire la
stampa delle varie pubblicazioni sull’argomento le quali, attingendo a fughe di
notizie e appunti di viaggio, si moltiplicavano facendo presa sul grande
desiderio di informazione da troppo tempo represso e frustrato dal sostanziale
silenzio delle fonti ufficiali, in quanto bisogna considerare che la stampa
delle Antichità Ercolanesi ebbe inizio solo molto tempo dopo l’avvio delle
ricerche archeologiche, proseguendo poi con estrema lentezza; di conseguenza al
Sovrano non restava altro che cercare di impedire la diffusione di quegli
scritti se non all’estero, almeno entro i confini del Regno, ove infatti
l’applicazione dei divieti era estremamente rigorosa.
Per i letterati napoletani al
danno del privilegio reale, che di fatto impediva la stampa di qualsiasi lavoro
sugli scavi[243]
si aggiungeva la beffa di vedere gli stranieri appropiarsi della prestigiosa
scoperta, e così, paradossalmente, proprio coloro che avrebbero dovuto
annunziare all’estero le grandi scoperte erano estremamente penalizzati,
estromessi dal dibattito internazionale se non addirittura, come da parte dello
stesso Winckelmann, tacciati di neghittosità. È per questo motivo che bisogna
riflettere con attenzione sull’impietoso giudizio di Anna Ottani Cavina la
quale nota in modo alquanto sprezzante che in quegli anni anche gli artisti
partenopei apparivano estremamente refrattari, indifferenti al fascino del
Sublime e dell’Antico, attribuendone la ragione alla «ottica differenziata
con cui l’immagine di una città agisce su uno straniero oppure su un nativo»[244];
infatti se per quanto riguarda le sollecitazioni dell’irrazionale, del
romantico «che il Vesuvio scatenato ed in fiamme proponeva alla sensibilità
dei nordici»[245]
non si può che rilevare una evidente impermeabilità della cultura figurativa
autoctona, diverso è il discorso nei confronti della fascinazione esercitata
dai luoghi fatidici dell’archeologia: in realtà gli artisti napoletani erano di
fatto tagliati fuori dalla ricaduta culturale di quel dibattito sull’Antico che
entusiasmava l’Europa, e che con notevole difficoltà, spesso solo grazie ai
personali rapporti epistolari[246]
un numero estremamente esiguo di letterati riusciva a condividere. E per capire
quanto fossero energici i provvedimenti adottati dagli amministratori per
impedire la partecipazione di cerchie culturali più vaste all’impresa
ercolanese, basta pensare al fatto che la misura introdotta per evitare il
trafugamento dei reperti fu, per un certo periodo, la insensata distruzione di
quanto non era considerato tanto appariscente da poter essere esposto nel museo
di Portici; ben presto però le proteste dell’intellettualità internazionale
costrinsero il ministro Tanucci[247]
a ritirare nel 1763 quella precedente disposizione, ed a proibire in modo
categorico ogni altra distruzione[248].
Nonostante ciò affermare[249]
che «Negli anni cruciali, a metà del Settecento, prevalgono a Napoli
autarchia e regressione»[250],
sembra eccessivo nei confronti di una nazione che, pur protestando per le fughe
di notizie, era stata sempre attenta ai segnali provenienti dall’esterno,
operando opportuni cambiamenti di rotta ogni volta che la cultura
internazionale[251]
puntava il dito accusatore contro gli errori compiuti nella gestione della
grandiosa impresa.
In questi casi alla protesta
ufficiosa, si veda il caso delle Considerazioni
galianee, non seguiva la ritorsione nei confronti della persona[252],
ma anzi si cercava di fare tesoro delle indicazioni allogene che spesso venivano
attuate, pur nei limiti delle costanti difficoltà economiche del Regno; il
risanamento delle pubbliche finanze infatti, che all’inizio aveva dato ottimi
risultati grazie al riscatto degli arrendamentì[253],
fu pregiudicato negli anni quaranta del secolo XVIII dallo scatenarsi di
un’epidemia di peste[254]
e soprattutto dal coinvolgimento nella guerra di successione austriaca , quasi
imposto dalle circostanze al fine di assicurare almeno il ducato di Parma e
Piacenza a Filippo V, fratello di Carlo[255].
Un’ultima riflessione va fatta, infine, per sottolineare il fatto che
l’atteggiamento della corte partenopea, gelosa di quell’immane raccolta di
antichità che si andava recuperando, ebbe un effetto estremamente positivo sul
complessivo patrimonio artistico del Regno impedendo la dispersione mediante un
severissimo controllo che non aveva pari in nessun altra nazione[256],
come fa notare Francis Haskell quando afferma che «i risultati di quegli
scavi[257]
furono tenacemente salvaguardati per il Regno di Napoli in un periodo in cui,
a Roma i papi combattevano una battaglia perduta contro il continuo saccheggio
da parte dei collezionisti locali e degli stranieri speculatori in antichità»[258].
In parole povere proprio la miopia di un’impresa condotta solamente nel segno
del prestigio del Sovrano, ha consentito paradossalmente di preservare i tesori
artistici partenopei da un altrove incontrollabile saccheggio; ed è forse
doveroso far notare che forse il reale beneficiario della grande impresa
archeologica doveva essere, almeno nelle intenzioni poi troppo spesso mal
realizzate del Re, la stessa Napoli, alla quale Carlo di Borbone non volle
sottrarre neanche una minima parte di quel patrimonio, lasciando nella città,
allorché ascese al trono di Spagna, tutti i tesori del suo primo Regno, dalla
stupenda Collezione Farnese all’anello che portava al dito.
La copertura del Teatro Olimpico: vicende storiche
Di quel meraviglioso organismo
architettonico quale è il Teatro Olimpico palladiano[259],
la copertura sovrastante e la cavea e la scena ha catalizzato, in varie
occasioni, l’attenzione di numerosi eruditi e studiosi d’architettura (nonché
gli stessi accademici vicentini) intorno a problematiche le quali, pur se
originate da esigenze di ordine pratico, necessariamente travalicavano in
considerazioni di natura teoretico-filologica, a causa della esplicita
citazione del teatro antico che emergeva dalla morfologia di quello splendido
edificio. Tali vicende affondavano le radici nella stessa sua redazione
originaria, lasciata incompiuta dal genio di Andrea Palladio, sviluppandosi nel
corso dei secoli successivi fino agli inizi di quello contemporaneo, allorché
la copertura assunse l’aspetto che ha conservato fino ai nostri giorni[260].
Infatti, benché sia stato possibile ricostruire le modifiche di cui quest’ultima
è stata oggetto nelle varie epoche[261],
è invece molto problematico cercare di recuperare l’originale idea palladiana,
se mai fu espressa, stante l’estrema reticenza delle fonti autografe che
mostrino, o lascino intendere, l’aspetto che avrebbe dovuto assumere l’aula[262]
nelle intenzioni del suo creatore. Allo stato attuale è noto un unico foglio,
custodito presso il Royal Institute of British Architects[263],
sul quale la mano di Andrea[264]
ha tracciato due proposte alternative per la morfologia della scaenae frons; purtroppo in questo
importante disegno è completamente assente qualsiasi indicazione inerente
proprio il modo di realizzare la copertura dell’invaso. Disperso, invece, è il
modello di tutto l’edificio, che Palladio stesso avrebbe realizzato intorno al
1580[265].
La prima fonte che ci dia l’immagine attendibile della copertura nella veste
originaria è l’incisione di Ottavio Revesi-Bruti[266]
datata 1620[267],
che, accompagnata da una pianta e da una lettera descrittiva sul Teatro,
costituirà un documento di fondamentale importanza nell’ambito del dibattito
settecentesco. In essa il soffitto che sovrasta la scena è compartito in sette
lacunari, la cui scansione rispecchia in alto il ritmo scandito frontalmente
della scaenae frons; i lacunari di
numero dispari sono poi ulteriormente suddivisi in tre spazi ciascuno, con la
sola esclusione di quello centrale , il quale, perché corrispondente
all’ampiezza della porta regia, presenta inscritto un cassettone ottagonale con
dipinti allegorici. Riguardo al soffitto della cavea, non visibile
nell’incisione, la decorazione consisteva in un grande affresco ad imitazione
del cielo, secondo quanto scritto dallo stesso Revesi-Bruti nell’ampia legenda
descrittiva allegatavi[268].
Tale soluzione voleva, probabilmente, essere un artificio adottato per superare
la profonda contraddizione venutasi a creare tra un impianto formale, quello
del teatro antico, destinato a rimanere scoperto e la sua traduzione moderna
(rinascimentale), che al contrario doveva essere, per pura necessità pratica,
non altro che uno spazio chiuso; in parole povere - afferma Roberto Pane - tale
contraddizione veniva aggirata alludendo «artisticamente» ad un ambiente non
coperto[269].
In sostanza la soffittatura realizzata negli ultimi anni del XVI secolo,
sanciva il principio di dissociazione tra i due spazi del palcoscenico e della
cavea, destinati l’uno alla rappresentazione, l’altro alla fruizione dello
spettacolo perseguita mediante la differenziazione figurativa dell’apparato
decorativo; dissociazione considerata da Lionello Puppi il punto di arrivo di
un atteggiamento impostato già da Vincenzo Scamozzi e Angelo Ingegneri, in
ossequio alle ragioni della pratica teatrale contemporanea, e palesato da
quella sorta di embrionale boccascena[270]
venutosi a formare per la giustapposizione delle due ali di muratura che
inquadrano le cosiddette “versure”, nonché della lunga trave composta
che divide in due settori distinti il cielo dell’aula teatrale. Il pavimento
del palcoscenico infine, rappresentato nella incisione a pendant del soffitto, suggella il presunto “tradimento” di
quella che doveva essere stata l’idea palladiana, maturata nel corso di
approfonditi studi e ricerche che spaziavano dal rilevamento archeologico alle
meditazioni sul testo vitruviano[271],
e che sarebbe dovuta essere volta «all’affermazione di una misura unitaria
di spazio, imperniata sul cardine del proscenio, la cui asserzione imperiosa
subordinava a sé cavea e prospettive in un contesto organico ove s’annullasse
la dissociazione figurativa [ ... ] tra l’ambito riservato agli spettatori e
quello affidato agli attori»[272],
esattamente il contrario, quindi, di quanto era stato poi effettivamente fatto.
Quando, nel 1764, Berardo GALIANI sarà chiamato a pronunciarsi proprio
sull’episodio della copertura, non potrà fare a meno di notare e sottolineare
le molte licenze prese nei confronti della vera struttura del «teatro antico»,
e le attribuirà a Palladio stesso, ritenendo poco probabile l’ipotesi che i
suoi continuatori ne avessero potuto alterare il disegno senza incontrare la
forte opposizione degli Accademici, o comunque senza che tale (a suo credere)
inevitabile opposizione fosse segnalata nelle cronache dell’epoca[273].
Ma già molto tempo prima della querelle settecentesca nella quale fu coinvolto
Berardo GALIANI, la copertura richiamò l’attenzione dei vicentini a causa di
non lievi problemi concernenti in primo luogo la sua sicurezza statica, infatti
non era trascorso neanche mezzo secolo dalla sua realizzazione, che le precarie
condizioni in cui versava resero improrogabile un intervento anche sul suo
apparato decorativo. Come quest’ultimo sia stato affrontato, e con quale
incisività, non ci è dato sapere, ma è certo che quando i lavori furono
terminati [274]
l’impostazione bipartita della decorazione del soffitto non risultò affatto
alterata[275].
La disputa settecentesca
Il cassettonato alla ducale
ed il cielo stellato[276]
furono rimossi e liquidati nell’ambito dei frettolosi lavori condotti negli
anni trenta del XVII secolo sulla carpenteria della copertura. Questo nuovo e
drastico intervento si rese necessario per far fronte al processo di grave
decadenza che aveva interessato il prestigioso Teatro, e che pur se dovuto
principalmente alla deteriorabilità dei materiali impiegati in precedenza, era
stato ulteriormente aggravato anche dal quasi totale abbandono dell’aula per
decenni. Di fatto solo in occasione di qualche ricevimento e delle rare
adunanze accademiche ne veniva eseguita una sommaria manutenzione o la semplice
pulizzia, cosicché il 14 marzo 1733 gli Accademici non poterono che constatare
«l’estraordinaria premura di riparare questo teatro il cui tetto minaccia
imminente rovina, come dalla perizia di Gaetano Farina perito»[277].
Nell’ambito della nuova fase di restauri fu posto in opera un tavolato che
ricoprì uniformemente l’intero invaso dell’Olimpico, e la nuova decorazione[278],
pur mantenendo la differenzazione tra i due settori dell’aula, fece della
grossolanità il corrispettivo della fretta con cui fu realizzata. In
particolare, il settore rettangolare del soffitto soprastante la scena fu
impropriamente tripartito, con lo sgradevole risultato che le sue suddivisioni
battevano in falso rispetto alla scansione della scaenae frons[279];
mentre invece, riguardo alla decorazione del cielo della cavea, i documenti
parlano di una tela «malamente dipinta», senza specificarne il soggetto, fosse
stato un cielo o l’antico aere pinto[280].
Ben presto, però, gli Accademici dovettero accorgersi che l’esito di questi
ultimi lavori, oltre che figurativamente sgrammaticato, era carente anche dal
punto di vista statico[281],
cosicché deliberarono (nell’adunanza dei giorno 23 aprile 1755) che insieme
all’ennesimo consolidamento, si procedesse anche a ripristinare quell’apparato
demolito nel 1734 e che essi ritenevano rispecchiare il pensiero dello stesso
Palladio[282].
È a quest’epoca, quindi, che risale la presa di coscienza critica del problema
della copertura[283],
nell’ambito della quale si sviluppano quei due partiti contrapposti, che Franco
Barbieri chiama degli «unionisti» e dei «divisionisti», incarnati
rispettivamente dalle persone di Ottone Calderari ed Enea Arnaldi[284].
Tali felici denominazioni palesano l’argomento concreto della disputa,
incentrata sulla opportunità, o meno, di adottare nuovamente la soluzione
rappresentata nella incisione del Revesi-Bruti, e caratterizzata dalla
bipartizione del soffitto, già descritta in precedenza. Contro la deliberazione
dell’aprile 1755 [285]
si era infatti levata la voce di Ottone Calderari, secondo il quale la
copertura raffigurata nella stampa seicentesca non rispecchiava affatto la
soluzione realmente immaginata da Andrea Palladio, ma costituiva, invece,
un’interpolazione del suo progetto operata dai continuatori in sede esecutiva e
al di là di qualsiasi possibilità di controllo da parte del defunto artefice. Quella
stessa immagine, quindi, che i seguaci del partito “divisionista”[286]consideravano
una documentazione inoppugnabile, diventava per i loro antagonisti la prova
manifesta di un tradimento; allo stesso modo, le teorie di Vitruvio e le altre
argomentazioni degli uni risultavano con abilissima dialettica, ribaltati fino
a confortare l’assunto degli altri[287].
Calderari insisteva sulla presunta volontà del glorioso architetto padovano di
far rivivere nell’Olimpico la struttura del teatro antico, e concludeva il suo Discorso proponendo l’uso di «una
vela, o tenda che ugualmente cuopra tutto il Teatro, fatta a similitudine di
quella che adoperavano gli Antichi ne’loro teatri (...). Questa vela,
perfettamente stesa, si potrebbe attaccare al mal commesso tavolato esistente,
facendola dipingere da buon pittore, adornandola con stelle d’oro»[288].
In sostanza egli voleva ricreare almeno la suggestione di quel «velario», che
veniva anticamente disteso per preservare gli spettatori dalle intemperie
atmosferiche, sebbene fosse disposto (in ultima istanza) ad accettare un
soffitto cassettonato «alla ducale» su tutta l’aula, purché non venisse a
mancare quella «uniformità» ritenuta condizione essenziale ed irrinunciabile[289].I
due antagonisti espressero i loro convincimenti davanti all’adunanza plenaria
degli Olimpici, ed alla presenza dei più colti cittadini di Vicenza[290],
ma, effettuata la votazione, il partito di Enea Amaldi, pur essendo
maggioritario, non raggiunse i due terzi dei suffraggi necessari per dar corso
alla proposta[291],
cosicché Calderari riuscì ad ottenere che la decisione finale avesse luogo dopo
la valutazione dei pareri espressi da altri «intendenti d’architettura»,
chiamati a giudizio da tutta la penisola col fine di stemperare la fazziosità
della polemica ed assicurare una reale imparzialità di giudizio
Il.«Parere» galianeo
In seguito a questa seconda
risoluzione presa dagli accademici olimpici, la contoversia sul modo di
realizzare il nuovo soffitto del teatro palladiano si allargava agli studiosi
non vicentini, e sia Ottone Calderari che Enea Arnaldi (impegnati sui due
fronti della disputa) si mossero alla ricerca di autorevoli alleanze su tutto
il territorio italiano[292].
A favore del primo si schierarono Tommaso Temanza, Francesco Algarotti, ed il
Conte Girolamo Dal Pozzo. Il secondo, invece, godeva dell’appoggio di un
«dilettante d’architettura», il casalese Francesco Ottavio Magnocavalli, Conte
di Varengo, ma la loro amicizia era troppo nota perché quest’ultimo potesse
dare ufficialmente il suo parere sulla questione, senza essere tacciato di
parzialità[293].
Ciò non impedì ad Enea di chiedere consiglio all’amico affinché gli suggerisse
i nomi di alcuni eruditi che avessero potuto appoggiare la sua causa,
allineandosi sulle posizioni divisioniste e suffragandole con solide argomentazioni
teoretico-filologiche[294]
(cosa, quest’ultima, non certo alla portata di tutti gli architetti o esperti
in materia, per quanto di chiara fama). Di qui il coinvolgimento di Berardo
GALIANI, che Magnocavalli segnalò al vicentino insieme ad un non meglio
precisato Bartoli[295],
all’Accademia di Parigi, ed in seguito, a Giovan Battista Borra. Berardo
GALIANI appoggiò con convinzione le tesi di Arnaldi, costringendo quest’ultimo
a ricredersi sulla iniziale diffidenza nei suoi confronti dovuta al timore che
Calderari, in occasione di un suo recente viaggio a Napoli, lo avesse persuaso
delle proprie idee[296]
A parere di Giulio Ieni dal
carteggio Arnaldi-Magnocavalli (1750-70) emerge il singolare ruolo assunto da
quest’ultimo nell’ombra, rispetto ad un Arnaldi protagonista in prima persona:
una sorta di eminenza grigia, quindi che diede un forte contributo teorico
nell’ambito della polemica. Infatti, le stesse posizioni che Berardo espresse
nel Parere mostrano una sostanziale
convergenza, se non coincidenza, con quelle del nobile casalese[297],
che gli erano note tramite una pubblicazione ove Arnaldi riaffermava le sue
concezioni «divisioniste»[298].
Questo inedito Parere galianeo era noto fino ad oggi solo grazie a due
manoscritti, il primo dei quali, conservato presso la Biblioteca del Museo
Civico di Padova[299],
è una copia ottocentesca[300]
dell’altro che invece risale al settecento; quest’ultimo fa parte di una
raccolta di documenti sul Teatro Olimpico custodito nella stessa città di
Vicenza presso la Biblioteca Civica Bertoliana[301].
Alcuni studiosi ritengono che anche il manoscritto vicentino sia solo una
trascrizione dell’originale che Berardo GALIANI inviò all’Accademia Olimpica
nel 1764[302]
: per tale motivo assume un certo interesse il rinvenimento dell’autografo
galianeo presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Esso
fa parte di un volume rilegato di carte manoscritte della famiglia GALIANI[303]
ed è articolato in tre capitoli preceduti da una breve introduzione. Il
manoscritto napoletano, però, è mancante della tavola allegata[304]
e che rappresenta le triangolazioni vitruviane applicate alla pianta del Teatro
Olimpico[305];
dei due disegni, quello accluso al testo conservato a Vicenza, è stato
pubblicato di recente, e segnalato come autografo[306]Nella
descrizione di questo studio planimetrico[307]
Berardo GALIANI sottolinea la sostanziale corrispondenza formale fra l’aula
palladiana e il teatro romano così come viene raffigurato nella edizione del De Architectura di Daniele Barbaro[308],
con la sola differenza che a Vicenza la cavea presenta la pianta di forma
ellittica invece che semicircolare. Egli, infatti, ben sapeva della stretta
collaborazione fra Barbaro e Palladio che era stata alla base di quella
pubblicazione, sì da ritenere che la tavola presa come termine di paragone
fosse estremamente prossima all’idea che Andrea si era fatto del «teatro
antico», in seguito agli approfonditi studi vitruviani e agli attenti rilievi
antiquari[309].
Ma per un purista del proporzionamento e della «regola vitruviana», quale era
Berardo, impregnato di quella cultura razionalista che fin dall’infanzia aveva
recepito nella prestigiosa dimora dello zio Monsignore, non poteva passare
inosservato il fatto che i quattro triangoli equilateri da lui stesso
tratteggiati sulla pianta del teatro vicentino non ne informassero tutte le
parti nei modi e nelle forme istituite dal De
Architectura. In particolare, gli sembrava scorretto che «la base del
triangolo equilatero cadesse [ ... ] non avanti il fronte della scena [bensì
dietro; e che] le due porte laterali non vengano equalmente divise da’lati
de’due altri triangoli»[310].
Tali differenze rispetto al teatro di Vitruvio, risultano evidenti mettendo a
confronto il disegno padovano con la tavola XVI[311]
della sua edizione del De Architectura;
in essa il lato perpendicolare al proscenio di due dei triangoli che
definiscono la pianta suddivide la porta minore in parti eguali, mentre la base
del triangolo fondamentale cade lungo quel lato della scaenae frons che è rivolto verso la cavea. Alcuni anni dopo anche
Ottavio Bertotti Scamozzi(1719-1790)[312]
applicò lo schema delle triangolazioni vitruviane alla pianta dell’Olimpico, ed
il suo disegno conferma quanto rilevato da Berardo. Berardo GALIANI, però,
riteneva molto improbabile che tali inesattezze fossero da imputarsi a
Palladio, aggiungendo di nutrire forti dubbi sull’esattezza del rilievo
contenuto nel volume del conte Giovanni Montenari[313]
sul quale aveva basato il suo studio pianimetrico, e che gli era stato inviato[314]
da Vicenza affinché avesse a disposizione tutti gli elementi necessari per
produrre il suo Parere con cognizione
di causa. GALIANI diffidava apertamente della precisione con cui era stata
misurata e disegnata la fabbrica palladiana, in quanto la pianta pubblicata da
Montenari si discostava in molti punti da quella contenuta nell’opera di
Giorgio Fossati[315],
che gli era nota e che probabilmente faceva parte della sua biblioteca[316];
tantopiù che in precedenza il napoletano aveva già avuto modo di criticare
Montenari per il fatto che nel suo scritto accennava appena al fatto che il
teatro vicentino fosse stato ideato secondo «il gusto antico», aggiungendo
inoltre di non saperne il modo[317].
Gli fece eco ancora Bertozzi-Scamozzi, secondo il quale il dotto aristocratico
«non fece né meno il più piccolo passo per rintracciare per quali strade, e
con qual filo il nostro Architetto [Palladio] sia giunto a sistemare con tanta
proprietà, e riuscita il suo lavoro»[318].
In sostanza Berardo percepiva lo stridente contrasto fra il poderoso
svilupparsi della disputa teorica a fronte di una conoscenza non abbastanza
approfondita dell’oggetto stesso della polemica, il Teatro Olimpico, coi
rischio nient’affatto remoto di scivolare sui binari di una pedantesca e
sterile contesa accademica, nella quale il problema reale sembrava passare in
secondo piano rispetto alla contrapposizione fra le due fazioni. È anche per
questo motivo che egli invita la «cospicua Accademia a darne un disegno esatto e ragionato»[319],
vale a dire elaborato soprattutto sulla scorta dei dati oggettivi della
fabbrica esistente, ed alla luce degli insegnamenti vitruviani confrontati con
gli esempi ancora parzialmente conservati; in ultima istanza anche nel rilievo
era necessario, a suo credere, ripercorrere mentalmente quell’iter che era
stato alla base della maturazione di Palladio stesso, e che quindi ne aveva
guidato il progetto per l’Olimpico. L’erudizione di Montenari subisce una
ulteriore critica da parte di Berardo GALIANI, in merito alla corretta
interpretazione del significato del Podium
della scena; le sue parole a tal riguardo sono più chiare di ogni altra
spiegazione: «Questo [il Podium] da quanto ho detto nelle mie note al Cap. 7
del Lib. V di Vitruvio, parmi che chiaramente conoscasi non essere altro chè’l
piedistallo del primo ordine di essa Scena, e credasi pure un equivoco del
Montenari il prendere il Podium di cui parla Vitruvio per quell’ordine Attico
che il Palladio volle mettere sopra i due ordini della Scena. Questo attico
corrisponde benissimo al terzo ordine che costumavasi, e Vitruvio lo chiama “tertia
episcenos”»[320].
Quest’ultimo fendente, a credere di Tommaso Carrafiello, non arrivò mai a
ferire l’orgoglio degli Accademici, in quanto, con molta probabilità, il brano
citato[321]
fu eliminato dalla versione finale del Parere
spedita a Vicenza per il fatto che esso non figura nel manoscritto conservato a
Padova, copia ottocentesca dell’esemplare vicentino. Al di là delle polemiche
comunque, il pensiero di Berardo GALIANI sulla questione della copertura, è
riassumibile in poche righe: egli, pur essendo convinto che nell’antichità la
scena fosse coperta, ritiene che Palladio per l’Olimpico avesse di sicuro
previsto il contrario, per il fatto che la sua interpretazione dello spazio
scenico allude alla sala di una casa, e non ad una piazza o ad una strada
secondo quanto invece il napoletano credeva fosse stata la vera indicazione
data da Vitruvio. Nello stesso tempo Berardo congetturava che l’architetto
rinascimentale era giunto a questa soluzione «sia perché così credesse, che
avessero fatto gli Antichi, sia perché, e con troppo onesta licenza prevedesse
dovere in tale forma essere di maggiore uso per le opere, che si meditavano di
rappresentarvici»[322],
vale a dire le Tragedie.
Il nocciolo della questione era,
quindi, la diversa interpretazione dell’ambiente rappresentato con lo spazio
scenico; tutto il primo capitolo del Parere,
infatti, è dedicato alla dimostrazione che nell’Antichità esso rappresentasse
una strada, una piazza, comunque uno spazio all’aperto, al quale non competeva
certamente una copertura stabile. La ragione fondamentale adottata da GALIANI a
prova di ciò è il fatto che gli accessi ricavati nelle «versure» mettevano la Scena simbolicamente in comunicazione l’uno
con il «foro», l’altro con la «campagna», rappresentavano, cioè, gli
sbocchi su una piazza di due strade. In questo lungo capitolo[323]
Berardo GALIANI smentisce una ad una tutte le motivazioni secondo le quali la
scena anticamente sarebbe stata coperta, interpretando a suo vantaggio anche
quei testi di autori latini[324]
che entrambe le fazioni avevano citato per sostenere le proprie diverse tesi.
La innegabile competenza di
Berardo GALIANI riguardo al teatro dell’antichità, era confortata anche dalla
conoscenza diretta che egli aveva del Teatro di Ercolano e dall’avere in suo
possesso il rilievo eseguito dall’architetto Karl Weber[325]
che costituì la guida sua e dell’abate Winckelmann fra i cunicoli degli scavi,
ancora sotterranei, di quell’edificio altrimenti impossibile da visitare[326].
Come visto in precedenza, i
disegni del Teatro erano stati consegnati a Berardo affinché desse il suo
parere sulla possibilità della loro pubblicazione[327],
ed egli, pur elogiando il lavoro dello svizzero, propose di compiere alcuni
saggi, per accertare la morfologia di certe parti che non risultavano ben
definite nel rilievo dello svizzero; uno di questi piccoli scavi doveva servire
proprio a fare luce sul tormentoso dubbio della copertura della scena[328].
I lavori furono eseguiti nei mesi di maggio e giugno 1765, ma con disappunto di
Berardo, non poterono fornire alcun elemento di chiarimento in merito alla
questione in oggetto, in quanto la parte alta delle versurae e della scaenae
frons risultò interamente perduta. La via della osservazione archeologica
era, però, giusta, ed infatti oggi la conservazione e la conoscenza dei teatri
Orange e di Aspendos ha offerto indicazioni sufficienti per poter concludere
senza ombra di dubbio che effettivamente sulle versurae e sulla scaenae
frons poggiava una copertura stabile, ma purtroppo nel Settecento i
protagonisti del dibattito vicentino non potevano contare su queste
acquisizioni, cosicché la conclusione di GALIANI fu che «nel dubbio se il
Pulpito antico fosse coperto, o no ha molto maggior partito il no»[329].
Alla fine dell’ultimo capitolo del Parere
viene anche fatto un breve accenno a questi studi che egli stava portando
avanti riguardo la vera struttura del teatro antico, e che probabilmente si
apprestava a pubblicare[330].
Affrontata e risolta, per quanto possibile, la questione nel caso del teatro
romano, nel secondo capitolo Berardo GALIANI passa a trattare dell’Olimpico,
segnalando tutti quegli elementi formali che, a suo credere, confortavano
l’ipotesi che lo stesso Palladio avesse pensato ad una sala nel progettarne la
scena, e che quindi l’idea originale non fosse stata alterata dai continuatori[331].
Come si può ancora oggi ossevare, infatti, le strade che giungono alle versure (che GALIANI ricorda essere
chiamate da Vitruvio: «itinera versurarum»,
e non «valvas»)[332]
sono ridotte, nella fabbrica vicentina, a piccole porte; da esse, e dalle altre
tre porte della frons scaenae, si
scorge la fuga prospettica di un totale di sette strade[333],
le quali sono quindi da considerarsi ‘fuori’ rispetto al ‘dentro’ rappresentato
dallo spazio dalla scena[334].
Allo stesso modo è evidente che le statue alla sommità della scaenae frons non hanno la funzione di
acroteri[335],
ma sono addossate ad un terzo «ordine Attico, [che] mostra a sufficienza di
voler essere un appoggio d’una copertura»[336].
Nel breve capitolo conclusivo poi Berardo esprime in modo conciso la sua posizione
in merito alla dibattuta polemica del soffitto: in primo luogo invita gli
Accademici a lasciare da parte le ricerche e le discussioni volte a determinare
la reale morfologia del teatro antico, ed, in seconda battuta, propone di
ridare dignità all”aula, recuperando il progetto originale di Palladio. E
poiché anche a quell’epoca non si avevano notizie certe sulle intenzioni
dell’architetto padovano, Berardo GALIANI suggerisce di rifare la copertura
così come era stata rappresentata nell’incisione seicentesca di Ottavio
Revesi-Bruti. Berardo appoggiava questa soluzione avendo osservato che già nel
1591, a pochi anni dalla morte di Andrea, nelle cronache contemporanee era
stata dichiarata l’intenzione di realizzare sulla scena, un soffitto «alla
ducale»[337],
senza che nessuna voce si fosse levata contro tale proposito, per il fatto che
«non vi fosse eseguita la mente del Palladio»[338].
I recenti studi di Licisco Magagnato tendono a dimostrare come il cassettonato
sopra la scena sia un elemento da attribuire proprio ad Andrea Palladio, e che
la sua presenza fosse prevista fin dall’epoca in cui l’architetto padovano
presentò all’Accademia Olimpica il modello del teatro che si proponeva di
realizzare[339].
Magagnato è giunto a tali
conclusioni mettendo a confronto l’analisi del disegno palladiano RIBA X (fol.3
) con l’osservazione delle strutture di fondazione sotto il palcoscenico
dell’Olimpico: l’autografo londinese rappresenta una possibile ricostruzione
del Teatro di Pola, ove la particolare tipologia delle versure e l’esistenza di colonne
nei quattro angoli del palcoscenico, contribuiscono a far luce sul perché
Palladio, nel gettare le fondamenta dell’Olimpico, si fosse preoccupato di
rinforzare i punti angolari del palcoscenico; a suo credere, infatti, tali
precauzioni si resero necessarie in vista dell’intenzione di appoggiare sulle
colonne versurali una copertura
lignea, che doveva quindi essere molto simile a quella rappresentata nella
incisione del 1620. Non sarebbe allora un caso il fatto che la lunga trave composta
che divide la soffiatura in due settori ben distinti rispecchi il alto il
tracciato delle fondamenta, queste ultime sicuramente realizzate all’epoca in
cui Andrea era ancora vivo[340].
Alla luce di questi ultimi studi, allora, si può considerare superata l’ipotesi
di «tradimento dell’idea palladiana» a cui si è fatto riferimento in
precedenza, in quanto sarebbe stato lo stesso Palladio ad adeguare le strutture
del teatro antico ad un ambiente chiuso, destinato a rappresentazioni di tipo
moderno [341]
senza però che ne risultasse pregiudicata la sintesi unitaria. Tale forza
unificante non andrebbe ricercata, dunque, nell’osmosi figurativa tra gli spazi
della cavea e della scena, bensì nel richiamarsi alla «norma
proporzionale ed armonica dei principi rinascimentali prediletti dal Palladio»,
nonché nel ricorso allo schema geometrico vitruviano che [342]
mostra di adattarsi in modo soddisfacente al rilievo del Teatro Olimpico che è
stato eseguito in occasione dei recenti restauri[343],
il sospetto di Berardo GALIANI riguardo la precisione della pianta pubblicata
da Montenari, aveva dunque, un qualche fondamento. Vengono così a cadere in
primo luogo l’ipotesi che l’Olimpico sia frutto della sedimentazione di
elementi anacronisticamente combinati, per volere di vari (irrispettosi)
continuatori e, in secondo luogo, l’eventualità che quell’edificio sia stato
concepito come una pedante quanto inutile imitazione pedissequa di un simile
edificio antico[344].
L’originalità della posizione galianea risiede, quindi, proprio nell’aver
intuito già ai suoi tempi l’infondatezza di entrambe queste supposizioni, e
nell’avere rivendicato l’originalità di concezione del Teatro Olimpico
nell’ambito delle regole classiche; una intuizione estremamente precoce,
confermata solo in tempi molto recenti dalle conclusioni di Magagnato. Non a
caso, infatti, la fabbrica palladiana è considerata da Berardo GALIANI degna di
essere studiata alla stregua dei monumenti dell’antica Roma, così come gli
scultori studiano con eguale interesse sia le statue greche e romane, sia
quelle di Michelangelo[345].
La soluzione definitiva
L’erudita tenzone a colpi di autorevoli pareri, si
trascinò fino al 1765 circa, senza peraltro portare a risultati concreti a
breve termine, anche per il fatto che la grossa responsabilità della quale si
vedeva investita l’Accademia Olimpica ebbe come risultato la sospensione del
giudizio ed un sostanziale immobilismo, se si escludono i piccoli, ma costanti
interventi di manutenzione eseguiti premurosamente sotto la direzione di
Ottavio Bertotti Scamozzi, fino a quando[346]
il Teatro Olimpico fu ceduto alla rappresentanza municipale vicentina, e con
esso tutto il peso delle relative responsabilità. Il passaggio di consegne al
soggetto pubblico contribuì a risolvere[347]
i problemi principalmente economici che ostacolavano il rifacimento della
mirabile fabbrica e la nuova decorazione del soffitto fu portata a termine solo
nel 1829, nell’ambito di grandi restauri generali[348].
La soluzione adottata in quella circostanza decretava di fatto la (temporanea)
vittoria postuma di Ottone Calderari per il fatto che grazie all’influenza
dell’architetto municipale Bartolomeo Malacarne[349]
su tutto lo spazio sovrastante la cavea, orchestra e scena era stata affrescata
l’immagine di un velario con le relative funi di sostegno, le quali si
dipartivano a raggiera da una colossale corona centrale ellittica. Nel 1866
poi, in occasione della visita del re Vittorio Emanuele alla città di Vicenza,
l’affresco fu sostituito da un velario più realistico sospendendo al soffitto una
vera tela dipinta. Ma per quelli che, come GALIANI, avevano sostenuto la
posizione di Enea Arnaldi[350],
non era detta l’ultima parola, poiché ben presto questo velario fu ridotto «ad
un immane ed indecente straccio», e si dovette correre ai ripari. Riemersa
per l’ennesima volta la questione della copertura, si diede credito stavolta
alla nota stampa di Bruti Revesi[351]
e il cassettonato alla «ducale», nonché il «il finto aere»,
ricomparivano ove erano stati sino dall’origine per rimanervi fino ad oggi e
speriamo per molto tempo ancora.
Il restauro della ‘Trinità Maggiore’: le due cupole
Il viaggiatore che giunga per la
prima volta nella città di Napoli, non può che restare sorpreso ed affascinato
dalla inusuale facciata della chiesa del Gesù Nuovo[352],
il cui severo aspetto, sebbene contraddetto dai portali barocchi, rimanda, più
che all’ immagine di un edificio religioso, a quella di un arcigno palazzo, se
non addirittura di una prigione come ebbe a dire Francesco Milizia[353].
Nella piazza antistante la guglia dell’Immacolata (1747‑51) svetta verso il
cielo e, poco più avanti, la gialla massa tufacea della chiesa di Santa Chiara,
con il meraviglioso chiostro maiolicato, completa questo straordinario
concentrato d’arte, sito alle porte del cuore pulsante della città vecchia.
Eppure, quando per la prima volta l’autore di questa opera ebbe l’opportunità
di visitare la metropoli partenopea, la sua fantasia infantile fu fortemente
colpita proprio dalle ombre che le luci della notte, ormai sopraggiunta,
disegnavano sulle bugne di piperno[354]
lavorate a punta di diamante di quella facciata[355],
la cui mole catafratta costituisce il ricordo più vivo di quella breve
giornata. L’insolita facciata del Gesù Nuovo è quanto resta dell’antico Palazzo
Sanseverino, maestosa residenza del Principe di Salerno costruita nel 1470 su
disegno di Novello da Sanlucano[356],
e trasformato sul finire del XVI secolo in una chiesa a pianta centrale da
padre Giuseppe Valeriano(1542-96)[357],
il quale ne riutilizzò il fronte e le due mura laterali il progetto era stato
approntato fin dal 1584[358],
ma alla data della consacrazione (7 ottobre 1601), l’edificio mancava ancora
dell’episodio conclusivo costituito da una grande cupola centrale che fu
iniziata solo nel 1629; il risultato dovette essere veramente maestoso, se si
pensa che essa era inferiore in altezza solo a quelle di San Pietro e di Santa
Maria del Fiore[359],
mentre ad esaltarne la sontuosità contribuivano gli affreschi di Giovanni
Lanfranco[360],
allievo e collaboratore dei Carracci, il quale terminò il suo lavoro nel 1636[361].
La struttura a doppia calotta della fabbrica consentiva di ascendere fino al
cupolino, sorretto da otto colonne di piperno dolce ed adorno di vasi e
balaustri. Fu proprio una di queste colonne che, secondo le cronache
contemporanee, causò il crollo dell’intera struttura[362],
in seguito al terremoto del 1688; il sostegno lapideo infatti, essendosi
incrinato, era stato rifatto in muratura ma, racconta Carlo Celano, «mentre
il cupolino stava con la cupola ballando, venne meno [ ... ]; onde
[la cupola] mancandogli un piede cadde, e le altre colonne e pezzi
precipitando per l’altezza con violenza servirono di catapulte dove arrivavano.
Si rovesciò dalla parte di ponente; ed avendo fracassata una gran parte della
cupola, arrivarono sulla volta del cappellone di Santo Ignazio, che faceva
croce[363], e
la fecero andar tutta giù[364]».
I danni maggiori, quindi, furono il crollo della volta di un cappellone
laterale[365],
e quello della grande cupola centrale, che lasciò intatti solo i quattro
pennacchi sui quali il Lanfranco aveva raffigurato gli Evangelisti: Dopo solo
sei mesi, però, i padri Gesuiti potevano lasciare la vicina chiesa di Santa
Chiara[366]
e tornare nella propria, riparata velocemente e messa in condizione di poter
accogliere i fedeli. La volta del cappellone era stata completamente
ricostruita, mentre invece su l’ampio spazio della crociera, in luogo della
cupola, era stato realizzato un temporaneo tetto a padiglione rivestito con
lastre di piombo, e poggiante sul tamburo, quest’ultimo ricostruito in modo da
ricalcare fedelmente quello esistente prima del terremoto[367].
La nuova cupola, opera di Arcangelo Guglielminelli, fu iniziata solamente nel
1692 ed affrescata nel 1717 da Paolo De Matteis(1662-1728)[368];
a differenza di quella originaria, della quale non si hanno che descrizioni,
essa fu realizzata a calotta unica anziché doppia[369],
e con il cupolino sorretto da pilastri invece che colonne[370].
Nuovi timori e proposte d’intervento
Con l’espulsione dei Gesuiti dal
Regno delle Due Sicilie, la chiesa assunse il nome di Trinità Maggiore (1768),
ma già in precedenza (quello stesso anno) i vecchi abitatori avevano cominciato
a preoccuparsi per lo stato di salute dell’edificio; di questi timori ci dà
notizia proprio Berardo GALIANI nei brevi cenni storici che aprono il suo Parere, aggiungendo che gli esperti
interpellati dai Gesuiti avevano osservato delle preoccupanti lesioni; e «vi
conficcarono due codi di rondine di Marmo per farsi certi di altri nuovi
movimenti»[371].
Gli eventi che seguirono distolsero l’attenzione dei padri da quel probblema, e
nulla fu fatto finché nel 1769 l’architetto Ferdinando Fuga ricevette l’ordine
reale di verificare lo stato della chiesa, ed eventualmente proporre gli
adeguati rimedi[372].
Dal suo resoconto al ministro marchese Tanucci[373]
si arguisce che i danni riguardavano principalmente il pilastro della crociera
detto di San Luca, ed i due archi che scaricano su di esso; le lesioni erano
talmente estese da rendere sconsigliabile l’intervento diretto, ossia il
rifacimento integrale del pilone previo puntellamento delle parti da esso
sostenute, un’operazione che Fuga definiva «azzardosissima». In alternativa a
ciò egli proponeva di realizzare dei contropilastri e sottarchi per sostenere
le strutture murarie lesionate, estendendo poi l’intervento a tutta la chiesa
per evidenti ragioni di estetica e simmetria[374].
La variazione geometrica[375]
della sezione, che aumentava la superficie resistente a compressione,
permetteva il contenimento della funicolare dei carichi entro il nuovo, e più
ampio spessore della fabbrica, secondo una tecnica di consolidamento molto nota[376]ed
ampiamente usata in epoca barocca, allorché, le esili colonne delle antiche
basiliche paleocristiane furono o fagocitate dalla muratura dei nuovi pilastri,
oppure inserite nell’ambito di una diversa articolazione del gruppo sintattico
colonna-pilastro-setto murario. Ma oltre alla compromissione stilistica che una
tale operazione avrebbe generato, e malgrado il vantaggio di un rafforzamento
dell’intero edificio, il progetto di Ferdinando Fuga peccava di alcuni notevoli
difetti: in primo luogo una eccessiva spesa per fondare, murare, decorare ed
incrostare di marmi corpi di fabbrica che non erano, per la maggior parte,
indispensabili alle esigenze statiche della fabbrica; questi ultimi inoltre
avrebbero ridotto la luminosità di un ambiente già di per sé oscuro; ed infine,
cosa che doveva essere particoarmente sgradita a Berardo GALIANI, la modifica
degli spessori di quei piedritti avrebbe compromesso inevitabilmente (quanto
inutilmente) quell’aulico proporzionamento che era alla base di tutte le
dimensioni della chiesa[377].
Fuga concludeva supplicando il Re (che non lo esaudì) di essere esentato
dall’incarico di occuparsi di quel restauro, suggerendo di affidarlo al regio
ingegnere Pasquale Monzo, il quale a suo dire già si occupava degli altri
edifici confiscati ai Gesuiti; si ha quasi la sensazione che egli, occupato in
altri compiti forse più prestigiosi e gratificanti (si ricordi il colossale
albergo dei Poveri, concepito per accogliere tutti gli indigenti del Regno, o
gli edifici per la manifattura delle porcellane, ed ancora gli immensi Granili)
avesse maturato frettolosamente questa drastica (anche se staticamente sicura)
soluzione senza curarsi eccessivamente del suo notevole impatto formale, quasi
a volersi liberare da una fastidiosa incombenza. E che l’architetto fiorentino
fosse interessato poco o niente a quel lavoro lo dimostra il fatto che aveva
effettuato il sopralluogo solo dopo le forti pressioni della Giunta di Economia[378],
la quale si era vista costretta a richiedere un espresso comando da parte di
Sua Maestà per costringere il riluttante artista ad occuparsi di quella
questione[379].
Ma, come era facilmente prevedibile, i Francescani della Trinità Maggiore[380]
non gradirono quel progetto che, con i soprarchi e contropilastri, avrebbe
inevitabilmente alterato la bella struttura del loro tempio, cosicché chiesero
ed ottennero che fosse costituita una apposita commissione di esperti, della
quale fecero parte Giuseppe Astarita, Mario Gioffredo, Giuseppe Pollio e
Pasquale Monzo. Ferdinando Fuga, posto a capo di quella giunta, volle che ai
nominati fossero aggiunti Felice Bottiglieri ed il marchese Berardo GALIANI[381].
Dopo un anno e mezzo di lavori, sondaggi e consultazioni reciproche, gli
esperti produssero una relazione [382]
favorevole all’attuazione del progetto proposto da Fuga, con la sola
opposizione di Gioffredo, secondo il quale era verosimilmente praticabile la
via del rifacimento integrale del solo pilastro incrinato che sosteneva la
cupola, ed i lavori erano appena iniziati, quando un giovane ingegnere,
Vincenzo Lamberti, chiese di essere ascoltato (come poi avvenne) ritenendo che
fossero altre le cause del dissesto, e di conseguenza diversi gli interventi da
porre in opera. Nel conseguente parere scritto[383]
egli attribuiva la causa del cedimento del pilone alle infiltrazioni d’acqua
che ne minacciavano le fondamenta, sostenendo che era necessario allontanare le
prime per poi procedere al consolidamento delle seconde; ma il suo progetto era
ben più articolato di un se plice drenaggio, contemplando altresì la messa in
opera di piastre di ferro incatenate, per bloccare l’avanzare delle lesioni, e
di un certo numero di arcate esterne che scaricassero la spinta della cupola
sulle fabbriche ad essa adiacenti[384]
Le sue idee furono sottoposte al giudizio di Luigi Vanvitelli, il quale lo
contraddisse in toto adducendo ragioni meccaniche e costruttive[385].
Secondo il pensiero dello studioso Guido Guerra[386],
i due contendenti incarnavano lo scontro tra due diverse generazioni di
architetti, che facevano riferimento a culture scientifiche ormai troppo
distanti. Vanvitelli basava le sue affermazioni su La science des ingénieurs di Bernard Forest de Belidor, un trattato
che affrontando il solo caso delle volte a botte (senza accennare affatto alla
statica delle cupole) in effetti sarebbe stato presto sostituito da nuovi
testi, come ad esempio quelli di Lorenzo Mascheroni e Leonardo Salimbeni[387],
che facevano riferimento a ricerche e studi molto più recenti e completi. Non
deve quindi stupirci «la decisa presa di posizione di un giovane ingegnere
delle qualità del Lamberti, che invece viveva in pieno questo clima di
ribollente progresso nel campo delle teorie statiche», e che proprio in questa
materia, in seguito alla pubblicazione dell’autorevole volume Statica degli edifici (1781), riscosse
l’apprezzamento persino del Bernouilli. Inoltre le diverse interprertazioni
date dai due architetti sull’equilibrio statico dell’edificio, evidenziano
quella doppia contraddizione che percorre tutta la cultura architettonica del
‘700, consistente nella radicalizzazione del «divario esistente tra i poli
estremi di una teoria completamente avulsa dalla pratica e di un
professionalismo totalmente ignaro della ricerca teorica»[388],
e sintetizzato dall’aforisma bottariano secondo il quale chi studia
l’architettura non la professa, e chi la professa non la conosce[389].
In merito alla questione della
cupola, si delineano così due chiari schieramenti: da un lato l’anziano
Vanvitelli [390]
e l’indaffaratissimo Fuga, entrambi architetti «ufficiali», che
monopolizzavano buona parte dei lavori più prestigiosi commissionati dalla Casa
Reale; dall’altra il giovane quanto brillante Lamberti, nonché l’eterno
antagonista di Vanvitelli, Mario Gioffredo[391],
che impegnandosi a fondo (e con la passione che mancava ai primi due) per
assicurare la salvezza dell’integrità del monumento[392],
speravano di farsi spazio tra le file dei già affermati colleghi, ed entrare
nelle grazie del Re[393].
A questi ultimi si affiancò successivamente Berardo GALIANI, il quale, pur non
essendo spinto dalla volontà di accattivarsi il favore di nessuno, fu mosso
come loro dalla intenzione di impedire lo scempio della demolizione della
cupola, come poi invece (purtroppo) avvenne.
L’originale posizione di Berardo GALIANI: il suo «Parere»
Quando la commissione di esperti
si riunì nel mese di maggio 1773, erano state ultimate le puntellature del
pilone fatiscente e delle quattro arcate che vi poggiavano sopra, secondo
quanto prescritto da Ferdinando Fuga, il quale aveva fatto in modo che la
chiesa della Trinità Maggiore restasse chiusa ai fedeli, per evitare ogni
pericolo ed intralcio ai lavori[394].
In quella circostanza fu presa anche l’infausta decisione di abbattere la
cupola per maggiore sicurezza suffragata da presunti vantaggi economici che ne
sarebbero derivati, ma di fronte a tale gravissima decisione GALIANI[395]
si vide costretto a prendere le distanze dalle deliberazioni della commissione,
e a dichiarare la sua reale opinione sullo stato della chiesa, sulle cause del
dissesto e sui possibili metodi di intervento. Le sue convinzioni erano note
grazie ad una sintesi contenuta in un manoscritto anonimo[396]
ove sono compendiate le diverse relazioni presentate, ma oltre ad esso alla
Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria si trova anche il suo Parere autografo nella forma completa[397].
La stesura originaria di questo risale alla fase iniziale del dibattito sullo
stato di salute della chiesa napoletana, presumibilmente poco tempo dopo quel
novembre 1769 in cui Berardo venne chiamato a far parte della giunta di
esperti; quando poi egli decise di renderne pubblico il contenuto a causa delle
già esposte motivazioni, operò un rimaneggiamento molto ampio del testo,
aggiungendovi notizie su ciò che nel frattempo era cambiato[398].
In questo scritto egli ricusa principalmente il catrastrofismo della
commissione[399],
a detta della quale il peso della cupola, la sua (presunta) frettolosa
ricostruzione, ed infine le conseguenze del terremoto del 1688 avevano
compromesso in maniera gravissima l’equilibrio statico di tutto l’edificio. Per
GALIANI, invece, alla minaccia del monumento contribuiva una causa ben più
grave che egli definisce «sostanziale, intrinseca e permanente»[400],
costituita dalla eccessiva spinta delle volte in relazione al ridotto spessore
delle mura, ed aggravata dalla errata costruzione del tetto delle navate,
poiché quest’ultimo era stato realizzato (a suo dire) con due semplici puntoni
poggianti lateralmente sui muri perimetrali e, al centro, su pilastrini in
muratura direttamente posati sull’estradosso delle volte stesse, con
l’inevitabile conseguenza di generare una componente orizzontale di spinta
ancora maggiore. A risentire in modo notevole di questo squilibrio sarebbe
stato proprio il pilastro detto di S. Luca[401],
sollecitato all’estremità superiore dalla risultante delle spinte relative alle
volte della navata principale e del cappellone di S. Ignazio, longitudinalmente
ortogonali fra loro; le gravi lesioni sul pilone, quindi, sarebbero state
causate dalla sua rotazione rispetto ad un piano verticale posto in prossimità
della bisettrice fra questi due bracci della croce[402].
La proposta di consolidamento di Berardo (alquanto articolata) comporta la
messa in discussione e la generale correzione dello schema statico
dell’edificio. il riferimento fondamentale per tutte le aggiunte di fabbrica è,
inequivocabilmente, la regola classica delle proporzioni, che il napoletano
conosceva in maniera molto approfondita stante il suo attento studio del testo
vitruviano; ma nella tipologia d’intervento[403]
affiora, sebbene a livello non cosciente, l’esperienza del Gotico, peraltro
apertamente (e per certi versi sorprendentemente) citata come esempio quando GALIANI[404]
respinge l’accusa secondo la quale i pilastri della chiesa sarebbero stati
troppo snelli[405].
In quel fugace accenno viene riconosciuto all’architettura che Vasari aveva
definito «mostruosa e barbara», almeno un valore nel campo della
conoscenza, seppur ancora intuitiva ed empirica, del comportamento strutturale
degli edifici, che le fabbriche gotiche, col loro ardito slancio verticale,
esprimevano al massimo grado. L’elemento fondamentale di questa correzione
dell’equilibrio statico era, comunque, costituito dalla rimozione della causa
stessa del dissesto, mediante la sostituzione della copertura esistente con un
«tetto a cavallo armato»[406],
ovvero un tetto a capriate, ove la catena inferiore, assorbendo le spinte
orizzontali, consentisse di trasmettere alle mura perimetrali la sola
componente verticale. Queste ultime opportunamente irrobustite avrebbero meglio
contrastato la spinta delle volte soprastanti, e allo stesso tempo sarebbero
state sgravate del peso della copertura che, essendo stato ricondotto sulla
verticale dall’uso delle capriate, poteva al contrario contribuire
ulteriormente alla stabilità dell’intera struttura. I vantaggi derivanti
dall’uso delle capriate erano comunque noti da tempo immemorabile, ma il loro
utilizzo nell’ambito di un intervento di consolidamento richiama alla memoria i
suggerimenti di Leon Battista Alberti in merito al recupero dell’antica
basilica paleocristiana di San Pietro a Roma(NOTA: L. B. Alberti, De re aedificatoria, 1485, libro X, cap.
XVII): questi infatti , nell’ultimo libro della sua più importante opera
letteraria, propone proprio l’utilizzo di «capre» per realizzare una nuova
copertura che non destabilizzasse più il vetusto e malandato tempio romano. Non
è assolutamente dimostrabile che Berardo, al momento di stendere il suo Parere, avesse in mente questa
precedente proposta dell’Alberti, e comunque la cosa non avrebbe grossa
rilevanza ai fini di questo studio; ma è singolare notare che il nome della
Basilica Vaticana[407]
ricorra ben due volte nello scritto sulla Trinità Maggiore. Il primo accenno
riguarda la «giunta fatta dal Maderni al superbo disegno dato dal divino
Buonarroti per la Basilica di San Pietro»[408],
a proposito della quale l’autore non tollera che si sia alterato il progetto
originale a croce greca, compromettondone in modo inevitabile il
proporzionamento, e di conseguenza la venustà che del primo, se correttamente
realizzato, è il necessario effetto. Per un analogo motivo deplora infatti
anche la proposta del sottarchi e contropilastri avanzata da Fuga, che «si
volle ostinatamente sostenere» anche dopo la decisione di smantellare la
Cupola, affermando pretestuosamente «che tutta la chiesa fosse fracida»[409].
Le aggiunte murarie non erano tutte indispensabili per il consolidamento e che
la loro edificazione fu proposta «ove per necessità, ove per cautela ed ove
per Euritmia»[410],
avrebbero comportato una considerevole, quanto ingiustificata lievitazione dei
costi. Nel V capitolo del Parere,
quindi, Berardo GALIANI attacca apertamente il progetto di restauro approntato
da Fuga, dimostrando quanto in esso vi fosse di velleitario e, mediante una
serie di considerazioni estetiche, tecniche ed economiche, arriva a
smantellarlo punto per punto; infine, puntando l’indice contro l’alterazione
del raffinato proporzionamento di quel monumento, manifesta quanto la sua
intergrità gli stesse a cuore, alla stregua dei già citati Vincenzo Lamberti e
Mario Gioffredo. Siamo di fronte a due concezioni di intervento diametralmente
opposte: da un lato la semplice cura degli effetti[411],
e dall’altro un modo di procedere che muovendo da una razionale elaborazione
teorica, si traduce nella concreta rimozione delle cause stesse del dissesto.
Berardo GALIANI era evidentemente convinto, che la cupola non fosse in
imminente pericolo di crollo; le drastiche decisioni della commissione di
esperti, quindi, sarebbero dovute ad un eccesso di cautela secondo una
consuetudine purtroppo assai diffusa: «Basta che si cominci a vociferare
alcun pericolo, che sia di pubblico interesse, perché la fama di bocca in bocca
passando cresca ed urti con tanto impeto, che tolga a chicchessia quella
indifferenza che potrebbe fare spassionatamente giudicare»[412].
A conferma di questa opinione porta l’esempio (e siamo al secondo accenno) di
quanto era accaduto per la Cupola Vaticana: «Uscita che fu la voce d’essere
lesa e in pericolo la Cupola di San Pietro di Roma, non vi fu modo di far
capire le ragioni di coloro, che sostenevano essere vecchie e di nessuna
conseguenza imminente le lesioni, essere le simili di tutte le altre cupole. E
la fantasia non s’acchetò, se non quando vide tutta la cupola cerchiata di
catene, e Dio faccia che siano questa state rimedio, e non cagioni motrici di
nuovi mali»[413].
L’influsso di Giovanni Bottari
Da queste
parole emerge un GALIANI perfettamente al corrente di quell’dibattito
sviluppatosi alla metà del ‘700, e nettamente schierato dalla parte dei non
interventisti, vale a dire a fianco di monsignor Giovanni Gaetano Bottari
personaggio che egli conosceva molto bene in quanto quest’ultimo era stato
molto amico di suo zio monsignor Celestino GALIANI[414],
succedendogli [415]
nella cattedra di Storia Ecclesiastica e di Controversie presso l’Università
della Sapienza[416].
Ma i legami tra la famiglia GALIANI e il dotto prelato fiorentino passavano
anche attraverso la persona di Bartolomeo Intieri, uno dei protagonisti
dell’illuminismo napoletano, frequentatore del salotto culturale galianeo, grande
amico dei suoi animatori ed amministratore delle vaste proprietà nel
Mezzogiorno della famiglia Corsini, alla quale Bottari era a sua volta molto
legato, essendo considerato addirittura il braccio destro del cardinale Neri
Corsini, a sua volta nipote di Clemente XII[417].
I contatti diretti di Bottari con Berardo GALIANI risalivano poi all’epoca in
cui Berardo aveva affrontato il commento del testo Vitruviano basandosi su vari
manoscritti, fra i quali due testi molto antichi[418]
conservati presso la Biblioteca vaticana, della quale era custode lo stesso
Bottari[419];
contatti quindi che avevano avuto modo di consolidarsi in un tempo
immediatamente successivo a quello in cui aveva avuto luogo il dibattito sul
restauro della cupola di San Pietro, se non addirittura nel pieno del suo
svolgimento. Fra i due studiosi d’architettura era intercorsa una fitta
corrispondenza[420]
nella quale essi si confrontavano sulla corretta interpretazione degli
insegnamenti di Vitruvio, collazionandone le versioni in loro possesso. Bottari
aveva preso parte, come si sa, alla polemica sul presunto dissesto della
fabbrica michelangiolesca prendendone chiaramente posizione contro il progetto
di restauro presentato da Vanvitelli[421],
il quale a sua volta definisce Bottari stesso «uno degli anticupolai»[422]
e, in una lettera del 29 dicembre 1754, così scrive al proprio fratello:«Questa
mattina dal Marchese GALIANI, il quale fa una traduzione di Vitruvio e spesso
conferisce meco, ho saputo che il Bottari, quando fu a Napoli per la morte del
Principe Corsini D. Bartolomeo, ha detto tutto quello che puotea dirsi contro
me, e quanto puotesse dire per esaltare il Fuga»[423].
Non sarebbe troppo ardito, allora, congetturare che Berardo GALIANI abbia
potuto avere, in quella o in altra simile occasione, uno scambio di opinioni
con Bottari riguardo al problema della Cupola di S. Pietro e probabilmente
anche sul comportamento strutturale delle cupole in generale, visto che il nome
della Basilica Vaticana ricorre per ben due volte, come si è ricordato il quel Parere ove non a caso si affronta
proprio il problema del consolidamento di un’altra cupola, quella della Trinità
Maggiore. Sembra quasi che a Napoli si proponga, seppur con echi ben più
limitati, la polemica romana nella quale era stato chiamato in causa Bottari, e
che Berardo GALIANI prenda posizione tra le file dei non interventisti proprio
come aveva fatto il prelato venti anni prima riguardo alla fabbrica
michelangiolesca[424].
In effetti entrambe le considerazioni sul maggiore tempio della cristianità
contenute nel manoscritto galianeo, rispecchiano in maniera evidente quanto
affermato dal prelato nei Dialoghi sopra
le tre arti del Disegno; e se l’intervento di Carlo Maderno è oggetto solo
di una fugace deplorazione da parte di Berardo GALIANI, che non si sofferma sulle
ragioni che lo animano[425],
in merito alla questione della Cupola Vaticana la convergenza di opinioni fra i
due studiosi è molto chiaramente esplicita: nella nota a pagina 82 del secondo
dialogo, infatti, Bottari riassume con toni polemici, molto simili a quelli che
saranno poi di Berardo, la vicenda della cerchiatura della cupola[426].
A mio credere (commenta il dott. Carrafiello) è possibile che le osservazioni
di GALIANI sui due interventi alla Basilica di San Pietro maturarono alla luce
del pensiero bottariano appreso in ipotesi dalla sua viva voce, e certamente
grazie alla lettura dei Dialoghi che
molto probabilmente figuravano nella sua vasta biblioteca[427].
D’altronde Berardo non fu il solo nel sostenere queste idee, anche Lorenzo
Iaccarino[428]
si associò alla sua posizione, seppur senza troppa risoluzione[429].
Ma quantunque il Parere di Berardo (a
detta del fratello Ferdinando) «fu stimato da tutti per il migliore»[430],
non sortì l’effetto sperato di far recedere la giunta di esperti dal proposito
di demolire la cupola. A nulla valsero un nuovo intervento di Lamberti ed il
progetto di Michelangelo Arinelli[431],
cosicché , nell’autunno del 1775, si diede inizio all’abbattimento dell’opera
del Guglielminelli. Solo dieci anni dopo[432]
Ignazio Di Nardo sostituì la diroccata cupola con una semplice calotta ad
incannicciata sospesa al tiburio[433],
ovvero, come si legge nel piano di intervento elaborato dalla Camera Abbreviata[434],
una «lamia[435]
finta di stucco, intessuta di legname, e coverta a tetto, che sarà durevole
come se fosse a masso, anche per evitarsi le conseguenze funeste di un enorme
peso»[436].
L’accento veniva messo, ancora una volta, sul peso della copertura, eppure oggi
su quei pilastri, che all’epoca di cui si discorre furono comunque consolidati,
grava un tetto in cemento armato realizzato, forse con eccessiva leggerezza
filologica, nel 1973, per mano di tecnici certamente più vicini all’(«ufficiale»)
architetto Fuga, che non al paladino dell’integrità del monumento, il marchese
Berardo GALIANI.
[1] Abbreviazioni: AAO - Atti originali dell'Accademia Olimpica, Vicenza;
ASN - Archivio di Stato di Napoli; BBV - Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza;
BCP - Biblioteca del Museo Civico di Padova; BNN - Biblioteca Nazionale
Vittorio Emanuele III, Napoli; BSNSP - Biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria, Napoli; PTM - Parere del M. GALIANI sui danni della Trinità
Maggiore e sui ripari e rifazioni (BSNSP, ms. XXX. C., ff. 95r - 123v); PTO - Parere
del M. GALIANI dato sulla Copertura del Palco del Teatro Olimpico (BSNSP, ms.
XXXI. A. 8, ff. 271r - 291v);
[2] L’elenco complessivo dei
manoscritti galianei è contenuto in Nicolini 1903; la maggior parte di essi è
stata pubblicata, a cura dello stesso Nicolini Fausto, in diversi articoli
apparsi su questa Rivista. Alla biblioteca della Società napoletana di Storia
Patria egli donò successivamente tutto il materiale in suo possesso
[3] Schipa 1904, pp. 219-26.
[4] Nel palazzo Gravina.
[5] Della quale monsignor GALIANI divenne membro nel 1735.
[6] Purtroppo ampiamente ridimensionato rispetto alla stesura iniziale che
aveva elaborato di suo pugno.
[8] Nicolini 1918/20, ivi più avanti.
[9] Nel
presente lavoro è stata tralasciata completamente la trattazione di questa che
costituisce senza ombra di dubbio la maggiore opera di Galiani, per il fatto
che essa, data la sua importanza, meriterebbe uno studio ed un commento
completamente a parte).
Il testo di Vitruvio aveva conosciuto la splendida
traduzione di Cesare Cesariano, allievo del Bramante, considerata la più bella
pubblicazione in assoluto del rinascimento con le sue 117 inciusioni in legno,
alcune delle quali attribuite a Leonardo: De Architectura Libri diece traducti
de Latino in volgare, Como, Gottardo da Ponte,1521. Altra edizione quella di
Fr.Lucio Durantino:quella Venezia, Sabio, 1524 e meglio ancora: M.L. Vitruvio
Pollione di Architectuta dal vero esemplare latino nella volgare lingua
tradotto e con figure ai suoi luoghi con mirando ordine insignito, mai più da
alcun altro sin al presente stampato a grande utilità di ciascuno studioso,
Venezia, per Nicolò de Aristotele detto Zoppino, 1535. Segue il testo quello
del Cesariano e nelle illustrazioni la edizione latina del 1511, la prima
edizione figurata, Venezia, Giovanni da Tridino, 1511. Oltre a queste i dieci
libri dell’Architettura tradotti e commentati da Daniele Barbaro, Venezia,
Fr.Marcolini, 1556. La stessa Venezia, Fr. De Franceschi, 1586.
[10] Che fu letto ed apprezzato da Benedetto Croce; Croce 1910, pp. 390-2.
[11] Rinvenuti nel corso di questa ricerca.
[12] I cui testi ‑ integrali sono pubblicati in appendice.
[13] Per quanto consentito dalla scarna documentazione.
[14] La sua stessa casa a Sant’Anna di Palazzo fu
per molti anni il più importante salotto letterario napoletano e quella in cui
si godeva della maggiore libertà di parola, nonostante il fatto che egli
riunisse in sé il triplice ruolo di frate, arcivescovo ed alto magistrato; Per
ulteriori notizie si veda Nicolini 1931 e Nicolini 1951; V. Ferrone, Scienza,
natura, religione, ecc., Napoli 1982.
[15] Castaldi 1840, p. 146, si veda anche l’inedita autobiografia di
monsignor Galiani [BSNSP, mss. Galiani XXIX. C. 7] citata in Nicolini 1918, p.
107 nota 1.
[16] Matteo Galiani nacque a Foggia nel 1683 da Domenico GALIANI, oriundo di
Montoro (Avellino) ove la sua famiglia è segnalata tra i Patrizi della città
(BSNSP, mss.GALIANI XXX. C. 7, f . 208)
[17] Lo stesso cognome Galiani
deriverebbe dal toponimo Caliano, uno
dei casali di Montoro che probabilmente fu il luogo d’origine della famiglia,
infatti il bisnonno di Berardo su chiamava appunto Stefano Caliano.
[19] In seguito alla quale la città di Napoli era divenuta «colta e nello
stesso tempo depressa»: Ajello 1980, p. 16.
[20] Avviato già da alcuni decenni, e poi culminato con la formazione di una
nuova classe dirigente ed intellettuale.
[21] Il risanamento delle finanze pubbliche diede ottimi risultati
nei primi dieci anni del regno di Carlo di Borbone,
ma fu poi sostanzialmente paralizzato da un'epidemia di
peste che sterminò gran parte della popolazione di Messina, propagandosi poi in
Calabria (1743), e dal coinvolgimento nella guerra di
successione austriaca (1742): Ajello 1980, p. 18.
[22] De Marco 1980, p.28.
[23] De Sanctis 1986, p. 12.
[24] Nato a Montespertoli (Firenze) nel 1678, Bartolomeo Intieri si diede agli
studi di matematica, economia, agricoltura e meccanica. Intorno al 1696 si
stabilì a Napoli e fu amministratore dei beni posseduti dai Medici, Corsini e
Rinuccini nel Regno delle Due Sicilie. Un preciso profilo di Intieri è in F.
Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969, pp. 553-65; si veda
anche M. Fujano, Aspetti della cultura e dell’editoria napoletana nel
settecento, in «Archivio Storico per le Province Napoletane» s III, vol. XII
(1974), pp. 257-79 [riferimenti bibliografici tratti da Strazzullo 1982, p.
248.
[25] Celestino godeva anche del sostegno del Principe di Scalea F. Spinelli,
il quale fornì le macchine per gli esperimenti. Per la breve ma feconda
vita dell'Accademia Galianea si vedano Nicolini
1974; De Sanctis 1986, p. 12; Maylander, Storia
delle Accademie d'Italia, Bologna 1976; Minieri
Riccio, Cenno storico delle accademie fiorite nella città di
Napoli, in "Archivio Storico per le Province Napoletane",vol.V,
1880.
[26] «Le
indicazioni di GALIANI, anche se non furono del tutto realizzate, raccoglievano
suggerimenti del nuovo metodo razionale e scientifico di porsi di fronte alla
natura. Questo risultò anche dai nuovi insegnamenti istituiti. Le cattedre di
matematica divennero due; venne sdoppiata la cattedra di anatomia e chirurgia;
si fondò una cattedra di botanica e chimica. Venne creata anche una cattedra di
fisica sperimentale, che però ebbe vita breve» (De Sanctis 1986, p.
12). Oltre all'istituzione di queste cattedre in sintonia con l'avvento del 'secolo dei lumì, ne furono
abolite delle altre ritenute oramai inattuali. Il programma abbozzato da Celestino, in qualità di Prefetto degli Studi,
prevedeva ancora il ritorno della sede universitaria nel Palazzo degli Studi,
che sotto la dominazione austriaca era stato invaso dalle
milizie, ed infine l'aumento della retribbuzione dei docenti; proprio quest'ultima
disposizione però ebbe la conseguenza di creare grosse difficoltà a causa dell'aggravio
economico che ne conseguiva.
[28] Schipa 1904, pp.219-26.
[29] Naturalisti, matematici, astronomi, nonché economisti e politici del
calibro del già citato Bartolomeo Intieri.
[31] Futuro arcivescovo di Palermo, Nicolini 1918, p. 113.
[32] Nato a Barletta il 25 aprile 1686, ricoprì la carica di Presidente della
Camera di Santa Chiara e Delegato della Real Giurisdizione, morì in Napoli il 9
aprile del 1763 (Diaz 1961, p. 200; AA.VV. 1818, vol. V).
[33] Nicolini 1918, pp. 110-11.
[34] B.
GALIANI, Lettera scritta ad un amico impegnandolo all'esecuzione di un pubblico
Monumento, che propone ergersi alla memoria del perduto e sempre desiderabile
Marchese Niccolò Fraggianni, in AA. VV., Componimenti in morte del Marchese
Niccolò Fraggianni, Napoli 1763, p. XXX (citato in bibliografia come
GALIANI 1763); si tratta dell'unico scritto di Berardo GALIANI, se si esclude
il De Architettura, ad essere stato pubblicato.
[35] Futuro membro della Reale Accademia Ercolanense come Berardo.
[36] Nicolini 1951, p. 119, e Nicolini 1918, pp.
111-13.
[37] Dove fu istruito in lingua latina da don Giacomo Catalano(Nicolini 1918,
p. 106) grazie al quale a soli 13 anni era già in grado di corrispondere in
latino corretto col dotto consanguineo che lo aveva preso presso di se(Nicolini
1951, p. 119)
[39] Che era stato compagno di convento del Cappellano Maggiore, e diventerà
in seguito generale dell'Ordine Celestino.
[41] Castaldi 1840, p.147.
[42] F. GALIANI, Notizie.
[43] F. GALIANI, Notizie, e
Nicolini 1918, p. 115 nota 5.
[44] «Ego D. Bernardus GALIANUS
civitatis Terami provinciae Aprutii Citerioris, spondeo, voveo et juro, sic me
Deus adjuvet et haec sancta Dei Evangelia»,citato in Settembrini 1874,
p.958.
[45] Che costituiscono il documento biografico più attendibile in assoluto.
[46] «E circa lo stesso anno 1745 fu dottorato in ambo le leggi» (F: GALIANI,
notizie).
[47] Nicolini 1951, tutto il volume è svolto a dimostrare tale assunto.
[48] Celestino a Ferdinando GALIANI, 18 dicembre 1751: «Io di voi ricevo
buone novelle da tutte le parti, e da tutti, con molta vostra lode, anche da
cardinali, ne ricevo congratulazioni. Il che se mi piace e mi rallegri, potete
voi immaginarlo, che sapete quanto sempre vi ho amato e vi amo, e quante cure
mi son preso per l'educazione vostra e di vostro fratello (Berardo), fin a
perdervi talvolta la mia quiete ed esser da voi due stimato per molesto ed
incontentabile: quando dovevate riflettere che era tutto per vostro bene e che le
cose, che io da voi pretendeva, erano ragionevolissime,(…)» (BSNSP, mss.
GALIANI, XXXI. C. 16, f .
82, citata in Nicolini 1918, p. 107 nota 2).
[49] Si segnalano alcuni scritti dell'illuminista napoletano Ferdinando
GALIANI, riguardanti la gestione del territorio e le sue implicazioni
economiche : il primo di essi è una proposta di opere di risanamento per l'area
di Baia e dintorni che prevedeva la ricostruzione del locale porto utilizzando
a tale scopo i piloni della fabbrica imperiale, detta opus ilium, e allo stesso tempo la riapertura del 'Mare Morto’,
vale a dire quello che era stato anticamente il porto di Miseno, sfruttando
anche in questo caso l'antico molo romano; (Pane 1980). La seconda segnalazione
riguarda invece le proposte fatte all'indomani del rovinoso terremoto che
sconvolse la Calabria
nel 1783; in questo caso l'intervento di ricostruzione sarebbe dovuto essere,
nelle intenzioni del lungimirante Ferdinando, strettamente connesso all'azione
riformatrice, volta a scardinare lo strapotere baronale-ecclesiastico per
stimolare le forze veramente produttive della regione; (BSNSP, ms. XXX. D. 3: Proposte di F. GALIANIper la ricostruzione
della Calabria dopo il terremoto del 1783, pubblicate in «Cronache
Meridionali», n’3, Napoli 1955, pp.235‑40)
[50] Queste notizie e le due citazioni sono tratte da Napoli Signorelli 1793,
tomo V, p.508.
[51] Componimenti varii per la morte di Domenico Iannaccone Carnefice della
Gran Corte della Vicaria, raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio
Avvocato Napoletano, Napoli 1749,
in realtà composto da Ferdinando GALIANI e Pasquale
Carcani.
[52] La vicenda, della quale fu
complice Pasquale Carcani 1721-1783, si concluse con l'intervento da parte del
ministro Bernardo Tanucci il quale, divertito della loro arguzia, non inflisse
ai due altra pena che quella dell'obbligo agli esercizi spirituali per dieci
giorni; in merito a tutto l'episodio si vedano Diodati 1788, p. 6 e Ugoni 1856,
vol.I, p. 195. Sugli scritti satirici, e in generale su Ferdinando GALIANI come
scrittore arguto si veda A: Altamura, Frizzi
e sorrisi dell'abate GALIANI, Napoli 1977.
[55] Sebbene di alta Nobiltà. Infatti il padre discendeva dai conti di
Caserta della Racta e dalla nobilissima casa Marzana, e cioè dal viceré
Antonio(Antonello) de Racta e Margherita Marzano sepolti nella Chiesa di
Sant’Agostino in Sessa Aurunca.
[56] «Nel 1749 sposò D. Agnese
Mercadante di Sessa, figlia di don Leone e D. Ippolita Gattola» (F. Galiani,
Notizie).
[57] E come restò male quando, nel 1748, da S.Agata di Sessa, Berardo gli
mandò a dire d'aver sposato colà, senza far saper nulla ad alcuno, una
fanciulla senza un soldo e di fare affidamento sulla generosità dello zio!
S'infuriò, minacciò, tempestò: poi, naturalmente, perdonò tenendosi in casa il
figliol prodigo con moglie, e gioiendo come un vecchio nonno sempre che costei
gli regalasse qualcuna di quelle pronipoti che Ferdinando un giorno renderà
celebri :Anna Maria e Gaetana(Nicolini 1951, p. 121)
[58] : Il seguente è il testo della lettera scritta da Berardo GALIANI al
primo ministro Bernardo Tanucci nella quale chiede di intercedere presso il Re,
affinché gli venga concessa una dilazione nel pagamento degli oneri per
ricevere il diploma di Marchese, è il seguente:
«Eccellenza,
A nessuno meglio
che all’E. V. che ha avuta frequentemente la pacienza di prestare benigne
orecchie alle mie suppliche, sarà noto lo stato miserabile in cui sono rimasto
dopo la morte de’miei Maggiori, specialmente di Monsignore mio zio. È
ugualmente nota più che ad ogni altro la grande spesa che ho dovuto soffrire
per la nota edizione di Vitruvio. Ma se questo non bastasse, il volontario
esilio dalla Capitale, per restringermi in una casetta di campagna, spero
convincerà l’E.V. dell'estrema miseria a cui mi hanno i debiti forzosi ridotto.
In questo stato
di cose mi si notifica il Real Ordine di riscuotere il diploma del Titolo che la Maestà del Re Cattolico si
degnò concedere a mio padre, sotto pena di nullità della grazia. La premura di
conservar nella Casa l'unica memoria de’fedeli servizj de’miei Maggiori è
grande, ma massima la miseria, che non mi apre altra strada da soddisfare
que’pochi diritti che restano, se non con togliere il pane alla mia famiglia.
Questo ho
esposto con umil supplica alla Maestà Sua, chiedendo da lui come Padre pio e
grato il modo da poter soddisfare o dilazione fino a miglior fortuna. Questa
supplica avvalorata dall'autorità e protezione di V. E. può presagirmi il
desiderato effetto e dare un contrassegno de’favori che han ricevuto tutti gli
altri della mia Casa anche a me, che mi giorio de essere di V.E.
S.Agata
di Sessa 24 Aprile 1760,
Um.mo dev.mo
obb.mo Servitore
Marchese Berardo GALIANI»
ASN, Casa Reale Antica, fascio 857, pubblicata in Strazzullo 1982, pp.
239-42.
[59] I due gravi lutti, e i costanti problemi economici.
[60]
Bisogna però sottolineare che monsignor GALIANI, preoccupato per il futuro del
nipote, aveva ottenuto di poter disporre dei suoi risparmi per testamento, in
deroga al diritto canonico secondo il quale egli, poiché viveva fuori del
monastero, avrebbe dovuto devolvere alla Camera degli Spogli i suoi beni; tale
privilegio gli fu concesso da Benedetto XIV (Nicolini 1951, p.122).
[61]
lettera di Ferdinando GALIANI a Domenico Sgueglia (Venezia 17 giu. 1752) citata
in AA: VV. 1975, p.829.
[62] L'incisione fu mostrata al Nicolini Fausto dal Dott. Aurelio Pironti
discendente da un ramo dei Galiani (che non ha nulla a che vedere con i
discendenti diretti di Berardo che sono i de NATALE SIFOLA GALIANI di Casapulla
(CE) per successione di Anna Maria prima figlia ed i VENUTI-GALIANI per
successione Gaetana seconda figlia) di Montoro, che ne era il possessore.
[64] Tanucci 1914, p.174 nota 2.
[65] In cambio del suo aiuto Ferdinando ebbe in dono «alcuni doppioni di
Portogallo» (Ugoni 1856, p. 285).
[66] Duhamel, già famoso tra noi per l'usurpazione del seminatore di padre
Lama e per molt’altre: (Ugoni 1856, p. 286).
[67] Ferdinando espresse il proprio rammarico
per l'accaduto in una lettera alla sua corrispondente francese, Madame D'Epinay
(Napoli, 13 dicembre 1770), nella quale dice: «Je suis enchanté à present
qu’il servira à decouvrir un plagiat affreux et malhonnêt que fit M. Duhamel,
qui s’attribua l'invention de cette machine, pendant qu’il ne fit que faire
regraver les dessin qu’en avait faits mon frère, et qu’il lui avait envoyès»(AA.VV.
1975, p. 1056).
[68] Giuseppe Maria Assemanni (1687-1768) bibliotecario della Vaticana ed
erudito, era un maronita italianizzato.
[69] Si trattava dei Codici Vitruviani alle segnature 1504 e 2079 (GALIANI
1790, p. V).
[70] GALIANI 1790, p. V nota 1.
[71] Felici 1972, p. 175.
[72] Le lettere di Ferdinando a Bottari sono conservate presso la Biblioteca Corsiniana
di Roma, mentre quelle del prelato a Ferdinando sono presso la Biblioteca della
Società Napoletana di Storia Patria, su questo carteggio consultare Felici
1972.
[73] Lettera di Bottari a Ferdinando GALIANI (Roma, 25 mag. 1756) conservata
a Napoli (B.S.N.S.P., ms. XXXI. C., ff. 114r/115r), e pubblicata in Felici
1972, n° 7.
[74] Vedere lettera di Bottari a Ferdinando (Roma, 13 ago. 1754), B.S.N.S.P.,
ms. XXXI. B. 18, ff. 230r/231v, pubblicata in Felici 1972, n° 5.
[75] Malizia 1781, tomo I, p. 56.
[76] F.GALIANI, Notizie, e Castaldi
1840, p. 147. Sull'argomento si vedano anche i documenti conservati presso
l'archivio dell'Accademia della Crusca e cioè la minuta autografa della lettera
scritta da Rosso Antonio Martini a Berardo per comunicargli la sua elezione ad
accademico nel mese di settembre 1759 (carte
Martini n'54), e la successiva lettera di ringraziamento inviata da GALIANI
il 25 dicembre 1759 (carte Martini
n’61), il nome di Berardo poi, è menzionato anche nel Diario dell'Accademia, cominciato dallo Schermito, e continuato dal
Ripurgato, e dopo la morte di questo dal Divagato([cod.26, seconda parte, anno
1759, pp. 123‑5) per quanto concerne la proposta della sua nomina ad
Accademico, nelle sedute del 2, 15 e 22 sett. 1759, che fu accolta a pieni
voti.
[77] F.GALIANI, Notizie.
[78] Grave decisione in un regno dal capo mostruosamente grande sopra un
corpo gracilissimo (Ajello 1980, p. 15), in quanto la quasi totalità delle
risorse culturali, economiche e sociali era concentrato nella capitale.
[79] Paese
natale della sua consorte; quantunque sia credibile che tale decisione fosse
stata dettata in gran parte dalla necessità, ritengo (Carrafiello) che Berardo
non disdegnasse affatto la tranquilla vita che faceva a Sessa, in quanto essa
gli consentiva di portare avanti i suoi studi nella quiete della campagna;
infatti in una lettera di qualche anno prima, quando la situazione non doveva
essere ancora tanto difficile per lui, così si esprime Ferdinando, che doveva
conoscerlo meglio di ogni altro: «Egli (Berardo) al presente è a
Sessa, e far quella vita, che suo zio sospirò fin che visse, ma non poté, e
forse non era atto a fare benché la lodasse sommamente. Io sebbene sia qui fo
una vita poco diversa dalla sua, e (quel ch'è ridicolo) anelo di farne una
simile a quella di mio zio, e tengo per fermo che affatto non ci riuscirei»
(Lettera a Giovanni Gaetano Bottari: Napoli 3 ago 1754, Biblioteca Corsiniana,
Cors. 1851, 32. F .
2, cc. 243r/244v, pubblicata in Felici 1972, n.4)
[80] F GALIANI, Notizie; l'esazione dei tributi era stata data in appalto ai
privati dando così origine agli arrendamentì (dallo spagnolo arrendar:
appaltare), favorendone l'azione vessatoria a scapito della complessiva
economia dello Stato. I Governatori erano responsabili degli impegni assunti
dal vincitore dell'appalto nel corso della gara e la loro nomina era diretta
essendo riservata al governo. Il nome dell’arrendamento dei quattro fondaci
deriva dal fatto che proprio quattro erano i principali (Napoli, Gaeta, Salemo
e Policastro). Sotto il regno dei Borbone, allora, la pubblica amministrazione
tentò di rientrarne in possesso, per consentire il rilancio del commercio, con
la fondazione della Giunta delle ricompre (1751). Su questi argomenti si veda:
L De Rosa, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli, Napoli 1958.
[81] Casanova 1910, tomo V, p.268, se ne accenna anche in Nicolini 1918/20,
p. 155.
[82] Francesco Maria Alfani, amico di Berardo che gli affidò talune ricerche
genealogiche (si veda: BSNSP, mss. XXX. C. 7, pasim ma specialmente ff. 307‑89) le quali facevano seguito ad una
lettera (BSNSP, ms. XXXI. A. 8,
f . 209 ss.) scritta nel giugno 1766 a Berardo da Carlo
Giacinto Principe di Gallèan»(Nicolini 1918/20, p. 136). (In realtà Alfani era
imparentato con il Galiani la cui sorella Settimia aveva sposato Andrea Alfani
“Fausto Nicolini, in Archivio Storico Italiano, La Famiglia dell’Abate
Galiani”, LXXII,vol.2,disp. 3-4, 1918).
[83] Casanova 1910, tomo V, p. 281.
[84] Ibidem.
[85] «Il pittore Mengs sta facendo il ritratto del giovane Re di Napoli
(Ferdinando IV); ne ho veduto l'abbozzo, il quale senza complimento mi piace
assai poco, ma vedremo in appresso. Egli è andato a stare in casa del Marchese
Galeani, il quale gli presta un paio di camere del suo appartamento»
(lettera di Luigi Vanvitelli a suo fratello Urbano, Napoli, 6 nov. 1759,
pubblicata in Winckelmann 1981, p. 12.
[86] Opere di G.G.
Winckelmann, Prato 1832, vol.X, p.407, citato in Winckelmann 1981, p.23.
[87] Citato in bibliografia come GALIANI-Zarrillo 1765.
[88] Si veda la lettera a Giovanni Wiedewelt (19 dic. 1767), pubblicata in
Winckelmann 1981, p. 58.
[89] F. GALIANI, Notizie.
[90] Si veda la lettera di Ferdinando GALIANI a Bernardo Tanucci (Portici, 19
ott. 1764) pubblicata in Tanucci 1914, p. 195 nota, ove Berardo viene
raccomandato dal fratello per ottenere la nomina)
[91] Galiani 1763.
[94] Si tratta di una lettera scritta da Francesco La Vega (che aveva preso
il posto di Weber alla direzione degli scavi) al Principe Dentice, e
costituisce l’unico riscontro documentario dell’episodio del furto segnalato da
Ferdinando Galiani; essa è stata pubblicata in Ruggiero 1881, p. 211.
[95] Il direttore degli scavi archeologici.
[96] Della precedente struttura il fuoco aveva risparmiato la sagrestia, le
cappelle Carafa e del Tesoro, l'Ospedale e il Conservatorio che accoglieva i
bambini illegittimi, o nati da famiglie estremamente povere, i quali venivano
lasciati sulla Ruota degli Espostì.
Si trattava quindi di una istituzione sociale di fondamentale importanza per la
città di Napoli, tanto da essere posta sotto la regia tutela. Sulla storia
dell'Annunziata si vedano Venditti 1973, e D'Addosio 1883. Berardo GALIANI dà
notizia di questo sfortunato evento a Giovanni Gaetano Bottari nella lettera
del 25 gen. 1757: «Questa notte è andata a fuoco la nostra chiesa della
Nunziata ricca delle più belle, e antiche pitture» (Biblioteca Corsiniana,
mss.32.E. 1, già Cors. 1580)
[97] Su tutta la vicenda si veda Licenziati 1959, p.388 ss.
[98] «Ingegnere Ordinario e Tavolario della Sacra Real Casa dell'Annunziata».
[99] I governanti della Real Casa avevano convocato i migliori architetti del
tempo che operavano a Napoli, tra i quali Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga,
Mario Gioffredo e un non meglio precisato Bibiena (Carlo in Venditti 1973, o
Giovanni in D’Addosio 1883).
[100] Il rallentamento delle opere di fondazione fu causato dal ritrovamento
di un mausoleo di epoca romana e dalle abbondanti infiltrazioni d'acqua
(lettera di Vanvitelli al fratello Urbano, 17 giu. 1760), Biblioteca Palatina
di Caserta, Galatina 1976, p. 534, n° 755.
[101] È sempre suo fratello Ferdinando a scrivere.
[102] F. GALIANI, Notizie.
[103] dott. Caffariello.
[104] L’Archivio non è aperto agli studiosi; molto del materiale cartaceo,
comunque, è stato restaurato negli anni settanta, e riordinato da Giuseppe
Mauri Mori. Sull’argomento si veda G. Guerrieri, L’importante patrimonio storico dell’Archivio dell’Annunziata, in
«La Rota », a.
II, n° 1 magg.-giu. 1969, p. 58 ss.
[105] Il destino però non volle che Vanvitelli potesse vedere terminato il suo
lavoro, ed in particolare proprio quella cupola così fortemente voluta, la
quale nel 1773, anno della sua morte, non era ancora iniziata.L'opera fu poi
condotta a termine da suo figlio Carlo nel 1778.
[106] Allo stato attuale, versa in completo abbandono.
[107] Di questo scritto sono noti tre esemplari, il primo è a Vicenza (BBV, mss. Gonzati: 25. 10. 105-112), da
questo è stato copiato nel 1810 il secondo che invece è a Padova(BCP, ms. BP,
2537, vol. VI, ff. 130r-147r), mentre infine l’autografo si trova a
Napoli(BSNSP, ms. XXXI. A.8, ff. 271r-291v) e sarà indicato d’ora in poi come
PTO.
[108] Barbieri 1972, pp. 41-2.
[109] F.GALIANI, Notizie, e Croce 1910, p. 390. Di quest'opera ci dà notizia
per due volte Fausto Nicolini (Nicolini 1903, p. 395, e Tanucci 1914, p. 195,
nota A) il quale afferma di essere ancora in possesso di parecchi volumi
manoscritti contenenti abbozzi, appunti ed altro materiale relativo all'opera
che si apprestava a compiere, ma della quale non si è avuta più alcuna notizia.
Poiché tutto l'archivio GALIANI è passato, per volontà dello stesso Nicolini,
alla Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, si ritiene che anche
il «Corso di lezioni d'architettura» giaccia tra il materiale ancora non
catalogato di questa istituzione)
[110] Del Bello - Dissertaz.e metafisica del M.B.G., Napoli
MDCCLXV (BNN, ms, XII. D. 94), d’ora in poi semplicemente: Del Bello.
[111] Croce 1910, p.390.
[112] Del Bello, Avviso
al lettore.
[113] L'autore di questo libro (Il
dott. Caffariello) trascrive integralmente il brano che lo ha indotto a pensare
ciò: «La premura mia nasce perché volendo soddisfare alla promessa già fatta al
pubblico di un’altra mia fatica sull’Architettura sono ora nel capo di
palesare, che questa fatica è un trattato intero di Architettura diretto
all'istruzione de’principianti: questa è divisa in tre libri: in uno trattasi
della Bellezza, nell'altro del Comodo, e finalmente nel terzo della Fortezza.
il primo di questi riflessi deve essere quello della Bellezza. Sono tutti e tre
a qualche buon partito, ma non permettendomi le altre doverose occupazioni di
potere per ora seriamente applicare a questi studi, ma solo a tempo, come suol
dirsi, rubato, vorrei almeno cominciare dal pubblicare il primo libro sul
Bello: ma come ho fissata la mira a voler ridurre, il più che si può,
l'Architettura a scienza, così per non fare quello che ciecamente han fatto gli
altri, cioè dare disegni, e disegni senza almeno una probabile ragione di un si
fatto operare, mi ho formato un certo sistema scientifico, il quale ragionevolmente mi ha condotto in tutte le rispettive parti.
Facilmente si creda ciocché si vuole. Forse la passione mi avrà indotto a dar
troppa fede a questo mio sistema. Attendo, perciò,
dal pubblico un giudizio spassionato: perché incontrando la sorte di vederlo approvato, possa con animo ilare dar ultimo pulimento, e pubblicare il primo libro. O pure illuminato variar sistema, e tirarlo a compimento sulle nuove tracce» (Del Bello, Avviso al lettore); da tali
parole risulterebbe che il primo volume doveva essere già a buon punto nel
1765.
[114] Del Bello, Avviso al lettore.
[115] Gli autori citati sono: Platone, Sant’Agostino, Nifo, Wolff, Crousaz,
Hutcheson, Padre Andrè, Hogarth, Batteaux, Spalletti, La Chambre , Briseux e, in una
carta aggiunta, Spagni.
[116] Da Matteo [?] a Berardo GALIANI, s.1., nov. 1764, BSNSP, ms XXXI. B. 17.
[117] Quello di Benedetto Croce è l'unico commento critico moderno sul Del Bello di Berardo GALIANI; se ne
trascrivono le parti salienti:«Il GALIANI si ingegna a distinguere la
bellezza assoluta da quella relativa, il bello essenziale da quello accidentale
(terminologia che ha una lunga storia e che egli attinse, forse, dall'Andrè). La
sua definizione generale suona: "Il bello è quello che eccita un
sentimento di piacere e d'approvazione senza rapporto di utile".
Quest'ultima determinazione potrebbe sembrare notevole come precorrimento della
celebre Interesselosigkeit del Kant: se l'assenza
dell'interesse e la mancanza di un rapporto con l'utile non fossero
pensieri e parole comunissimi negli scrittori del sec. XVIII, dai quali Kant li
tolse, insieme con tante altre idee, che concorsero a formare la Critica del Giudizio». In nota poi è aggiunto
il seguente riferimento bibliografico: «Sui precedenti della Interesselosigkeit, si veda una lunga
nota in : SCHLAPP O., Kant's Lehre vom
Fente und die Entstehung der Kritik der Urtheilskraft, (Göttingen, 1901,
pp. 189 91); libro accuratissimo sulle fonti del pensiero Kantiano» (Croce
1910, p. 390).
[118] Una corda tesa messa in vibrazione emette un determinato suono; se poi
essa viene divisa a metà, il suono ottenuto sarà la stessa nota di prima, ma
all’ottava superiore. Dividendo sempre la corda originaria in altre diverse
parti, i suoni ottenuti saranno più o meno
[118] Del Bello, Avviso al lettore.
[118] Gli
autori citati sono: Platone, Sant’Agostino, Nifo, Wolff, Crousaz, Hutcheson,
Padre Andrè, Hogarth, Batteaux, Spalletti, La Chambre , Briseux e, in una
carta aggiunta, Spagni.
[118] Da
Matteo [?] a Berardo GALIANI, s.1., nov. 1764, BSNSP, ms XXXI. B. 17.
[118] Quello
di Benedetto Croce è l'unico commento critico moderno sul Del Bello di Berardo GALIANI; se ne trascrivono le parti salienti:«Il
GALIANI si ingegna a distinguere la bellezza assoluta da quella relativa, il
bello essenziale da quello accidentale (terminologia che ha una lunga
storia e che egli attinse, forse, dall'Andrè). La sua definizione generale
suona: "Il bello è quello che eccita un sentimento di piacere e
d'approvazione senza rapporto di utile". Quest'ultima determinazione
potrebbe sembrare notevole come precorrimento della celebre Interesselosigkeit
del Kant: se l'assenza dell'interesse
e la mancanza di un rapporto con l'utile non fossero pensieri e parole
comunissimi negli scrittori del sec. XVIII, dai quali Kant li tolse, insieme
con tante altre idee, che concorsero a formare la Critica del Giudizio». In nota poi è aggiunto
il seguente riferimento bibliografico: «Sui precedenti della Interesselosigkeit, si veda una lunga
nota in : SCHLAPP O., Kant's Lehre vom
Fente und die Entstehung der Kritik der Urtheilskraft, (Göttingen, 1901,
pp. 189 91); libro accuratissimo sulle fonti del pensiero Kantiano» (Croce
1910, p. 390).
[118] Una
corda tesa messa in vibrazione emette un determinato suono; se poi essa viene
divisa a metà, il suono ottenuto sarà la stessa nota di prima, ma all’ottava
superiore. Dividendo sempre la corda originaria in altre diverse parti, i suoni
ottenuti saranno più o meno consonanti con quello della corda intera a seconda
del rapporto numerico secondo il quale è stata suddivisa la corda. E quindi se,
come abbiamo visto, al rapporto ½ corrisponde l’intervallo musicale di ottava
(ad esempio: do-do), a quello di 3/2 corrisponde la quinta (do-sol), a quello
di 4/3 corrisponde la quarta (do-fa), e così via. Più i rapporti numerici sono
elementari, e più gli intervalli sono consonanti, ossia gradevoli all’ascolto.
«Dicono alcuni matematici che un insieme di suoni è tanto più consonante quanto
più i loro rapporti di frequenza possono essere ridotti ad una frazione
semplice. Dicono alcuni fisici che la consonanza è tanto più perfetta quanto
più lìonda sonora è priva di distorsioni e di battimenti» [P. Righini, Il suono e la teoria delle proporzioni,
Milano 1952]. Secondo Angelo Comolli il trattato di GALIANI era il più
importante della sua epoca tra quelli che affrontavano il tema della «architettura armonica»(Comolli 1788/92,
vol. III, p. 233)
[119] Si racconta che Orfeo avesse edificato una intera città suonando la
lira, le cui note inducevano le pietre a staccarsi dalle montagne circostanti e
a configurarsi in case, strade, palazzi seguendo gli stessi principi ritmici
della musica. Roberto Pane, però, fa notare che:«l'abate (Ferdinando) GALIANI,
in uno dei suoi opuscoli giocosi, racconta che casi simili a quello di Orfeo
accadevano spesso a Napoli, che pure è città di origine greca, quando venivano
lanciati sassi contro i cattivi cantanti. Ora Orfeo, aggiunge l'abate, dovette
cantare in modo eccezzionalmente stonato dal momento che sassi ne ricevette tanti
da trovarsene intorno quanti ne occorrevano per costruire una città!»(R. Pane, Attualità e dialettica del Restauro,
Chieti 1987, p. 73)
[120] Berardo divenne rettore del collegio nautico che il Re aveva fondato a
Sorrento, con sede nell'edificio della Coccumella
appartenuto già ai gesuiti (Castaldi 1840, p. 149); il collegio era destinato
all'educazione degli orfani dei marinai locali e della costiera amalfitana
(Errichetti 1978, p. 70). Nelle sue note biografiche Ferdinando GALIANI afferma
che il fratello fu nominato nello stesso tempo anche «intendente della Casa
Regale di Massa» (F. GALIANI, Notizie).
In una lettera del 20 settembre 1771 inviata da Sorrento Berardo comunica al
ministro Bernardo Tanucci una terna di nomi per la scelta di un nuovo
Cappellano del Real Convitto (ASN, Casa
Reale Antica, fascio 1328).
[121] «II marchese Tanucci lo fece uffiziale maggiore della Segreteria di
Stato e di Giustizia, ove servì con onore per più anni . Ma finalmente volendo
il GALIANI condurre una vita tranquilla, si ritirò a Sorrento ( )» (AAVV 1793, tomo XII, p.56).
[122] Estratto dalla minuta (Napoli, 30 mar. 1771): «Confuso de’continui
vostri favori vi rendo distinte: grazie del felice augurio e del prezioso
salame favoritomi. Nel dubitare, ove io mi trovi, mi cacciate d'impaccio in non
avervi prima scritto, ed avvisato ove poter voi diriggere i vostri comandi. Io
sono ancora nella segreteria, non partirò probabilmente pel nuovo destino fino
a Maggio»(BSNSP, mss. XXVI. B.6).
[123] Questa notizia, è contenuta nei diari della famiglia Galiani, fu data al
dott. Caffariello dal dott. Aurelio Pironti il quale è in possesso di buona
parte dei documenti relativi al ramo montorese della famiglia
[124] Sull'interessamento di Ferdinando GALIANI alla elaborazione delle carte
geografiche del Regno di Napoli si veda Blessich 1896, nonché De Seta-Di Mauro 1980, in particolare le
schede: 281, 283 e 284, p.32 ss.
[125] F. GALIANI citato in Blessic 1896, p. 146.
[126] Ottenuto per vie spesso non ufficiali, vale a dire sotterranee e
spregiudicate.
[127] Si vedano le lettere tra i due fratelli BSNSP, ms. XXXI. B. 17, passim.
[128] BSNSP, ms. XXX. C. 6, ff. 96r-123v, d'ora in poi PTM.
[129] F. GALIANI, Notizie.
[130] Errichetti 1962, p. 179.
[131] MAGGIO 1773.
[132] «Nel 1772 fu eletto dalla Maestà del Re a proponere i mezzi per
riparare la cadente chiesa e cupola del Gesù Nuovo (vale a dire Trinità
Maggiore), sul quale punto diede in iscritto il suo parere che non ostante
fusse singolare fu stimato da tutti per il migliore» (F. GALIANI, Notizie)
[133] PTM, f. 121r.
[134] F. GALIANI, Notizie.
[135] Castaldi 1840,152, punto 4.
[136] Sulla storia della Coccumella si
veda Errichetti 1978.
[137] F. GALIANI, Notizie: dopo la
morte di Berardo fu il fratello ad occuparsi della cognata e delle nipoti, le
quali sposarono negli anni immediatamente successivi alla morte del padre,
grazie proprio all'interessamento di Ferdinando. Si vedano le sue lettere a
Madame d'Epinay, in particolare quelle del 3 set. 1774 (Il 10 Agosto 1744 si
era sposata nella chiesa di Sant’Anna di Palazzo in Napoli la prima figlia di Berardo
Anna Maria Galiani col marchese Marcello de NATALE-SIFOLA di Casapulla
villaggio della Diocesi di Capua), del 16 set. 1775, e del 24 mag. 1777
pubblicate in L'Abbè F. GALIANI, Correspondance avec Madame d'Epinay,
Paris 1881, nonché AA.VV. 1975, p. 1115 nota 3, ed ancora Ademollo 1880,
passim)
[138] Errichetti 1978, p.70.
[139] ASN, Casa Reale Antica, fascio 1355.
[140] Lo stemma dei Galiani è costituito da un gallo in campo azzurro che
poggia su di un capitello stilizzato e guarda verso una stella dorata a sei punte
posta a sinistra.
[141] Traduzione: «0 voi tutti architetti, chiunque voi siate, che vi trovate
a passare per questo luogo, non disdegnate di porgere un saluto al marchese
Berardo GALIANI, egregio ed incomparabile vostro antesignano che qui riposa»:
E. Campolongo, Sepulcretum amicabile, Neapoli 1781, p. 11, citato in Castaldi
1840, p. 153.
[142] A. Maiuri Saggi, di varie
antichità, Venezia 1954, p. 365, citato in Panza 1990, p. 50.
[143] A titolo d'esempio si ricordi il destino delle tre statue di Vestali, originariamente
collocate nel teatro dell'antica Ercolano, che erano state rinvenute
fortunosamente durante i lavori di scavo per un pozzo: «Nel 1707 poi essendo
venuto in questa capitale (Napoli) Emmanuele Maurizio di Lorena principe di
Elboeuf in qualità di generale al servizio dell'Imperatore Carlo VI, ed avendo
impalmata la figlia unica dei duca di Salsa Teresa Strabone qui fissò sua fissa
dimore. ( ... ). Alcune statue da lui ritrovate furono donate al principe
Eugenio di Savoia, che le fece situare nel suo giardino di Vienna. Tre di esse
dopo la morte del principe furono vendute dall'erede al re di Polonia per 6000
fiorini circa, e furono poste nel gran giardino regale fuori la città di
Dresda, in unione di altre antiche statue, e busti della famiglia Chigi di
Roma, che Augusto re di Polonia aveva comprati mediante 600.000 scudi»
(Castaldi 1840, cap. Ì, pp. 17-9); fu proprio in quest'ultima città che esse
furono osservate con ammirazione da Winckelmann, il quale dal 1748 si era
trasferito nel vicino centro di Notenitz, essendo stato assunto colà dal Conte
di Bunau come bibliotecario (Ottani Cavina 1982, p. 606, nota 3).
[144] Ad esempio si era sparsa la voce del ritrovamento di una statua di Giove
tutta d'oro, come pure di una trireme da guerra conservatasi integralmente e
completa delle parti in ferro e bronzo; o ancora si favoleggiava riguardo alla
scoperta di un fiume sotterraneo che avrebbe, nei tempi antichi, attraversato
Ercolano, (A.F. Gori, Notizie del memorabile scoprimento dell'antica città di
Ercolano, Firenze 1748, p. XI, citato in Zevi 1980, p.64).
[145] O.A. Bayardi, Prodromo delle
antichità di Ercolano, Napoli 1752; ma i tomi III-V, sebbene rechino la
stessa data, in realtà risalgono al 1756. Le Antichità di Ercolano esposte
furono poi pubblicate in otto tomi fra il 1757 e il 1792 a cura della Regale
Accademia Ercolanense.
[146] Ne erano previsti sette.
[147] Ottavio Antonio Bayardi(Parma 1694-1764) ebbe l'incarico di illustrare i
monumenti di Ercolano per la grande fama di dotto, ma forse anche per l'interessamento
di suo cugino il marchese Giovanni Fogliani, che era ministro di Carlo di
Borbone; ma quando questi fu sostituito dal marchese Tanucci (giugno 1755)
anche la posizione di Bayardi ne risultò alquanto scossa, ed egli, pur essendo
stato nominato accademico ercolanese, un anno dopo chiese congedo e si ritirò a
Roma. Si veda Castaldi 1840, pp. 32-3, e pp. 91-2; Schipa 1923, vol. II,
pp.42-3, 207, 229, 232, ss., 274.
[148] Eponimo dell'antica città da poco riscoperta.
[149] Greco, egizio, tirio, ed altri ancora.
[151] Zevi 1980, p.66.
[152] Ibidem.
[153] Sulla storia dell'Accademia si veda Castaldi 1840.
[154] Tra i quali figurava anche Ferdinando GALIANI.
[155] Castaldi 1840, p. 35.
[156] F:GALIANI, Notizie.
[157] Castaldi 1840, p. 148. Sull'argomento si vedano anche i documenti
conservati presso l'archivio dell'Accademia della Crusca (carte Martini n'54,
61 e Diario dell'Accademia cod. 26, seconda parte, anno 1759, pp. 1235).
[158] L’odierna Ercolano.
[159] Lettera degli accademici Mazzocchi, Ignarra e Carcani (Napoli, 10
settembre 1760) indirizzata al Tanucci, e pubblicata in Ruggiero 1881, p. 134.
[160] Comunicazione di Karl Weber al ministro Tanucci (Portici, 19 nov. 1761)
pubblicata in Ruggiero 1881, p. 164.
[161] Che si sviluppò molto tardi, e certamente dopo la riforma delle tecniche
di scavo.
[162] Prima collaboratore , e poi egli stesso direttore degli scavi.
[163] Il proposito di Weber è contenuto in una lettera da lui inviata al
ministro Tanucci (Portici, 6 lug. 1762) pubblicata in Ruggiero 1881, p. 173,
della quale segue la trascrizione: «Lunbes
el dia 5 se ha puesto man en la antigua Estabia o Barano de Castelamar y tendrè
cuente à fin que se escave con buen orden para poder descrivir sus edificios, y
formar un tomo separado que esplicalas habitaciones y el uso de aquellos antiguos
pueblos [por qual fin ya havia hecho el consavido pequeño trababajo y exemplo],
par la formacion del cual necesito la corecion de los Academicos y el ayudo del
Marques GALIANI(que creo particular en esta materia); y sobre todo el examen,
doctrina y aprobacion de V. E.... ».
[164] Winchelmann 1981, passim e
specialmente p. 142.
[165] Panza 1990, p. 52.
[166] Corti 1957, p. 137.
[167] Zevi 1980, p. 61.
[168] Corti 1957, p. 152.
[169] ibidem.
[170] «En 15 de Febrero 1764, Murio
Weber» (G: Fiorelli, Pompeianarum
Antiquitatum Historia, Vol. 1, Pars.11, Neapoli 1860/62, p. 146, citato in
Ruggiero 1881, p. 207)
[171] Ruggero 1885, p. 448: L'elenco completo delle carte che passarono nelle
mani di Francesco La Vega
è in Ruggiero 1881 pp. 207-8.
[172] La relazione finale di questa riunione è stata pubblicata in : Ruggiero
1881, p. 208, mentre un sunto è contenuto in Ruggiero 1885, p. 448. Da questi
stessi due volumi sono tratte tutte le notizie che seguono.
[173] Ossia: Ercolano.
[174] Relazione del 1 agosto 1764, pubblicata in Ruggiero 1881, p. 208.
[175] Ibidem.
[176] Zevi 1980, p. 61.
[177] Il brano è tratto dalla Lettera al Signor Enrico Fuess1y, par. 10, come
pubblicata in Winckelmann 1981, p. 142. In essa lo studioso prussiano precisa che
i sondaggi relativi alla Scena avevano avuto inizio solo due anni prima, e cioè
nel 1762.
[178] Lo stimato testo di Vitruvio che nel settecento costituiva ancora un
riferimento di fondamentale importanza per la cultura architettonica
contemporanea.
[179] E che doveva contenere le piante degli edifici ritrovati.
[180] Lettera degli accademici ercolanesi Alessio Simmaco Mazzocchi, Nicola
Ignarra e Pasquale Carcani al ministro Tanucci (Napoli 10 set. 1760) nella
quale i tre firmatari esprimono le loro valutazioni in merito al volume che
Karl Weber avrebbe voluto far accettare come terzo tomo delle Antichità di
Ercolano esposte; la lettera è stata pubblicata in Ruggiero 1881, p. 132 e
segg.; questo proposito dell'architetto svizzero è confermato anche da una
lettera di Francesco La Vega
inviata al Principe Dentice (Portici, 9 mar. 1765) pubblicata in Ruggiero 1881,
p. 211.
[181] L'edizione galianea fu pubblicata per la prima volta nel 1758.
[182] Prosegue poi GALIANI: « Egli è
vero, che non vi è piccolo paese, ove non se ne veggano delle rovine, sopra le
quali hanno alle volte molti valenti agli anfiteatri, de’ quali se ne
conservano ancora taluni; ma nessuno fin’oggi uomini studiato, ed anche
scritto: ma è vero ancora, che tutti, o quasi tutti hanno impiegate le fatiche,
e riflessioni solamente sopra il giro de’ sedili: cosa la quale era facilissima
ad intendersi, anche perché somiglia in tutto in ciò ha saputo comprendere di
quanto maggiore importanza era lo studiare riflettere, e scavare nel sito della
scena, perché da qualche residuo almeno di pianta si sarebbe potuto prendere in
ciò qualche norma. Io ho veduti peraltro molti disegni di teatri disotterrati:
ma in tutti o non si vede affatto vestigio di scena, o quel che è peggio, vi è finto e aggiungo dal capriccio di
qualche ingegnoso Architetto» (GALIANI 1758, libro V, capitolo VII, p. 116
continuazione della nota 2 a
p. 115).
[183] Fiorelli 1850. Il fascicolo è rarissimo, l'unica copia è conservata
presso la Biblioteca
del Museo Nazionale di Napoli (XXI. C. 16), ad ogni modo le menzionate carte
galianee sul teatro ercolanese sono integralmente anche in Fiorelli 1851 che si
possono consultare presso la
Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (Misc.
XVII. C. 4¹³).
[184] I documenti che Fiorelli attribuisce a GALIANI consistono in: A) Indicazione di una pianta del teatro; è
formata delle legende relative ai due disegni di Weber, alle quali fa seguito
una breve Riflessione, nella quale
l'autore conclude che «questo teatro non è positivamente né greco né romano,
bensì fatto con più comodo e meno dispendio dell'uno e dell'altro, come dalla
costruzione sua si dimostra»; però, si potrebbe trattare invece della relazione allegata alle tavole secondo
quanto affermato da Berardo GALIANI stesso nel documento di cui al punto «B», e
che quindi il vero autore dello scritto sia in realtà Karl Weber, come
confermato anche dal fatto che in origine il documento era in lingua spagnola,
mai usata da Berardo in tutti gli autografi che si è avuto modo di consultare,
e datato 22 giu. 1762, data in cui Berardo non era ancora entrato in possesso
dei menzionati disegni (si veda la citazione fatta da Fiorelli a p. XLII). Solo
l'osservazione diretta del manoscritto potrebbe risolvere tale dubbio, ma
Fiorelli non indica dove essi siano conservati. B) Rappresentanza del Marchese GALIANI al Marchese Tanucci sulla relazione
e su i disegni del teatro ercolanense. C) Scavi richiesti dalla R. Accademia Ercolanese per la formazione della
pianta; non è certo che l'autore di questo scritto sia Berardo, ma è
possibile che, dato l'argomento, gli Accademici abbiano affidato proprio a lui
il compito di stendere tale richiesta. D) Lavori
eseguiti nel maggio e giugno 1765; quest'ultimo scritto dovrebbe essere il
resoconto degli scavi proposti, fatto a GALIANI da Francesco La Vega , il quale aveva ricevuto
l'incarico di eseguirli (Ruggiero 1885, p. XVIII). In definitiva, soltanto il
documento «B» sarebbe un autografo galianeo, non tutti e quattro come invece ha
lasciato intendere, con palese leggerezza, Fiorelli stesso (Fiorelli 1851, p.
XLI).
[185] La risposta di GALIANI consiste nel documento «B» segnalato alla nota
165 di questo lavoro, che risale ad un lasso di tempo compreso tra la data
della morte di Weber (15feb. 1764) e la fine di quello stesso anno. Una diversa
versione della stessa è costituita da una lettera inviata a Bernardo Tanucci
(Napoli 14 feb. 1765), e pubblicata in Ruggiero 1885, p. 456. Ruggiero afferma
che quest’ultima è il parere originale di Berardo, ma potrebbe trattarsi di una
rielaborazione in forma ridotta della sopracitata «rappresentanza» pubblicata da Fiorelli, in quanto in essa Berardo
esprime i medesimi concetti in maniera sintetica. La lettera pubblicata da
Ruggiero sarebbe quindi uno scritto formale ricavato da un precedente elaborato
di lavoro, ed in questo caso la data del 13 dicembre 1753 dovrebbe essere
corretta in 1763).
[186] Fiorelli 1851, p. XLV, capoverso 4.
[187] Il Parere sulla copertura del
Teatro Olimpico è datata 1764,
mentre invece i lavori proposti da GALIANI iniziarono nel maggio 1765.
[188] PTO, f. 290v.
[189] Fiorelli 1851, p. XLV.
[190] «Quando però la brevità mi abbia fatto oscuro, perché non se Le accresca
la noia con altra lettura, che sempre oscura sarà a chi non abbia potuto
visitare gli scavi, ad ogni semplice cenno mi darò l'onore di presentare
all’E.V. un rozzo modello, che espressamente ha formato di tutto ciò che finora
in questo teatro ho scoperto» (Fiorelli 1851, p. XLV).
[191] Ruggiero 1885, p. XVIII.
[192] GALIANI fu informato di quei lavori almeno nei primi due mesi (maggio e
giugno 1765) come risulta dal documento «D» citato in questo lavoro, ove si
legge: «Si sono fatte delle pruove, per riconoscere se esistesse in qualche
luogo l'intera altezza della scena, ma questa l'ho trovata in tutta la sua
sommità diroccata, benché la parte che esiste, è con tutto ciò delle maggiori
che si osservi in qualunque altro antico teatro» (Fiorelli 1851, p. XLVI); i
disegni degli edifici ercolanesi furono pubblicati solo un secolo più tardi, ed
in più riprese, da Minervini, Ruggiero e De Petra.
[193] F: GALIANI, Notizie.
[194] Questa lettera di La Vega
al Principe Dentice costituisce l'unico riscontro documentario dell'episodio
del furto segnalato da Ferdinando GALIANI, ed è stata pubblicata da Ruggiero
1881, p. 211.
[195] Per l'inventario delle carte di Karl Weber si veda Ruggiero 1881, p. VII
e ss., e soprattutto il più recente Fonti
documentarie per la storia degli Scavi di Pompei, Ercolano e Stabbia,
Napoli 1979.
[196] Oltre alla pubblicazione delle Antichità
Ercolanesi furono fatti redigere un numero notevole di rilievi e mappe,
quali ad esempio la pianta di Civita (alias Pompei), quella della Villa Giulio
Felice, (entrambe di Weber), il Tempio di Iside restaurato graficamente da
Francesco La Vega
(Panza 1990, p. 55).
[197] ZEVI 1980, p. 58.
[198] «Iniziata nel 1738 come Palazzo Reale, Capodimonte è stata in seguito
soprattutto usata come museo d’arte, ed occupa pertanto un posto nella
protostoria dei musei d'Europa. La più antica collezione pubblica d’arte è la Raccolta Capitolina
di Sisto IV, risalente al 1471, che trovò il suo attuale alloggiamento in
un’ala del Vaticano, non realizzata per servire da museo, soltanto nel 1734.
Forse la più antica galleria d’arte ancora in uso con la medesima funzione è
quella di Sabbioneta presso Mantova, costruita per Vespasiano Gonzaga nel 1560
circa. Si veda Mordaunt Crook, The British Museum, New York 1972, p. 26»(Cit. in Hersey 1982,
p. 216 nota 9).
[199] Cit. in Zevi 1980, p. 58.
[200] ZEVI 1980, p. 59.
[201] Winckelmann fu a Napoli quattro volte: dal febbraio all'aprile 1758, nel
gennaio 1762, in
febbraio e marzo 1764, ed infine, dal settembre al novembre 1767, la lettera
citata si riferisce a quest’ultimo viaggio.
[202] Winckelmann si riferisce al Museo di Portici, nel quale erano
gelosamente custoditi i reperti recuperati nelle varie campagne di scavo.
[203] Lettera del 19 dic. 1767, pubblicata in Winckelmann 1981, p. 58 ss.
[204] Lettera a Hieronymus Dietrich Berends del maggio 1758, citata in
Winckelmann 1981, p.45.
[205] Zevi 1980, p. 61.
[206] Padre Antonio Piaggi venne chiamato a Napoli dalla Corte Borbonica nel
luglio 1753, per occuparsi dello svolgimento dei papiri che erano stati
rinvenuti nella Villa dei Pisoni l'anno precedente; per tale delicatissima
operazione inventò una macchina, ma anche con l'aiuto di questo strumento i tempi
erano lentissimi, e dal 1754 al 1798 furono svolti soltanto 18 papiri
(Winckelmann 1981, p. 22, nota 28).
[207] Panza 1990, p. 63.
[208] J.J: Winckelmann, Lettera sulle
scoperte di Ercolano al signor Conte Enrico di Bruhl, Dresda 1762, par. 29,
come trascritta in Wilckelmann 1981, p. 79.
[209] Il 6 agosto 1740 le autorità erano dovute intervenire prescrivendo ad
Alcubierre di seguire le pareti lungo il perimetro, per poi entrare nelle case
attraverso porte o finestre, evitando quindi di sfondare i muri (Ruggiero 1885,
p.81 1).
[210] E cioè nel sito di Civita a partire dal 1765.
[211] Si ricordi gli Ornati delle pareti
e pavimenti delle stanze dell'antica Pompei, pubblicati negli anni '60 del
secolo XVIII.
[212] Panza 1990, pp.53 e 55.
[213] E. Corti, Ercolano e Pompei morte
e rinascita di due città, trad. it. a cura di S. Lupo, Napoli 1985, p. 131;
citato in Panza 1990, p. 51.
[214] Zevi 1980, p. 59.
[216] Panza 1990, p. 67.
[217] Capodrise 1729 - Napoli 1804; fece parte dei primi quindici membri
dell’Accademia Ercolanese e, nel 1748, Ferdinando IV lo nominò custode del Real
Museo di Capodimonte,Castaldi 1840, pp. 251 - 4
[218] Giudizio dell’opera dell’Abate
Winckelmann intorno alle scoverte di Ercolano contenuto in una lettera ad un
amico, Napoli 1765, segnalato
in bibliografia come GALIANI - Zarrillo 1765.
[219] Lettera di Zarrillo a Tanucci (Napoli 6 mag. 1765) custodita presso
l'Archivio di Stato di Napoli (Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) e
pubblicata in Winckelmann 198 1, p. 45, nota 63.
[220] Francesco Daniele, nato a San Clemente(Caserta) 11 aprile 1740 fu
l'autore del 'codice Fridericianò che detiene tutta la legislazione di
Ferdinando IV fu nominato nel 1778 Regio storiografo dallo stesso Re; fu uomo
dottissimo e membro di molte accademie italiane ed estere.
[221] Non si è riusciti a trovare alcuna notizia di questo carteggio; si deve
però ricordare che la maggioranza delle carte galianee, non tutte classificate,
sono conservate presso la
Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria.
[222] Questa citazione è tratta da un manoscritto di tono scherzoso che Fausto
Nicolini attribuisce all'abate GALIANI intitolato Ragguagli di Parnaso sotto il
13 maggio 1765, pubblicato da F. Strazzullo in Winckelmann 1981, pp.
183-90; in esso l'autore, ispirandosi ai Ragguagli
di Parnaso (1606-12) di Traiano Boccalini, immagina che la faccenda del
plagio, e delle sue conseguenze, fosse discussa sul Parnaso alla corte di
Apollo. Questo scritto può essere considerato attendibile al fine di fare luce
sulle reali intenzioni di Berardo in merito alla nota polemica.
[223] Il fatto che sia stato Francesco Daniele e non Berardo GALIANI a
pubblicare le Considerazioni risulta
evidente dalla lettura dello scritto di Ferdinando GALIANI menzionato nella
nota precedente (passim), inoltre lo
è lo stesso Zarrillo a darcene conferma in una lettera scritta a Tanucci
(Napoli 6 mag. 1765; ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12, pubblicata
integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63) ove scrive che la
pubblicazione avvenne «senza intelligenza dei GALIANI».
[224] La lettera di Carcani a Berardo (Caserta, 4 mag. 1765; BSNSP ms. XXX. D.
5, f .
108) è stata pubblicata integralmente in Winckelmann 1981, p. 180, nota 7.
[225] Winckelmann 1981, p. 179, nota 3; una copia però era nella collezione di
libri di Leopoldo Cicognara, allegato alla prima lettera di Winckelmann (Catalogo ragionato dei libri d'Arte e
d'Antichità posseduti dal Conte Cicognara, Pisa 1821, vol.11, p.33,
n’2721), e dovrebbe quindi essere ora nella Biblioteca Apostolica Vaticana
insieme a tutti gli altri suoi volumi.
[226] Osservazioni di Ferdinando GALIANI
alla lettera di Winckelmann sugli scavi d'Ercolano, BSNSP ms. XXX. C. ff. 149r-154v. I primi 5
fogli sono scritti nella metà destra sia sul recto che sul verso; il
sesto è scritto allo stesso modo ma solo sul recto, e reca sul verso solamente: «Per Ercolano contra
Winckelmann», apposta dallo stesso Berardo.
[227] Le parti aggiunte da Zarrillo sono: A) pp. 8-19, da «Ma che!» a «ma
nequicquam compreso un passo
piuttosto volgare in difesa di Alessio Simmaco Mazzocchi che Winckelmann aveva
criticato in modo altrettanto scurrile (Lettera
sulle scoperte di Ercolano al Sig. Conte Enrico di Brühl, paragrafo 138,
come pubblicata in Winckelmann 1981, p. 129); B) p. 24-7, da «Egli si
millanta» a «sta così»: compresa la successiva abbreviazione
epigrafica tratta da un sigillo; infine nel manoscritto galianeo non figurano
le due parole di commiato: «Conservatevi, Addio»)
[228] Zarrillo afferma in una lettera al ministro marchese Tanucci (Napoli, 6,
mag. 1765) di aver avuto da Berardo il permesso di citare le sue osservazioni;
la lettera (ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) è stata pubblicata
integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63.
[229] F. GALIANI, Ragguaglio di Parnaso
sotto i 13 maggio 1765, pubblicato in : Winckelmann 1981, pp. 183-90.
[230] Nota introduttiva di Franco Strazzullo in Winckelmann 1981, pp. 46-8
[231] Panza 1990, p. 67.
[232] Ferdinando GALIANI e l'antico, in Pane 1980, p. 2 10.
[233] Zevi 1980, p. 59.
[234] GALIANI-Zarrillo 1765, p. 6.
[235] O meglio quelli salvati dai furti e dalla fusione.
[236] Pane 1980, pp. 210.
[237] GALIANI - Zarrillo 1765, pp. 3-4.
[238] Zevi 1980, pp. 59-60.
[239] Che peraltro traspare anche da un breve accenno contenuto in un suo
scritto del 1773: Ci si riferisce al Parere
del Marchese GALIANI sui danni della Trinità Maggiore (BSNSP, ms. XXX. C. 6 f . 104r, aggiunta a margine.
[240] Lettera sulle scoperte di Ercolano
al Sig. conte Enrico di Brühl,
paragr. 38, come trascritta in Winchelmann 1981, p. 83.
[241] Che faceva riferimento al proverbio citato dal tedesco per offendere
Alcubierre.
[242] GALIANI Zarrillo 1765, pp. 23-4; le maiuscole sono autografe.
[243] I due tomi dell'opera De Regia
Theca Calamaria (Napoli 1756) di Giacomo Orazio Martorelli (Napoli
1699-1777) furono sequestrati in tipografia proprio perché violavano la volontà
del Re anticipando notizie delle quali si stava occupando l'Accademia
Ercolanese, appositamente istituita (Winckelmann 1981, p. 47, nonché Zevi 1980,
p. 64).
[244] Ottani Cavina 1982, p. 622.
[245] Ottani Cavina 1982, p. 621.
[246] Fatti salvi i pochissimi privilegiati quali Berardo GALIANI.
[247] Il quale malgrado provenisse da una regione, la Tascana , storicamente sensibile
al fascino dell’arte ed a quel tempo in prima linea nel campo della cultura
antiquaria, aveva autorizzato l’uso del 'piccone demolitore.
[248] Zevi 1980, p. 60.
[249] E' sempre la
Ottani Cavina a parlare.
[250] Peraltro in una fase storica che Benedetto Croce ha definito: «anni
di risoluto progresso ( ... ) non vertiginoso e neppure rapido; ma
certamente nuovi mali non si aggiunsero agli antichi, e gli antichi furono
attenuati, e il paese respirò»): Cit. in Moscati 1970, p. 37.
[251] «accidiosa, pronta alla polemica, ma anche attentissima agli scavi di
Ercolano»): Zevi 1980, p.60.
[252] Winckelmann, come si è visto all’inizio, ottenne anche nel 1767, quando
le sue critiche erano già ben note alla corte, il permesso di vedere nuovamente
il Museo Borbonico, e il marchese GALIANI non gli negò la riconciliazione; Al
contrario Winckelmann nella seconda lettera (Notizie sulle antiche scoperte d’Ercolano al Signor Enrico Füessly,
Dresda 1764) continuò a seminare insolenze contro la gestione degli scavi,
accanendosi particolarmente contro la Regale Accademia
Ercolanese; il commento di Franco Strazzullo è: «Della generale inerzia
dell’Accademia Ercolanese potremmo dargli anche ragione, ma non andiamo lontano
dal vero se affermiamo che tanta acredine gli veniva principalmente dalla delusione
di non essere annoverato tra i membri di quel prestigioso consesso. E che egli
ci tenesse a quella nomina appare dalla sua lettera del del 5 febbraio 1758
all’amico Berends, nella quale annunziava il suo primo viaggio a Napoli: Ma
quel che più rileva, io ci vo’ nell’intento di diventare uno dei membri della
Società che scrive sulle Antichità»(Winckelmann 1981, p. 39).
[253] Il sistema di riscossione delle tasse (arredamenti) e dei dazi doganali,
era stato dato in appalto ai privati, o venduto ai creditori dello Stato in
piena proprità; Carlo di Borbone allora costituì una Giunta delle ricompre
incaricata di riscattare il patrimonio finanziario pubblico che era stato in
tal modo alienato. Per il successo della riforma finanziaria, e per tutta la
politica economica di Carlo di Borbone si veda De Marco 1980.
[254] Che propagatasi in Sicilia e Calabria rese nulli d’un colpo tutti gli
sforzi fatti dall’amministrazione borbonica per lo sviluppo del commercio.
[255] Ajello 1980, p. 18.
[256] Haskell 1982, p. 20.
[257] Archeologici.
[258] Haskell 1980, p. 30.
[259] Sul Teatro Olimpico di Vicenza si vedano la recente monografia Magagnato
1992, le due pubblicazioni di L. Puppi, Il
Teatro Olimpico (Vicenza 1963) e Andrea
Palladio (Milano 1973), ed ancora Pane 1962.
[260] Le notizie sull'annoso problema della decorazione del soffitto, ove non
sia diversamente precisato, sono state tratte da Puppi 1975.
[261] Grazie alle incisioni e ai documenti coevi.
[262] Ed in particolare la copertura interna.
[263] X111,5.
[264] O di altro discepolo che comunque ha solo messo su carta l'idea del
maestro.
[265] Puppi 1975, p. 310; Wittkower 1964, p. 71 e nota 1.
[266] Vale a dire Ottavio Orefici (cfr. Magagnato 1992, p. 225), o ancora
Ottavio Bruto Revese; si è preferita la grafia adottata dal Pallucchini nella
scheda del Thieme-Becker (s.v., vol. XXVIII, p. 206). Per questo personaggio,
che fu lettore ordinario della Accademia Olimpica nel 1605 e 1608, si veda L.
Puppi, Profilo di O. Revese Bruti, in
«Bollettino del CISA “A. Palladio”»,
111 (1961 ).
[267] Solo recentemente è stata rintracciata l'incisione originaria, segnalata
in Magagnato 1992, p. 225.
[268] «Coperto il resto del sito col medesimo livello essendo finto aere»(O.
Revese Bruti, Lettera descrittiva
allegata alla stampa, cit. in Puppi 1975, p. 313).
[269] Pane 1962, p. 364.
[270] Il boccascena nasce in ambiente toscano nella prima metà del
cinquecento, ed è singolare che nell’Olimpico, lo si trovi associato ad una scaenae frons; filologicamente corretta
(cf. Magagnato 1992, p. 69).
[271] Palladio aveva collaborato con Daniele Barbaro per la sua edizione del De Architectura (pubblicata a Venezia
nel 1556), contribuendo anche all’elaborazione delle tavole.
[272] Puppi 1975, p. 310.
[273] Parere del M.se Berardo GALIANI
dato sulla copertura del Palco del Teatro Olimpico (d'ora in poi: PTO), 1764, f . 290v.
[274] Intorno al 1648.
[275] Puppi 1975, p. 317, 318 e relative note.
[276] Che nel frattempo, in una data imprecisabile, aveva sostituito il finto
aere al quale faceva riferimento Revesi-Bruti.
[277] Atti originali dell’Accademia Olimpica (d’ora in poi: AAO) b. 3, fasc. 17,
c. 92r (cit. in Puppi 1975, p. 320).
[278] Quella che GALIANI cita come contemporanea; PTO, f. 271 v.
[279] Come risulta dalla lettera di Enea Arnaldi a Francesco Ottavi
Magnocavalli del 4 feb. 1764 (originale inedito presso la Biblioteca Civica
di Casale Monferrato, Archivio Magnocavalli, scatola da inventariare, minuta
autografa presso la BBV ,
Libreria Gonzati, parzialmente pubblicata in Ieni 1987, p. 301). La conseguenza
immediata di ciò fu che, semplificata la soffittatura “alla ducale”, il
pavimento della scena fu ridotto a «tavole senza lavoro alcuno» (G.
Montenari, Del Teatro Olimpico, Padova 1749, p. 45, cit. in Puppi 1975, p. 330
nota 37, in
fondo).
[280] Il soffitto della scena fu dipinto da Angelo Rossi e Antonio Fossati per
500 ducati (AAO = b.1: Repertorio Atti
dell’Accademia Olimpica, fasc. 1, n° 24; cit. in Puppi 1975, p. 320 e nota 36 a p. 330).
[281] Enea Arnaldi denunciò l’uso di legno poco stagionato (cfr. Puppi 1975,
p. 320).
[282] AAO = b. 6: fasc. n’82 (parti 1740-1780), cc. 19r ss (cit. in Puppi
1975, p. 330 nota 39).
[283] Per la bibliografia completa su tutta la vicenda settecentesca, alla
quale prese parte anche GALIANI, si veda Magagnato 1992, p. 252 ss. Schede
2.48a, 2.48b, e 2.49.
[284] Barbieri 1972, p. 41-2.
[285] Replicata il 20 giugno.
[286] O arnaldiano.
[287] Ibidem.
[288] O. Calderari, Discorso intorno alla copertura
da farsi al pulpito dei Teatro Olimpico di Vicenza, Padova 1762 (cit.
in Puppi 1975, p. 322).
[289] Barbieri 1972, p. 41‑2.
[290] Olivato-Puppi 1980, p. 200 scheda 227.
[291] F. Anti, Relazione sopra la
copertura del Teatro Olimpico, Vicenza 1909, pp. 18-9 (cit. in Puppi 1975,
p. 330 nota 43).
[292] I pareri degli studiosi Calderari, Temanza, GALIANI, Magnocavalli,
Borra, e Tortosa, sono riassunti nello scritto dell’abate Capperozzo, Memorie riguardanti la copertura del Teatro
Olimpico (BBV mss. Gonzati, 25.
10. 105-112, Miscellanea di carte manoscritte mm 284x220; cit. in Olivato-Puppi
1980, p. 200 scheda 227).
[293] E: Arnaldi, Idea di un Teatro Ecc.
[ ... ], Vicenza 1762 e Ieni 1987, p. 301.
[294] Come risulta dalla citata lettera di Arnaldi a Magnocavalli del 4 feb.
1764, pubblicata in Ieni 1987, p. 301.
[295] Sulle ipotesi di identificazione di questi, si veda: Ieni 1987, p. 304 e
nota 26.
[296] Ieni 1987, p. 303 e nota 23.
[297] (Non essendo stato ritrovato, ad oggi, il parere specifico che egli
aveva indirizzato ad Arnaldi nell’agosto nel 1764, la posizione teorica del
Conte Magnocavalli è nota principalmente tramite una lettera che quest’ultimo
inviò al canonico Ignazio de Giovanni, destinato a fare da intermediario con il
nominato Sig. Bartoli (Ieni 1987, p. 304 e nota 26): Lettera del Conte F. O. Magnocavallo al signor canonico De Giovanni
sulla copertura del pulpito del Teatro di Vicenza (BBV, mss. Gonzati 25.10.109), pubblicata da
N. Carbonieri, Riflessi Palladiani
nell’epistolario Arnaldi-Magnocavalli, in «Arte Veneta», n. XXXII, (1978),
p. 443-5)
[298] E. Arnaldi, Idea di un Teatro,
Vicenza 1762. Insieme a questa pubblicazione, furono inviati a Berardo GALIANI
altri due volumi, affinché avesse i necessari elementi per elaborare il suo Parere (PTO, f. 271r); questi erano : O.
Calderari, Discorso intorno alla
copertura da farsi al pulpito del Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza 1762;
e G. Montenari, del Teatro Olimpico,
Padova 1749.
[299] Ms BP 2537, vol. VI, ff. 130r-147r.
[300] A differenza di quanto affermato in Ieni 1987, poiché in fondo al
manoscritto si legge: «Copia fatta il mese di Giugno 1810 essendo a prendere
le acque di Recoaro» (f. 147r).
[301] mss. Gonzati 25. 10. 105-112.
[302] Cfr. Olivato 1990, p. 208 scheda 5.12: Olivato Puppi 1980, p. 200 scheda
227; Ieni 1987, p. 303 nota 24.
[303] BSNSP, ms. XXXI. A. 8, ff. 271r-291v. La
numerazione indicata, apposta a matita, è relativa a tutto il volume; essa si
affianca (e in alcune pagine si sovrappone) a quella autografa, apposta dall’autore,
a penna, solo su recto dei fogli il
alto a destra, e che va da 1 a
20.
[304] Presente invece in entrambi gli esemplari già noti.
[305] Ad essa nell’esemplare napoletano viene fatto comunque riferimento: «Tutto
si può chiaramente vedere nell’annessa figura» (PTO, f. 284r).
[306] Penna e inchiostro su carta vergata e filigranata, in Magagnato 1992,
pag. 254..
[307] PTO f. 284r.
[308] Della quale era evidentemente in possesso. Nella prefazione alla sua
edizione dello stesso testo, Berardo GALIANi elenca tutte le altre traduzioni
ed i commenti pubblicati fino al suo tempo, nonché i due antichi testi della
Biblioteca Vaticana che egli aveva studiato e collazionato con gli altri a lui
noti.
[309] PTO, f. 283r: «Come pensasse Palladio intorno a’ Teatri antichi,
( ... )»; I dieci libri dell'Architettura
di M Vitruvio tradutti et commentati da monsignor Barbaro, Venezia 1556,
libro I, cap. 6, p. 40, citato in Wittkower 1964, p.68.
[310] PTO, f. 284r.
[311] Anche questa disegnata da Berardo GALIANI.
[312] Questo profondo studioso e documentatore dell’opera palladiana, avendo
beneficiato una borsa di studio istituita da Vincenzo Scamozzi col fine di
mantenere viva la propria memoria, assunse il cognome di quest’ultimo per
adempiere ad una specifica clausola prevista dal suo testamento. L. Vagnetti, L’architetto
nella storia di Occidente, Firenze 1974, p. 257 e nota 18.
[313] La prima monografia in assoluto sul Teatro Olimpico.
[314] La pianta criticata da GALIANI (che figurava in G: Montenari, Del Teatro
Olimpico, Padova 1733) era opera di Francesco Zucchi, ed è stata pubblicata in
Magagnato 1992, p. 233. A
Berardo furono inviati altri due libri, nei quali i due antagonisti, Calderari
ed Amaldi, esprimevano le rispettive posizioni sulla questione della copertura.
[315] G: Fossati, Fabbriche inedite di
Andrea Palladio, Venezia 1740/45, tav. I; presso la Biblioteca del Museo
Civico Correr (St.Correr 59/61/66/68), pubblicata anche in: F. Muttoni, Delle fabbriche inedite di Andrea Palladio
vicentino arricchite di tavole, Venezia 1760, tomo I. Al confronto con
questa, la pianta di Zucchi appare decisamente grossolana, anche per quanto
attiene alle proporzioni delle aperture della scaenae frons.
[316] PTO, f. 284r.
[317] G. Montenari, Del Teatro Olimpico,
Padova 133, paragrafo 11, p. 8.
[318] O. Bertotti Scamozzi, op. cit., tomo I, p. 19; citato in Pane 1962, p.
362.
[319] PTO, f. 284r. Il corsivo è del dott.Tommaso Carrafiello.
[320] Ivi, f. 288r; i corsivi sono autografi.
[321] Che nell’esemplare napoletano è evidenziato con una riga nera apposta
sul margine esterno del foglio.
[322] Ivi, ff. 285r in fondo e 285v.
[323] Che occupa più della metà dell’intero Parere.
[324] Compreso Vitruvio.
[325] Weber era stato prima collaboratore e poi direttore degli scavi
archeologici di Ercolano e Pompei; elogiato da Winckelmann, a lui si devono una
serie di progetti tendenti a riformare la tecnica degli scavi, consistenti
principalmente nell’abbandono della politica di saccheggio, sostituendola col
disseppellimento sistematico.
[326] Winckelmann 1981, pp. 45 e 145.
[327] Le notizie su questa parte, relativa ai saggi di scavo nel teatro
ercolanese, sono state tratte da Ruggiero 1885 e dallo scritto di Giuseppe
Fiorelli contenuto in Minervini 185l; da essi si apprende che Berardo aveva
anche realizzato un modello grossolano dell’edificio per il ministro Tanucci.
[328] È singolare notare che nelle
Observations sur les Antiquités de la
Ville d'Herculanum, pubblicate dal disegnatore C. N.
Cochin e dall’architetto Jérome Bellicard nel 1754, le due immagini del teatro
di Ercolano (la prima rappresentava la superficie del teatro al momento del
rinvenimento, mentre con la seconda gli autori avevano cercato di ricostruire
lo stato originario) erano messe a confronto proprio con la pianta del Teatro
Olimpico, al quale era dedicata una terza tavola (Panza 1990, p. 56).
[329] PTO, f. 288v.
[330] «in altre fatiche, che ho per le mani, spero con più chiarezza,
distinzione, e precisione far meglio acquistare sempre più chiara idea del
Teatro antico» (Ivi, f. 290v).
[331] Per i motivi che lo spingevano a credere ciò si veda PTO, f. 290v.
[332] Ivi, f. 285v.
[333] Dalla ianua regia infatti si
scorge la prospettiva di ben tre strade diverse.
[334] Si tenga presente però, che le prospettive sono opera di Vincenzo
Scamozzi; sulle intenzioni di Palladio riguardo a questa parte dell’Olimpico,
si veda la più volte citata monografia Magagnato 1992.
[335] Come invece quelle poste sopra la balaustra della cavea.
[336] PTO, f. 285v.
[337] J. Marzari, Historia di Vicenza,
Vicenza 1591, parte 1 (cit. in Puppi 1975, p. 312, e nota 7 a p. 328).
[338] PTO, f. 290v.
[339] Magagnato 1992, p. 66.
[340] Magagnato p. 69.
[342] Adeguatamente modificato, per essere applicato ad una cavea di forma
ellittica.
[343] Questo rilievo, e l’applicazione su di esso dello schema vitruviano sono
stati pubblicati ivi.
[344] Fatto, quest’ultimo, che aveva dato occasione alle ormai note
interminabili dissertazioni archeologiche.
[345] PTO, f. 289r.
[346] nel 1813.
[347] Anche se non con la solerzia che si sperava.
[348] Tutte le note ottocentesche sono trattate in Puppi 1975, p. 322-7 e
relative note.
[349] Suo fedele discepolo.
[350] Come pure, è il caso di sottolinearlo, di Francesco Ottavio
Magnocavalli.
[351] Nel 1902.
[352] La chiesa del Gesù divenne Trinità Maggiore a partire dal 1768, quando,
cacciati i Gesuiti dal Regno delle Due Sicilie, fu assegnata ai Francescani
Riformati dei due conventi della Croce e della Trinità di Palazzo; solo nel
1804 Ferdinando IV, il quale a malinquore li aveva dovuti allontanare 37 anni
prima, riammise la Compagnia
nel Regno. L’autore ha preferito conservare questa denominazione nel titolo,
poiché consente anche la collocazione storica dei fatti di cui si argomenta.
Per la storia della chiesa si vedano De Biase 1952, Errichetti 1974, e Montini
1956 che ne pubblica la pianta.
[353] Cit. in Montini 1956, p. 16.
[354] Roccia eruttiva estratta esclusivamente nell’area flegrea. F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze
1953, pp. 362, 368, 385-6, 392.
[355] Roberto Pane in Architettura del
Rinascimento a Napoli, fa notare che l’edificio napoletano è più antico del
palazzo di Biagio Rossetti a Ferrara (detto dei “Diamanti”) e della dimora
bolognese dei Bevilacqua.
[356] Cfr. G. Ceci, Il Palazzo dei
Sanseverino, principi di Salerno, in «Napoli Nobilissima», VIII
(1989), pp. 81-5)
[357] Galiani ne attribuisc erroneamente il progetto a padre Pietro Provedo (Parere del M.se Galiani sui danni della
Trinità Maggiore, BSNSP ms. XXX. C. 6, inedito, d'ora in poi: PTM, f.
123r), e come lui molti altri autori contemporanei fra i quali addirittura
Francesco Milizia [cit. in Sasso 1856]. L’equivoco è dovuto al fatto che il
Valeriano portava avanti conemporaneamente un gran numero di lavori per i
confratelli gesuiti, ed era molto spesso assente dai suoi cantieri, cosicché i
sostituti ed i continuatori si permettevano talora di modificare i disegni,
passando per gli effettivi artefici di quelle fabbriche. Fra questo p. Provedo,
che entrò nella Compagnia nel 1600,
a quattro anni dalla morte do Valeriano, e al quale sono
state attribuiti i finestroni e le volute laterali della facciata; queste
ultime sono simili a quelle del Gesù vignolesco a Roma, ma si accartocciano
all’infuori, anziché in dentro (Montini 1965 passim e Sasso 1856 p. 155 ss.).
[358] La pianta è stata definita «geniale fusione in un rettangolo
perimetrale della michelangiolesca croce greca del San Pietro e della forma
basilicale del Gesù di Roma» (De Biase 1952, pp. 279-92). Si tratta infatti
di una croce greca, ma a bracci disuguali inscritta in un rettangolo, i
cui spazi angolari ospitano tre cappelle per lato, due prima e una dopo il più
breve braccio traverso; si veda la pianta in Montini 1956.
[359] De Biase 1952, p. 283.
[360] Giovanni Lanfranco nacque a Terenzo il 26 gennaio 1582, fra i Carracci
fu legato in particolare ad Annibale col quale lavorò a Roma; a Napoli arrivò
nel 1633-34 e vi rimase fino al 1646, lasciando alla città opere di singolare
grandiosità, quali quelli alla Certosa di San Martino. Tornato Roma, vi morì il 30 novembre 1647.
[361] Su questa primitiva cupola si veda Errichetti 1962, pp. 177, in particolare le note
4 e 6, nonché la minuta descrizione in Celano-Chiarini 1856, vol.III, pp.
350-352.
[362] O almeno vi contribuì notevolmente.
[363] La chiesa è a croce greca a bracci disuguali, in quanto la tribuna si
estende oltre la crociera per una lunghezza pari a quella della nave maggiore,
e la cappella di S. Ignazio ne
costituisce un braccio laterale.
[364] Celano-Chiarini 1856, vol. III, p. 351.
[365] Che corrisponde ad un braccio del transetto.
[366] Ove nel frattempo avevano officiato le loro funzioni.
[367] GALIANI, al pari dei suoi contemporanei, riteneva invece che in sei mesi
fosse stata ricostruita anche la cupola (PTM, f. 123).
[368] Errichetti 1962/63, pp. 177-8.
[369] Tanto da risultare più bassa della precedente.
[370] Il disegno originale dell’architetto Giuseppe Monzo, datato 1769, è
stato distrutto durante un incendio nel 1943, ma non è andato perduto essendo
già stato riprodotto in Sasso 1956, tav. 13.
[371] PTM, f. 100r.
[372] Errichetti 1962/63; si veda inoltre l’importante manoscritto: Riassunto
di tutte le relazioni fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore
(BSNSP, XXIX. A. 10, ff. 197-204), nel quale sono compendiate tutte le
relazioni presentate fino al maggio 1774 (segnalato in Ceci 1921, p. 92, n. 2).
[373] Che porta la data del 15 maggio: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1306.
[374] Ma Berardo GALIANI, più correttamente dirà «Euritimia»: B. GALIANI, PTM; passim,
e specialmente f. 109r, si veda anche quanto egli afferma nella «Idea
generale dell’Architettura, estratta da’ dieci Libri di M. Vitruvio Pollione»,
che precede la sua edizione dell’antico testo: « » (GALIANI 1758, p. XIV).
[375] Oggi anche i più assennati e pratici Architetti confondono l’effetto
dell’Euritmia con quello della Simmetria in modo, che avendo perduto fin anche
l’uso della voce Euritmia, chiamano tutto Simmetria
[376] della quale il Serlio ci ha tramandato anche un esempio grafico: Si
tratta di un disegno inerente il consolidamento di un porticato, da lui stesso
eseguito a Bologna (S. Serlio, I sette
libri dell'Architettura, Venezia 1584, libro VII, cap. LXIII, nona propositione,
p. 158).
[377] Del quale, peraltro Berardo GALIANI prende nota diligentemente nel suo Parere: Si vedano le misure appuntate al
foglio 98 recto e verso, alla luce di quanto viene detto
nel Capitolo II, intitolato appunto: Proporzioni
della Chiesa.
[378] Amministratrice dei beni espropriati ai Gesuiti.
[379] Errichetti 1962/63, p. 178.
[380] Che nel frattempo avevano preso il posto dei gesuiti.
[381] Era il novembre 1769 (Errichetti 1962/63, p. 1791).
[382] 10 giugno 1771.
[383] 5 gennaio 1772.
[384] Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[385] Parere di Vincenzo Lamberti e lettera di Luigi Vanvitelli: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1336; minuta
di quest’ultima: BNN, ms, XV. A. 8-3.
[386] Guerra 1967, pp. 391-3; l’articolo contiene delle osservazioni molto
interessanti sulle teorie statiche che furono alla base dello scontro tra
Vanvitelli e Lamberti.
[387] B.F. Belidor, La science de
l’ingenieur dans la conduite des travaux de fortification et d'architecture
civile, 1729; L. Mascheroni, Nuove
ricerche sull'equilibrio delle volte, Bergamo 1785; L. Salimbeni, Degli archi e delle volte, Verona 1787;
tutti citati in Guerra 1967.
[388] De Fusco 1973, p. 30.
[389] Bottari 1754, passim.
[390] Sarebbe morto l’anno successivo, il 1773.
[391] «Vanvitelli non solo combatte a Napoli questo professionista locale, ma
tenta di impedirgli persino di realizzare qualsiasi opera altrove»(De Fusco
1973, p. 30); su Gioffredo si veda R. Pane, L'architettura
nell'età barocca in Napoli, Napoli 1939.
[392] «E quanto la contesa sia stata a cuore ai due difensori della integrità
del Tempio lo si vede dal fatto che, mentre il Lamberti dedicava quasi un
decennio della sua attività scientifica a problemi evidentemente maturati in
connessione con quello della cupola del Gesù Nuovo, il Gioffredo progettava e
contruiva la più imponente e più bella delle attuali cupole napoletane, cioè
quella dello Spirito Santo, cupola che, nel panorama di Napoli, ha preso, sia
pure un po’ in sordina, l’eminenza che aveva una volta quella del Tempio della
Casa Professa» (Guerra 1967, p. 393).
[393] Mario Gioffredo divenne Architetto di Corte nel 1783, solo due anni
prima della sua morte (Sasso 1856).
[394] Relazione degli ingegneri, con lunga lettera del Regio Consigliere
Gennaro Pallante a Tanucci: ASN, Casa
Reale Antica, fascio 1334 (segnalato in Errichetti 1962/63, p. 183, nota
24).
[395] Che la definì «scandalosa», (PTM, f. 96).
[396] Riassunto di tutte le Relazioni
fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore, BSNSP ms.
XXIX. A. 10, ff. 197-204, segnalato in Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[397] Parere del M. GALIANI sui danni
della Trinità Maggiore e sui ripari e rifazioni, ms.
XXX. C. 6, ff. 95r-123v; a causa di questa «M.» il manoscritto era stato
erroneamente attribuito (come risultava dal catalogo e dall’indice sommario del
volume rilegato che lo contiene) a monsignor Celestino GALIANI, zio ed
educatore di Berardo, il quale, però, oltre a non essersi mai interessato di
architettura, era già passato a miglior vita nel 1753, e non poteva quindi aver
apposto su quel manoscritto la data invece presente del 2 settembre 1773.
[398] PTM, f. 96v.
[399] Vale a dire di Ferdinando Fuga.
[400] PTM, f. 111r.
[401] Il nome deriva dall’Evangelista raffigurato nel soprastante pennacchio.
[402] «Ecco per li preposti lemmi come si vede fendersi l’interposto angolo
del pilone, separarsi, e scappar fuori diagonalmente verso libeccio», ossia
Sud-Ovest (PTM, f. 113r-v).
[403] con quel complesso di speroni e contrafforti atti a distribuire il peso
e le spinte delle coperture voltate.
[404] Sempre nel Parere.
[405] PTM, f. 104r, aggiunta a margine.
[406] PTM, f. 115r.
[407] l’attuale, non quella a cui si riferiva la trattatista rinascimentale.
[408] PTM, f. 106v.
[409] PTM, f. 101v.
[410] PTM. f. 122r.
[411] Accettando tutte le conseguenze che ne derivano.
[412] PTM, f. 121r.
[413] PTM, f. 121r-v.
[414] Celestino fece parte de «L’Archetto», il circolo culturale
formatosi intorno allo stesso Bottari, al cardinale Neri Corsini e a Gaspare
Cerati, nell’ambito del quale si cercava un punto d’incontro tra il Giansenismo
e l’ortodossia cattolica, «tra la cultura cartesiana e quella lockiana, tra
la fisica dei tourbillons e quella della gravitazione, tra l’erudizione e la
politica utilizzazione delle sorprendenti scoperte del passato etrusco, greco e
romano, tra la tecnica giuridica ed un nuovo senso storico del diritto»(F.
Venturi, Settecento riformatore,
Torino 1969, p. 22; cit. in : De Fusco 1973, p. 39, nota 11).
[415] A partire dal 1731.
[416] Monsignor GALIANI insegnò all’Università della Sapienza fino al 1728,
anno in cui fu eletto abate generale dell’Ordine Celestino; oltre che negli
anni degli studi ecclesiastici, fu a Roma dal 1737 al 1741, dovendosi occupare
del difficilissimo concordato fra la Santa Sede ed il Regno di Napoli (Nicolini 1951,
p. 107 e 109).
[417] «Attraverso i numerosi discepoli o estimatori di monsignor Celestino
GALIANI, e per i rami della principesca famiglia fiorentina, il giro delle
comuni amicizie si estendeva dalla Toscana fino alle terre del Regno (delle due
Sicilie), toccando le varie sfere della società notabile settecentesca:
l’aristocrazia, la classe politica, l’alto clero, l’élite intellettuale»
(Felici, 1972, p. 176).
[418] E tra i meno corrotti del De
Architettura.
[419] «La scelta però de’due citati (codici manoscritti) la debbo al purgato
giudizio di Mons. Assemanni e di mons. Bottari, Custodi della medesima, a’quali
non cesserò mai di professarne ìnfinite obbligazioni» (Felici, 1972, p. 176).
[420] Come si evince dal carteggio fra il prelato fiorentino e Ferdinando
GALIANI(Felici 1972 le lettere di Ferdinando datate 27 lug. e 3 ago. 1754,
nonché quelle di Bottari del 2 e 30 lug., 13 ago. 1754, 25 feb., 25 mag. e 1
giu. 1756).
[421] Strazzullo 1973, p. 269.
[422] Di Stefano1973, p. 221. Alludendo probabilmente anche a Ferdinando Fuga
che in quell’occasione si mostrò molto più acuto riguardo agli interventi di
consolidamento di quanto non fece poi a Napoli, aderendo al partito non
interventista del prelato.
[423] Cit. in Strazzullo 1973, p. 271, nota 20.
[424] Si tenga presente, però, che a Roma erano le lesioni lungo i meridiani
della cupola a destare le maggiori preoccupazioni, mentre invece nella chiesa
della Trinità Maggiore le crepe interessavano principalmente le sottostanti
strutture verticali. Ciò che si vuole sottolineare, invece, è l’atteggiamento
non interventista e rispettoso del manufatto originario, che era comune ai due
eruditi.
[425] Bottari aveva espresso esplicitamente le sue critiche nei confronti di
Maderno, colpevole di aver adoperato delle colonne, invece che pilastri, nella
nuova facciata (Bottari 1754, Dialogo II,
p. 122), ed aggiunge, per bocca di Carlo Maratta: «Voi non potreste credere,
quanto mi offenda ogni volta, che vado a S. Pietro, il vedere quel frontespizio
posto non in cima, ma poco più della metà di quell’enorme facciata, sul qual
frontespizio di poi posa un ordine attico, del quale taglia traverso nella più
sconcia guisa, che si possa mai vedere, le finestre» (Bottari 1754, Dialogo III, p. 251): Ma il vero motivo del
suo disappunto riguarda lo stesso principio di trasformare la pianta della
chiesa da croce greca a croce latina, pregiudicandone totalmente il meccanismo
proporzionale impostato da Bramante, e rispettato dai continuatori, dal quale
deriva l’armonia, e quindi la bellezza, della Basilica Vaticana (Bottari 1754,
Dialogo II, p. 96).
[426] «Risuscitò questa voce nel 1742, che tutta la cupola di S. Pietro
rovinava, e fu ascoltata così benignamente, che quantunque alcuni
disappassionati ed intendenti, altamente reclamassero, non furono ascoltati, e
bisognò più per la politica, che per fortificazione cerchiarla come una botte
con quattro cerchi con danno grave della Cupola, e con ispesa di molte dozzine
di migliaia di scudi, e con piacere, e utile degli Architetti. Veggasi la vita
del senator Nelli, stampata in Firenze nel 1753 e le scritture ad esse annesse,
fatte molti anni avanti a questi romori, le quali disapprovano con ottime prove
questi cerchi» (Bottari 1754, Dialogo II, nota a p. 82).
[427] Questa vasta raccolta di volumi, riguardanti le materie artistiche ed in
particolare l’architettura, alla morte di Berardo fu venduta da Ferdinando
GALIANI a Caterina II tramite l’intercessione di Friedrich Melchior von Grimm e
trasferita in Russia (cfr.: L’Abbé F. GALIANI, Correspondance avec Madame d'Epinay, Paris 1881, vol. II, pp. 457,
465, 504, 514; cit. in: AA. VV. 1975, P. 1138; L. Gambacorta, Ferdinando GALIANI e la Russia , in «Archivio
Storico per le Province Napoletane», vol. 106, 1988, pp. 335-345. In occasione di questa
alienazione fu stampato un Catalogo della
collezione di libri appartenenti alle belle arti, e all'agricoltura del fu
Marchese Berardo GALIANI accademico ercolanese, Napoli 1776, in 8° [Comolli
1788/92, vol. I, p.77] ben compilato e diviso in XIV classi. Inoltre presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli [S. C. Bib. Gen. B. 96. IV] è conservato un Catalogo di altri libri appartenenti alla libreria che non sono nella
collezione del fu Marchese Berardo GALIANI, s.l., s.d.; si tratta di 28
paginette a stampa ove si comunica che la vendita sarebbe avvenuta il 21 marzo
[presumibilmente del 1776] al primo piano della casa del defunto a Sant'Anna di
Palazzo).
[428] Che aveva nel frattempo sostituito Gioffredo, allontanatosi per le
discordanze con gli altri esperti.
[429] Ceci 1921, p. 92, nota in fondo.
[430] F. GALIANI, Notizie.
[431] Rispettivamente: relazioni del 3 feb. 1774 e del 15 giu. 1774 (cfr.
Errichetti 1974, p. 66).
[432] Era il 1786.
[433] Nel frattempo Ferdinando Fuga aveva proposto un, altro progetto, che
certo non gli fa onore, poiché, con lo scopo di finanziare i lavori di
restauro, comportava la riduzione della chiesa alla sola navata centrale, la
riconversione delle laterali ad abitazioni, e la vendita dei marmi e dei
dipinti rimossi (ASN, Casa Reale Antica,
fascio 1396, segnalato in Errichetti 1974, p. 68).
[434] Essa, dal 1778, aveva preso il posto della Giunta degli Abusi (che fino
ad allora si era interessata di tutti gli affari gesuitici) nella cura
dell’Azienda di Educazione; quest’ultima, dal 1773, si occupava delle proprietà
confiscate ai Gesuiti, e che infatti erano stateestinate all’erezione di
Istituti di Educazione, da cui il nome.
[435] Termine usato ancora oggi in area napoletana per indicare la volta a
botte.
[436] ASN, Casa Reale Antica, fascio
1418, segnalato in Errichetti 1962/3, p. 182.
[437] I tre documenti che seguono sono stati tratti da uno scritto di Giuseppe
Fiorelli - Il giornale degli scavi di
Pompei - il quale, a suo dire, ne aveva rinvenuto gli originali tra le
carte di Berardo GALIANI. Si tratta di una pubblicazione rarissima, infatti
l'unico esemplare noto all'architetto Tommaso Carrafiello è conservato presso la Biblioteca del Museo
Nazionale di Napoli (XXL. C. 16), che ha potuto constatare che le carte
galianee sul teatro ercolanese sono integralmente riportate anche in Fiorelli
1851, che ha consultato invece presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia
Patria (Misc. XVII. C. 4¹³). Lo stesso Fiorelli lascia intendere che Berardo
sia anche l'autore dei documenti da lui pubblicati (Fiorelli 1851, p. XLI), ma
Carrafiello ritiene che questa sua deduzione sia quasi completamente errata, in
quanto solo uno di essi può essere attribuito con assoluta certezza all’illustre
commentatore di Vitruvio, vale a dire quello intitolato Rappresentanza del Marchese GALIANI al Marchese Tanucci sulla relazione
e su i disegni del Teatro Ercolanese, che qui compare per primo. Per quanto
riguarda gli altri, invece, è molto probabile che GALIANI ne fosse solo il
possessore, come risulta abbastanza chiaro dalla loro lettura. Infatti di essi
uno è una richiesta formale fatta dall'Accademia Ercolanese affinché venissero
avviati quegli scavi proposti da Berardo (Scavi
richiesti dalla R. Accademia Ercolanese per la formazione della pianta), e
che quindi al massimo potrebbe essere stato redatto da questi dietro incarico
della Accademia stessa, sebbene non è da escludere che lo scritto fosse
arrivato nelle sue mani soltanto per conoscenza della comunicazione fatta
all’amministrazione reale; l'altro e ultimo scritto (Lavori eseguiti nel maggio e giugno 1765) l'architetto Carrafiello
ritiene sia quasi certamente un resoconto fatto pervenire a Berardo da
Francesco La Vega ,
vale a dire colui che aveva ricevuto l'incarico di eseguire i più volte
menzionati lavori. Nell'opuscolo di Fiorelli, figurava la trascrizione di un
quarto documento (Indicazione di una
pianta del teatro), anch'esso attribuito erroneamente a GALIANI, e formato
da due legende corredate di una breve Riflessione
; questi tre scritti nel loro complesso dovrebbero costituire proprio quella
«relazione» allegata alle tavole che furono consegnate nelle mani di Berardo,
come egli stesso afferma nella sopracitata Rappresentanza.Si
tratterebbe, quindi di scritti dovuti all'architetto svizzero Karl Weber, in
sostanza la stessa persona che aveva disegnato quella pianta e quel profilo del
Teatro Ercolanese che si aveva intenzione di pubblicare. Solamente l'analisi
dei manoscritti originali potrebbe permettere di far luce su tali dubbi nella
attribuzione, ma Fiorelli non indica ove questi siano conservati.
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