La polemica con Winckelmann
Di ritorno da Napoli Johann
Joachim Winckelmann scrisse allo scultore danese Giovanni Wiedewelt(19 dicembre
1767) raccontandogli del suo recente viaggio (il quarto)[1]nella
capitale borbonica, ed accennando per l’ultima volta agli scavi archeologici di
Ercolano e Pompei che aveva avuto modo di visitare in varie occasioni. In
questa lettera l’archeologo di Dresda non poté fare a meno di manifestare la
sua grande meraviglia per l’accoglienza ricevuta, e specialmente per la
disponibilità degli alti uffici governativi che, a suo dire, giungeva
decisamente inaspettata, poiché si rendeva perfettamente conto di quanto
fossero state pesanti le sue accuse in merito alla gestione della grande impresa
archeologica. Ecco quanto egli scrive: «Oggi è appunto un mese che sono
tornato da Napoli, ove soggiornai due mesi presso un amico. Mi recai colà
propriamente coll’intenzione di passare poscia in Sicilia dubitando di trovarvi
buona accoglienza presso il primo ministro e di ottenere il libero accesso al
Museo[2].
Ma avendolo trovato propenso ai miei desideri al di sopra d’ogni mia
aspettativa, cambiai il mio piano, e mi riuscì difatti di superare tutte le
difficoltà, e di riconciliarmi con tutti i partiti offesi, fra cui
principalmente il Marchese GALIANI»[3].
Winckelmann aveva conosciuto Berardo in occasione del suo primo viaggio a
Napoli nel 1758, e ne aveva avuto una buona impressione, definendolo qualche
tempo dopo come un «uomo illibato, buon amico e buon letterato ad un tempo»[4].
In quell’occasione l’abate prussiano venne a conoscenza di una serie di
pressappochismi e manomissioni che l’allora direttore degli scavi, colonnello
Rocco Alcubierre, andava perpetrando ai danni delle antichità; egli poteva
agire pressoché indisturbato nel riserbo garantitogli delle buie gallerie, e
senza che il Sovrano potesse rendersene conto, pur seguendo con interesse[5]
le ricerche sulla base delle relazioni che quotidianamente l’ufficiale era
chiamato ad inviare a palazzo. Winckelmann aveva appreso queste notizie da
padre Antonio Piaggi[6]
il quale, malvisto dagli altri addetti agli scavi, voleva in tal modo ottenere
una rivalsa nei loro confronti[7],
ed il tedesco non esitò a denunciare ciò che stava accadendo ad Ercolano nella
Lettera al Conte di Brühl pubblicata nel 1762, ove ironizzava sulla competenza
di Alcubierre che per l’archeologo (parafrasando un proverbio italiano) «non
aveva mai avuto a che fare colle antichità più della luna coi gamberi»[8].
La contestazione principale riguardava
il principio stesso secondo il quale si procedeva preoccupandosi soltanto di
asportare, con metodi spesso distruttivi, gli oggetti più integri e vistosi,
quelli cioè che avrebbero potuto meglio figurare nel Museo di Portici; bronzi
suppellettili e soprattutto dipinti, venivano estratti dai cunicoli come se si
trattasse di una miniera, a volte sfondando muri delle antiche dimore senza
preoccuparsi delle decorazioni che potevano esserci sulla parete opposta[9],
e arrecando in tal modo l’ultimo oltraggio ai ruderi di Ercolano. Tali critiche
erano certamente motivate in ragione delle esigenze di studio e classificazione
verso le quali tendeva l’archeologo sassone, ma le difficili condizioni in cui
avvenivano gli scavi di Ercolano avrebbero potuto stemperare allora (ed anche
ridimensionare oggi) i toni della polemica, specie se si pensa che quando le
possibilità tecniche lo permisero[10],
gli edifici furono disseppelliti integralmente, alcuni addirittura ripristinati
parzialmente, e nelle pubblicazioni che seguirono [11]
i dipinti che come gli altri reperti iniziarono ad essere conservati in loco,
furono rappresentati nel loro contesto originario[12].
Ma questa non era l’unica accusa: Winckelmann raccontava delle iscrizioni
smontate e gettate alla rinfusa nelle ceste senza nemmeno averle trascritte,
delle statue lucidate e private tal modo della «bella patina antica», infine
dello sciagurato episodio della quadriga bronzea che ornava il teatro di
Ercolano: Giuseppe Canart infatti, incaricato di occuparsi dei numerosi frammenti
che venivano recuperati dagli scavi, spaventato del loro numero prese la
pazzesca decisione di fonderli, e dal dorso dell’auriga, che non era in grado
di ricostruire, ricavò dei grossi medaglioni con l’effige del Re e della
Regina, statue di Santi e candelabri[13].
Non era necessaria la censura di Winckelmann per capire che una tale operazione
era inammissibile, malauguratamente però il secco divieto del Sovrano arrivò
quando già una parte dei bronzi era andata irrimediabilmente perduta. Le accuse
dell’archeologo di Dresda erano, purtroppo, in gran parte fondate, e vanno
lette come il risultato dell’atteggiamento sostanzialmente discontinuo (se non
addirittura contraddittorio) tenuto dagli amministratori partenopei in quanto,
come ha avuto modo di osservare Fausto Zevi, «a momenti di rigorismo
filologico, altri ne succedono in cui senza esitare si pone mano al piccone
demolitore. La corte sembra colta di sorpresa dalle critiche esterne; si
imboccano strade che conducono ad errori grossolani, e poi proteste e scandali
inducono a repentini mutamenti di rotta; dal palazzo si alternano, a breve
distanza, rescritti contrastanti»[14].
In sostanza bisogna riscontrare, specialmente nelle iniziali degli scavi,
l’effettiva assenza di una reale politica
della ricerca archeologica che, affidata a semplici ingegneri militari,
restauratori e disegnatori in continuo conflitto tra di loro, aveva come unico
scopo l’incremento del prestigio del Regno conseguente al possesso delle
magnifiche collezioni di antichità. Il polverone suscitato dalle denunce
dell’abate prussiano era stato tale che, senza affatto esagerare, «nel 1765,
il ‘caso Winckelmann’era diventato alla corte di Napoli quasi un affare di
stato»[15],
p. 46), e l’egemone ministro marchese Bernardo Tanucci, di concerto con l’abate
Ferdinando GALIANI, era intenzionato ad affidare a Pasquale Carcani
(1721-1783), membro e segretario dell’Accademia Ercolanese, il compito di
replicare opportunamente alle accuse del goto[16];
questo progetto non andò a buon fine cosicché la sola risposta fu quella
dell’abate Mattia Zarrillo[17],
il quale diede alle stampe un Giudizio
dell’opera dell’abate Winckelmann[18],
a suo dire ispirato ad alcune riflessioni fatte in proposito dal marchese
Berardo GALIANI[19],
ma che in realtà, come si è avuto modo di accertare, era per la maggior parte
una vera e propria copia integrale di un precedente scritto di Berardo GALIANI.
Infatti poco tempo dopo l’uscita di questo opuscolo, Francesco Daniele[20]
ne pubblicò anonimamente un altro di sei pagine intitolato: Considerazioni sopra la lettera dell’abate
Winckelmann, facendolo procedere da un Avviso
al lettore nel quale accusava Zarrillo di aver plagiato lo scritto di
Berardo GALIANI che egli ora pubblicava integralmente. In realtà le nominate Considerazioni erano effettivamente
opera di Berardo, sebbene nelle intenzioni del vero autore, come testimoniano
le parole di suo fratello Ferdinando esse erano destinate a rimanere «una
memoria segreta e un appuntamento fatto con se medesimo per guardarsi esso di
rispondere alle lettere che riceveva dal Winckelmann[21],
vedendo da costui tradito ogni segreto e propalato per le stampe quanto
dagli amici gli veniva in confidenza detto o scritto»[22].
La responsabilità della pubblicazione ricadde, per ironia della sorte, proprio
su Berardo che quasi certamente non aveva avuto alcuna parte nell’iniziativa
presa da Francesco Daniele[23],
ma che invece subì un duro richiamo da parte di Pasquale Carcani[24],
il quale in una severa lettera gli rimproverava di aver coinvolto il nome dello
stesso ministro Tanucci nella sua personale polemica contro lo Zarrillo,
chiamandolo in causa in quell’Avviso al
lettore del quale Berardo era ancor meno responsabile. Fatto sta che il
Primo Ministro ordinò che fossero ritirate dalla circolazione tutte le copie di
quell’opuscolo, operazione che dovette essere eseguita in maniera attentissima
visto che, nonostante approfondite ricerche, non è stato possibile rintracciare
alcun esemplare nelle biblioteche di Napoli; lo stesso Franco Strazzullo, che
in un suo saggio commenta il Giudizio
avvisando che esso in gran parte attinge dalle riflessioni di GALIANI, cita le Considerazioni senza però darne alcun
riferimento bibliografico né come pubblicazione, né tanto meno sotto forma di
manoscritto[25].
In compenso tra i manoscritti della Biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria, è conservato proprio l’autografo di Berardo GALIANI[26],
che era stato erroneamente catalogato (una volta di più) come uno scritto del
fratello Ferdinando e che forse proprio per questa ragione era passato
pressoché inosservato e mai segnalato. Dal confronto con il menzionato Giudizio
risulta che lo Zarrillo copiò integralmente le osservazioni galianee,
aggiungendovi due brani [27]
che contenevano principalmente delle polemiche riguardo ad alcune iscrizioni in
lingua latina che Winckelmann, a detta del napoletano, aveva trascritto o
interpretato erroneamente. Tutta l’impostazione generale del Giudizio è quindi opera di GALIANI ma, a
discarico del presunto plagiario , bisogna precisare che in realtà era stato lo
stesso Berardo a permettergli di prendere spunto dalle sue Considerazioni[28],
ed ancora una volta è Ferdinando a raccontare come in realtà si svolsero i
fatti in un suo scritto di tono scherzoso in cui immagina che i protagonisti
della vicenda siano chiamati a giudizio sul Parnaso, al cospetto di Apollo:
«(Il Marchese rispose) che il Zarrillo non era plagiario perché esso GALIANI
gli aveva accordato il permesso di soccorrere co’suoi concetti, ove ne
mancassero a lui, ma tanto dovea considerarsi come reo per non aver saputo
scrivere gli stessi concetti con altre parole e con lo stile proprio simile al
resto delle Giunte fatte [ ... ]. Ma che il Daniele non meritava alcuna scusa
per aver voluto uscire in campo ad offendere il Zarrillo in cosa che non meritava
tanta pena e per aver voluto pubblicare il segreto foglio di esso GALIANI e
senza carta di procura entrare ad accusare altri di plagio e a difendere le
pretese ragioni, abusando dell’amicizia accordatagli»[29].
La conseguenza di tutto questo complicato intreccio di citazioni, presunti
plagi e successivi chiarimenti, è che anche i più autorevoli studiosi sono
caduti in equivoco , come ad esempio Franco Strazzullo, il quale commenta le
parti del Giudizio scritte da Berardo
GALIANI come se fossero di Zarrillo[30];
o peggio come Pierluigi Panza, che addirittura confonde Berardo con Ferdinando
GALIANI, attribuendo a quest’ultimo e non all’eminente studioso d’architettura
le Considerazioni[31].
Roberto Pane invece, oltre a ravvisare giustamente in Berardo GALIANI l’autore
essenziale della replica a Winckelmann, ritiene che questa sia sostanzialmente
ingenua e inefficace[32],
confortato in questa opinione anche dal parere di Fausto Zevi[33];
ed in effetti Berardo, pur attribuendo ad ignobili pettegolezzi le accuse
avanzate dall’archeologo prussiano, non può fare a meno, per esempio, di
confermare l’inautenticità del cavallo esposto a Portici[34],
dovuta al fatto che questo era stato ricomposto impiegando i frammenti
eterogenei recuperati da quelli delle quattro statue equestri che componevano
l’antica quadriga bronzea[35]
essendo oramai impossibile ricostituire l’intero gruppo che un tempo ornava il
teatro di Ercolano. Per quanto riguardava poi lo scarso interesse per i
frammenti, GALIANI risponde affermando che sarebbe stato necessario sloggiare
il Re dalla reggia di Portici per conservalli tutti, ed ancora difendeva il
rozzo Alcubierre il quale da buon ingegnere militare avrebbe «ben disimpegnata
la sua incombenza», consistente essenzialmente in due compiti, ovvero quelli di
«diriggere uno scavo sotterraneo in modo, che non pericolasse, e di saper
prendere le piante degli Edificj, che vi s’incontrassero». «Come si vede
dunque, sono parole di Roberto Pane, gli argomenti addotti dall’erudito
Berardo, in difesa del patrio loco, non fanno che confermare, senza volerlo, il
severo giudizio pronunciato da Winckelmann[36],
ma bisogna considerare che risollevare le sorti degli antiquari partenopei
doveva essere un compito alquanto difficile per chiunque, ed allora Berardo
GALIANI non trovò niente di meglio che ricambiare le offese del suo avversario
definendolo ingiustamente «Goto divenuto antiquario a forza di pratica»[37]
alla stregua di un qualunque cicerone, ed aggiungendo più avanti che «i
Goti non gustano se non l’impossibile, o almeno il difficile; principio, come
abbiamo sperimentato, riuscito utile solamente per la perfezione della Chimica,
ed in qualche modo delle arti Meccaniche».
Si osservi che se l’epiteto «goto»
viene usato, come evidenzia Fausto Zevi, oltre che per disprezzo nazionale
anche in relazione al ‘Goticò, e cioè «lo stile in cui l’estetica del tempo
ravvisava l’anticlassico e la negazione del bon goût»[38],
nello stesso tempo dietro la generica definizione di «arti Meccaniche»
potrebbe celarsi anche l’apprezzamento di GALIANI[39]
per la cospicua competenza dei tedeschi sul comportamento strutturale degli
edifici che le cattedrali, col loro ardito slancio verticale, esprimevano in
modo inequivocabile e mirabile.
Berardo non rinunciò comunque a
prendersi una piccola rivincita nel campo che gli era più congeniale, vale a
dire nella filologia architettonica, ove non temeva affatto il confronto con
nessuno; l’archeologo prussiano infatti, aveva fatto una serie di errori nel
descrivere il teatro di Ercolano, e soprattutto preso un grosso abbaglio
confondendo i vomitoria, ossia gli
accessi alla cavea, con le scalette
che dipartendosi da tali uscite permettevano agli spettatori di raggiungere il
proprio posto sulle gradinate[40].
L’occasione era troppo ghiotta
perché Berardo GALIANI non ne approfittasse, e Winckelmann dovette ingoiare il
rospo condito con l’invito a leggere con attenzione Vitruvio nonché con la
sarcastica frase[41]:
«Come il Signor Abbate tanto dotto chiama VOMITORIA le scale ? Qui ci cape,
che ha a che fare la Luna cò granchi?»[42].
Ma a suscitare l’estrema indignazione nel napoletano è il fatto che Winckelmann
avesse anticipato al pubblico dei lettori molte notizie sugli scavi di Ercolano
senza curarsi del divieto impostogli dalle autorità, tradendo così la fiducia
del Re il quale, pur avendolo favorito rispetto a tanti altri, vedeva ora il
suo governo e il suo Paese oggetto delle ingiurie e delle offese da parte di
chi era stato accolto e trattato invece con estremo riguardo. Già in precedenza
si è accennato al fatto che il Sovrano avesse «voluto serbare a sé il
piacere di pubblicare colla maggior possibile esattezza, ed esame le scoverte
portentose fatte sotto il suo felice Regno», ma era pressoché impossibile
per le autorità intervenire fuori dai confini dello stato per impedire la
stampa delle varie pubblicazioni sull’argomento le quali, attingendo a fughe di
notizie e appunti di viaggio, si moltiplicavano facendo presa sul grande
desiderio di informazione da troppo tempo represso e frustrato dal sostanziale
silenzio delle fonti ufficiali, in quanto bisogna considerare che la stampa
delle Antichità Ercolanesi ebbe inizio solo molto tempo dopo l’avvio delle
ricerche archeologiche, proseguendo poi con estrema lentezza; di conseguenza al
Sovrano non restava altro che cercare di impedire la diffusione di quegli
scritti se non all’estero, almeno entro i confini del Regno, ove infatti
l’applicazione dei divieti era estremamente rigorosa.
Per i letterati napoletani al
danno del privilegio reale, che di fatto impediva la stampa di qualsiasi lavoro
sugli scavi[43]
si aggiungeva la beffa di vedere gli stranieri appropiarsi della prestigiosa
scoperta, e così, paradossalmente, proprio coloro che avrebbero dovuto
annunziare all’estero le grandi scoperte erano estremamente penalizzati,
estromessi dal dibattito internazionale se non addirittura, come da parte dello
stesso Winckelmann, tacciati di neghittosità. È per questo motivo che bisogna
riflettere con attenzione sull’impietoso giudizio di Anna Ottani Cavina la
quale nota in modo alquanto sprezzante che in quegli anni anche gli artisti
partenopei apparivano estremamente refrattari, indifferenti al fascino del
Sublime e dell’Antico, attribuendone la ragione alla «ottica differenziata
con cui l’immagine di una città agisce su uno straniero oppure su un nativo»[44];
infatti se per quanto riguarda le sollecitazioni dell’irrazionale, del
romantico «che il Vesuvio scatenato ed in fiamme proponeva alla sensibilità
dei nordici»[45]
non si può che rilevare una evidente impermeabilità della cultura figurativa
autoctona, diverso è il discorso nei confronti della fascinazione esercitata
dai luoghi fatidici dell’archeologia: in realtà gli artisti napoletani erano di
fatto tagliati fuori dalla ricaduta culturale di quel dibattito sull’Antico che
entusiasmava l’Europa, e che con notevole difficoltà, spesso solo grazie ai
personali rapporti epistolari[46]
un numero estremamente esiguo di letterati riusciva a condividere. E per capire
quanto fossero energici i provvedimenti adottati dagli amministratori per
impedire la partecipazione di cerchie culturali più vaste all’impresa
ercolanese, basta pensare al fatto che la misura introdotta per evitare il
trafugamento dei reperti fu, per un certo periodo, la insensata distruzione di
quanto non era considerato tanto appariscente da poter essere esposto nel museo
di Portici; ben presto però le proteste dell’intellettualità internazionale
costrinsero il ministro Tanucci[47]
a ritirare nel 1763 quella precedente disposizione, ed a proibire in modo
categorico ogni altra distruzione[48].
Nonostante ciò affermare[49]
che «Negli anni cruciali, a metà del Settecento, prevalgono a Napoli
autarchia e regressione»[50],
sembra eccessivo nei confronti di una nazione che, pur protestando per le fughe
di notizie, era stata sempre attenta ai segnali provenienti dall’esterno,
operando opportuni cambiamenti di rotta ogni volta che la cultura
internazionale[51]
puntava il dito accusatore contro gli errori compiuti nella gestione della
grandiosa impresa.
In questi casi alla protesta
ufficiosa, si veda il caso delle Considerazioni
galianee, non seguiva la ritorsione nei confronti della persona[52],
ma anzi si cercava di fare tesoro delle indicazioni allogene che spesso venivano
attuate, pur nei limiti delle costanti difficoltà economiche del Regno; il
risanamento delle pubbliche finanze infatti, che all’inizio aveva dato ottimi
risultati grazie al riscatto degli arrendamentì[53],
fu pregiudicato negli anni quaranta del secolo XVIII dallo scatenarsi di
un’epidemia di peste[54]
e soprattutto dal coinvolgimento nella guerra di successione austriaca , quasi
imposto dalle circostanze al fine di assicurare almeno il ducato di Parma e
Piacenza a Filippo V, fratello di Carlo[55].
Un’ultima riflessione va fatta, infine, per sottolineare il fatto che
l’atteggiamento della corte partenopea, gelosa di quell’immane raccolta di
antichità che si andava recuperando, ebbe un effetto estremamente positivo sul
complessivo patrimonio artistico del Regno impedendo la dispersione mediante un
severissimo controllo che non aveva pari in nessun altra nazione[56],
come fa notare Francis Haskell quando afferma che «i risultati di quegli
scavi[57]
furono tenacemente salvaguardati per il Regno di Napoli in un periodo in cui,
a Roma i papi combattevano una battaglia perduta contro il continuo saccheggio
da parte dei collezionisti locali e degli stranieri speculatori in antichità»[58].
In parole povere proprio la miopia di un’impresa condotta solamente nel segno
del prestigio del Sovrano, ha consentito paradossalmente di preservare i tesori
artistici partenopei da un altrove incontrollabile saccheggio; ed è forse
doveroso far notare che forse il reale beneficiario della grande impresa
archeologica doveva essere, almeno nelle intenzioni poi troppo spesso mal
realizzate del Re, la stessa Napoli, alla quale Carlo di Borbone non volle
sottrarre neanche una minima parte di quel patrimonio, lasciando nella città,
allorché ascese al trono di Spagna, tutti i tesori del suo primo Regno, dalla
stupenda Collezione Farnese all’anello che portava al dito.
La copertura del Teatro Olimpico: vicende storiche
Di quel meraviglioso organismo
architettonico quale è il Teatro Olimpico palladiano[59],
la copertura sovrastante e la cavea e la scena ha catalizzato, in varie
occasioni, l’attenzione di numerosi eruditi e studiosi d’architettura (nonché
gli stessi accademici vicentini) intorno a problematiche le quali, pur se
originate da esigenze di ordine pratico, necessariamente travalicavano in
considerazioni di natura teoretico-filologica, a causa della esplicita
citazione del teatro antico che emergeva dalla morfologia di quello splendido
edificio. Tali vicende affondavano le radici nella stessa sua redazione
originaria, lasciata incompiuta dal genio di Andrea Palladio, sviluppandosi nel
corso dei secoli successivi fino agli inizi di quello contemporaneo, allorché
la copertura assunse l’aspetto che ha conservato fino ai nostri giorni[60].
Infatti, benché sia stato possibile ricostruire le modifiche di cui quest’ultima
è stata oggetto nelle varie epoche[61],
è invece molto problematico cercare di recuperare l’originale idea palladiana,
se mai fu espressa, stante l’estrema reticenza delle fonti autografe che
mostrino, o lascino intendere, l’aspetto che avrebbe dovuto assumere l’aula[62]
nelle intenzioni del suo creatore. Allo stato attuale è noto un unico foglio,
custodito presso il Royal Institute of British Architects[63],
sul quale la mano di Andrea[64]
ha tracciato due proposte alternative per la morfologia della scaenae frons; purtroppo in questo
importante disegno è completamente assente qualsiasi indicazione inerente
proprio il modo di realizzare la copertura dell’invaso. Disperso, invece, è il
modello di tutto l’edificio, che Palladio stesso avrebbe realizzato intorno al
1580[65].
La prima fonte che ci dia l’immagine attendibile della copertura nella veste
originaria è l’incisione di Ottavio Revesi-Bruti[66]
datata 1620[67],
che, accompagnata da una pianta e da una lettera descrittiva sul Teatro,
costituirà un documento di fondamentale importanza nell’ambito del dibattito
settecentesco. In essa il soffitto che sovrasta la scena è compartito in sette
lacunari, la cui scansione rispecchia in alto il ritmo scandito frontalmente
della scaenae frons; i lacunari di
numero dispari sono poi ulteriormente suddivisi in tre spazi ciascuno, con la
sola esclusione di quello centrale , il quale, perché corrispondente
all’ampiezza della porta regia, presenta inscritto un cassettone ottagonale con
dipinti allegorici. Riguardo al soffitto della cavea, non visibile
nell’incisione, la decorazione consisteva in un grande affresco ad imitazione
del cielo, secondo quanto scritto dallo stesso Revesi-Bruti nell’ampia legenda
descrittiva allegatavi[68].
Tale soluzione voleva, probabilmente, essere un artificio adottato per superare
la profonda contraddizione venutasi a creare tra un impianto formale, quello
del teatro antico, destinato a rimanere scoperto e la sua traduzione moderna
(rinascimentale), che al contrario doveva essere, per pura necessità pratica,
non altro che uno spazio chiuso; in parole povere - afferma Roberto Pane - tale
contraddizione veniva aggirata alludendo «artisticamente» ad un ambiente non
coperto[69].
In sostanza la soffittatura realizzata negli ultimi anni del XVI secolo,
sanciva il principio di dissociazione tra i due spazi del palcoscenico e della
cavea, destinati l’uno alla rappresentazione, l’altro alla fruizione dello
spettacolo perseguita mediante la differenziazione figurativa dell’apparato
decorativo; dissociazione considerata da Lionello Puppi il punto di arrivo di
un atteggiamento impostato già da Vincenzo Scamozzi e Angelo Ingegneri, in
ossequio alle ragioni della pratica teatrale contemporanea, e palesato da
quella sorta di embrionale boccascena[70]
venutosi a formare per la giustapposizione delle due ali di muratura che
inquadrano le cosiddette “versure”, nonché della lunga trave composta
che divide in due settori distinti il cielo dell’aula teatrale. Il pavimento
del palcoscenico infine, rappresentato nella incisione a pendant del soffitto, suggella il presunto “tradimento” di
quella che doveva essere stata l’idea palladiana, maturata nel corso di
approfonditi studi e ricerche che spaziavano dal rilevamento archeologico alle
meditazioni sul testo vitruviano[71],
e che sarebbe dovuta essere volta «all’affermazione di una misura unitaria
di spazio, imperniata sul cardine del proscenio, la cui asserzione imperiosa
subordinava a sé cavea e prospettive in un contesto organico ove s’annullasse
la dissociazione figurativa [ ... ] tra l’ambito riservato agli spettatori e
quello affidato agli attori»[72],
esattamente il contrario, quindi, di quanto era stato poi effettivamente fatto.
Quando, nel 1764, Berardo GALIANI sarà chiamato a pronunciarsi proprio
sull’episodio della copertura, non potrà fare a meno di notare e sottolineare
le molte licenze prese nei confronti della vera struttura del «teatro antico»,
e le attribuirà a Palladio stesso, ritenendo poco probabile l’ipotesi che i
suoi continuatori ne avessero potuto alterare il disegno senza incontrare la
forte opposizione degli Accademici, o comunque senza che tale (a suo credere)
inevitabile opposizione fosse segnalata nelle cronache dell’epoca[73].
Ma già molto tempo prima della querelle settecentesca nella quale fu coinvolto
Berardo GALIANI, la copertura richiamò l’attenzione dei vicentini a causa di
non lievi problemi concernenti in primo luogo la sua sicurezza statica, infatti
non era trascorso neanche mezzo secolo dalla sua realizzazione, che le precarie
condizioni in cui versava resero improrogabile un intervento anche sul suo
apparato decorativo. Come quest’ultimo sia stato affrontato, e con quale
incisività, non ci è dato sapere, ma è certo che quando i lavori furono
terminati [74]
l’impostazione bipartita della decorazione del soffitto non risultò affatto
alterata[75].
La disputa settecentesca
Il cassettonato alla ducale
ed il cielo stellato[76]
furono rimossi e liquidati nell’ambito dei frettolosi lavori condotti negli
anni trenta del XVII secolo sulla carpenteria della copertura. Questo nuovo e
drastico intervento si rese necessario per far fronte al processo di grave
decadenza che aveva interessato il prestigioso Teatro, e che pur se dovuto
principalmente alla deteriorabilità dei materiali impiegati in precedenza, era
stato ulteriormente aggravato anche dal quasi totale abbandono dell’aula per
decenni. Di fatto solo in occasione di qualche ricevimento e delle rare
adunanze accademiche ne veniva eseguita una sommaria manutenzione o la semplice
pulizzia, cosicché il 14 marzo 1733 gli Accademici non poterono che constatare
«l’estraordinaria premura di riparare questo teatro il cui tetto minaccia
imminente rovina, come dalla perizia di Gaetano Farina perito»[77].
Nell’ambito della nuova fase di restauri fu posto in opera un tavolato che
ricoprì uniformemente l’intero invaso dell’Olimpico, e la nuova decorazione[78],
pur mantenendo la differenzazione tra i due settori dell’aula, fece della
grossolanità il corrispettivo della fretta con cui fu realizzata. In
particolare, il settore rettangolare del soffitto soprastante la scena fu
impropriamente tripartito, con lo sgradevole risultato che le sue suddivisioni
battevano in falso rispetto alla scansione della scaenae frons[79];
mentre invece, riguardo alla decorazione del cielo della cavea, i documenti
parlano di una tela «malamente dipinta», senza specificarne il soggetto, fosse
stato un cielo o l’antico aere pinto[80].
Ben presto, però, gli Accademici dovettero accorgersi che l’esito di questi
ultimi lavori, oltre che figurativamente sgrammaticato, era carente anche dal
punto di vista statico[81],
cosicché deliberarono (nell’adunanza dei giorno 23 aprile 1755) che insieme
all’ennesimo consolidamento, si procedesse anche a ripristinare quell’apparato
demolito nel 1734 e che essi ritenevano rispecchiare il pensiero dello stesso
Palladio[82].
È a quest’epoca, quindi, che risale la presa di coscienza critica del problema
della copertura[83],
nell’ambito della quale si sviluppano quei due partiti contrapposti, che Franco
Barbieri chiama degli «unionisti» e dei «divisionisti», incarnati
rispettivamente dalle persone di Ottone Calderari ed Enea Arnaldi[84].
Tali felici denominazioni palesano l’argomento concreto della disputa,
incentrata sulla opportunità, o meno, di adottare nuovamente la soluzione
rappresentata nella incisione del Revesi-Bruti, e caratterizzata dalla
bipartizione del soffitto, già descritta in precedenza. Contro la deliberazione
dell’aprile 1755 [85]
si era infatti levata la voce di Ottone Calderari, secondo il quale la
copertura raffigurata nella stampa seicentesca non rispecchiava affatto la
soluzione realmente immaginata da Andrea Palladio, ma costituiva, invece,
un’interpolazione del suo progetto operata dai continuatori in sede esecutiva e
al di là di qualsiasi possibilità di controllo da parte del defunto artefice. Quella
stessa immagine, quindi, che i seguaci del partito “divisionista”[86]consideravano
una documentazione inoppugnabile, diventava per i loro antagonisti la prova
manifesta di un tradimento; allo stesso modo, le teorie di Vitruvio e le altre
argomentazioni degli uni risultavano con abilissima dialettica, ribaltati fino
a confortare l’assunto degli altri[87].
Calderari insisteva sulla presunta volontà del glorioso architetto padovano di
far rivivere nell’Olimpico la struttura del teatro antico, e concludeva il suo Discorso proponendo l’uso di «una
vela, o tenda che ugualmente cuopra tutto il Teatro, fatta a similitudine di
quella che adoperavano gli Antichi ne’loro teatri (...). Questa vela,
perfettamente stesa, si potrebbe attaccare al mal commesso tavolato esistente,
facendola dipingere da buon pittore, adornandola con stelle d’oro»[88].
In sostanza egli voleva ricreare almeno la suggestione di quel «velario», che
veniva anticamente disteso per preservare gli spettatori dalle intemperie
atmosferiche, sebbene fosse disposto (in ultima istanza) ad accettare un
soffitto cassettonato «alla ducale» su tutta l’aula, purché non venisse a
mancare quella «uniformità» ritenuta condizione essenziale ed irrinunciabile[89].I
due antagonisti espressero i loro convincimenti davanti all’adunanza plenaria
degli Olimpici, ed alla presenza dei più colti cittadini di Vicenza[90],
ma, effettuata la votazione, il partito di Enea Amaldi, pur essendo
maggioritario, non raggiunse i due terzi dei suffraggi necessari per dar corso
alla proposta[91],
cosicché Calderari riuscì ad ottenere che la decisione finale avesse luogo dopo
la valutazione dei pareri espressi da altri «intendenti d’architettura»,
chiamati a giudizio da tutta la penisola col fine di stemperare la fazziosità
della polemica ed assicurare una reale imparzialità di giudizio
Il.«Parere» galianeo
In seguito a questa seconda
risoluzione presa dagli accademici olimpici, la contoversia sul modo di
realizzare il nuovo soffitto del teatro palladiano si allargava agli studiosi
non vicentini, e sia Ottone Calderari che Enea Arnaldi (impegnati sui due
fronti della disputa) si mossero alla ricerca di autorevoli alleanze su tutto
il territorio italiano[92].
A favore del primo si schierarono Tommaso Temanza, Francesco Algarotti, ed il
Conte Girolamo Dal Pozzo. Il secondo, invece, godeva dell’appoggio di un
«dilettante d’architettura», il casalese Francesco Ottavio Magnocavalli, Conte
di Varengo, ma la loro amicizia era troppo nota perché quest’ultimo potesse
dare ufficialmente il suo parere sulla questione, senza essere tacciato di
parzialità[93].
Ciò non impedì ad Enea di chiedere consiglio all’amico affinché gli suggerisse
i nomi di alcuni eruditi che avessero potuto appoggiare la sua causa,
allineandosi sulle posizioni divisioniste e suffragandole con solide argomentazioni
teoretico-filologiche[94]
(cosa, quest’ultima, non certo alla portata di tutti gli architetti o esperti
in materia, per quanto di chiara fama). Di qui il coinvolgimento di Berardo
GALIANI, che Magnocavalli segnalò al vicentino insieme ad un non meglio
precisato Bartoli[95],
all’Accademia di Parigi, ed in seguito, a Giovan Battista Borra. Berardo
GALIANI appoggiò con convinzione le tesi di Arnaldi, costringendo quest’ultimo
a ricredersi sulla iniziale diffidenza nei suoi confronti dovuta al timore che
Calderari, in occasione di un suo recente viaggio a Napoli, lo avesse persuaso
delle proprie idee[96]
A parere di Giulio Ieni dal
carteggio Arnaldi-Magnocavalli (1750-70) emerge il singolare ruolo assunto da
quest’ultimo nell’ombra, rispetto ad un Arnaldi protagonista in prima persona:
una sorta di eminenza grigia, quindi che diede un forte contributo teorico
nell’ambito della polemica. Infatti, le stesse posizioni che Berardo espresse
nel Parere mostrano una sostanziale
convergenza, se non coincidenza, con quelle del nobile casalese[97],
che gli erano note tramite una pubblicazione ove Arnaldi riaffermava le sue
concezioni «divisioniste»[98].
Questo inedito Parere galianeo era noto fino ad oggi solo grazie a due
manoscritti, il primo dei quali, conservato presso la Biblioteca del Museo
Civico di Padova[99],
è una copia ottocentesca[100]
dell’altro che invece risale al settecento; quest’ultimo fa parte di una
raccolta di documenti sul Teatro Olimpico custodito nella stessa città di
Vicenza presso la Biblioteca Civica Bertoliana[101].
Alcuni studiosi ritengono che anche il manoscritto vicentino sia solo una
trascrizione dell’originale che Berardo GALIANI inviò all’Accademia Olimpica
nel 1764[102]
: per tale motivo assume un certo interesse il rinvenimento dell’autografo
galianeo presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Esso
fa parte di un volume rilegato di carte manoscritte della famiglia GALIANI[103]
ed è articolato in tre capitoli preceduti da una breve introduzione. Il
manoscritto napoletano, però, è mancante della tavola allegata[104]
e che rappresenta le triangolazioni vitruviane applicate alla pianta del Teatro
Olimpico[105];
dei due disegni, quello accluso al testo conservato a Vicenza, è stato
pubblicato di recente, e segnalato come autografo[106]Nella
descrizione di questo studio planimetrico[107]
Berardo GALIANI sottolinea la sostanziale corrispondenza formale fra l’aula
palladiana e il teatro romano così come viene raffigurato nella edizione del De Architectura di Daniele Barbaro[108],
con la sola differenza che a Vicenza la cavea presenta la pianta di forma
ellittica invece che semicircolare. Egli, infatti, ben sapeva della stretta
collaborazione fra Barbaro e Palladio che era stata alla base di quella
pubblicazione, sì da ritenere che la tavola presa come termine di paragone
fosse estremamente prossima all’idea che Andrea si era fatto del «teatro
antico», in seguito agli approfonditi studi vitruviani e agli attenti rilievi
antiquari[109].
Ma per un purista del proporzionamento e della «regola vitruviana», quale era
Berardo, impregnato di quella cultura razionalista che fin dall’infanzia aveva
recepito nella prestigiosa dimora dello zio Monsignore, non poteva passare
inosservato il fatto che i quattro triangoli equilateri da lui stesso
tratteggiati sulla pianta del teatro vicentino non ne informassero tutte le
parti nei modi e nelle forme istituite dal De
Architectura. In particolare, gli sembrava scorretto che «la base del
triangolo equilatero cadesse [ ... ] non avanti il fronte della scena [bensì
dietro; e che] le due porte laterali non vengano equalmente divise da’lati
de’due altri triangoli»[110].
Tali differenze rispetto al teatro di Vitruvio, risultano evidenti mettendo a
confronto il disegno padovano con la tavola XVI[111]
della sua edizione del De Architectura;
in essa il lato perpendicolare al proscenio di due dei triangoli che
definiscono la pianta suddivide la porta minore in parti eguali, mentre la base
del triangolo fondamentale cade lungo quel lato della scaenae frons che è rivolto verso la cavea. Alcuni anni dopo anche
Ottavio Bertotti Scamozzi(1719-1790)[112]
applicò lo schema delle triangolazioni vitruviane alla pianta dell’Olimpico, ed
il suo disegno conferma quanto rilevato da Berardo. Berardo GALIANI, però,
riteneva molto improbabile che tali inesattezze fossero da imputarsi a
Palladio, aggiungendo di nutrire forti dubbi sull’esattezza del rilievo
contenuto nel volume del conte Giovanni Montenari[113]
sul quale aveva basato il suo studio pianimetrico, e che gli era stato inviato[114]
da Vicenza affinché avesse a disposizione tutti gli elementi necessari per
produrre il suo Parere con cognizione
di causa. GALIANI diffidava apertamente della precisione con cui era stata
misurata e disegnata la fabbrica palladiana, in quanto la pianta pubblicata da
Montenari si discostava in molti punti da quella contenuta nell’opera di
Giorgio Fossati[115],
che gli era nota e che probabilmente faceva parte della sua biblioteca[116];
tantopiù che in precedenza il napoletano aveva già avuto modo di criticare
Montenari per il fatto che nel suo scritto accennava appena al fatto che il
teatro vicentino fosse stato ideato secondo «il gusto antico», aggiungendo
inoltre di non saperne il modo[117].
Gli fece eco ancora Bertozzi-Scamozzi, secondo il quale il dotto aristocratico
«non fece né meno il più piccolo passo per rintracciare per quali strade, e
con qual filo il nostro Architetto [Palladio] sia giunto a sistemare con tanta
proprietà, e riuscita il suo lavoro»[118].
In sostanza Berardo percepiva lo stridente contrasto fra il poderoso
svilupparsi della disputa teorica a fronte di una conoscenza non abbastanza
approfondita dell’oggetto stesso della polemica, il Teatro Olimpico, coi
rischio nient’affatto remoto di scivolare sui binari di una pedantesca e
sterile contesa accademica, nella quale il problema reale sembrava passare in
secondo piano rispetto alla contrapposizione fra le due fazioni. È anche per
questo motivo che egli invita la «cospicua Accademia a darne un disegno esatto e ragionato»[119],
vale a dire elaborato soprattutto sulla scorta dei dati oggettivi della
fabbrica esistente, ed alla luce degli insegnamenti vitruviani confrontati con
gli esempi ancora parzialmente conservati; in ultima istanza anche nel rilievo
era necessario, a suo credere, ripercorrere mentalmente quell’iter che era
stato alla base della maturazione di Palladio stesso, e che quindi ne aveva
guidato il progetto per l’Olimpico. L’erudizione di Montenari subisce una
ulteriore critica da parte di Berardo GALIANI, in merito alla corretta
interpretazione del significato del Podium
della scena; le sue parole a tal riguardo sono più chiare di ogni altra
spiegazione: «Questo [il Podium] da quanto ho detto nelle mie note al Cap. 7
del Lib. V di Vitruvio, parmi che chiaramente conoscasi non essere altro chè’l
piedistallo del primo ordine di essa Scena, e credasi pure un equivoco del
Montenari il prendere il Podium di cui parla Vitruvio per quell’ordine Attico
che il Palladio volle mettere sopra i due ordini della Scena. Questo attico
corrisponde benissimo al terzo ordine che costumavasi, e Vitruvio lo chiama “tertia
episcenos”»[120].
Quest’ultimo fendente, a credere di Tommaso Carrafiello, non arrivò mai a
ferire l’orgoglio degli Accademici, in quanto, con molta probabilità, il brano
citato[121]
fu eliminato dalla versione finale del Parere
spedita a Vicenza per il fatto che esso non figura nel manoscritto conservato a
Padova, copia ottocentesca dell’esemplare vicentino. Al di là delle polemiche
comunque, il pensiero di Berardo GALIANI sulla questione della copertura, è
riassumibile in poche righe: egli, pur essendo convinto che nell’antichità la
scena fosse coperta, ritiene che Palladio per l’Olimpico avesse di sicuro
previsto il contrario, per il fatto che la sua interpretazione dello spazio
scenico allude alla sala di una casa, e non ad una piazza o ad una strada
secondo quanto invece il napoletano credeva fosse stata la vera indicazione
data da Vitruvio. Nello stesso tempo Berardo congetturava che l’architetto
rinascimentale era giunto a questa soluzione «sia perché così credesse, che
avessero fatto gli Antichi, sia perché, e con troppo onesta licenza prevedesse
dovere in tale forma essere di maggiore uso per le opere, che si meditavano di
rappresentarvici»[122],
vale a dire le Tragedie.
Il nocciolo della questione era,
quindi, la diversa interpretazione dell’ambiente rappresentato con lo spazio
scenico; tutto il primo capitolo del Parere,
infatti, è dedicato alla dimostrazione che nell’Antichità esso rappresentasse
una strada, una piazza, comunque uno spazio all’aperto, al quale non competeva
certamente una copertura stabile. La ragione fondamentale adottata da GALIANI a
prova di ciò è il fatto che gli accessi ricavati nelle «versure» mettevano la Scena simbolicamente in comunicazione l’uno
con il «foro», l’altro con la «campagna», rappresentavano, cioè, gli
sbocchi su una piazza di due strade. In questo lungo capitolo[123]
Berardo GALIANI smentisce una ad una tutte le motivazioni secondo le quali la
scena anticamente sarebbe stata coperta, interpretando a suo vantaggio anche
quei testi di autori latini[124]
che entrambe le fazioni avevano citato per sostenere le proprie diverse tesi.
La innegabile competenza di
Berardo GALIANI riguardo al teatro dell’antichità, era confortata anche dalla
conoscenza diretta che egli aveva del Teatro di Ercolano e dall’avere in suo
possesso il rilievo eseguito dall’architetto Karl Weber[125]
che costituì la guida sua e dell’abate Winckelmann fra i cunicoli degli scavi,
ancora sotterranei, di quell’edificio altrimenti impossibile da visitare[126].
Come visto in precedenza, i
disegni del Teatro erano stati consegnati a Berardo affinché desse il suo
parere sulla possibilità della loro pubblicazione[127],
ed egli, pur elogiando il lavoro dello svizzero, propose di compiere alcuni
saggi, per accertare la morfologia di certe parti che non risultavano ben
definite nel rilievo dello svizzero; uno di questi piccoli scavi doveva servire
proprio a fare luce sul tormentoso dubbio della copertura della scena[128].
I lavori furono eseguiti nei mesi di maggio e giugno 1765, ma con disappunto di
Berardo, non poterono fornire alcun elemento di chiarimento in merito alla
questione in oggetto, in quanto la parte alta delle versurae e della scaenae
frons risultò interamente perduta. La via della osservazione archeologica
era, però, giusta, ed infatti oggi la conservazione e la conoscenza dei teatri
Orange e di Aspendos ha offerto indicazioni sufficienti per poter concludere
senza ombra di dubbio che effettivamente sulle versurae e sulla scaenae
frons poggiava una copertura stabile, ma purtroppo nel Settecento i
protagonisti del dibattito vicentino non potevano contare su queste
acquisizioni, cosicché la conclusione di GALIANI fu che «nel dubbio se il
Pulpito antico fosse coperto, o no ha molto maggior partito il no»[129].
Alla fine dell’ultimo capitolo del Parere
viene anche fatto un breve accenno a questi studi che egli stava portando
avanti riguardo la vera struttura del teatro antico, e che probabilmente si
apprestava a pubblicare[130].
Affrontata e risolta, per quanto possibile, la questione nel caso del teatro
romano, nel secondo capitolo Berardo GALIANI passa a trattare dell’Olimpico,
segnalando tutti quegli elementi formali che, a suo credere, confortavano
l’ipotesi che lo stesso Palladio avesse pensato ad una sala nel progettarne la
scena, e che quindi l’idea originale non fosse stata alterata dai continuatori[131].
Come si può ancora oggi ossevare, infatti, le strade che giungono alle versure (che GALIANI ricorda essere
chiamate da Vitruvio: «itinera versurarum»,
e non «valvas»)[132]
sono ridotte, nella fabbrica vicentina, a piccole porte; da esse, e dalle altre
tre porte della frons scaenae, si
scorge la fuga prospettica di un totale di sette strade[133],
le quali sono quindi da considerarsi ‘fuori’ rispetto al ‘dentro’ rappresentato
dallo spazio dalla scena[134].
Allo stesso modo è evidente che le statue alla sommità della scaenae frons non hanno la funzione di
acroteri[135],
ma sono addossate ad un terzo «ordine Attico, [che] mostra a sufficienza di
voler essere un appoggio d’una copertura»[136].
Nel breve capitolo conclusivo poi Berardo esprime in modo conciso la sua posizione
in merito alla dibattuta polemica del soffitto: in primo luogo invita gli
Accademici a lasciare da parte le ricerche e le discussioni volte a determinare
la reale morfologia del teatro antico, ed, in seconda battuta, propone di
ridare dignità all”aula, recuperando il progetto originale di Palladio. E
poiché anche a quell’epoca non si avevano notizie certe sulle intenzioni
dell’architetto padovano, Berardo GALIANI suggerisce di rifare la copertura
così come era stata rappresentata nell’incisione seicentesca di Ottavio
Revesi-Bruti. Berardo appoggiava questa soluzione avendo osservato che già nel
1591, a pochi anni dalla morte di Andrea, nelle cronache contemporanee era
stata dichiarata l’intenzione di realizzare sulla scena, un soffitto «alla
ducale»[137],
senza che nessuna voce si fosse levata contro tale proposito, per il fatto che
«non vi fosse eseguita la mente del Palladio»[138].
I recenti studi di Licisco Magagnato tendono a dimostrare come il cassettonato
sopra la scena sia un elemento da attribuire proprio ad Andrea Palladio, e che
la sua presenza fosse prevista fin dall’epoca in cui l’architetto padovano
presentò all’Accademia Olimpica il modello del teatro che si proponeva di
realizzare[139].
Magagnato è giunto a tali
conclusioni mettendo a confronto l’analisi del disegno palladiano RIBA X (fol.3
) con l’osservazione delle strutture di fondazione sotto il palcoscenico
dell’Olimpico: l’autografo londinese rappresenta una possibile ricostruzione
del Teatro di Pola, ove la particolare tipologia delle versure e l’esistenza di colonne
nei quattro angoli del palcoscenico, contribuiscono a far luce sul perché
Palladio, nel gettare le fondamenta dell’Olimpico, si fosse preoccupato di
rinforzare i punti angolari del palcoscenico; a suo credere, infatti, tali
precauzioni si resero necessarie in vista dell’intenzione di appoggiare sulle
colonne versurali una copertura
lignea, che doveva quindi essere molto simile a quella rappresentata nella
incisione del 1620. Non sarebbe allora un caso il fatto che la lunga trave composta
che divide la soffiatura in due settori ben distinti rispecchi il alto il
tracciato delle fondamenta, queste ultime sicuramente realizzate all’epoca in
cui Andrea era ancora vivo[140].
Alla luce di questi ultimi studi, allora, si può considerare superata l’ipotesi
di «tradimento dell’idea palladiana» a cui si è fatto riferimento in
precedenza, in quanto sarebbe stato lo stesso Palladio ad adeguare le strutture
del teatro antico ad un ambiente chiuso, destinato a rappresentazioni di tipo
moderno [141]
senza però che ne risultasse pregiudicata la sintesi unitaria. Tale forza
unificante non andrebbe ricercata, dunque, nell’osmosi figurativa tra gli spazi
della cavea e della scena, bensì nel richiamarsi alla «norma
proporzionale ed armonica dei principi rinascimentali prediletti dal Palladio»,
nonché nel ricorso allo schema geometrico vitruviano che [142]
mostra di adattarsi in modo soddisfacente al rilievo del Teatro Olimpico che è
stato eseguito in occasione dei recenti restauri[143],
il sospetto di Berardo GALIANI riguardo la precisione della pianta pubblicata
da Montenari, aveva dunque, un qualche fondamento. Vengono così a cadere in
primo luogo l’ipotesi che l’Olimpico sia frutto della sedimentazione di
elementi anacronisticamente combinati, per volere di vari (irrispettosi)
continuatori e, in secondo luogo, l’eventualità che quell’edificio sia stato
concepito come una pedante quanto inutile imitazione pedissequa di un simile
edificio antico[144].
L’originalità della posizione galianea risiede, quindi, proprio nell’aver
intuito già ai suoi tempi l’infondatezza di entrambe queste supposizioni, e
nell’avere rivendicato l’originalità di concezione del Teatro Olimpico
nell’ambito delle regole classiche; una intuizione estremamente precoce,
confermata solo in tempi molto recenti dalle conclusioni di Magagnato. Non a
caso, infatti, la fabbrica palladiana è considerata da Berardo GALIANI degna di
essere studiata alla stregua dei monumenti dell’antica Roma, così come gli
scultori studiano con eguale interesse sia le statue greche e romane, sia
quelle di Michelangelo[145].
La soluzione definitiva
L’erudita tenzone a colpi di autorevoli pareri, si
trascinò fino al 1765 circa, senza peraltro portare a risultati concreti a
breve termine, anche per il fatto che la grossa responsabilità della quale si
vedeva investita l’Accademia Olimpica ebbe come risultato la sospensione del
giudizio ed un sostanziale immobilismo, se si escludono i piccoli, ma costanti
interventi di manutenzione eseguiti premurosamente sotto la direzione di
Ottavio Bertotti Scamozzi, fino a quando[146]
il Teatro Olimpico fu ceduto alla rappresentanza municipale vicentina, e con
esso tutto il peso delle relative responsabilità. Il passaggio di consegne al
soggetto pubblico contribuì a risolvere[147]
i problemi principalmente economici che ostacolavano il rifacimento della
mirabile fabbrica e la nuova decorazione del soffitto fu portata a termine solo
nel 1829, nell’ambito di grandi restauri generali[148].
La soluzione adottata in quella circostanza decretava di fatto la (temporanea)
vittoria postuma di Ottone Calderari per il fatto che grazie all’influenza
dell’architetto municipale Bartolomeo Malacarne[149]
su tutto lo spazio sovrastante la cavea, orchestra e scena era stata affrescata
l’immagine di un velario con le relative funi di sostegno, le quali si
dipartivano a raggiera da una colossale corona centrale ellittica. Nel 1866
poi, in occasione della visita del re Vittorio Emanuele alla città di Vicenza,
l’affresco fu sostituito da un velario più realistico sospendendo al soffitto una
vera tela dipinta. Ma per quelli che, come GALIANI, avevano sostenuto la
posizione di Enea Arnaldi[150],
non era detta l’ultima parola, poiché ben presto questo velario fu ridotto «ad
un immane ed indecente straccio», e si dovette correre ai ripari. Riemersa
per l’ennesima volta la questione della copertura, si diede credito stavolta
alla nota stampa di Bruti Revesi[151]
e il cassettonato alla «ducale», nonché il «il finto aere»,
ricomparivano ove erano stati sino dall’origine per rimanervi fino ad oggi e
speriamo per molto tempo ancora.
Il restauro della ‘Trinità Maggiore’: le due cupole
Il viaggiatore che giunga per la
prima volta nella città di Napoli, non può che restare sorpreso ed affascinato
dalla inusuale facciata della chiesa del Gesù Nuovo[152],
il cui severo aspetto, sebbene contraddetto dai portali barocchi, rimanda, più
che all’ immagine di un edificio religioso, a quella di un arcigno palazzo, se
non addirittura di una prigione come ebbe a dire Francesco Milizia[153].
Nella piazza antistante la guglia dell’Immacolata (1747‑51) svetta verso il
cielo e, poco più avanti, la gialla massa tufacea della chiesa di Santa Chiara,
con il meraviglioso chiostro maiolicato, completa questo straordinario
concentrato d’arte, sito alle porte del cuore pulsante della città vecchia.
Eppure, quando per la prima volta l’autore di questa opera ebbe l’opportunità
di visitare la metropoli partenopea, la sua fantasia infantile fu fortemente
colpita proprio dalle ombre che le luci della notte, ormai sopraggiunta,
disegnavano sulle bugne di piperno[154]
lavorate a punta di diamante di quella facciata[155],
la cui mole catafratta costituisce il ricordo più vivo di quella breve
giornata. L’insolita facciata del Gesù Nuovo è quanto resta dell’antico Palazzo
Sanseverino, maestosa residenza del Principe di Salerno costruita nel 1470 su
disegno di Novello da Sanlucano[156],
e trasformato sul finire del XVI secolo in una chiesa a pianta centrale da
padre Giuseppe Valeriano(1542-96)[157],
il quale ne riutilizzò il fronte e le due mura laterali il progetto era stato
approntato fin dal 1584[158],
ma alla data della consacrazione (7 ottobre 1601), l’edificio mancava ancora
dell’episodio conclusivo costituito da una grande cupola centrale che fu
iniziata solo nel 1629; il risultato dovette essere veramente maestoso, se si
pensa che essa era inferiore in altezza solo a quelle di San Pietro e di Santa
Maria del Fiore[159],
mentre ad esaltarne la sontuosità contribuivano gli affreschi di Giovanni
Lanfranco[160],
allievo e collaboratore dei Carracci, il quale terminò il suo lavoro nel 1636[161].
La struttura a doppia calotta della fabbrica consentiva di ascendere fino al
cupolino, sorretto da otto colonne di piperno dolce ed adorno di vasi e
balaustri. Fu proprio una di queste colonne che, secondo le cronache
contemporanee, causò il crollo dell’intera struttura[162],
in seguito al terremoto del 1688; il sostegno lapideo infatti, essendosi
incrinato, era stato rifatto in muratura ma, racconta Carlo Celano, «mentre
il cupolino stava con la cupola ballando, venne meno [ ... ]; onde
[la cupola] mancandogli un piede cadde, e le altre colonne e pezzi
precipitando per l’altezza con violenza servirono di catapulte dove arrivavano.
Si rovesciò dalla parte di ponente; ed avendo fracassata una gran parte della
cupola, arrivarono sulla volta del cappellone di Santo Ignazio, che faceva
croce[163], e
la fecero andar tutta giù[164]».
I danni maggiori, quindi, furono il crollo della volta di un cappellone
laterale[165],
e quello della grande cupola centrale, che lasciò intatti solo i quattro
pennacchi sui quali il Lanfranco aveva raffigurato gli Evangelisti: Dopo solo
sei mesi, però, i padri Gesuiti potevano lasciare la vicina chiesa di Santa
Chiara[166]
e tornare nella propria, riparata velocemente e messa in condizione di poter
accogliere i fedeli. La volta del cappellone era stata completamente
ricostruita, mentre invece su l’ampio spazio della crociera, in luogo della
cupola, era stato realizzato un temporaneo tetto a padiglione rivestito con
lastre di piombo, e poggiante sul tamburo, quest’ultimo ricostruito in modo da
ricalcare fedelmente quello esistente prima del terremoto[167].
La nuova cupola, opera di Arcangelo Guglielminelli, fu iniziata solamente nel
1692 ed affrescata nel 1717 da Paolo De Matteis(1662-1728)[168];
a differenza di quella originaria, della quale non si hanno che descrizioni,
essa fu realizzata a calotta unica anziché doppia[169],
e con il cupolino sorretto da pilastri invece che colonne[170].
Nuovi timori e proposte d’intervento
Con l’espulsione dei Gesuiti dal
Regno delle Due Sicilie, la chiesa assunse il nome di Trinità Maggiore (1768),
ma già in precedenza (quello stesso anno) i vecchi abitatori avevano cominciato
a preoccuparsi per lo stato di salute dell’edificio; di questi timori ci dà
notizia proprio Berardo GALIANI nei brevi cenni storici che aprono il suo Parere, aggiungendo che gli esperti
interpellati dai Gesuiti avevano osservato delle preoccupanti lesioni; e «vi
conficcarono due codi di rondine di Marmo per farsi certi di altri nuovi
movimenti»[171].
Gli eventi che seguirono distolsero l’attenzione dei padri da quel probblema, e
nulla fu fatto finché nel 1769 l’architetto Ferdinando Fuga ricevette l’ordine
reale di verificare lo stato della chiesa, ed eventualmente proporre gli
adeguati rimedi[172].
Dal suo resoconto al ministro marchese Tanucci[173]
si arguisce che i danni riguardavano principalmente il pilastro della crociera
detto di San Luca, ed i due archi che scaricano su di esso; le lesioni erano
talmente estese da rendere sconsigliabile l’intervento diretto, ossia il
rifacimento integrale del pilone previo puntellamento delle parti da esso
sostenute, un’operazione che Fuga definiva «azzardosissima». In alternativa a
ciò egli proponeva di realizzare dei contropilastri e sottarchi per sostenere
le strutture murarie lesionate, estendendo poi l’intervento a tutta la chiesa
per evidenti ragioni di estetica e simmetria[174].
La variazione geometrica[175]
della sezione, che aumentava la superficie resistente a compressione,
permetteva il contenimento della funicolare dei carichi entro il nuovo, e più
ampio spessore della fabbrica, secondo una tecnica di consolidamento molto nota[176]ed
ampiamente usata in epoca barocca, allorché, le esili colonne delle antiche
basiliche paleocristiane furono o fagocitate dalla muratura dei nuovi pilastri,
oppure inserite nell’ambito di una diversa articolazione del gruppo sintattico
colonna-pilastro-setto murario. Ma oltre alla compromissione stilistica che una
tale operazione avrebbe generato, e malgrado il vantaggio di un rafforzamento
dell’intero edificio, il progetto di Ferdinando Fuga peccava di alcuni notevoli
difetti: in primo luogo una eccessiva spesa per fondare, murare, decorare ed
incrostare di marmi corpi di fabbrica che non erano, per la maggior parte,
indispensabili alle esigenze statiche della fabbrica; questi ultimi inoltre
avrebbero ridotto la luminosità di un ambiente già di per sé oscuro; ed infine,
cosa che doveva essere particoarmente sgradita a Berardo GALIANI, la modifica
degli spessori di quei piedritti avrebbe compromesso inevitabilmente (quanto
inutilmente) quell’aulico proporzionamento che era alla base di tutte le
dimensioni della chiesa[177].
Fuga concludeva supplicando il Re (che non lo esaudì) di essere esentato
dall’incarico di occuparsi di quel restauro, suggerendo di affidarlo al regio
ingegnere Pasquale Monzo, il quale a suo dire già si occupava degli altri
edifici confiscati ai Gesuiti; si ha quasi la sensazione che egli, occupato in
altri compiti forse più prestigiosi e gratificanti (si ricordi il colossale
albergo dei Poveri, concepito per accogliere tutti gli indigenti del Regno, o
gli edifici per la manifattura delle porcellane, ed ancora gli immensi Granili)
avesse maturato frettolosamente questa drastica (anche se staticamente sicura)
soluzione senza curarsi eccessivamente del suo notevole impatto formale, quasi
a volersi liberare da una fastidiosa incombenza. E che l’architetto fiorentino
fosse interessato poco o niente a quel lavoro lo dimostra il fatto che aveva
effettuato il sopralluogo solo dopo le forti pressioni della Giunta di Economia[178],
la quale si era vista costretta a richiedere un espresso comando da parte di
Sua Maestà per costringere il riluttante artista ad occuparsi di quella
questione[179].
Ma, come era facilmente prevedibile, i Francescani della Trinità Maggiore[180]
non gradirono quel progetto che, con i soprarchi e contropilastri, avrebbe
inevitabilmente alterato la bella struttura del loro tempio, cosicché chiesero
ed ottennero che fosse costituita una apposita commissione di esperti, della
quale fecero parte Giuseppe Astarita, Mario Gioffredo, Giuseppe Pollio e
Pasquale Monzo. Ferdinando Fuga, posto a capo di quella giunta, volle che ai
nominati fossero aggiunti Felice Bottiglieri ed il marchese Berardo GALIANI[181].
Dopo un anno e mezzo di lavori, sondaggi e consultazioni reciproche, gli
esperti produssero una relazione [182]
favorevole all’attuazione del progetto proposto da Fuga, con la sola
opposizione di Gioffredo, secondo il quale era verosimilmente praticabile la
via del rifacimento integrale del solo pilastro incrinato che sosteneva la
cupola, ed i lavori erano appena iniziati, quando un giovane ingegnere,
Vincenzo Lamberti, chiese di essere ascoltato (come poi avvenne) ritenendo che
fossero altre le cause del dissesto, e di conseguenza diversi gli interventi da
porre in opera. Nel conseguente parere scritto[183]
egli attribuiva la causa del cedimento del pilone alle infiltrazioni d’acqua
che ne minacciavano le fondamenta, sostenendo che era necessario allontanare le
prime per poi procedere al consolidamento delle seconde; ma il suo progetto era
ben più articolato di un se plice drenaggio, contemplando altresì la messa in
opera di piastre di ferro incatenate, per bloccare l’avanzare delle lesioni, e
di un certo numero di arcate esterne che scaricassero la spinta della cupola
sulle fabbriche ad essa adiacenti[184]
Le sue idee furono sottoposte al giudizio di Luigi Vanvitelli, il quale lo
contraddisse in toto adducendo ragioni meccaniche e costruttive[185].
Secondo il pensiero dello studioso Guido Guerra[186],
i due contendenti incarnavano lo scontro tra due diverse generazioni di
architetti, che facevano riferimento a culture scientifiche ormai troppo
distanti. Vanvitelli basava le sue affermazioni su La science des ingénieurs di Bernard Forest de Belidor, un trattato
che affrontando il solo caso delle volte a botte (senza accennare affatto alla
statica delle cupole) in effetti sarebbe stato presto sostituito da nuovi
testi, come ad esempio quelli di Lorenzo Mascheroni e Leonardo Salimbeni[187],
che facevano riferimento a ricerche e studi molto più recenti e completi. Non
deve quindi stupirci «la decisa presa di posizione di un giovane ingegnere
delle qualità del Lamberti, che invece viveva in pieno questo clima di
ribollente progresso nel campo delle teorie statiche», e che proprio in questa
materia, in seguito alla pubblicazione dell’autorevole volume Statica degli edifici (1781), riscosse
l’apprezzamento persino del Bernouilli. Inoltre le diverse interprertazioni
date dai due architetti sull’equilibrio statico dell’edificio, evidenziano
quella doppia contraddizione che percorre tutta la cultura architettonica del
‘700, consistente nella radicalizzazione del «divario esistente tra i poli
estremi di una teoria completamente avulsa dalla pratica e di un
professionalismo totalmente ignaro della ricerca teorica»[188],
e sintetizzato dall’aforisma bottariano secondo il quale chi studia
l’architettura non la professa, e chi la professa non la conosce[189].
In merito alla questione della
cupola, si delineano così due chiari schieramenti: da un lato l’anziano
Vanvitelli [190]
e l’indaffaratissimo Fuga, entrambi architetti «ufficiali», che
monopolizzavano buona parte dei lavori più prestigiosi commissionati dalla Casa
Reale; dall’altra il giovane quanto brillante Lamberti, nonché l’eterno
antagonista di Vanvitelli, Mario Gioffredo[191],
che impegnandosi a fondo (e con la passione che mancava ai primi due) per
assicurare la salvezza dell’integrità del monumento[192],
speravano di farsi spazio tra le file dei già affermati colleghi, ed entrare
nelle grazie del Re[193].
A questi ultimi si affiancò successivamente Berardo GALIANI, il quale, pur non
essendo spinto dalla volontà di accattivarsi il favore di nessuno, fu mosso
come loro dalla intenzione di impedire lo scempio della demolizione della
cupola, come poi invece (purtroppo) avvenne.
L’originale posizione di Berardo GALIANI: il suo «Parere»
Quando la commissione di esperti
si riunì nel mese di maggio 1773, erano state ultimate le puntellature del
pilone fatiscente e delle quattro arcate che vi poggiavano sopra, secondo
quanto prescritto da Ferdinando Fuga, il quale aveva fatto in modo che la
chiesa della Trinità Maggiore restasse chiusa ai fedeli, per evitare ogni
pericolo ed intralcio ai lavori[194].
In quella circostanza fu presa anche l’infausta decisione di abbattere la
cupola per maggiore sicurezza suffragata da presunti vantaggi economici che ne
sarebbero derivati, ma di fronte a tale gravissima decisione GALIANI[195]
si vide costretto a prendere le distanze dalle deliberazioni della commissione,
e a dichiarare la sua reale opinione sullo stato della chiesa, sulle cause del
dissesto e sui possibili metodi di intervento. Le sue convinzioni erano note
grazie ad una sintesi contenuta in un manoscritto anonimo[196]
ove sono compendiate le diverse relazioni presentate, ma oltre ad esso alla
Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria si trova anche il suo Parere autografo nella forma completa[197].
La stesura originaria di questo risale alla fase iniziale del dibattito sullo
stato di salute della chiesa napoletana, presumibilmente poco tempo dopo quel
novembre 1769 in cui Berardo venne chiamato a far parte della giunta di
esperti; quando poi egli decise di renderne pubblico il contenuto a causa delle
già esposte motivazioni, operò un rimaneggiamento molto ampio del testo,
aggiungendovi notizie su ciò che nel frattempo era cambiato[198].
In questo scritto egli ricusa principalmente il catrastrofismo della
commissione[199],
a detta della quale il peso della cupola, la sua (presunta) frettolosa
ricostruzione, ed infine le conseguenze del terremoto del 1688 avevano
compromesso in maniera gravissima l’equilibrio statico di tutto l’edificio. Per
GALIANI, invece, alla minaccia del monumento contribuiva una causa ben più
grave che egli definisce «sostanziale, intrinseca e permanente»[200],
costituita dalla eccessiva spinta delle volte in relazione al ridotto spessore
delle mura, ed aggravata dalla errata costruzione del tetto delle navate,
poiché quest’ultimo era stato realizzato (a suo dire) con due semplici puntoni
poggianti lateralmente sui muri perimetrali e, al centro, su pilastrini in
muratura direttamente posati sull’estradosso delle volte stesse, con
l’inevitabile conseguenza di generare una componente orizzontale di spinta
ancora maggiore. A risentire in modo notevole di questo squilibrio sarebbe
stato proprio il pilastro detto di S. Luca[201],
sollecitato all’estremità superiore dalla risultante delle spinte relative alle
volte della navata principale e del cappellone di S. Ignazio, longitudinalmente
ortogonali fra loro; le gravi lesioni sul pilone, quindi, sarebbero state
causate dalla sua rotazione rispetto ad un piano verticale posto in prossimità
della bisettrice fra questi due bracci della croce[202].
La proposta di consolidamento di Berardo (alquanto articolata) comporta la
messa in discussione e la generale correzione dello schema statico
dell’edificio. il riferimento fondamentale per tutte le aggiunte di fabbrica è,
inequivocabilmente, la regola classica delle proporzioni, che il napoletano
conosceva in maniera molto approfondita stante il suo attento studio del testo
vitruviano; ma nella tipologia d’intervento[203]
affiora, sebbene a livello non cosciente, l’esperienza del Gotico, peraltro
apertamente (e per certi versi sorprendentemente) citata come esempio quando GALIANI[204]
respinge l’accusa secondo la quale i pilastri della chiesa sarebbero stati
troppo snelli[205].
In quel fugace accenno viene riconosciuto all’architettura che Vasari aveva
definito «mostruosa e barbara», almeno un valore nel campo della
conoscenza, seppur ancora intuitiva ed empirica, del comportamento strutturale
degli edifici, che le fabbriche gotiche, col loro ardito slancio verticale,
esprimevano al massimo grado. L’elemento fondamentale di questa correzione
dell’equilibrio statico era, comunque, costituito dalla rimozione della causa
stessa del dissesto, mediante la sostituzione della copertura esistente con un
«tetto a cavallo armato»[206],
ovvero un tetto a capriate, ove la catena inferiore, assorbendo le spinte
orizzontali, consentisse di trasmettere alle mura perimetrali la sola
componente verticale. Queste ultime opportunamente irrobustite avrebbero meglio
contrastato la spinta delle volte soprastanti, e allo stesso tempo sarebbero
state sgravate del peso della copertura che, essendo stato ricondotto sulla
verticale dall’uso delle capriate, poteva al contrario contribuire
ulteriormente alla stabilità dell’intera struttura. I vantaggi derivanti
dall’uso delle capriate erano comunque noti da tempo immemorabile, ma il loro
utilizzo nell’ambito di un intervento di consolidamento richiama alla memoria i
suggerimenti di Leon Battista Alberti in merito al recupero dell’antica
basilica paleocristiana di San Pietro a Roma(NOTA: L. B. Alberti, De re aedificatoria, 1485, libro X, cap.
XVII): questi infatti , nell’ultimo libro della sua più importante opera
letteraria, propone proprio l’utilizzo di «capre» per realizzare una nuova
copertura che non destabilizzasse più il vetusto e malandato tempio romano. Non
è assolutamente dimostrabile che Berardo, al momento di stendere il suo Parere, avesse in mente questa
precedente proposta dell’Alberti, e comunque la cosa non avrebbe grossa
rilevanza ai fini di questo studio; ma è singolare notare che il nome della
Basilica Vaticana[207]
ricorra ben due volte nello scritto sulla Trinità Maggiore. Il primo accenno
riguarda la «giunta fatta dal Maderni al superbo disegno dato dal divino
Buonarroti per la Basilica di San Pietro»[208],
a proposito della quale l’autore non tollera che si sia alterato il progetto
originale a croce greca, compromettondone in modo inevitabile il
proporzionamento, e di conseguenza la venustà che del primo, se correttamente
realizzato, è il necessario effetto. Per un analogo motivo deplora infatti
anche la proposta del sottarchi e contropilastri avanzata da Fuga, che «si
volle ostinatamente sostenere» anche dopo la decisione di smantellare la
Cupola, affermando pretestuosamente «che tutta la chiesa fosse fracida»[209].
Le aggiunte murarie non erano tutte indispensabili per il consolidamento e che
la loro edificazione fu proposta «ove per necessità, ove per cautela ed ove
per Euritmia»[210],
avrebbero comportato una considerevole, quanto ingiustificata lievitazione dei
costi. Nel V capitolo del Parere,
quindi, Berardo GALIANI attacca apertamente il progetto di restauro approntato
da Fuga, dimostrando quanto in esso vi fosse di velleitario e, mediante una
serie di considerazioni estetiche, tecniche ed economiche, arriva a
smantellarlo punto per punto; infine, puntando l’indice contro l’alterazione
del raffinato proporzionamento di quel monumento, manifesta quanto la sua
intergrità gli stesse a cuore, alla stregua dei già citati Vincenzo Lamberti e
Mario Gioffredo. Siamo di fronte a due concezioni di intervento diametralmente
opposte: da un lato la semplice cura degli effetti[211],
e dall’altro un modo di procedere che muovendo da una razionale elaborazione
teorica, si traduce nella concreta rimozione delle cause stesse del dissesto.
Berardo GALIANI era evidentemente convinto, che la cupola non fosse in
imminente pericolo di crollo; le drastiche decisioni della commissione di
esperti, quindi, sarebbero dovute ad un eccesso di cautela secondo una
consuetudine purtroppo assai diffusa: «Basta che si cominci a vociferare
alcun pericolo, che sia di pubblico interesse, perché la fama di bocca in bocca
passando cresca ed urti con tanto impeto, che tolga a chicchessia quella
indifferenza che potrebbe fare spassionatamente giudicare»[212].
A conferma di questa opinione porta l’esempio (e siamo al secondo accenno) di
quanto era accaduto per la Cupola Vaticana: «Uscita che fu la voce d’essere
lesa e in pericolo la Cupola di San Pietro di Roma, non vi fu modo di far
capire le ragioni di coloro, che sostenevano essere vecchie e di nessuna
conseguenza imminente le lesioni, essere le simili di tutte le altre cupole. E
la fantasia non s’acchetò, se non quando vide tutta la cupola cerchiata di
catene, e Dio faccia che siano questa state rimedio, e non cagioni motrici di
nuovi mali»[213].
L’influsso di Giovanni Bottari
Da queste
parole emerge un GALIANI perfettamente al corrente di quell’dibattito
sviluppatosi alla metà del ‘700, e nettamente schierato dalla parte dei non
interventisti, vale a dire a fianco di monsignor Giovanni Gaetano Bottari
personaggio che egli conosceva molto bene in quanto quest’ultimo era stato
molto amico di suo zio monsignor Celestino GALIANI[214],
succedendogli [215]
nella cattedra di Storia Ecclesiastica e di Controversie presso l’Università
della Sapienza[216].
Ma i legami tra la famiglia GALIANI e il dotto prelato fiorentino passavano
anche attraverso la persona di Bartolomeo Intieri, uno dei protagonisti
dell’illuminismo napoletano, frequentatore del salotto culturale galianeo, grande
amico dei suoi animatori ed amministratore delle vaste proprietà nel
Mezzogiorno della famiglia Corsini, alla quale Bottari era a sua volta molto
legato, essendo considerato addirittura il braccio destro del cardinale Neri
Corsini, a sua volta nipote di Clemente XII[217].
I contatti diretti di Bottari con Berardo GALIANI risalivano poi all’epoca in
cui Berardo aveva affrontato il commento del testo Vitruviano basandosi su vari
manoscritti, fra i quali due testi molto antichi[218]
conservati presso la Biblioteca vaticana, della quale era custode lo stesso
Bottari[219];
contatti quindi che avevano avuto modo di consolidarsi in un tempo
immediatamente successivo a quello in cui aveva avuto luogo il dibattito sul
restauro della cupola di San Pietro, se non addirittura nel pieno del suo
svolgimento. Fra i due studiosi d’architettura era intercorsa una fitta
corrispondenza[220]
nella quale essi si confrontavano sulla corretta interpretazione degli
insegnamenti di Vitruvio, collazionandone le versioni in loro possesso. Bottari
aveva preso parte, come si sa, alla polemica sul presunto dissesto della
fabbrica michelangiolesca prendendone chiaramente posizione contro il progetto
di restauro presentato da Vanvitelli[221],
il quale a sua volta definisce Bottari stesso «uno degli anticupolai»[222]
e, in una lettera del 29 dicembre 1754, così scrive al proprio fratello:«Questa
mattina dal Marchese GALIANI, il quale fa una traduzione di Vitruvio e spesso
conferisce meco, ho saputo che il Bottari, quando fu a Napoli per la morte del
Principe Corsini D. Bartolomeo, ha detto tutto quello che puotea dirsi contro
me, e quanto puotesse dire per esaltare il Fuga»[223].
Non sarebbe troppo ardito, allora, congetturare che Berardo GALIANI abbia
potuto avere, in quella o in altra simile occasione, uno scambio di opinioni
con Bottari riguardo al problema della Cupola di S. Pietro e probabilmente
anche sul comportamento strutturale delle cupole in generale, visto che il nome
della Basilica Vaticana ricorre per ben due volte, come si è ricordato il quel Parere ove non a caso si affronta
proprio il problema del consolidamento di un’altra cupola, quella della Trinità
Maggiore. Sembra quasi che a Napoli si proponga, seppur con echi ben più
limitati, la polemica romana nella quale era stato chiamato in causa Bottari, e
che Berardo GALIANI prenda posizione tra le file dei non interventisti proprio
come aveva fatto il prelato venti anni prima riguardo alla fabbrica
michelangiolesca[224].
In effetti entrambe le considerazioni sul maggiore tempio della cristianità
contenute nel manoscritto galianeo, rispecchiano in maniera evidente quanto
affermato dal prelato nei Dialoghi sopra
le tre arti del Disegno; e se l’intervento di Carlo Maderno è oggetto solo
di una fugace deplorazione da parte di Berardo GALIANI, che non si sofferma sulle
ragioni che lo animano[225],
in merito alla questione della Cupola Vaticana la convergenza di opinioni fra i
due studiosi è molto chiaramente esplicita: nella nota a pagina 82 del secondo
dialogo, infatti, Bottari riassume con toni polemici, molto simili a quelli che
saranno poi di Berardo, la vicenda della cerchiatura della cupola[226].
A mio credere (commenta il dott. Carrafiello) è possibile che le osservazioni
di GALIANI sui due interventi alla Basilica di San Pietro maturarono alla luce
del pensiero bottariano appreso in ipotesi dalla sua viva voce, e certamente
grazie alla lettura dei Dialoghi che
molto probabilmente figuravano nella sua vasta biblioteca[227].
D’altronde Berardo non fu il solo nel sostenere queste idee, anche Lorenzo
Iaccarino[228]
si associò alla sua posizione, seppur senza troppa risoluzione[229].
Ma quantunque il Parere di Berardo (a
detta del fratello Ferdinando) «fu stimato da tutti per il migliore»[230],
non sortì l’effetto sperato di far recedere la giunta di esperti dal proposito
di demolire la cupola. A nulla valsero un nuovo intervento di Lamberti ed il
progetto di Michelangelo Arinelli[231],
cosicché , nell’autunno del 1775, si diede inizio all’abbattimento dell’opera
del Guglielminelli. Solo dieci anni dopo[232]
Ignazio Di Nardo sostituì la diroccata cupola con una semplice calotta ad
incannicciata sospesa al tiburio[233],
ovvero, come si legge nel piano di intervento elaborato dalla Camera Abbreviata[234],
una «lamia[235]
finta di stucco, intessuta di legname, e coverta a tetto, che sarà durevole
come se fosse a masso, anche per evitarsi le conseguenze funeste di un enorme
peso»[236].
L’accento veniva messo, ancora una volta, sul peso della copertura, eppure oggi
su quei pilastri, che all’epoca di cui si discorre furono comunque consolidati,
grava un tetto in cemento armato realizzato, forse con eccessiva leggerezza
filologica, nel 1973, per mano di tecnici certamente più vicini all’(«ufficiale»)
architetto Fuga, che non al paladino dell’integrità del monumento, il marchese
Berardo GALIANI.
TOMMASO CARRAFIELLO
Appendice
I*
RAPPRESENTANZA DEL MARCHESE GALIANI
AL MARCHESE TANUCCI SULLA RELAZIONE
E SU I DISEGNI DEL TEATRO ERCOLANESE[237]
Si compiacque V. E., non men che dal 13
dicembre dello scorso anno, di real nome rimettermi la pianta e profilo del
teatro d’Erculano fatto da D. Carlo Weber, insieme con una di lui relazione,
perché io vedessi, conoscessi e dessi il mio parere. Sono andato fin oggi di
giorno in giorno lusingato, di non dover cotanto differire la esecuzione di un
sì alto, venerato, e lusinghiero comando. Ma come per potere il più
adeguatamente corrispondere, convenivami abboccare a con Carlo Weber e con
altri, per ricevere gli opportuni lumi; così mi credo della tardanza
abbastantemente scusato, dalla morte (salute mille anni all’E. V.) del detto
Weber, non molti giorni dopo del carico addossatomi, dalla infermità degli
altri, e dalla inopportunità del sì fatto negozio, in tempo di gravi e molto
maggiori occupazioni. Alla perdita del Weber si è in qualche modo riparato, con
l’addossare la cura degli scavi al sig. La Vega, giovane di valore che a
quest’ora avrà ben saputo rendersi istrutto del finora oprato, per assicurare
la direzione de’ nuovi scavi che occorrono. Le infermità e le gravi cure mercé
la somma provvidenza della E. V. non fanno più orrore, ond’è che per non più
differire, non taccia almeno di disattento, mi veggo nell’obbligo di far
presente a V. E. Che siccome finora par che nel teatro antico siansi diretti
gli scavi a solo oggetto di rinvenirvi o pitture o scolture, o altro frammento
che meritasse passare nel R. Museo, così per potersi ora comunicare al pubblico
disegni di questo teatro, il più compiti ed esatti che si possa, conviene
ordinare degli scavi espressamente, per iscoprire quelle parti di esso teatro
che necessitano, e per l’esattezza del disegno, e per i lumi, che dalla
intelligenza degli autori, il mondo tutto aspetta da questo teatro, che per
fortunato accidente è, e senza meno deve essere, il più conservato di tutti da
una sì remota antichità. Per la esattezza del disegno della pianta, pare che la
somma diligenza e scrupolosità del Weber non ci lasci cosa a desiderare: ma per
un disegno egualmente esatto della elevazione, sia della parte anteriore della
scena, sia della posteriore del teatro, vi mancano ancora de’lumi, per avere i
quali converrebbe fare più scavi, benché tutti di piccolo momento.
1. Le pilastrate degli archi esteriori
sono tutte ornate di una fascia verticale, che sebbene senza base, possono ciò
non ostante essere pilastri dorici, i quali avranno almeno il capitello e
cornicione, forse con un sopraornato attico. Per assicurarcene conviene uno
scavo, dalla estrema altezza già scoverta del teatro in giù, radendo la stessa
facciata esterna: e questo per quanto porta la larghezza di un arco solo colle
due pilastrate laterali, giacché l’euritmia ci assicura della somiglianza di
tutto il resto dell’edificio. Non mi dispiacerebbe si scegliesse o l’arco di
mezzo, o uno di que’due che danno ingresso alle due scalinate, essendo più in
questi che in altri probabile d’incontrarvi alcuna iscrizione, bassorilievo,
pittura, o altro ornamento.
2. Pianta - essendo vero che il portico
che si costruiva dietro la scena, ed in questo nostro non mancava, servisse per
ricovero de’spettatori in tempo di piogge, convien fare diligenza per assicurarsi,
se mai dal porticato esteriore e circolare del teatro vi fosse, come pare
naturale, un passaggio coperto con qualche apertura nel muro che divide le
arcate dal colonnato.
3. Dalla pianta non si rileva esservi
stati muri, che lateralmente chiudessero e segregassero dal pubblico commercio,
il p[r]oscenio[238]
e parascenio addetti agli attori.
4. Benché per le regole dell’arte
essendoci, già nota l’altezza del teatro, quella della scena deve essere
eguale, ad ogni modo e per maggior sicurezza e per iscoprire molto più se mai
fosse in questa parte coperto il teatro, parmi a proposito che vi abbiano a
fare delle puove.
5. Qualche
altra pruova bisognerebbe fare lungo il muro del proscenio, dalla parte del
colonnato, per iscoprire la giusta altezza delle colonne, e il sopra ornato
delle medesime. Spero che V. E. non reputi impertinente questi miei dubbii, e
che passi immantinente gli ordini opportuni a chi si convenga, per farsi gli
accennati nuovi scavi. In attenzione dunque della reale risoluzione, per quella
parte che si è la M. S. degnata farmici avere, o altra che Le piacesse, mi
riserbo a nuovo ordine adempiere al comando avuto, di vedere e riconoscere,
quando si sarà passato il corrispondente ordine all’ ingegnere La Vega, o a chi
altro convenga, perché co’disegni alla mano si possa sulla sulla faccia del
luogo autenticare la loro esattezza.Finalmente per non più differire la tanto
aspettata pubblicazione di questi disegni, debbo far presente alla V. E., che
quelli dati dal Weber sono di una eccessiva grandezza, sicché primo, non
potrebbonsi tirare con un rame solo, e, le disegni tirati in più rami non
sogliono essere i più esatti: secondo, il disegno così inciso non potrebbe
andare senza molte piegature o ripiegature nello stabilito volume. Assicuro in tanto
V. E., che un teatro disegnato di grandezza capiente nel foglio de’volumi
ercolanesi, è sicuramente di grandezza maggiore de’disegni de’teatri, che si
sono pubblicati fin oggi, e le parti più minute vi pervengono bastantemente
distinte. Tutto ciò dico all’E. V., perché passandolo alla intelligenza della
M. S., si risolva la grandezza del disegno, per quindi il più presto che si
potrà, possansi fare disegni puliti, o da altri o da me stesso, quando piacesse
darmene il carico, intanto che facendosi, se così si risolva, i nuovi scavi, si
possa aggiungere a’ cominciati disegni, quelle nuove parti che si scopriranno.
Ad un Ministro ingombro di alti affari ho scritto troppo a lungo: per maggiore
intelligenza della cosa, avrei anche più a lungo scrivere. Quando però la
brevità mi abbia fatto oscuro, perché non se Le accresca la noia con altra
lettura, che sempre oscura sarà a chi non abbia potuto visitare gli scavi, ad
ogni semplice cenno mi darò l’onore di presentare all’ E. V. un rozzo modello,
che espressamente ha formato di tutto ciò che finora in questo teatro ho
scoperto.
SCAVI RICHIESTI DALLA R.. ACCADEMIA ERCOLANESE
PER LA FORMAZIONE
DELLA PIANTA
La Reale Accademia Ercolanese, ha proposto al Re di farsi alcune
scavazioni, per potersi con più esattezza formar la pianta dell’antico teatro
di Ercolano, e facilitare insieme la veduta, e l’intelligenza del teatro
stesso. E primieramente per far ciò ha creduto opportuno, che si ripulissero
tutte le grotte, le quali furono fatte cavare dal fu D. Carlo Weber, e poi si
riempirono di nuovo, con togliersene tutto il terreno che inutilmente le
occupa, e che impedisce il formare una giusta idea delle parti più importanti
del teatro; e che per lo stesso effetto di riconoscersi il pulpito, e parte
dell’orchestra, si tolga tutto il terreno, che resta avanti alla scena, con
farsi in quel luogo di tratto in tratto de’pilastri, anche per assicurar così
il pappamonte sovrapposto ad un gran vuoto, che ora vi si vede. In secondo
luogo per osservare se vi sieno state mura, che lateralmente chiudessero, e
segregassero dal pubblico commercio il proscenio, e’l prascenio, ha proposto,
oltre al ripulirsi le grotte già in quei siti fatte dal Weber, farsi qualche
altro scavo, che bisognasse. In terzo luogo per scovrire, se le fasce opposte
verticalmente alle pilastrate degli archi esteriori, sien pilastri dorici con
capitelli, cornicione e sopraornato, ha proposto d’incominciarsi unitamente due
scavi, uno nell’arco di mezzo, dove già il Weber aveva fatto eseguire un
taglio; e l’altro nell’arco immediato alla scala grande, che resta verso la
marina, continuandosi il taglio verso la scala, e scovrendosene il pilastro
intermedio col suo sopraornato. In quarto luogo farsi una prova in uno de’muri
laterali alla scena, dove era il passaggio del parascenio al pulpito, per
riconoscere dall’attaccatura della scena con gli alti muri laterali la sua
altezza, e veder ancora, se tal passaggio era arco o porta. Ha proposto in
quinto luogo, che per assicurarsi dell’altezza delle colonne, le quali
formavano il portico dietro la scena, e sono già rovinate, potrebbe farsi
qualche prova sulle mura, su cui posava il coverto del colonnato oltre il teatro,
o che per essere di fabbriche più stabili della scena, han potuto conservarsi
intere; potendosi in tal maniera anche vedere, come terminava il detto portico,
per perfezionare la pianta su detta. E finalmente ha proposto, potersi
impiegare in queste scavazioni quattordici tra uomini e ragazzi, de’più grandi
che restano alla Civita[239];
rimettersi i quattro schiavi , che restano prima in dette scavazioni, come
gente già pratica, e per cui non è necessaria guardia, o agozino; e alla Civita
rimettersi i quindici ragazzi che prima vi erano, poiché in tal maniera si
seguiterebbe lo scavamento del teatro di Pompei, colla speranza di potersi
trovare in buono stato alcuna delle parti che mancano a quel di Ercolano; e si
farebbe nel tempo stesso le prove, e scavazioni suddette.
LAVORI ESEGUITI NEL MAGGIO E
GIUGNO 1765
Essendosi nella parte esterna ricercate le fasce apposte anticamente
alle pilastrate delli archi, ho riconosciuto essere queste divise in due
ordini, benché altro non ne possa dire, per non aver ancora scoperto alcun
capitello. Nel fare questo tentativo, però son venuto in cognizione, che in
mezzo alla sommità dei gradi, dirimpetto alla scena, vi fosse un piccolo
tempio, benché era molto distrutto; ma da qualche avanzo che ne ho trovato può
credersi, essere stato, al pari di tutto il teatro, magnifico. Si son fatte
delle pruove, per riconoscere se esistesse in qualche luogo l’intera altezza
della scena, ma questa l’ho trovata in tutta la sua sommità diroccata, benché
la parte che esiste, è con tutto ciò delle maggiori che si osservi in qualunque
altro antico teatro. Ho però scoperto lateralmente alla stessa scena, che i due
passaggi dalli parasceni al pulpito sono due porte. Essendosi levata buona
porzione del terreno che restava nel vacuo avanti la scena, con avere
appuntellato con travi il pappamonte soprapposto, sino a tanto che per avere
intieramente sbarazzato, fosse in istato di farsi li pilastri: ho scoperto
sotto il tavolato del pulpito esservi varii cunicoli, alcuni proprii a portare
le acque piovane raccolte nell’orchestra, ed altri ad uso forse di muovere
macchine, o formare que’suoni ed altre comparse, che ereano solite farsi dalli
antichi nelle commedie. Nella faccia del pulpito verso l’orchestra, si sono
scoperti quattro risalti di muri, che lasciano quasi su di loro tre nicchie,
delle quali quella che resta nel mezzo, che è ancora nel mezzo del pulpito, è
rettangola, e quelle dei lati sono semicircolari, e restano queste più ornate
di membri di marmo, che la rimanente faccia del pulpito, secondo si può capire
dalli pochi avanzi che sono restati in questo sito, che secondo ho detto è il
mezzo. Pare che il piano superiore restasse più alto che il rimanente del
pulpito, con ascendervisi per un piccolo grado. Così li sopra notati cuniculi,
come questi muri scoperti avanti il pulpito, sono troppo singolari, per non
esistere in altro teatro antico. Questi muri dubito, che forse possano essere i
tribunali, delli quali Vitruvio fa menzione in questi termini: Sunt enim res
quas in pusillo et mago theatro necesse est eadem magnitudine fieri etc.
lib. V, cap. 7.
Anche di questo si parla nell’iscrizione trovata nel teatro di Pompei,
riportata nel rapporto delli 22 agosto 1764, che dice:
III-RVFUS...
... BVNAL-THEA...
COLONIA...
Tribunali non si possono qui intendere per luoghi di amministrare la
giustizia, e specialmente se si confronta il citato passo, con l’altro dello
stesso autore, lib. IV, cap. 7, dove dice: Fiunt autem aedes rotundae e quibus aliae monopterae dicuntur
etc. In un bassorilievo che rapporta il Piranesi fra gli altri antichi
monumenti, nell’opera Della
magnificenza ed architettura de’Romani, si vede un tempio rotondo
monoptero senza cella, con una scala che da l’ascenzo al medesimo, e due muri
che sporgendo fuori dal piedistallo del tempio lo vengono a racchiudere, come
ve n’è un esempio nella tav. XLVIII del tom. I di Ercolano; li quali muri,
secondo le parole di Vitruvio, pare che abbiano da prendersi per li tribunali.
Saprà l’E. V. con l’alta sua intelligenza, illustrare questa parte d’antichità,
come ne ha rischiarate tante altre sino ad ora. Per quello che riguarda la
lunghezza del portico dietro la scena, ho ritrovato non estendersi molto alli
suoi lati, oltre la larghezza dello stesso teatro, e solo resta a vedersi, se
rivoltando questa d’ambe le parti, comunichi con l’altro portico circolare, che
circonda il teatro; e dovrà ancora farsi qualche esame, per riconoscere
l’altezza di questo istesso portico.Tutto questo si è eseguito con 200 ducati.
PARERE DEL M.E BERARDO GALIANI
DATO SULLA COPERTURA DEL PALCO DEL TEATRO
OLIMPICO
IN ESECUZIONE DI ORDINI
AVUTINE DAL SIG.
RESIDENTE DI VENEZIA IN NAPOLI[240]¹
[271r] Dalle tre
scritture stampate, che giorni sono per venerato alto comando mi sono state
consegnate[241]
[R: delle quali] una è la descrizione del Teatro Olimpico eretto dal Palladio
in Vicenza fatta con esatta e somma erudizione dal Sig. Conte Giovanni
Montenari, e l’altra è del Sig. Conte Enea Arnaldi, contenente l’idea d’un
Teatro moderno a somiglianza dell’antico, con due discorsi uno sulla copertura
del Teatro in genere, l’altro su quella a farsi nel Teatro Olimpico, [R: di cui
tratta anche] la terza dell’Accademico Sig. Ottone Calderari, [M: rilevasi la
controversia insorta fra que’dotti e insigni Accademici, essere, se] e come
debba coprirsi il pulpito della Scena di detto Teatro Olimpico, [271v] giacché
l’accidente porta, che abbia ora bisogno di rifazione. [M: Per eccesso di
delicatezza si è voluto sentire su tal questione anche il mio debole parere; e
come che ciò a sommo onore mel rechi, non è che no’ senta insieme la pena di
dover scrivere in concorso di talenti di gran lunga superiori]. Avrei [R:
perciò] desiderato che la questione fosse [R: ristretta] solo sul punto di come
si avesse dovuto rifare, lasciata in non cale quella del se vi convenisse,
mentre dalli stessi atti dell’Accademia, da’disegni antichi dello stesso
Teatro, e finalmente in mancanza, da ogni Architetto studioso indagatore del
buon gusto antico, si sarebbe con agevolezza ed onore determinata la
controversia. Ma poiché il sopraffine gusto di que’ Nobili accademici, pare che
ponga in dubbio se quella copertura non [R: che] la presente di tela [R: e
tavole dipinte], ma quella anche di stucco [R: antica], che vi è stata fino a
molti anni sono, fosse stata o no l’idea del Palladio; e passando anche più
oltre si giunge fino in un certo modo a porre in dubbio, se una tale copertura,
quanto fosse stata [272r] l’idea del Palladio, sia o no sul gusto antico;
conviene anche a me entrare in tutti gli [R: eccitati] punti, e perciò dirò
prima quello che sento sulla forma di quelle parti del Teatro antico che sono
al caso; in secondo luogo sulla somiglianza dell’[R: Antico coll’] Olimpico; ed
in terzo finalmente sulla copertura da farsi sul pulpito [M: di questo].
Se avessi avuta la sorte, che la mia traduzione, e fatiche sopra
Vitruvio date già alla luce dal 1758, fossero state [R: sotto gli occhi de’]
Sig.ri Accademici Olimpici, che han pubblicate le loro dotte disertazioni nel
1762, avrei potuto un doppio vantaggio ricavare, il primo di vedermi sopra gli
abbagli forse colà da me presi, illuminato, ed ammaestrato da perspicaci
ingegni; e’l secondo di vedermi ora esente dall’imbarazzo di dovere per [272v]
necessaria sincerità dire cose che non saranno forse del tutto d’accordo col
detto de’ citati valenti uomini. In tanto una volta per sempre mi protesto di
avere tutta la maggiore stima per chiunque, e di non avere altra idea nel
proporre i miei sentimenti, che quella di crivellare al possibile la materia, e
di stimolare talenti ancora più vivi, e più di me perspicaci alla ricerca di
maggiori, e desiderati lumi.
CAPITOLO I
DEL TEATRO ANTICO
Ognuno sa, che i Teatri antichi avevano due parti, l’una per gli
Spettatori, l’altra per gli Attori: quella tutta di fabbrica soda, questa
all’infuori delle mura principali, tutta di legni, e forse di carte, e tele.
Quindi non ha fatto ne fa meraviglia, [273r] se in tanti, e tanti frammenti di
Teatri antichi trovisi intera, o quasi la parte degli Spettatori, e quasi
interamente al contrario rovinata quella de’Rappresentanti: onde è, per
accertarci della esistenza, forma, o sito di alcuna di [R: queste] si fatte
parti, non possiamo ad altro ricorrere, che a que’ pochi scrittori
contemporanei, copia de’quali è riuscito far valicare l’immenso mare di più
secoli, e di barbarie. E nella materia d’Architettura cresce l’angustia, perché
di tanti autori, che già ne scrissero ed in Greco ed in Latino, non si è fino
a’ dì nostri potuto salvare altro, che ‘1 solo Vitruvio, e dio ‘1 volesse, che
almeno questo salvo si fosse in tutto le sue parti. Dissi il solo Vitruvio,
perché di poco o nessun lume ci sono, e ci possono essere que’ passi d’Autori
[273v] sieno Istorici, sieno Filosofi, sien finalmente Poeti; poiché o sono
troppo piccole cose, o non meritano quella [R: tanta] fede che altrimenti loro
si sarebbe prestata, se trattato avessero espressamente di si fatte maniere, o
notizie avessimo d’esserne stati intendenti. E per non divagarmi in questa
prevenzione, già troppo nota, venendo al caso particolare, dirò, che quanto sù
Teatri antichi hanno opinato, e i commentatori di Vitruvio, e i primi lumi
moderni restitutori della buona Architettura, tutto non è cavato altronde, che
dal testo stesso di Vitruvio, il quale per la brevità, ed oscurità
dell’espressione, per la mancanza delle figure, e spesso anche per il difetto
degli Amanuensi, non riesce [R: tuttavia ] in molti luoghi della più facile
intelligenza. [274r] Lungo e superfluo sarebbe ancora il copiare qui quanto ho
io medesimo, rispetto a’ Teatri antichi, detto nel mio commento sopra Vitruvio
nel Lib. V [R: dal] Cap. 3º al 9º. Con facilità può ognuno quivi vedere le
ragioni della nuova interpretazione da me data ad alcuni passi, per la quale
viene in conseguenza a darsi una figura, ed una idea di alcune parti di esso
Teatro, troppo diversa da quella, che si [R: era] avuta [R: per l’innanzi]. Il
mio ardire nello scuotere il peraltro sempre lodevole giogo della sottomissione
agli insegnamenti di accreditati autori, spero non sia preso in mala parte, [R:
anzi] che mi s’imputi piuttosto ad un eccesso di zelo la scoperta della verità.
Per questo principio lasciando [R: ora] il resto, mi avanzai a tradurre lo
stesso Testo, in modo che togliesse la [254v] comune radicata idea, che le
macchine triangolari, onde gli antichi si avvalsero per le mutazioni delle
Scene non fossero già situate dietro le [R: note e costanti] tre porte del
fronte della medesima, ma si bene di fianco, come usiamo [R: noi] oggi, quanto
a dire presso alle strade delle cantonate, che allora dicevansi delle versure.
E se allora che io pubblicai le sopraddette mie fatiche, con non piccolo mio
timore, avanzai questa mia nuova scoperta, coll’ andar del tempo, e colla più
matura riflessione non solo non [R: ho] trovato motivo di rivederne, ma anzi
piuttosto di confirmarmici. Per non ripetere quanto quivi ho detto, brevemente
dirò che né Vitruvio, [R: né altri] disse [R: mai] che le mutazioni di Scene si
mettessero dietro le tre porte, né la ragione non prevaricata permette che
quivi sieno. [275r] Non lo disse Vitruvio, poiché egli altro non scrisse, se
non che «media[242]
valvae ornatus habeant aulae regiae: dextra ac sinistra hospitalia: secundum
[243]
secundum antem ea spatia ad ornatus comparata ... e dopo aver descritto
le tre mutazioni di Scene Tragica, Comica, e Satirica, conchiude: sucundum
ea loca versurae sunt procurrentes quae effíciunt una a foro, altera a peregre
aditus in Scenam». Se non m’inganno [R: dunque] non hanno veduto chiaro quelli,
che hanno interpretato il primo Secundum, per dietro, ed hanno con ciò
voluto situare le macchine versatili dietro cotali porte, quando non altro
dovevano per dietro interpretare l’altro Secundum, ed in conseguenza
situare anche dietro le porte gli [275v] angoli, e le strade delle versure,
locché per altro non è né caduto, ne potuto cadere in mente ad alcuno. Non per
ragione, mentre a ben riflettere la Scena, o per dir meglio, la fronte della
Scena Greca non fu altro, che una immagine delle case loro, nelle quali si
vedea la porta grande di mezzo per l’appartamento principale, e le due laterali
per le foresterie, [ R: come da Vitruvio lib. VI. Cap. 10]. Ed i Romani
formando il loro Teatro, per quanto portavano i loro costumi simili a quello
de’ Greci, anche perché per lo più rappresentavano fatti Greci, fecero
anch’essi [R: nella scena] le tre porte; quella di mezzo con ornamenti di Aula
Regia, e le due Laterali per le foresterie, o sia le porte di mezzo per lo
principale Attore, e le laterali per li secondi . [276r]Fattasi una idea chiara
di tutto ciò non [R: mi pare che possa ] venire in testa ad alcuno, che il
pulpito, su cui uscivano gli Attori a Recitare, potesse rappresentare una
Stanza, una Sala, mentre è troppo chiaro che non poteva [R: figurare] altro che
una strada o piazza, sulla quale corrispondevano, e le tre porte della Casa
principale , e le due strade delle versure, [R: o sia delle cantonate], una per
[M: chi fingea] venire dalla Città , l’altra per [R: chi] da fuori [M: di essa.
Una piccola riflessione su ciò che dicono sul Pulpito gli Attori delle Commedie
di Terenzio, e di Plauto basta per abbattere ogni argomento contrario]. Da
dietro le tre divisate porte dunque è molto chiaro [ R: ancora], che non
poteano stare le mutazioni di Scene, mentre dietro quelle porte non vi si può
figurar altro, che Cavedj, Atrj, e peristilj, che sono gl’interiori delle Case.
E queste porte sono quelle [R: stesse], che secondo gli accidenti delle Scene
[M: si ricava dalle Commedie antiche, che] dovevano ora chiudersi, ora aprirsi,
ma in ogni caso sempre prestare il transito libero a que’ personaggi, che si
fingevano quivi abitare, o per [276v] altro accidente entrarvi; ond’è, che le
mutazioni di Scene dovettero per tutti i principj essere situate solamente presso
le versure, sieno esse state duttili, come pretende il Grammatico Servio, sieno
versatili. Parmi ora [R: facile] il decidere, se avesse potuto per principio di
proprietà rimanere coperto il pulpito. Il pulpito era una piazza, [R: o
strada], non una sala; e come piazza non dovea, ne poteva rimanere
effettivamente coperta. Sul pulpito uscivano gli Attori gente com’è noto, se
non infame, almeno molto meno rispettabile de’ Senatori, Cavalieri, ed altri
Spettatori; e se questi stavano benissimo allo scoperto, non fia meraviglia che
vi stessero gli Attori. Posso [R: solo] indurmi a credere, che allora si
coprisse [R: temporaneamente] con tende il pulpito, quando con tende si volea
coprire tutto il Teatro. [277r] [M: E sebbene della] copertura del pulpito della
scena, ho sempre nutrito qualche sospetto, che vi fosse stata, forte ostacolo
[R: sempre] incontrato per due riflessioni [M: oltre alle sopradette ragioni:]
La prima il non trovarne ne punto ne poco fatta menzione [M: non che da altri,
ma] da Vitruvio, ove par troppo naturale che ne avesse dovuto discorrere, o
almeno accennarne qualche parola. [282r] [244]Mentre
siccome, perché è naturale, che i tempj sieno coperti, perciò Vitruvio
espressamente notò l’Ipetro dover essere scoperto; così viceversa, com’è
naturale, che le piazze sieno scoperte, così volendo mai Vitruvio che la Scena,
o il Pulpito, che rappresenta una piazza fosse coperta, lo dovea dire
espressamente. Perché [277r] [M: al cap. 7 de lib. V] dice [M: tectum
porticus quod futurum est in summa gradazione, cum Scenae altitudine, e non
dice, cum Scenae tecti altitudine libratum perficiatur], e la seconda si è
che ne’ Teatri grandi, quale fu quello di Marcello in Roma, ed altri, il fronte
solo della Scena è lungo sopra [R: piedi] 200, ed io non ho veduto, come
avrebbe potuto con facilità reggere un Architrave di si fatta lunghezza, [M:
giacché è noto, che non vi era arco. I travi liminari degli Atrii, o sieno
Cavedj, erano si di cento piedi, ma ne’ Cavedj Corintii, onde erano ben retti
da spesse colonne. I passi di Plinio non sono chiari a favore della copertura
del Pulpito, il più che può ricavarsene si è, che si coprissero alle volte i
Teatri, ma debba intendersi con le tele, non con copertura perenne]. [227v]
Pare ad alcuno, che [R: dicendo] Vitruvio, che i portici eretti dietro al
Teatro, dovessero servire per ricovero degli Spettatori, [M: Vitruvio veramente
disse qua se recipiat populus] venga implicitamente a far vedere che non fosse
per gli rappresentanti, e che perciò questi stessero già al coperto. Quando si
voglia veramente credere, che Vitruvio maliziosamente non avesse quivi nominati
gli Attori, ne voluto comprendere il [R: troppo] piccolo loro numero, sotto il
[R: grande e] sensibile degli Spettatori [M: o sia, ch’è meglio detto, sotto la
voce di Populus] [R: nell’idea che] avessero quelli altra copertura; [M:
oltre all’essere per le ragioni da altri rilevato chiaro, che tal copertura non
potea produrre il desiderato effettoj non [R: veggo] necessario, [R: il]
crederla sul Proscenio, ma si bene sul Parascenio, luogo di facile portata per
gli Attori, luogo del tutto separato, ed espressamente riservato per l’uso de’
medesimi, luogo finalmente ove tenevansi [M: al dir di Polluce] tutte le
Macchine, che dovean servire per gli [278r] accidenti della Rappresentazione,
la [M: necessaria] conservazione delle quali [M: non farà porre in dubbio] che
avesse il Parascenio una perenne copertura. Egli è vero che gli antichi usavano
delle Macchine, per mezzo delle quali si facevano dall’alto comparire in Scena le
Deità Celesti e maggiori; [R: ma] da ciò si vuole inferire, che dovesse
rimanere coperto il palco, per dar agio di tenere ascose le macchine, e di
quindi comodamente calarle. Non istenterei a fermarmi in questa opinione,
qualora però, [M: oltra le già addotte ragioni in contrario,] non trovassi
altro modo da far agire si fatte macchine. Chi ci assicura, che gli nuvoli, e
gli Dei calavano giù a dritta per una corda? Chi vieta il credere che stando
piuttosto essi attaccati alla punta d’un trave tenuto dritto al lato del fronte
della Scena, non si facessero di sopra si, ma lateralmente calar giù [278v]
abbassando la punta di [R: esso] trave poggiato nel mezzo ad uso di bilancia,
di ponte levatoio, o di antenna su di un fermo sostegno? a Dall’avere la Scena
avuta la sua prima origine da’ tabernacoli, Tende, o Padiglioni, si vuole
indurre la conseguenza che anche ne’ Teatri di pietra debba la Scena, ossia il
di lei pulpito rimanere coperto. Se così fosse veramente il fronte della scena
non dovrebbe avere né tante colonne, né tante porte, non potendo essere
immagini di cose vedute nè Tabernacoli, e nelle tende. I Tabernacoli furono già
la Scena delle prime commedie, o per meglio dire Satire [R: e canzoni]; ma
quando gli Autori presa l’idea dalle Satire [R: canzoni] passarono a comporre
le commedie e le tragedie [M: videro bene, che] non conveniva più per si fatte
rappresentazioni il tabernacolo, ma vi [R: volea, come poi feceroj una Scena
che [245]
[280r] rappresentasse un’abitazione conveniente a’ nuovi Attori. [279v] Si cita
il passo di Cassiodoro tratto dal Commento di Filandro sopra il Cap. 6 lib. V
di Vitruvio; Est autem scena frons Theatri, id est ea Theatri pars, quae ab
uno ejus cornu ad alterum cum copertura durebatur[246].
Leggendosi con maggiore attenzione il Commento si troverà, che queste sono
parole del Filandro non del Cassiodoro, le parole di cui lo stesso Filandro le
cita poco dopo, e sono: Frons autem Theatri scena dicitur ab umbra loci
densissima, ubi a pastoribus incohante verso [?] diversis sonis carmina cantabantur.
È nella lettera a Simmaco, che trovasi nel lib. 4: variarum[247],
[R: non già nel 3º]. Giacché nel lib. 3 affatto non v’è tal passo, ne menzione
di Teatri. Il Filandro fu senza dubbio dotto uomo, ma con gli altri non capì
bene il teatro Antico. Cassiodoro benché non Architetto non disse essere la
Scena coperta, ma che ne’ Teatri nobili ritenne il Nome di Scena derivativo
dall’ombra, quella parte, che trae origine dall’ombroso bosco, ove nacquero le
prime rappresentazioni. [280r] Benché per riscuotere la dovuta ammirazione la
Scena del Teatro Olimpico, bastasse il dire d’averla così architettata un
Andrea Palladio, pare perché si vuole vera immagine dell’antica, si è preteso,
che tutte le Scene antiche fossero immagini di un Atrio Reale, portando a questo
senso le parole di Vitruvio «mediae valvae ornatus habeant Aulae Regiae»,
e spiegando Aula col Pitisco per Atrio, o cortile. Siasi però l’aula una casa,
o una sala, [M: permettamisi di far riflettere che] Vitruvio non disse già, che
tutta la Scena fosse ornata a modo di aula Regia, ma solo [R: che] la porta di
mezzo, e ciò e per ornamento della medesima Scena, e per essere quella la porta
della Casa del Soggetto principale, [M: o quella porta che introduceva all’Aula
Regia, la quale perciò si deve figurare dietro tal porta, non avanti]. Quando
si volesse che tutta la Scena figuri un Cortile Regio, bisognerebbe spiegare,
come in [280v] questo Cortile si trovano anche le porte laterali, le quali
Vitruvio dice essere delle foresterie, e Polluce, che la sinistra rappresenti
[R: nella Commedia] un Tempio diruto, o un luogo eremo, e nella Tragedia
finanche un Carcere. Un altro argomento per la necessità del tetto ne’ Teatri
antichi si trae dal bisogno di raccogliere, e di restringere la voce, come
quella che, spandisi, dal centro di una sfera alla circonferenza. Ella è vera
la massima generale, ma [R: vi è ancora da] riflettere che essendo il suono una
percussione d’aria, questa [R: principalmente] si comunica direttamente per
quella [R: linea (Sostituisce: «direzione»)], che le imprime il primo motore;
il consenso, ed il contatto la fa comunicare proporzionalmente all’aria vicina.
Una cannonata diversamente è intesa dalla parte ov’è diretto il colpo, che
dalla parte [281r] opposta. [R: Ben piccola parte [R: dunque] della voce potea
ritenersi col tetto del pulpito, quando per altre ragioni ve lo avessero gli
antichi fatto. Si vuole [R: inoltre] ricavare da ciò che ne dice Vitruvio, che
nel piccolo Teatro de’ Tralli il pulpito fosse coperto da Apaturio Alabandeo,
ove dice praetera supra eam (Scenam) nihilominus Episcenium, in quo tholi
[R: pronas semifastigia], omnioque tecti varius picturis fuerat ornatus.
Qui anche mi convien pregare di riflettere che Vitruvio in tutto il libro VII
nel cui Capitolo 5, sono le citate parole, non parla [M: di fabbriche, ma] di
colori, e di pitture, ed inveendo contro la cattiva usanza delle mal ideate
pitture di prospettive, riferisce la critica, che n’ebbe per [M: queste]
Apaturio Alabandeo, [M: di cui non dice, che costruisce, ma che fínxisset
Scenam eleganti manu], sicché naturalmente quivi parlasi delle Scene
pittate, e per conseguenza delle [281v] versatili: e qualora si voglia
intendere, che avesse [R: Apaturio] dipinto il fronte della Scena, non si può
all’autorità di Vitruvio ricavare altro [R: se non] che fosse stata mal
dipinta, fingendo cupole, frontispizj], e tetti in un luogo improprio, dopo
aver dipinti altri tetti e cose simili sopra il primo ordine d’Architettura.
Leon Battista Alberti fu certo dotto uomo e perito nell’Architettura, si
moderna, che antica, e lo fece conoscere nel suo aureo trattato di
Architettura, che scrisse però in Latino. Il traduttore Cosimo Bartoli nel
Capitolo 7 lib. VIII disse che la Scena de’Teatri antichi si adornava con due
Colonnati, e due impalcature. Da questo si è voluto [R: finalmente] dedurre,
che non vi essendo chi meglio dell’Alberti [R: fosse ripieno dello spirito di
Vitruvio] debbasi stare al detto dell’Alberti; e più che quivi [R: egli] per le
[282bis/r] due impalcature intenda il tavolato sotto i piedi degli Attori, o
sia il palco, e ‘1 Tavolato sulla testa, o sia il tetto, nuovo argomento per
dimostrare che i Teatri antichi avessero il tetto sul pulpito. Non so se senza
pregiudicare all’Alberti sia necessario accordare, che egli meglio che altri
avesse capito Vitruvio, quando non potette giovargli qualche tradizione, e
dall’altro canto essendo stato de’ primi non potette avere il vantaggio di
profittare di tante fatiche, che altri ha fatte [R: dopo di Lui] sopra lo
stesso Autore, [R: il quale] resta ciò non ostante in molti luoghi oscuro. Ma
come fidarsi su d’una traduzione per tirare una così importante conseguenza?
Per diligenze che io mi abbia fatte, non ho potute mai aver sotto l’occhio
l’originale [282bis/v] latino, ma senza taccia di superbia mi avanzo a
sostenere, che la voce latina tradotta per impalcatura, sia trabeatio: e questa
benché non usata da Vitruvio leggesi frequentemente usata da Filandro [M: nella
digressione al Cap. 2 lib. 3 di Vitruvio], per significare il Cornicione, che i
Francesi con una voce pressocché simile dicono entablement; sicché mi si
permetta di conchiudere, che lo Alberti volle quivi dire, che la Scena antica
aveva co’ due colonnati, due rispettivi cornicioni, e non già il tetto. Da
tutto ciò [M: se non altro] parmi chiaramente vedere, che o la scena degli
antichi non fu coperta, o che non è facilmente determinabile la quistione se lo
fosse o no.
[283r] CAPITOLO II - DEL TEATRO
OLIMPICO
Comunque stasi la cosa egli è certo che Palladio nel disegnare, ed
ergere il Teatro Olimpico, ebbe in mente d’imitare al possibile un Teatro
antico: che, neppure a’ tempi suoi ebbe la sorte di vederne avanzi sensibili in
quella parte che riguarda la Scena, per ricavarne gli opportuni lumi; quindi fu
forzato ricorrere all’unico asilo, ch’era ed è il testo di Vitruvio, e questo,
[R: come si è dettoj alquanto scorretto, e quel che è più senza affatto quelle
figure, che per la facile intelligenza vi aveva [M: l’autore] apposte. Come
pensasse Palladio intorno a’ Teatri antichi, se non si rileva dalle opere sue,
si rileva benissimo dalla traduzione, e commento che di Vitruvio fece Daniele
Barbaro, il quale [283v] espressamente scrisse d’essersi su di ciò con esso
Palladio consigliato. Se poi il Palladio, il Barbaro, e gli alti interpreti di
Vitruvio prima di me abbiano colto al segno, e se la opinione mia in molte cose
diversa da tutti gli altri sia più o meno probabile, non dico già certa, non
tocca a me il giudicarne, può facilmente ogni intendente farne il confronto,
l’esame. Nelle scritture rimessemi, e specialmente nella descrizione del Teatro
fatta dal Sig, Conte Montenari, [M: e nel discorso del Sig. Calderari], non
solo non trovo esaminato, e ricercato il modo che tenne il Palladio nella
distribuzione della pianta, ma anzi espressamente contentandosi di accennare
che fosse stata sul gusto antico, dicono non saperne il modo. La curiosità mi
ha mosso a ricercarlo per sempre più far risaltare il merito, e la esattezza
d’un tanto Architetto, ed alla prima ho ritrovato non essere stato altro, che
quello ricavato da Vitruvio, secondo la [284r] interpretazione del Barbaro,
quanto a dire sua medesima. A sola differenza, che ove gli antichi avendo
spazio bastante fecero le gradazioni circolari, egli con ingegnoso, ed
ammirabile ritrovato le ha fatte elittiche: come tutto si può chiaramente
vedere nell’annessa figura, ove le linee punteggiate mostrano la regola tenuta
per trovare li punti principali, ed ove si vede, come i quattro triangoli
equilateri segnano il fronte della Scena, e le tre porte della medesima, ed
avrebbero segnato ancora le direzioni delle Scalinate, qualora Palladio ve lo
avesse voluto introdurre. [M: Non sarebbe punto difetto da imputarsi al
Palladio, se veramente la base del primo triangolo equilatero cadesse, come si
vede nel mio disegno dietro non avanti il fronte della Scena: e se le due porte
laterali non vengano egualmente divise da’ lati de’ due altri triangoli: ma
dubito] [F: forte, che il disegno dato dal Montenari non sia esattissimo: Non
ne ho veduti neppur altri eccetto quello pubblicato da Giorgio Fossati, e veggo
bene che fra loro non somigliano. Degna cura sarebbe d’una si cospicua
Accademia darne un disegno ed esatto, e ragionato.] Delle bizzarrie, e
particolarità veggonsene praticate anche dagli antichi, e [R: rispetto a’
Teatri] ne abbiamo un esempio in quello della Villa Adriana presso Tivoli, ove
[R: solo] scorgesi un Tempietto nel mezzo della gradazione, ed altri simili:
onde non solo non è da riprendersi il Palladio, [M: ma da lodarsi], se nel Teatro
[284v] sono Olimpico non avesse con scrupolosa esattezza eseguito quanto ci
lasciò prescritto, ma per regole generali, Vitruvio, il quale per altro lasciò
[R: anche] bastante libertà a’ vivi talenti degli Artefici per variare dalle
medesime quello, in che si opponessero le circostanze de’ luoghi, o de’ tempi.
In due parti solo trovo non eseguita la mente degli antichi, e non credo già
per bizzarria, o nobile capriccio, [M: o strettezza di sito]; ma perché
credette forse che così gli antichi praticato avessero. Una si è nella
situazione delle scene variabili, l’altra nella copertura del pulpito, la quale
è quella che ha data occasione alle pendenti gare letterarie. Dirò qualche cosa
prima delle Scene variabili, per quindi senza ulteriormente divagarmi, venire
al punto della quistione che preme. Per somma venerazione che io mi abbia al
Palladio non ho [285r] finora, ne pure nelle recenti scritture rimessemi
trovato ragioni per rimovermi dal già adottato sentimento circa il sito delle
Scene, che pubblicai, e nella traduzione, e nelle note del Cap. 7 del lib. V di
Vitruvio. [M: Credette cogli altri sicuramente Palladio, che le Scene mutabili
andassero dietro le Porte, avendo però presente il destino del Teatro Olimpico,
ve lo fece, come si veggono, stabili e Tragiche.] Ma non perché le Scene si
fatte dal Palladio [ R: sono dissimili a mio credere] alle antiche, non è [M:
ch’io pretendo che non abbiano] il loro gran merito, e per la nobile novità, e
per le belle forme, e per la giusta prospettiva [M: Ma anzi sicuro che] saranno
sempre [R: più] venerate, perché originali, e [R: belli] originali d’un troppo
grande uomo.
Or il Palladio nel Teatro Olimpico, certo si è che dipartì anche dalla
idea del Teatro antico in quanto al figurare una Sala nel pulpito, sia ciò
perché così credesse che avessero fatto gli antichi, sia perché, e con
tropp’onesta licenza, prevedesse dovere in tale forma essere di maggiore uso
per le opere che si meditavano [285v] di rappresentarvici. Quando non altro
mostra ad evidenza, che sala abbia esso inteso di fare, il vedere la Scena
tutta chiusa d’un Recinto seguito di mura, senza altra apertura che di piccole
porte. Quando gli antichi oltra le tre porte del Palazzo di fronte, vi ebbero
due [M: aperture, che non erano porte, ma] strade a cantoni, itinera
versurarum, disse Vitruvio, non valvas. Il vedere le statue sul secondo
ordine [R: della Scena] non far figura d’acroterj, come la fanno quelle sulla
balaustra della gradazione, ma essere spalleggiate da un terzo ordine Attico,
[M: la quale terminando tutta orizontalmente mostra a sufficienza di voler
essere un appoggio d’una copertura.] E benché potrebbe d’improprietà tacciarsi,
il vedere che in questa Sala [R: per] le cinque porte mettano capo, non
altrimenti che in una piazza, cinque strade; pure in considerando che questa
sala possa essere una basilica, un portico, un ridotto, si troverà essere di
poco momento la licenza, che l’Architetto [286r] in ciò fare, [M: dispartendosi
dall’antico,] si avesse presa. Come sala, o come basilica vi vuole senza dubbio
il tetto. E benché non sono debboli i raziocinj dei Conte Calderari per
dimostrare, che la copertura che si vede, e si è veduta sul pulpito del Teatro
Olimpico, non sia già stata idea del Palladio, pure voglio più volentieri
abbracciare la opinione comune, che la sua, o che la sarebbe effettivamente
stata, [M: se la morte non lo avesse immaturamente rapito]. Per difendere la
nuova per altro nobile pensata del Palladio in situare dietro le porte le
Scene, è paruto ad alcuno cadere in accioncio le parole di Polluce lib. IV Cap.
13, come se significassero, che la porta di mezzo sia o una Reggia, o una
Spelonca, o una Casa Gloriosa, interpretando, che ciò significhi, che nella
porta di mezzo vi erano tutte le scene, la tragica nella Reggia, la Satirica
nella Spelonca [285v] e la Comica nella Casa gloriosa, così leggesi in Polluce
secondo l’interpretazione del Gualtieri Trium vero circa scenam januarum,
media quidem aut Regia, (aut) Caverna aut domus inclita, vel primum actum
absolvens dicitur etc. L’interpretazione sarebbe bella quando fossimo
sicuri d’aver così veramente scritto Polluce, ma mi si permetta di avanzare,
senza taccia di ardito la proposizione, che la voce Greca Spelonca[248],
che vuol dire Caverna, o sia Spelonca, sia per colpa di Amanuensi o corrotta, o
trasportatavi altronde, ed in conseguenza che la Reggia, e la Casa gloriosa
sieno due sinonimi per significare d’accordo il carattere magnifico che deve
avere la porta di mezzo [M: non le varie Scene, che vi si vorrebbero adattare].
Infatti a ben riflettere se nella porta di mezzo [R: avesse voluto] Polluce
situare tutte le tre Scene Tragica, Comica e Satirica, [287r] converrebbe
pensare lo stesso anche delle due porte laterali, quando che lo stesso Polluce
immediatamente dopo dice espressamente, che la porta sinistra ha un aspetto
ignobile o figura un Tempio desolato, o un lungo deserto. Questo sia detto
specialmente per evacuare quella autorità che vuol ricavarsi da questo passo di
Polluce, per sostenere una idea che per altro non accorda punto, né con la vera
forma della Scena antica, ne col detto, non che di Vitruvio, ma di Polluce
medesimo. Per[249]
amore della verità, non che voglia riprendere l’idea avuta dal Palladio di far
terminare la gradazione come un poggiuolo alto ben piedi... dall’Orchestra,
voglio metter [287v] sotto la considerazione, che se bene questo poggiuolo
fosse necessario nell’Anfiteatri, ne’ quali si facevano fino degli steccati di
pali, tutto per impedirsi che le fiere ch’erano sull’arena non saltassero ad
offendere gli Spettatori, pure non lo veggiamo praticato ne’ Teatri, perché non
v’era questo pericolo, e quivi il poggiuolo, seppur tale voglia chiamarsi, non
era che un grado [R: o sedile] simile ed uguale agli altri tutti del recinto,
ciò anche per fare, che le piccole scalinate fra i cunei potessero stendersi
fino all’Orchestra, e così dare agli Spettatori il comodo di uscire dal Teatro,
non solo per gli vomitorj superiori, ma anche per quelli, che erano al piano
della Orchestra. Ed un poggiuolo anche così piccolo era sufficiente per dare
agli Spettatori libera la veduta della scena, o del pulpito per sopra le teste
de’ [288r] Senatori, ed altri che sedevano nella Orchestra. Il Palladio in un
Teatro piccolo ebbe bisogno d’ingrandire l’Orchestra, e perciò saviamente recise
i primi gradi con quell’alto poggiuolo, dando peraltro bastante sfogo
all’ingresso, ed uscita degli Spettatori per sopra il Porticato Superiore.
Non bisogna confondere il Podium della Orchestra, col Podium della
Scena. Questo da quanto ho detto nelle mie note al Cap. 7 del lib. V di
Vitruvio, parmi che chiaramente conoscasi non essere altro che ‘1 piedistallo
del primo ordine di essa Scena, e credasi pure un equivoco del Montenari il
prendere il Podium di cui parla Vitruvio per quell’ordine Attico che il
Palladio volle mettere sopra i due ordini della Scena. Questo attico
corrisponde benissimo al terzo ordine, che alle volte costumavasi, e Vitruvio
lo chiama tertia episcenos.
[288v] CAPITOLO III
DELLA COPERTURA DEL PULPITO
E COME QUESTA ABBIA AD
ESSERE
Eccomi ora alla questione, cioè, se dovendosi rifare il presente
coperto del pulpito, s’abbia da prender norma dall’antico, o dall’idea avuta
dal Palladio. Su di che permettamisi di ricordare, che per l’anzidetto, nel
dubbio se il pulpito antico fosse coperto o no, ha, a mio credere, molto
maggior partito il no: e nel dubbio se il Palladio avesse voluto coprirlo o no,
ha il maggior partito il si. Ma intanto non v’è dubbio, che il pulpito del
Teatro Olimpico rappresenta una Sala, e che siccome negli altri Teatri le
abitazioni coperte si figurano dietro la Scena, in questo è chiaro, che dietro
la [289r] Scena sono le strade pubbliche scoperte. Or se il regolatore si è di
vedere le Sale, e le basiliche coperte, voglio sperare, che in questo stato di
cose, non possa più dubitarsi, se sul pulpito del Teatro Olimpico, s’abbia a
fare un tetto, non che effettivo, ma anche apparente. Le idee, e le invenzioni
del Palladio, fatte sicuramente con regola dell’Arte, se non con quelle poche
dateci da Vitruvio più per esempio che per limitazioni, non meritano minore
stima delle più belle cose della Remota Antichità. Gl’intendenti, ed applicati
all’Architettura studiano oggi sulle fabriche del Palladio, quanto sul Panteon,
e sull’Anfiteatro Flavio, siccome gl’intendenti di scultura studiano egualmente
sulle Statue Greche e Romane antiche, che sulle belle di Michelangelo, [289c]
di Giambologna, ed altri, quantunque di maniere diverse: così nell’Architettura
vuolsi studiare le belle, e diverse maniere de’ Palladj, degli Scamozzi, e
de’Barocci. Ma in queste ricerche brama ognuno ed è di dovere accertarlo, di
essere le opere, sulle quali applica le sue riflessioni veramente di quei
tempi, e di quelli autori, de’quali portano il nome. In questa idea, la quale
spero, che non mi si contrasterà, mi avanzo a supplicare i degnissimi Sig.ri
Accademici a trasandare la ricerca del come avessero fatto gli antichi in
simili casi, ed accertarsi soltanto del come avrebbe fatto il Palladio, se
avesse sopravissuto fino a vedere coperta questa bella opera, o sia, ch’è lo
stesso, come lasciò egli ordinato, e disegnato, che si facesse: e fare
puntualmente eseguire [290r] la qualunque idea, che si accerteranno essere
stata quella del Palladio. Lo insieme, o la composizione di un pezzo
d’Architettura, vale quanto un insieme, ossia una composizione di pittura; e
siccome quando manca fosse una pittura, darà sempre all’occhio, e si conoscerà
come una dissonanza il qualunque supplemento fatto di aliena mano, e di diversa
maniera, così nell’Architettura non potrà non fare dissonanza il supplemento,
che non sia secondo la vera mente del principale autore dell’opera. Per quanto
scorgesi dalle pubblicate scritture, non pare ancor chiaro, quale sia stata la
vera mente del Palladio circa il controvertito tetto, o sia copertura. Egli
morì il 1580; nel 1585 vi si rappresentò l’Edipo, ed intanto il Marzari
scrivendo nel 1591 parla di questa copertura, [290v] come d’una cosa ancora non
eseguita. Ad ogni modo il tenersi all’ antico disegno [R: pubblicato dal
Revesi] nel 1620, non sarà che una cosa la più sicura: questo disegno
corrisponde alla descrizione fattane dal Marzari. Questi parlando d’un teatro
disegnato dal Palladio, non fa menzione in occasione della copertura di disegno
[R: per essa fatto da] altri, e nessuno allora si lamentò, che non vi fosse
eseguita la mente del Palladio, non potendosi contrastare, che fu quel soffitto
eseguito pochi anni dopo la di lui morte, non si negherà neppure, che fosse
stato fatto da di lui figlio eletto direttore dell’incominciata opera, o da
altro scolare, che ne avea già presa la maniera, e potea meglio che altri
approssimarsi almeno al [291r] gusto del suo immortale maestro. E finalmente
quando tutto manchi, sempre converrebbe rifare, se non di fragile stucco,
almeno di duro legno quella tal copertura, che si ha memoria di esservi stata
posta in que’ tempi, perché avrà sempre un’idea d’antico, di venerando, [R: di
concorde,] e di coevo alla fabbrica di si fatto Teatro. Questo è quanto, come
prevenni, ho potuto debolmente pensare privo di sufficienti lumi, lontano
dall’oggetto quistionato, e distratto da altre obbligate occupazioni. In altre
fatiche, che ho per le mani, spero con più chiarezza, distinzione, e precisione
far meglio acquistare sempre più chiara idea del Teatro antico[250].
E cercando scusa di qualche trascorsa oscurità, o troppo premura nel sostenere
le proposizioni avanzate: attendo colla maggiore, e dovuta [291v] rassegnazione
superiori lumi; sicuro che questo mio discorso non possa, e non debba rimuovere
gli animi degli illuminati Sig.ri Accademici da quella determinazione, che dopo
un si ricercato esame, mossi da più convincenti ragioni saranno per prendere,
non istimando in ogni caso, piccola la mia gloria [R: per la] qualunque parte
avuta di concorrere, benché non abbia l’onore di essere Accademico, al buon
effetto di un opera degna della cura di una si nobile Accademia[251]
PARERE DEL MARCHESE
GALIANI SUI DANNI
DELLA TRINITÀ MAGGIORE E SU I RIPARI E RIFAZIONI[252]
[96r] - PARERE²[253]
Fin da principio che osservai la
fabbrica e le lesioni della Chiesa della Trinità Maggiore cominciai ad entrare
nel dubbio di quelle basi sulle quali s’era fondata tutta l’idea di tante
riparazioni e fondato il pubblico timore di non lontano pericolo. Ma come io
nella destinata giunta non avea maggiore parte di quella che n’avea ciascun
altro, vidi bene, che dovea come seguì, prevalere il numero. Ciò mi ridusse ad
abbracciare il prudente partito d’uniformarmi al maggior numero. Questo partito
però ha avuto luogo solo ove s’è proposto o interino riparo, o cautela
maggiore. Nelle puntellature; ed io l’ho lasciate aver luogo fino a che m’è
paruto che si tendeva alla miglior conservazione [96v] dell’edificio. Ma
quando nell’ultima sessione intesi la scandalosa risoluzione di gettare a terra
la cupola, e radere poi anche da terra la Chiesa, m’è paruto aggravar troppo la
mia coscienza se anche in questo irreparabile passo mi fossi ciecamente
uniformato a tale vergognoso sentimento. Quindi ho fatto risuscitare una scrittura
da me stesa fin da principio, e per politica tenuta gran tempo sepolta; v’ho
aggiunto quello che v’era di nuovo, ed è quella che ho l’amor di presentare a
V.S. Ill.ma. Per la savia risoluzione presasi di pubblicare per le stampe
quanto si è detto o fatto in questa pendenza: ho trovato bene esporre
brevemente lo stato dell’Edificio, e i progettati e tentati ripari prima
d’esporre il mio sentimento [M: mi mancano molte notizie perché fosse stata
esatta e compita la storia]. lo non ho tanta superbia per lusingarmi di
vederlo approvato ed eseguito, ma son sicuro, che pubblicandosi questo [97r] si
vedranno non più con autorità dettati ma con sode ragioni sostenuti i diversi
sentimenti e progetti altrui. Mi sono ingegnato ad essere al possibile chiaro: ma
pel corto mio talento l’ho trovato non che difficile, ma impossibile senza le
opportune figure. Io scrivendo ho avuto presenti i disegni che ho, ma non gli
può avere chi legge, senza che si diano anche questi per le stampe. Bramo
intanto o che sia applaudito questo mio parere, o che ne sorga altro più
semplice non per altro che per due motivi. Il primo che non si faceria tanto
strazio d’un nobilissimo tempio: il secondo che non si getta [R: inutilmente]
tanto denaro già dalla Sovrana Pietà destinato all’educazione e sollievo de’
poveri vassalli[254].
La prego intanto a dare una benigna e seria occhiata a questa mia scrittura, e
quando non la trovi affatto indegna di comparire al pubblico, le dia pure il
corso che conviene: ch’io sempre più grato mi professerò
dell’Ill.mo a 2 Sett 1773
[97v è bianca]
[123r] I
- STORIA DEL TEMPIO DEL GESÙ NUOVO
OGGI TRINITÀ
MAGGIORE
Le notizie che si sono oggi potute avere quanto alla storia sia della
fondazione, sia degli accidenti susseguiti sono queste.Il Prè Provedo[255]
ideò la pianta, nel suolo ch’era del Palazzo o Castello de’Sanseverini, e ne
gettarono le prime fondamenta nel 1584, e fu terminata la chiesa nel 1600. Il
disegno fu d’un uomo, che se non era della Professione, bisogna che
n’intendesse le teorie forse meglio d’alcun altro. L’antico palazzo
de’Sanseverini, le cui mura esteriori anche oggigiorno veggonsi e dal fronte e
da’lati della chiesa, ne circoscrisse il perimetro. Industriosamente si vede
formata la pianta a Croce Greca, con ottime proporzioni; la Croce sola senza li
sfondati delle Cappelle è di pal[256].
L’altezza fino alla palla della Cupola pal. 250 incirca.
La cupola era doppia.
[99v] Il memorando
terremoto de’ 5 Giugno 1688 scosse tanto questa chiesa, che fece ruinare la
Cupola sul lato sinistro, onde ne cadde e la sottoposta volta sul Cappellone di
S. Ignazio, e la vicina cupoletta avanti la cappella della visitazione[257]
[R: e ne patì per consenso tutta la chiesa]. È mirabile, come non cadesse tutto
il tamburo. Lo fan chiaro alcune poche pitture in esso rimase dal Lanfranco,
che aveva dipinta tutta la Cupola. Fu [R: bensì] tutto rifatto fra sei mesi e
diciotto giorni[258],
sebene la Cupola semplice non più doppia, ed è fama che avesse avuto le mani il
celebre prè Pozzi[259],
che allora fioriva. [100r] Bisogna che il Pilone a sinistra sopra cui cadde la
cuppola, giacché ruinò e la volta, e le cupolette adiacenti, avesse
particolarmente potuto anch’esso: ma sia che allora non ne avessero fatto caso:
sia che la premura di riaprire il concorso nella Chiesa, avesse prevaluto ad
ogni altra considerazione, [M: sia finalmente che allora no era sensibile
troppo la lesione si] vede chiaro, che riedificarono il tamburo sul modello
della piccola porzione rimasta[260].
[M: Non saprei giudicare, se fu allora, o dopo, che si pensò solo a]
rammarginare con calce e mattoni la lesione fatta [R: patente] sulla linea del
pilone.
Nel Febbraio del 1767 si sa che gli Espulsi cominciarono a far caso di
tale lesione, e i savj periti chiamativi non esitarono a consultare un pronto
riparo: [M: e intanto vi conficcarono due codi di rondini di Marmo, per farsi
certi di altri nuovi movimenti]. Ma come cominciarono subito ad essere [R: i
R.R. Padri] occupati di più gravi pensieri[261],
non posero mano ad alcuna riparazione. [123v] I nuovi abitatori del convento[262]
videro anch’essi con timore la lesione, e implorarono opportuno riparo. La
sovrana provvidenza non ricusò di darlo, e non contenta d’averna addossato il
principalo carico al troppo noto Architetto Cav.er Fuga, volle che fosse
assistito da una Giunta d’Architetti e Periti. Or per intendere ciò che si dice
o si scrive intorno alle riparazioni conviene restar inteso della forma, parti
e strutture di questo Tempio.
[120v] II -
PROPORZIONI DELLA CHIESA
Non senza ragione dal pubblico si ammira questo Tempio, come uno de’più
belli, sebbene non si sappiano le ragioni: come non laserà di piacere una
musica, sebene se n’ignori l’artificio. [M: Esso è però stato Architettato con
somma intelligenza delle belle proporzioni: infatti la pianta in grosso presa è
un quadrato, o vogliam dire a Croce Greca.] Li pilastri sono senza gli aggetti
P. 15¾, le navate piccole il doppio 31½, le navate grandi il dop. 63. L’altezza
della volta era nel disegno il doppio 126, ma nell’esecuzione si fece di p.
113. La cuppola col tamburo 126. Queste sono le principali proporzioni quando
non si voglia aver conto di quel poco che non si trova con esattezza sia per
difetto de’Maestri, si per malizia e finezza dell’Architettura: sia finalmente
perché i disegni da me presi non siano esattissimi. [103r] 1. Non potrà
negarsi, che l’Architetto, non so per quale ragione non mostrò eguale talento
nel volere colla fabbrica nuova servire all’antica del palazzo de’Sanseverini.
il muro della facciata non è proprio per chiesa, se lo era per un palazzo di
que’tempi. Non è neppure d’una larghezza sufficiente: Ma con prudenza
Architettonica negli ultimi archi [M: e restrinse a ovata le prime cupole delle
navate piccole, per far più grossi in quelle parti il muro della Facciata, e]
nobilmente ideò certi sottarchi, per rendere più valida la resistenza di queste
ultime forze d’urto, che potessero mai fare gli archi interiori. Non vi sarà
chi vedendo la pianta e intendendo un tantino l’Architettura, non vegga essere
questi sottarchi [M: e queste grossezze di muri] ideate nella prima pianta[263]
[103v] La prima idea per l’altezza fu senza dubbio di far la navata il doppio
della larghezza: lo mostrano chiaro quattro arconi di mattoni, sui quali
immediatamente posa la cupola [M: i quali sono alti dal pavimento p. 126 il
doppio de’ p. 63, quanta è la corda dell’arco della volta, e questi arconi ora
fanno parte delle mura del basamento del tamburo.] Ma poi con pentimento si
fece 14 palmi più bassa la volta, e per conseguenza più bassi gli altri arconi
patenti, sebene questi di tufo[264].
Che sia nato così: eccone le ragioni: La bella proporzione del doppio in tutto
il resto conservata, dovea trovarsi nella parte più visibile che è la navata
grande. L’essere gli arconi, ora ascosi, di matoni, e [R: al contrario] i
patenti di tufo, mostra essere quelli non questi destinati pel sostegno della
cupola. Né possono quelli considerarsi come [R: sopr]archi di rinforzo, perché
avrebbero dovuto essere concentrici [M: e l’uno, per così dire, accavallati
l’un sopra l’altro]. Finalmente si vede, che la porzione Lunare, ch’è fra i due
arconi è di fabbrica non [R: arcuata] circolare [M: com’è parsa ad alcuni],
essa orizzontale e di cattiva qualità, che mostra non [R: aver servito, né]
dover servire ad altro [104r] che a semplicemente otturare que’vuoti, ed è un
inganno d’alcuno [M: e sarebbe stranezza in Architettura il credere gli arconi
inferiori essere fatti di pal 5 da piedi, e di 13 alla cima. Son di 5 anche
alla cima, gli otto palmi sono di fabbrica intermedia fra i due arconi.] [M: 2.
Pretendono alcuni notare per difetto la picciolezza de’ piloni di pal. 15½ in
quadro[265]
sotto un’altezza di p. 250[266].
Se questi vedessero ed esaminassero le fabbriche Gotiche, le troverebbero
sanissime con gambe e sostegni in proporzione assai sottili. Ma credono forse
questi che la cupola non ha altra base, che i quattro piloni? Non veggono che
tutta la chiesa fa uno zoccolo per la cupola? E qui questo zoccolo non è meno
di p. 200; p. 250[267]?]
[99r] È poi la chiesa circondata da fabbriche da tre lati, mentre il convento
la circonda, a formare due braccia sulla piazza, uno a destra, l’altro a
sinistra: la fabbrica maggiore per altro è alla destra, la minore a sinistra.
[M: i nomi delle Cappelle.] [98v] [3.?] Per le pruove fatte da tutta la giunta
sono sode le fondamenta, perché trovate sane e posate sul monte. La Fabbrica
[R: inferiore] è della pietra ordinaria del paese, che dicesi tufo, ma della
buona qualità: Ma resta in buona parte ricoperta da Marmi di sensibile
grossezza, fino al collarino de’capitelli. Gli aggetti superiori sono di
Piperno. [99r] La facciata è tutta di Piperni a punta di diamante, e mostra
tuttavia le strutture dell’antico Palazzo, e per non dir Castello de’
Sanseverini. [M: Ha la cupola o sia il Tamburo 16 contrafforti: di men che
mediocre fabbrica di Tufò: Gli angoli di matone i zoccoli di piperno piuttosto
dolce.] [104r] [4.?] Altro difetto fu di lasciare la cupola per troppo alto
tratto senza una base più spaziosa, dal battuto delle navate piccole fino al
fianco ove posano i contrafforti non v’ha meno di p. 65. Il muro delle navate
grandi resta dallo stesso battuto alto p. 40. 5. Quello che non può perdonarsi
all’Architetto, quando così fosse stato il suo disegno, e non fosse derivata o
da fretta, o da mancanza di denari, è la struttura del tetto [R: sulle navate
grandi]. Questo come si è notato non è formato che da due puntoni [R: che
urtano sui muri laterali, e solo] son sostenuti da pilastrini posati sui terzi
delle volte. Questo si fatto tetto co’travi [R: cavalli] urta i muri laterali,
co’ pilastrini schiania (vale a dire: «spiana, riduce la curvatura») la volta
circolare, la quale così tendendo a divenire Ellittica, urta anch’essa i muri
laterali.
[104v] III – LESIONI
[M: Le lesioni
osservate e riscontrate dalla Giunta sono le seguenti.]
1 . Le gravissime son quelle del pilone di S.Luca: donde comincino non
si vede, perché si è temuto di togliere l’incrostatura di marmi, su della quale
ora punta tutto il Castello di legni preparato per impedire ulteriori danni, e
per ergere gl’ideati sottarchi: ma può fondatamente giudicarsi che comincino da
sopra le imposte degli archi piccioli [M: una verso la navata dritta, una verso
la laterale]. Essa è nel mezzo del pilone, fra i due contropilastri sorge,
fende il Cornicione sempre a piombo: di là circolarmente va a terminare al
principio dell’angolo di S.Luca, ove si uniscono, e la massima larghezza è onc.
3 [M: la lunghezza di circa p. 18 e laterali a questa ven’ha delle altre
piccole.]
2 . Corrispondenti a
queste sono le lesioni de’piccoli archi adjacenti. Quivi se ne veggono e
trasversali che fendono la [105r] chiave degli archi, e dritti che fendono gli
archi a linea delle lesioni che si veggono ne’piloni.
3 Nelle finestre
laterali al Pilone si vedono altre lesioni: quelle della navata grande sono inclinate
verso il pilone: quelle del Cappellone di S.Ignazio mostrano il muro crepato.
4.Questo anche
strapiomba all’infuori [M: da onc. 4 inc. nell’altezza di pal. 40J
5.La cupola adjacente
avanti la cappella della visitazione mostra lesioni verticali nell’angolo e
nella finestra che sono prossimi al pilone patito: e la simili nell’angolo.
6.Quella porzione del
pilone che trovasi isolato da sopra il battuto della navata piccola per pal 65
[?] d’altezza e, di larghezza pal.8.
Resto de’ pal 15 che
sta incassato fra le mura della Chiesa si vede con lesione staccata da’ muri e
con sensibili lesioni al piede poco sopra il battuto: questo [M: ha fatto
opinare ad alcuni che questo quarto del pilone sia una giunta posteriore alla
fabbrica generale. Se così fosse, avrebbe gravemente peccato l’Architettura del
disegno].
7 Le altre simili
porzioni de’ tre altri piloni non sono immuni da lesioni.
[105v]
8. Ne mezzi de’ quattro arconi si veggono de’ peli, che si veggono in tutte la
chiese.
9.Gli arconi ascosi di
mattoni sono sanissimi, sebene in quello che è verso la porta grande vi sia
qualche piccolo distaccamento.
10.La fabbrica
intermedia lunare fra i due arconi uno di tufo l’altro di Matoni generalmente
si vede abbassata e distaccata da quello di matoni.
11.Nel Tamburo la
lesione sensibile al di dentro è quella sul mezzo dell’arcone verso la porta:
tale lesione fende a piombo la gran finestra, e’l finestrino, e giunge fino
alla volta. Dirimpetto si travedono delle piccole simili lesioni.
12 Al di fuori oltre
le corrispondenti alle descritte si veggono i contrafforti patiti non nel masso
interiore, ma ne’ piedi [106r] e specialmente quelli, che sono i più vicini al
pilone patito.
13.Per la chiesa tutta
si vedevano[268]
de’ peli, de’quali non si sarebbe fatto caso, se gli animi non fossero accesi
dalla sparsa fama, d’essere in pericolo la cupola.
14.Deve finalmente
riflettersi, che dopo posta mano alla puntellatura sono scoppiate molte altre
lesioni nuove, e sono si ingrandite [R: alcune][269]
vecchie. Il rumore cresciuto d’imminenti pericoli è per essere scoppiate
lesioni nuove, non per essersi fermate o rammarginate le vecchie. [segue mezza
pagina bianca, ndt].
[123v] IV - SENTIMENTI E PROGETTI PER LA
RIPARAZIONE
Il primo ad essere consultato fu per ogni dovere il Cav.e Fuga. Questi
credette di vedere tutta la chiesa cadente pel grave peso della Cuppola non più
posata in equilibrio, onde fu di sentimento [122r][270][prima
parola illegibile, ndt] attorno a tutti i pilastri, delle giunte o sien
contropilastri, e girarvi sopra gli archi. Vaga voce sparsa d’esser questa
troppo ingente spesa, e troppo sproporzionato il riparo a una lesione d’un solo
cantone del pilastro, che potea solo ristorarsi[271],
indusse il Sovrano a formare una Giunta per meglio esaminare la faccenda.
Questa giunta esaminate minutamente le sopranotate lesioni e veduto che le code
di rondine di marmo postevi nel 1767 già erano slocate, e crepate, giudicò
capriccioso e inconsistente le opinioni d’alcuni di non essere che solite
crepature d’intonaco: e facendo il dovuto caso alle lesioni venne ad
uniformarsi al progetto del Fuga de’contropilastri e sottarchi ove per
necessità, ove per cautela ed ove per Euritmia. [101r] Mentre si lavorava per
la puntellatura comparvero nuove e sensibili lesioni. il muro fra il pilone
patito e la finestra sulla navata laterale [R: di S.Ignazio] s’infranse in
modo, che dava gran timore d’imminente irreparabile ruina, e come si credette
dipendere tutto dallo strapiombo della Cupola su quel lato: si propose dalla
Giunta [M: coll’intervento straordinario di L.Vanvitelli] darvisi pronto
riparo, [M: qualunque ne fosse la cagione], intanto che si sarebbe poi
esaminata, se dovesse o nò [101v] smantellarsi la Cupola. Il riparo si è
umanamente dato. Ora dunque resta da risolvere se dovesse o nò smantellarsi.
Nell’ultimo congresso tenuto per questo punto [M: il di 5 Mag 1773] si volle
ostinatamente creder la Cuppola cadente: onde dalla maggiore parte si conchiuse
doversi [M: questa] smantellare. Rimaneva dunque a vedersi come si dovesse
ristorare la Chiesa. Le circostanze erano cambiate dal primo stato, [M:
giacché] il grande peso della Cupola si andava a togliere, e pure si volle
ostinatamente sostenere il primo progetto de’soprapilastri, e sottarchi, e per
sostenerlo si pretese, che tutta la Chiesa fosse fracida: In questa
supposizione non vi volle molto per cadere nella finale determinazione di
smantellare piuttosto anche tutta la Chiesa: [M: Questo scandaloso sentimento
siccome ha dato ad ognuno lo stimolo di meglio ruminare sul tavolino, essendo]
[102r] [M: e per appuntam.to e per coscienza libero di dire il suo sentimento.
Così io pure per mio discarico, ardisco proporre ciò ch’io ne penso: niente
ostinato nella mia opinione, anzitutto pronto a sottomettermi non già a voci
vaghe e generali, ma a ragioni particolari, che mi persuadano il contrario.]
[l06v] [272]Non
può da chicchessia dubitarsi, che una Chiesa già fondata colle belle
soprannotate e con altre proporzioni, non perda di venustà, quando vi si faccia
cosa che sensibilmente la alteri. Tutto il mondo deplora la Giunta fatta dal
Maderni al superbo disegno dato dal divino Buonarroti per la Basilica di S.
Pietro: e pure è rimasta intatta la parte disegnata dal Buonarroti. Che si deve
dire, quando con de’sottarchi si alterano le proporzioni de’vani, e si occupa
quelle parti, che quando no’altro siano avvezzi a vederle nell’entrar nella
Chiesa? I soprapilastri non possono impedire la vista de’laterali dall’altar
Maggiore: ma questo pure si condoni. Tutti trovano in questa [107r] chiesa il
deplorabile difetto d’essere sensibilmente oscura: e pure oggi gli archi grandi
sono larghi p. 62, i piccoli 31, e allora sarebbero quelli 50, questi 25, vale
a dire mancherebbe non meno d’un quinto il poco lume che ora vi è. Questo
inconveniente dunque allora solo si potrebbe sopportare, quando per tutto il
resto si facesse guadagno. Veniamo all’esame. Per ergere questi soprapilastri
conviene cavarne le fondamenta; queste non sono meno profonde di pal. 80 inc.
a. Ecco il pilone, ecco [M: gli altri] pilastri isolati per 80 palmi di più: e
se si teme de’piloni troppo piccoli per reggere un altezza di 300 pal. Fuori
terra: che si penserà, quando l’altezza diventa di 380 e quasi 400? Una trave
grossa, si piega, quando sia lunga 40 palmi [R: man no’] si piegerà più se
[l07v] [M: si tronchi] a p. 30. Ma questi piloni restano tutti puntellati? Si,
ma non so se i puntelli equivalgono alla forza del terren battuto che attacca e
ferma ogni menoma parte. Sia senza [R: questo] timore l’operazione sarebbe
imprudenza il fare l’aggiunta della nuova fabbrica senza ben collegarla colla
vecchia. Questa giunta collegata non può farsi senza intaccare frequentemente
la vecchia, e farsi delle prese: Queste prese non si cavano con prese, ma a forti
colpi di sciamarri. Chi [R: non vede] che questa operazione non solo
ingrandisce le già fatte lesioni, ma anzi ne facerà delle nuove? 3º Tutto
questo si fa [M: e per infasciare o piloni e,] per fare i sottarchi, i quali
incasserebbero sotto gli archi patenti delle [108r]. Ma non si è veduto (parlo
degli arconi) che questi non sono quelli che reggono la Cupola, [R: lo sono] si
bene quelli di Mattoni. Da questi sono distaccati già gli apparenti. Dunque
potrebbero benissimo cedere, far cadere la Cuppola, e resterebbero belli e sani
i nuovi sottarchi. [M: Se poi i sottarchi non si fanno per venustà, o sia per
dir meglio per termini e puntelli de’contropilastri che si vogliono fare per
ingrandire i pilastri e rattenere quell’uso ch’è schiantato, bisognosi riflettere
che con] queste nuove giunte di fabbrica non si toglie il già lesionato, il
fracido, il minacciante: sicché resterebbe [R: sempre] l’occulto nemico colla
già conceputa forza a minare internamente contra l’esterior riparo, che si è
fatto nimico niente più potrà nuocere, [M: chi sel credej ne goda. Se poi
finalmente si vuole [M: nell’atto di crescere i nuovi soprapilastri,] togliere
il già lesionato, staccato e cadente: domando come si può fare senza imminente
[108v] pericolo. Se mi si risponde, che non vi è paura, quando si trova tutto
il pilone già rinforzato nella parte sottoposta dalla già aggiunta nuova
fabbrica, io rispondo perché [R: dunque] non rifare solo il Lesionato,
equivalendo alla forza della nuova fabbrica la ben congegnate sovrabbondanti
puntellature di Legnami, e potendosi anche ove occorra farvi maggiori cautele.
Il Cav. Fuga, nel progetto dato al Sovrano, prudentemente non si estese a
dettagli, come quello che avendo col suo savio e onesto procedere accreditata
la sua perizia e condotta, meritatamente attendea, che si fosse come seguì,
dato a Lui libero il modo d’eseguirlo: ma oggi che i nuovi accidenti han
portata [109r] la cosa a doversi sottoporre al giudizio non che di sette altri
periti, ma del mondo tutto, conviene estendere il progetto con tutte quelle
circostanze che possono variare i pregiudìzi. Un pilone parve bisognoso di
pronto e serio riparo. La Giunta di contropilastri non può farsi a questo solo
senza offendere tutte le regole dell’Euritmia. Questo porta di fare lo stesso
a’ 3 altri piloni, ed ecco quadrupla per questo capo la spesa. La stessa
Euritmia porta, che si facciano le giunte e i sottarchi a tutti gli altri archi
piccoli [R: adjacenti], che sono nientemeno che 8[273]
e volendo uguagliare la spesa d’uno de’sottarchi grandi a 4 de’piccoli: ecco la
spesa ascesa [109v] sestupla[274]
di quello che il preciso bisogno par che richieggia, e non si farebbe, che per
la sola Euritmia. Mi si può dire, che no’ è tutta Euritmia quella che fa dare
così ingente spesa: ma il bisogno che ha tutta la chiesa di rinforzo: Per non
inoltrarmi più nella critica de li proggettati sottarchi, e per meglio
spiegarmi passo a riflettere sulle cagioni delle lesioni.
[110r] V -
RIFLESSIONI SULLE CAGIONI DELLE LESIONI
Si resti alla prima fermo in ciò che costantemente si è osservato
d’essersi trovato sodo [R: e inconcusso] in questa fabbrica, [M: o Lesionato.][275][M:
La parte più difficile dell’arte medica è senza dubbio la diagnostica, o sia la
conoscenza de’luoghi affetti, e delle vere cause mandanti. Io quanto posso
m’ingegno di cercare le vere cagioni de’patimenti di questa chiesa e per fare
ciò esaminerò tutto il corpo. Tutti i mali in tutti i corpi dirò così sono o
accidentali, o sostanziali; o pure dirò estrinseci o intrinseci. Nelle
fabbriche li accidentali sono i terremoti, le saette, etc., o bombe, cannonate
etc. Le Naturali [R: sostanziali][276]sono
le fondamenta non sode, la qualità cattiva della fabbrica: l’Architettura mai
intesa etc.]. [122v] Dagli effetti si può una cagione distinguere dall’altra: 1.
perché le accidentali come transitorie non portano continuaz.e o’l fatto
sussecutivo, come lo portano le sostanziali[277]:
2. perché quelle non sogliono aver quelle corrispondenze, che hanno le
naturali: [M: Nelle accidentali la diagnostica è facile]. Di questa chiesa non
può dirsi che manchino le fondamenta, non che la fabbrica sia di cattiva
qualità. Dunque [R: si restringono ad essere] per cause accidentali, o per mal
intesa Architettura: o per tutte due. Distinguiamo. La grande lesione del
pilone di S.Luca e le corrispondenti adjacenti sono [R: parola illegibile, ndt]
da causa accidentale, quale fu il terremoto del 1688. [R: Ma penso che] lo
slargamento, la separazione del quarto del pilone esteriore, lo sfacelo del
muro adjacente sono da causa [R: sostanziale] tuttavia permanente e operativa:
e che sia così. [110v] La cuppola caduta siccome ne portò giù e la volta di
S.Ignazio, e’1 cupolino della visitazione, così dovette far crepare il Pilone
di S.Luca, che sensibilmente si vede diviso in quattro [R: per lo mezzo da] due
linee [M: incrociate] parallele alle due facce: e può mettersi a conto [R: che
dovette dare] una generale [M: scossa, e] patimento per tutta la chiesa, che a
forza del concatenamento degli archi e delle volte deve[278]
considerarsi come un corpo solo. [R: Ma gli] Espulsi ha sempre avuta fama di
troppo prudenti ed attenti nè loro affari, [R: onde] non è da credersi, che le
lesioni del pilone fossero allora state sensibili non avrebbero allora, che non
vi era la Cupola, ristorato l’angolo [R: interiore del medesimo] rimaso
schiantato, e rinforzato [R: l’altro angolo ancora al di fuori prima di riegere
[R: e la Cupola, e’l] Cupolino [111r] anche caduto: La spesa allora era poca, e
facile l’operazione: dunque bisogna che fu creduta di poco momento la lesione,
o di nessuna ulterior conseguenza, come fu effetto d’una causa accidentale[279]
straordinaria e transitoria, non già intrinseca e permanente. Oggi queste
lesioni sono cresciute, e sono comparse delle nuove senza sensibile altra causa
esteriore, dunque la causa di queste deve essere [R: tutt’altra, cioè
sostanzialej intrinseca e permanente. Questa è quella che si deve [R: con buona
diagnostica] rinvenirsi per poter dare saggio ed opportuno riparo [M: allo
stato presente e al futuro.] Questa se non mi inganno, è la mal ideata
struttura delle navate grandi dal coperto delle piccole in su. Ecco perché
m’induco a [R: così] credere. [111v][280]Suppongasi
un muro abcd il quale pianti in terra in cd ed abbia da un lato un muro, una
forza puntante fe. Suppongasi questo muro spaccato da h in g. Suppongasi per
terzo una forza x che urta alla cima da x verso b. Veggiamone gli effetti. La
forza x non può smuovere tutto il muro da b in d, perché gli resiste al
contrario la forza maggiore fe. Dunque smuoverà solo la porzione ae: smovendo,
che mutazione farà il muro? Eccola. La porzione hbgm sarà più resistente,
perché tiene alle spalle la porzione eahg. Questa cederà e passerà al sito
e123. Ma l’altra si smoverà con direzione opposta per [112r] la spinta che li
darà [M: o leva che farà] nello smoversi la già notata prima porzione. Passo ad
un altro teorema; o lemma che voglia dirsi. Suppongasi ora un muro quadrato
abcd quadripartito dalle lesioni ef, gh. Suppongasi che due forze lo spingono
verso la cima colle direzioni xx zz. Del resto suppongasi il muro nelle stesse
posizioni dell’anteced. e ben piantato in terra, e puntellato da’due lati v ed
s verso la metà dell’altezza, eccone gli effetti. La forza x smuoverà la
porzione del muro p, e questa la porzione n: nel tempo stesso che la forza zz
spingendo la porzione m forzerà anch’essa la n: queste varie direzioni faranno
muovere la porzione n diagonalmente passandola [112v] in 2356[281].
Ciò premesso [R: mi si] accorderà, senza entrare in lunghe dimostraz.ni
matematiche. Credo essersi spiegati tutti i patimenti della chiesa; basta
surrogare alle forze x e z gli urti che fanno i tetti e le volte delle Navate
grandi verso Muri laterali[282].
È certo che i muri laterali [R: che sono i piedi delle volte], non sono più
larghi di 6 palmi; e s’aggiunga, che poco ve n’è di muro, essendovi de’
finestroni. [113r] È certo che l’arco della volta termina 16 palmi da sopra il
coperto delle navate piccole. E certo che il piede delle volte non è più largo
di pal. 6: e’1 diametro di quelle è pal. 64, e quando a proporzione dovrebbe il
piede essere p. 15 al meno, quanto a un di presso è la grossezza del [R: solo]
pilone: ma se tanta dovrebb’essere la grossezza bastante per reggere la sola
volta. Quanto più dovrebbe essere per una volta aggravata del peso del tetto?
Dunque in questo stato di cose vi è in questa chiesa una cagione intrinseca
perenne, che tende alla di lei ruina: e che sia questa la cagione, si vede
dagli effetti [M: e può dirsi che a posteriori lo dimostrano le lesioni.].
[1.?] La volta della Navata grande (che supporremo diretta da mezzogorno a
Settentrione) spinge e urta [R: lateralmente da una parte] verso ponente. La
volta laterale di S. Ignazio spinge e urta verso mezzogiorno. Ecco per li
preposti [113v] lemmi come si vede fendersi l’interposto angolo del pilone,
separarsi e scappar fuori diagonalmente verso Libeccio. 2. Questo angolo smosso
non posando più con tutto il suo piede orizontale, ma solo sull’orli esterni,
fa quivi forza, e si [M: stritola quivi la fabbrica], queste sono le gravi
lesioni, che si veggono in quel sito. 3. Il muro adjacente alla contigua
finestra sopra il Cappellone di S.Ignazio è strapiombato di onc. 4. Chi non
vede ch’è il tetto e la volta che urtano, e che niente v’ha che fare la Cupola?
È tutto sfrantumato? E bene se avesse potuto cedere alla base avrebbe fatta una
lesione orizontale presso al Cornicione interiore, ma o per lo cattivo
materiale, o per altro [R: ha ceduto] schiantandosi interiorm.e, e facendo
patire [?] e da dentro e da fuori, non [114r] altrimente, che fanno i fogli
d’un libro [R: erto] oppresso da forza o grave peso.
4. [M: Per lo già notato è
chiaro, come il quarto del Pilone dell’angolo della Chiesa trovandosi
schiantato, con grave peso alla testa dei Cornicione, tende sempre più a cedere
o tutto lo schiantato o almeno quella porzione dei cornicione in su.] 5. Le
lesioni che si veggono ne’due archi piccoli adjacenti furono dal terremoto, ma
non è che non crescano tuttavia per le stesse perenni intrinseche cagioni. 6.
Que’peli che si veggono nelle parti esteriori de’ 3 altri piloni non hanno
altra cagione mandante, che I’urto delle volte. 7. Se poi si vuol aver conto di
tutti gli altri peli che sono nella Chiesa, bisognerà fare i sottarchi a tutte
le Chiese del mondo. [114v] Pruova evidentissima e materiale di tutto questo è
la fermezza della Cupola, e de’ quattro arconi di mattone: 8. Finalm.te mi si
permetta [M: il dire, che non mi pare tanto irragionevole la proposizione
d’alcuni] che le nuove lesioni comparse in gran numero per ogni parte siano[283]
effetto delle soverchie puntellature, le quali, non fanno che ausiliare[284]
le forze nimiche del tetto, e delle volte: onde non sia chiaro, come si vuole,
che la chiesa tutta sia fracida e cadente.
[115r] VI – RIPARO
Conosciuta la causa [R: del male] può ogni perito escogitare il
rimedio. Io intanto umilmente propongo il mio sentimento.
1.Si smantelli [R:
subito] tutto il tetto per rimuovere gran porzione della viva causa mandante.
2.I muri ove sono le
finestre s’allarghino alla grossezza de’ [M: piloni, o sia de’] sottoposti
archi, vale a dire fino a presso a 15 palmi: Così si renderanno più atti a fare
l’opportuna forza di resistenza.
3.S’alzino con
proporzionata diminuita grossezza una dozzina di palmi di più, cioè fino a
tanto, che possa sopra la volta costruirsi il tetto a cavallo armato. Così la
volta no più aggravata dal di lui peso non tenderà più schiacciarsi, e a urtare
i lati [M: con doppia forza]. E urtando [R: colla sola sua forza] siccome prima
non [115v] avea altra resistenza, che quella d’un muro di 40 palmi alto, largo
6; oggi trova la resistenza d’un muro alto 40 ma largo 15: e d’una giunta di
altri pal. 12 d’altezza per la larghezza per es. di pal. 6 e tutte queste mura
appesantite perpendicolarmente dal sovrapposto tetto.
4.Mi piacerebbe, che
questa giunta di muro di 12 palmi per alzare universalmente il tetto giungesse
[R: poi] fino a p. 25 o a scarpa o altrimente, ove attacca co’ piloni della
cupola, per farli giungere [R: fino] al piano esteriore del tamburo[285].
5.Collo slargamento
de’ muri veggo chiaro, che si giunge a urtare i tamburi delle Cupolette e se ne
serrano le finestre: queste [R: però sono] una parte meno nobile e apparente
della chiesa, ma pure v’è il riparo. Il lanternino di queste non ha [116r]
maggior diametro di pal. 8, cioè il quarto del diametro degli archi piccoli,
vale a dire in proporzione bissuddupla, la stessa in genere, che si vede in
tutta la chiesa. Non sarebbe gran male fare i lanternini di pal. 16 di
diametro: cioè di ragion suddupla: o se paresse soverchio, non attendere in
queste urgenze, ed in una parte meno visibile, a si strette regole di
proporzione; basta solo che si riabbia con questo mezzo quella porzion di lume,
che si perde da’turati tamburi, e forse qualche cosa di più per rendere più
luminosa la chiesa di quello che è stata per l’addietro.
[M: 6. S’aumenti la
forza de’ contrafforti del tamburo, raccomodando il patito i contrafforti non
sono ora che un mero ornato.Possono benissimo farsi di piombo non ricurvi, e
forse la Cupola ne acquisterebbe anche di grazia.]
7.Non incontro [R:
poi] alcuna difficoltà nell’andare rifacendo per tutta la chiesa quelle piccole
porzioni di fabbrica, che per le gravi lesioni meritarono [116v] particolare
attenzione.
8.L’istesso
specialmente dico del Pilone di S.Luca. Si vede chiaro che sotto i capitelli
de’contropilastri è schiantato il cantone vergente dentro la chiesa fino al
principio dell’angolo di S.Luca. Puntelli ven’ha bastanti: se si vuole
s’agginga nuova puntellatura, e si rifaccia la porzione lesa collegandola bene
colle laterali, e incassandola secondo l’arte. Crede alcuno, che questa
operazione sia pericolosissima, e atta a far venire giù la Cupola. ma io credo,
che naturalmente parlando non vi sia un tal pericolo. [117r] 1º. Non si può
negare, che la porzione di questo pilone già staccata non men che dal 1688 non
fa più forza, o se ne fa, è tanto poca, che parmi chiaro che sia molto magg.re
que’ dei puntelli già adattativi: onde se non è caduta senza i puntelli per lo
spazio già poco meno d’un secolo, v’è non che da sperare, ma da tener per certo
che non cadrà fra quel poco tempo, che vi vuole all’operazione.
2º. La Cupola per un secolo posata su questa gamba che si vuole rotta,
non che non è caduta, ma [M: neppure smossa un punto dal suo perpendicolo,
secondo l’osservazione fatta da uno di que’ frati calando il piombo dal mezzo
del Cupolino. Onde può] senza sofismi e senz’animo alterato dirsi se non
sanissima sana [R: almeno] quanto tutte le [ R: più sane][286]che
sono al mondo, e delle quali no’ passa nemmen per pensiero lo smantellamento.
Dunque le lesioni [117v] del pilone o nulla o poco offendono la sodezza della
Cupola. Quelli che hanno avuto tanto timore, credettero senza meno gli arconi
principali essere quelli di tufo che si veggono da dentro la chiesa. [R: Alcuni
di] questi si che anno per metà il loro piede o imposta sul quarto leso del
pilone: Ma bisogna capacitarsi che gli arconi Maestri sono que’ di Mattone, e
se si osserva si vedrà, che questi arconi hanno i loro piedi [R: più palmi]
sopra dove terminano le lesioni del pilone. Ora si consideri, che l’arcone di
mattone della Navata dritta posando sul pilone ne occupa tutta la facciata per
la larghezza di 15 palmi, e per 6 palmi di profondità. L’altro dalla parte del
Cappellone fa lo stesso. [118r] Ciascuno quindi posa la metà della faccia sul
pilone sano la metà sul mezzo patito: toltane affatto la metà patita, se ogni
arcone fosse solo, capisco bene, che ogni piccola mossa la farebbe andar giù,
perché la linea del centro di gravità si trova appunto sull’orlo della base, o
del sostegno: Ma qui il caso è diverso: Ciascuno de’ due arconi non può cadere
perché ciascuno trova reciprocamente la opposizione e resistenza dell’altro
contra quella direzione, che dovrebbe tenere cadendo. Se a questo s’aggiunge
che il quarto del pilone patito non si è abbassato, e staccato orizontalmente
dagli arconi, ma obliquamente leso, e [R: ha] lasciato sotto gli arconi una
base se non perpendicolare, obliqua M: a somiglianza d’un angolo della Cupola]:
dirò [R: dunque] arditamente che tolta la porzione del pilone [118v] patita,
allora cadranno questi arconi, quando vedremo cadere tutte le Cupole che posano
sopra i quattro angoli base non perpendicolari ma obblique simili a quella
rimasta sotto gli arconi. Queste in grosso sono le riparazioni che io stimo
confacenti all’intento di salvare tutta la chiesa e per ora e per l’avvenire.
Non ho potuto ne voluto entrare in più minuto dettaglio, prima perché avrei
offeso l’Architetto incaricato. 2º perché [119v] avrei dovuto avere molto tempo
e non essere lontano[287],
per osservare minutamente ed esattamente le situazioni: avrei avuto ad avere
molto comodo, per sentire i più pratici Capomastri. E [R: finalmente] quando
tutto ciò avessi potuto fare, pure [R: me ne sarei astenuto, per non] mostrare
un preciso impegno, o d’addossarmi io questa pericolosa e [120r] dubbia
impresa, o di prescrivere che si eseguisse il mio progetto. Io non ho preteso
né, pretendo far altro che sostenere colle ragioni, che ho potuto escogitare,
il desiderio del Comune, e l’opinione vagamente detta da alcuni Periti di
potersi salvare tale quale questo specioso tempio. Questa mia qualunque
scrittura obbligherà almeno que’ che sono di parere di smantellarsi o solo la
Cupola, o tutta la chiesa, o di farvi de’ soprapilastri a difendere ragionat.te
le loro idee, e’1 mondo tutto [M: potrà ben giudicare, o non] senza temerità
pensare che in questo esame si abbia avuta alcuna contemplazione o deferenza, e
non si siano bilanciate le ragioni.
[118v] - SPESA
Dovrei
entrare anche nell’esame e confronto della spesa, ma parmi inutile e superfluo.
Col proggetto de’ Contropilastri e sottarchi, poco o niente si sarebbe potuto
risparmiare dell’accomodi da me descritti dalla Copertura delle Navate piccole
in su. Dunque è troppo chiaro il risparmio dell’ingente spesa di 24[288]
fondamenta, altrettanti contropilastri, e 12 archi. [119r] Dirò [?] co’
Contropilastri si manda male molto marmo, e ve ne vuole di molto di più per
ornarli finiti che sarebbero. Ma dato e non concesso, che questo progetto
portasse spesa maggiore. Già non potrebbe essere di molti, ma almeno s’avrebbe
il [M: generalmente desiderato] piacere di continuare a vedere nell’antica
bella forma la chiesa. [119v] Su questo articolo o difficoltà non ho voluto, ne
posso interloquire[289].
FOGLI FUORI TESTO
[121r][290]
Avviene, NN[291]
ed avverrà sempre, che ove chiamisi consultori per determinarsi ad alcun
partito di precauzione contro una minaccia che si è concepita di male, sempre
le consulte eccederanno dalla parte delle cautele. Ognuno per coscenziato che
sia, non sa spogliarsi dell’amor proprio e sempre dubita che possa accadere
caso di cui resti mallevadore per non aver proposte cautele maggiori. Basta che
si cominci a vociferare [M: alcun pericolo], che sia di pubblico interesse,
perché la fama di bocca in bocca passando cresca [R: ed urti] con tanto impeto,
che tolga a chicchessia quella indifferenza che potrebbe fare spassionatamente
giudicare. Uscita che fu la voce d’essere lesa e in pericolo la Cupola di S.
Pietro di Roma: Non vi fu modo di far capire le ragioni di coloro, che
sostenevano essere vecchie e di nessuna conseguenza imminente le lesioni:
essere le simili di tutte le altre cupole, e la Fantasia non s’acchetò, se non
quando vide tutta la Cupola cerchiata di catene, e dio faccia che siano queste
state rimedio, e non cagioni motrici di nuovi mali. V’ha molti in Napoli, che
non passano più per lo largo detto del Gesù Novo, tanto è il loro spirito
ingombro e persuaso dell’imminente ruina della Cupola di quel Tempio. Or per
chetare la fantasia così accesa, non v’era altro riparo di quello già preso
dalla Giunta dell’Educazione cioè di pubblicare per le stampe [ ... ].
[98r][292].
È la chiesa già detta del Gesù Novo, oggi della Trinità Magg.re una delle più
cospicue di Napoli sia per l’architettura, sia per la ricchezza de’ Marmi, sia
per la rarità delle Pitture e scolture[293].
Essa può benissimo dirsi a Croce Greca, perché tale [M: è, se si considerano
solo le navate senza i fondati delle cappelle] appre [R: per le navate], sebene
sia più lunga che larga [R: per i fondati delle Cappelle], è lunga infatti p.
240[294],
larga pal. 2000 inc., è a tre navate, onde presa per largo ha:
La Navata grande larga
p. 63 [-62][295]
la piccola p.3½ in due fa p.
63
[M: eguali alli 63 della grande]
Il fondato delle
Cappelle p. 22½ in due pp. 45
Onde il totale p. 203
Presa per lo lungo:
La Navata di Mezzo p. 63
Gli archi piccoli p. 3½ essendo due uno avanti,
e l’altro di là della Cuppola p. 120 [-126]
I due piloni p. 16½
p. 30 [31½]
I due pilastri fra gli archi piccioli p. 8 in
due p. 16
[16¾]
I due mezzi pilastri agli estremi p. 6 in
due
p. 12
Onde totale
p. 240 [249]
[98v][298]Le
rispettive altezze sono
dal pavimento alla volta grande
p. 113
dalla volta al pieno [R: interiore] del
Tamburo p 13
tutto il tamburo
p. 55
La volta della Cupola
p. 67
il Cupolino [R: colla palla e] senza la
croce p. 44
onde tutta l’altezza
p. 300[299]
Gli archi piccoli sono alti
p. 55
Gli altri delle Navate piccole delle cappelle restano più
bassi dell’imposta degli
archi grandi p. 8.
FINE
[1] Winckelmann fu a Napoli quattro volte: dal febbraio all'aprile 1758, nel
gennaio 1762, in
febbraio e marzo 1764, ed infine, dal settembre al novembre 1767, la lettera
citata si riferisce a quest’ultimo viaggio.
[2] Winckelmann si riferisce al Museo di Portici, nel quale erano
gelosamente custoditi i reperti recuperati nelle varie campagne di scavo.
[3] Lettera del 19 dic. 1767, pubblicata in Winckelmann 1981, p. 58 ss.
[4] Lettera a Hieronymus Dietrich Berends del maggio 1758, citata in
Winckelmann 1981, p.45.
[5] Zevi 1980, p. 61.
[6] Padre Antonio Piaggi venne chiamato a Napoli dalla Corte Borbonica nel
luglio 1753, per occuparsi dello svolgimento dei papiri che erano stati
rinvenuti nella Villa dei Pisoni l'anno precedente; per tale delicatissima
operazione inventò una macchina, ma anche con l'aiuto di questo strumento i tempi
erano lentissimi, e dal 1754 al 1798 furono svolti soltanto 18 papiri
(Winckelmann 1981, p. 22, nota 28).
[7] Panza 1990, p. 63.
[8] J.J: Winckelmann, Lettera sulle
scoperte di Ercolano al signor Conte Enrico di Bruhl, Dresda 1762, par. 29,
come trascritta in Wilckelmann 1981, p. 79.
[9] Il 6 agosto 1740 le autorità erano dovute intervenire prescrivendo ad
Alcubierre di seguire le pareti lungo il perimetro, per poi entrare nelle case
attraverso porte o finestre, evitando quindi di sfondare i muri (Ruggiero 1885,
p.81 1).
[10] E cioè nel sito di Civita a partire dal 1765.
[11] Si ricordi gli Ornati delle pareti
e pavimenti delle stanze dell'antica Pompei, pubblicati negli anni '60 del
secolo XVIII.
[12] Panza 1990, pp.53 e 55.
[13] E. Corti, Ercolano e Pompei morte
e rinascita di due città, trad. it. a cura di S. Lupo, Napoli 1985, p. 131;
citato in Panza 1990, p. 51.
[14] Zevi 1980, p. 59.
[16] Panza 1990, p. 67.
[17] Capodrise 1729 - Napoli 1804; fece parte dei primi quindici membri
dell’Accademia Ercolanese e, nel 1748, Ferdinando IV lo nominò custode del Real
Museo di Capodimonte,Castaldi 1840, pp. 251 - 4
[18] Giudizio dell’opera dell’Abate
Winckelmann intorno alle scoverte di Ercolano contenuto in una lettera ad un
amico, Napoli 1765, segnalato
in bibliografia come GALIANI - Zarrillo 1765.
[19] Lettera di Zarrillo a Tanucci (Napoli 6 mag. 1765) custodita presso
l'Archivio di Stato di Napoli (Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) e
pubblicata in Winckelmann 198 1, p. 45, nota 63.
[20] Francesco Daniele, nato a San Clemente(Caserta) 11 aprile 1740 fu
l'autore del 'codice Fridericianò che detiene tutta la legislazione di
Ferdinando IV fu nominato nel 1778 Regio storiografo dallo stesso Re; fu uomo
dottissimo e membro di molte accademie italiane ed estere.
[21] Non si è riusciti a trovare alcuna notizia di questo carteggio; si deve
però ricordare che la maggioranza delle carte galianee, non tutte classificate,
sono conservate presso la
Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria.
[22] Questa citazione è tratta da un manoscritto di tono scherzoso che Fausto
Nicolini attribuisce all'abate GALIANI intitolato Ragguagli di Parnaso sotto il
13 maggio 1765, pubblicato da F. Strazzullo in Winckelmann 1981, pp.
183-90; in esso l'autore, ispirandosi ai Ragguagli
di Parnaso (1606-12) di Traiano Boccalini, immagina che la faccenda del
plagio, e delle sue conseguenze, fosse discussa sul Parnaso alla corte di
Apollo. Questo scritto può essere considerato attendibile al fine di fare luce
sulle reali intenzioni di Berardo in merito alla nota polemica.
[23] Il fatto che sia stato Francesco Daniele e non Berardo GALIANI a
pubblicare le Considerazioni risulta
evidente dalla lettura dello scritto di Ferdinando GALIANI menzionato nella
nota precedente (passim), inoltre lo
è lo stesso Zarrillo a darcene conferma in una lettera scritta a Tanucci
(Napoli 6 mag. 1765; ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12, pubblicata
integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63) ove scrive che la
pubblicazione avvenne «senza intelligenza dei GALIANI».
[24] La lettera di Carcani a Berardo (Caserta, 4 mag. 1765; BSNSP ms. XXX. D.
5, f .
108) è stata pubblicata integralmente in Winckelmann 1981, p. 180, nota 7.
[25] Winckelmann 1981, p. 179, nota 3; una copia però era nella collezione di
libri di Leopoldo Cicognara, allegato alla prima lettera di Winckelmann (Catalogo ragionato dei libri d'Arte e
d'Antichità posseduti dal Conte Cicognara, Pisa 1821, vol.11, p.33,
n’2721), e dovrebbe quindi essere ora nella Biblioteca Apostolica Vaticana
insieme a tutti gli altri suoi volumi.
[26] Osservazioni di Ferdinando GALIANI
alla lettera di Winckelmann sugli scavi d'Ercolano, BSNSP ms. XXX. C. ff. 149r-154v. I primi 5
fogli sono scritti nella metà destra sia sul recto che sul verso; il
sesto è scritto allo stesso modo ma solo sul recto, e reca sul verso solamente: «Per Ercolano contra
Winckelmann», apposta dallo stesso Berardo.
[27] Le parti aggiunte da Zarrillo sono: A) pp. 8-19, da «Ma che!» a «ma
nequicquam compreso un passo
piuttosto volgare in difesa di Alessio Simmaco Mazzocchi che Winckelmann aveva
criticato in modo altrettanto scurrile (Lettera
sulle scoperte di Ercolano al Sig. Conte Enrico di Brühl, paragrafo 138,
come pubblicata in Winckelmann 1981, p. 129); B) p. 24-7, da «Egli si
millanta» a «sta così»: compresa la successiva abbreviazione
epigrafica tratta da un sigillo; infine nel manoscritto galianeo non figurano
le due parole di commiato: «Conservatevi, Addio»)
[28] Zarrillo afferma in una lettera al ministro marchese Tanucci (Napoli, 6,
mag. 1765) di aver avuto da Berardo il permesso di citare le sue osservazioni;
la lettera (ASN, Casa Reale Antica, fascio 868, inc. 12) è stata pubblicata
integralmente in Winckelmann 1981, p. 45, nota 63.
[29] F. GALIANI, Ragguaglio di Parnaso
sotto i 13 maggio 1765, pubblicato in : Winckelmann 1981, pp. 183-90.
[30] Nota introduttiva di Franco Strazzullo in Winckelmann 1981, pp. 46-8
[31] Panza 1990, p. 67.
[32] Ferdinando GALIANI e l'antico, in Pane 1980, p. 2 10.
[33] Zevi 1980, p. 59.
[34] GALIANI-Zarrillo 1765, p. 6.
[35] O meglio quelli salvati dai furti e dalla fusione.
[36] Pane 1980, pp. 210.
[37] GALIANI - Zarrillo 1765, pp. 3-4.
[38] Zevi 1980, pp. 59-60.
[39] Che peraltro traspare anche da un breve accenno contenuto in un suo
scritto del 1773: Ci si riferisce al Parere
del Marchese GALIANI sui danni della Trinità Maggiore (BSNSP, ms. XXX. C. 6 f . 104r, aggiunta a margine.
[40] Lettera sulle scoperte di Ercolano
al Sig. conte Enrico di Brühl,
paragr. 38, come trascritta in Winchelmann 1981, p. 83.
[41] Che faceva riferimento al proverbio citato dal tedesco per offendere
Alcubierre.
[42] GALIANI Zarrillo 1765, pp. 23-4; le maiuscole sono autografe.
[43] I due tomi dell'opera De Regia
Theca Calamaria (Napoli 1756) di Giacomo Orazio Martorelli (Napoli
1699-1777) furono sequestrati in tipografia proprio perché violavano la volontà
del Re anticipando notizie delle quali si stava occupando l'Accademia
Ercolanese, appositamente istituita (Winckelmann 1981, p. 47, nonché Zevi 1980,
p. 64).
[44] Ottani Cavina 1982, p. 622.
[45] Ottani Cavina 1982, p. 621.
[46] Fatti salvi i pochissimi privilegiati quali Berardo GALIANI.
[47] Il quale malgrado provenisse da una regione, la Tascana , storicamente
sensibile al fascino dell’arte ed a quel tempo in prima linea nel campo della
cultura antiquaria, aveva autorizzato l’uso del 'piccone demolitore.
[48] Zevi 1980, p. 60.
[49] E' sempre la
Ottani Cavina a parlare.
[50] Peraltro in una fase storica che Benedetto Croce ha definito: «anni
di risoluto progresso ( ... ) non vertiginoso e neppure rapido; ma
certamente nuovi mali non si aggiunsero agli antichi, e gli antichi furono
attenuati, e il paese respirò»): Cit. in Moscati 1970, p. 37.
[51] «accidiosa, pronta alla polemica, ma anche attentissima agli scavi di
Ercolano»): Zevi 1980, p.60.
[52] Winckelmann, come si è visto all’inizio, ottenne anche nel 1767, quando
le sue critiche erano già ben note alla corte, il permesso di vedere nuovamente
il Museo Borbonico, e il marchese GALIANI non gli negò la riconciliazione; Al
contrario Winckelmann nella seconda lettera (Notizie sulle antiche scoperte d’Ercolano al Signor Enrico Füessly,
Dresda 1764) continuò a seminare insolenze contro la gestione degli scavi,
accanendosi particolarmente contro la Regale Accademia
Ercolanese; il commento di Franco Strazzullo è: «Della generale inerzia
dell’Accademia Ercolanese potremmo dargli anche ragione, ma non andiamo lontano
dal vero se affermiamo che tanta acredine gli veniva principalmente dalla
delusione di non essere annoverato tra i membri di quel prestigioso consesso. E
che egli ci tenesse a quella nomina appare dalla sua lettera del del 5 febbraio
1758 all’amico Berends, nella quale annunziava il suo primo viaggio a Napoli: Ma
quel che più rileva, io ci vo’ nell’intento di diventare uno dei membri della
Società che scrive sulle Antichità»(Winckelmann 1981, p. 39).
[53] Il sistema di riscossione delle tasse (arredamenti) e dei dazi doganali,
era stato dato in appalto ai privati, o venduto ai creditori dello Stato in
piena proprità; Carlo di Borbone allora costituì una Giunta delle ricompre
incaricata di riscattare il patrimonio finanziario pubblico che era stato in
tal modo alienato. Per il successo della riforma finanziaria, e per tutta la
politica economica di Carlo di Borbone si veda De Marco 1980.
[54] Che propagatasi in Sicilia e Calabria rese nulli d’un colpo tutti gli
sforzi fatti dall’amministrazione borbonica per lo sviluppo del commercio.
[55] Ajello 1980, p. 18.
[56] Haskell 1982, p. 20.
[57] Archeologici.
[58] Haskell 1980, p. 30.
[59] Sul Teatro Olimpico di Vicenza si vedano la recente monografia Magagnato
1992, le due pubblicazioni di L. Puppi, Il
Teatro Olimpico (Vicenza 1963) e Andrea
Palladio (Milano 1973), ed ancora Pane 1962.
[60] Le notizie sull'annoso problema della decorazione del soffitto, ove non
sia diversamente precisato, sono state tratte da Puppi 1975.
[61] Grazie alle incisioni e ai documenti coevi.
[62] Ed in particolare la copertura interna.
[63] X111,5.
[64] O di altro discepolo che comunque ha solo messo su carta l'idea del
maestro.
[65] Puppi 1975, p. 310; Wittkower 1964, p. 71 e nota 1.
[66] Vale a dire Ottavio Orefici (cfr. Magagnato 1992, p. 225), o ancora
Ottavio Bruto Revese; si è preferita la grafia adottata dal Pallucchini nella
scheda del Thieme-Becker (s.v., vol. XXVIII, p. 206). Per questo personaggio,
che fu lettore ordinario della Accademia Olimpica nel 1605 e 1608, si veda L.
Puppi, Profilo di O. Revese Bruti, in
«Bollettino del CISA “A. Palladio”»,
111 (1961 ).
[67] Solo recentemente è stata rintracciata l'incisione originaria, segnalata
in Magagnato 1992, p. 225.
[68] «Coperto il resto del sito col medesimo livello essendo finto aere»(O.
Revese Bruti, Lettera descrittiva
allegata alla stampa, cit. in Puppi 1975, p. 313).
[69] Pane 1962, p. 364.
[70] Il boccascena nasce in ambiente toscano nella prima metà del
cinquecento, ed è singolare che nell’Olimpico, lo si trovi associato ad una scaenae frons; filologicamente corretta
(cf. Magagnato 1992, p. 69).
[71] Palladio aveva collaborato con Daniele Barbaro per la sua edizione del De Architectura (pubblicata a Venezia
nel 1556), contribuendo anche all’elaborazione delle tavole.
[72] Puppi 1975, p. 310.
[73] Parere del M.se Berardo GALIANI
dato sulla copertura del Palco del Teatro Olimpico (d'ora in poi: PTO), 1764, f . 290v.
[74] Intorno al 1648.
[75] Puppi 1975, p. 317, 318 e relative note.
[76] Che nel frattempo, in una data imprecisabile, aveva sostituito il finto
aere al quale faceva riferimento Revesi-Bruti.
[77] Atti originali dell’Accademia Olimpica (d’ora in poi: AAO) b. 3, fasc. 17,
c. 92r (cit. in Puppi 1975, p. 320).
[78] Quella che GALIANI cita come contemporanea; PTO, f. 271 v.
[79] Come risulta dalla lettera di Enea Arnaldi a Francesco Ottavi
Magnocavalli del 4 feb. 1764 (originale inedito presso la Biblioteca Civica
di Casale Monferrato, Archivio Magnocavalli, scatola da inventariare, minuta
autografa presso la BBV ,
Libreria Gonzati, parzialmente pubblicata in Ieni 1987, p. 301). La conseguenza
immediata di ciò fu che, semplificata la soffittatura “alla ducale”, il
pavimento della scena fu ridotto a «tavole senza lavoro alcuno» (G.
Montenari, Del Teatro Olimpico, Padova 1749, p. 45, cit. in Puppi 1975, p. 330
nota 37, in
fondo).
[80] Il soffitto della scena fu dipinto da Angelo Rossi e Antonio Fossati per
500 ducati (AAO = b.1: Repertorio Atti
dell’Accademia Olimpica, fasc. 1, n° 24; cit. in Puppi 1975, p. 320 e nota 36 a p. 330).
[81] Enea Arnaldi denunciò l’uso di legno poco stagionato (cfr. Puppi 1975,
p. 320).
[82] AAO = b. 6: fasc. n’82 (parti 1740-1780), cc. 19r ss (cit. in Puppi
1975, p. 330 nota 39).
[83] Per la bibliografia completa su tutta la vicenda settecentesca, alla
quale prese parte anche GALIANI, si veda Magagnato 1992, p. 252 ss. Schede
2.48a, 2.48b, e 2.49.
[84] Barbieri 1972, p. 41-2.
[85] Replicata il 20 giugno.
[86] O arnaldiano.
[87] Ibidem.
[88] O. Calderari, Discorso intorno alla copertura
da farsi al pulpito dei Teatro Olimpico di Vicenza, Padova 1762 (cit.
in Puppi 1975, p. 322).
[89] Barbieri 1972, p. 41‑2.
[90] Olivato-Puppi 1980, p. 200 scheda 227.
[91] F. Anti, Relazione sopra la
copertura del Teatro Olimpico, Vicenza 1909, pp. 18-9 (cit. in Puppi 1975,
p. 330 nota 43).
[92] I pareri degli studiosi Calderari, Temanza, GALIANI, Magnocavalli,
Borra, e Tortosa, sono riassunti nello scritto dell’abate Capperozzo, Memorie riguardanti la copertura del Teatro
Olimpico (BBV mss. Gonzati, 25.
10. 105-112, Miscellanea di carte manoscritte mm 284x220; cit. in Olivato-Puppi
1980, p. 200 scheda 227).
[93] E: Arnaldi, Idea di un Teatro Ecc.
[ ... ], Vicenza 1762 e Ieni 1987, p. 301.
[94] Come risulta dalla citata lettera di Arnaldi a Magnocavalli del 4 feb.
1764, pubblicata in Ieni 1987, p. 301.
[95] Sulle ipotesi di identificazione di questi, si veda: Ieni 1987, p. 304 e
nota 26.
[96] Ieni 1987, p. 303 e nota 23.
[97] (Non essendo stato ritrovato, ad oggi, il parere specifico che egli
aveva indirizzato ad Arnaldi nell’agosto nel 1764, la posizione teorica del
Conte Magnocavalli è nota principalmente tramite una lettera che quest’ultimo
inviò al canonico Ignazio de Giovanni, destinato a fare da intermediario con il
nominato Sig. Bartoli (Ieni 1987, p. 304 e nota 26): Lettera del Conte F. O. Magnocavallo al signor canonico De Giovanni
sulla copertura del pulpito del Teatro di Vicenza (BBV, mss. Gonzati 25.10.109), pubblicata da
N. Carbonieri, Riflessi Palladiani
nell’epistolario Arnaldi-Magnocavalli, in «Arte Veneta», n. XXXII, (1978),
p. 443-5)
[98] E. Arnaldi, Idea di un Teatro,
Vicenza 1762. Insieme a questa pubblicazione, furono inviati a Berardo GALIANI
altri due volumi, affinché avesse i necessari elementi per elaborare il suo Parere (PTO, f. 271r); questi erano : O.
Calderari, Discorso intorno alla
copertura da farsi al pulpito del Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza 1762;
e G. Montenari, del Teatro Olimpico,
Padova 1749.
[99] Ms BP 2537, vol. VI, ff. 130r-147r.
[100] A differenza di quanto affermato in Ieni 1987, poiché in fondo al
manoscritto si legge: «Copia fatta il mese di Giugno 1810 essendo a prendere
le acque di Recoaro» (f. 147r).
[101] mss. Gonzati 25. 10. 105-112.
[102] Cfr. Olivato 1990, p. 208 scheda 5.12: Olivato Puppi 1980, p. 200 scheda
227; Ieni 1987, p. 303 nota 24.
[103] BSNSP, ms. XXXI. A. 8, ff. 271r-291v. La
numerazione indicata, apposta a matita, è relativa a tutto il volume; essa si
affianca (e in alcune pagine si sovrappone) a quella autografa, apposta
dall’autore, a penna, solo su recto
dei fogli il alto a destra, e che va da 1 a 20.
[104] Presente invece in entrambi gli esemplari già noti.
[105] Ad essa nell’esemplare napoletano viene fatto comunque riferimento: «Tutto
si può chiaramente vedere nell’annessa figura» (PTO, f. 284r).
[106] Penna e inchiostro su carta vergata e filigranata, in Magagnato 1992,
pag. 254..
[107] PTO f. 284r.
[108] Della quale era evidentemente in possesso. Nella prefazione alla sua
edizione dello stesso testo, Berardo GALIANi elenca tutte le altre traduzioni
ed i commenti pubblicati fino al suo tempo, nonché i due antichi testi della
Biblioteca Vaticana che egli aveva studiato e collazionato con gli altri a lui
noti.
[109] PTO, f. 283r: «Come pensasse Palladio intorno a’ Teatri antichi,
( ... )»; I dieci libri dell'Architettura
di M Vitruvio tradutti et commentati da monsignor Barbaro, Venezia 1556,
libro I, cap. 6, p. 40, citato in Wittkower 1964, p.68.
[110] PTO, f. 284r.
[111] Anche questa disegnata da Berardo GALIANI.
[112] Questo profondo studioso e documentatore dell’opera palladiana, avendo
beneficiato una borsa di studio istituita da Vincenzo Scamozzi col fine di
mantenere viva la propria memoria, assunse il cognome di quest’ultimo per
adempiere ad una specifica clausola prevista dal suo testamento. L. Vagnetti, L’architetto
nella storia di Occidente, Firenze 1974, p. 257 e nota 18.
[113] La prima monografia in assoluto sul Teatro Olimpico.
[114] La pianta criticata da GALIANI (che figurava in G: Montenari, Del Teatro
Olimpico, Padova 1733) era opera di Francesco Zucchi, ed è stata pubblicata in
Magagnato 1992, p. 233. A
Berardo furono inviati altri due libri, nei quali i due antagonisti, Calderari
ed Amaldi, esprimevano le rispettive posizioni sulla questione della copertura.
[115] G: Fossati, Fabbriche inedite di
Andrea Palladio, Venezia 1740/45, tav. I; presso la Biblioteca del Museo
Civico Correr (St.Correr 59/61/66/68), pubblicata anche in: F. Muttoni, Delle fabbriche inedite di Andrea Palladio
vicentino arricchite di tavole, Venezia 1760, tomo I. Al confronto con
questa, la pianta di Zucchi appare decisamente grossolana, anche per quanto
attiene alle proporzioni delle aperture della scaenae frons.
[116] PTO, f. 284r.
[117] G. Montenari, Del Teatro Olimpico,
Padova 133, paragrafo 11, p. 8.
[118] O. Bertotti Scamozzi, op. cit., tomo I, p. 19; citato in Pane 1962, p.
362.
[119] PTO, f. 284r. Il corsivo è del dott.Tommaso Carrafiello.
[120] Ivi, f. 288r; i corsivi sono autografi.
[121] Che nell’esemplare napoletano è evidenziato con una riga nera apposta
sul margine esterno del foglio.
[122] Ivi, ff. 285r in fondo e 285v.
[123] Che occupa più della metà dell’intero Parere.
[124] Compreso Vitruvio.
[125] Weber era stato prima collaboratore e poi direttore degli scavi
archeologici di Ercolano e Pompei; elogiato da Winckelmann, a lui si devono una
serie di progetti tendenti a riformare la tecnica degli scavi, consistenti
principalmente nell’abbandono della politica di saccheggio, sostituendola col
disseppellimento sistematico.
[126] Winckelmann 1981, pp. 45 e 145.
[127] Le notizie su questa parte, relativa ai saggi di scavo nel teatro
ercolanese, sono state tratte da Ruggiero 1885 e dallo scritto di Giuseppe
Fiorelli contenuto in Minervini 185l; da essi si apprende che Berardo aveva
anche realizzato un modello grossolano dell’edificio per il ministro Tanucci.
[128] È singolare notare che nelle
Observations sur les Antiquités de la
Ville d'Herculanum, pubblicate dal disegnatore C. N.
Cochin e dall’architetto Jérome Bellicard nel 1754, le due immagini del teatro
di Ercolano (la prima rappresentava la superficie del teatro al momento del
rinvenimento, mentre con la seconda gli autori avevano cercato di ricostruire
lo stato originario) erano messe a confronto proprio con la pianta del Teatro
Olimpico, al quale era dedicata una terza tavola (Panza 1990, p. 56).
[129] PTO, f. 288v.
[130] «in altre fatiche, che ho per le mani, spero con più chiarezza,
distinzione, e precisione far meglio acquistare sempre più chiara idea del
Teatro antico» (Ivi, f. 290v).
[131] Per i motivi che lo spingevano a credere ciò si veda PTO, f. 290v.
[132] Ivi, f. 285v.
[133] Dalla ianua regia infatti si
scorge la prospettiva di ben tre strade diverse.
[134] Si tenga presente però, che le prospettive sono opera di Vincenzo
Scamozzi; sulle intenzioni di Palladio riguardo a questa parte dell’Olimpico,
si veda la più volte citata monografia Magagnato 1992.
[135] Come invece quelle poste sopra la balaustra della cavea.
[136] PTO, f. 285v.
[137] J. Marzari, Historia di Vicenza,
Vicenza 1591, parte 1 (cit. in Puppi 1975, p. 312, e nota 7 a p. 328).
[138] PTO, f. 290v.
[139] Magagnato 1992, p. 66.
[140] Magagnato p. 69.
[142] Adeguatamente modificato, per essere applicato ad una cavea di forma
ellittica.
[143] Questo rilievo, e l’applicazione su di esso dello schema vitruviano sono
stati pubblicati ivi.
[144] Fatto, quest’ultimo, che aveva dato occasione alle ormai note
interminabili dissertazioni archeologiche.
[145] PTO, f. 289r.
[146] nel 1813.
[147] Anche se non con la solerzia che si sperava.
[148] Tutte le note ottocentesche sono trattate in Puppi 1975, p. 322-7 e
relative note.
[149] Suo fedele discepolo.
[150] Come pure, è il caso di sottolinearlo, di Francesco Ottavio
Magnocavalli.
[151] Nel 1902.
[152] La chiesa del Gesù divenne Trinità Maggiore a partire dal 1768, quando,
cacciati i Gesuiti dal Regno delle Due Sicilie, fu assegnata ai Francescani
Riformati dei due conventi della Croce e della Trinità di Palazzo; solo nel
1804 Ferdinando IV, il quale a malinquore li aveva dovuti allontanare 37 anni
prima, riammise la Compagnia
nel Regno. L’autore ha preferito conservare questa denominazione nel titolo,
poiché consente anche la collocazione storica dei fatti di cui si argomenta.
Per la storia della chiesa si vedano De Biase 1952, Errichetti 1974, e Montini
1956 che ne pubblica la pianta.
[153] Cit. in Montini 1956, p. 16.
[154] Roccia eruttiva estratta esclusivamente nell’area flegrea. F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze
1953, pp. 362, 368, 385-6, 392.
[155] Roberto Pane in Architettura del
Rinascimento a Napoli, fa notare che l’edificio napoletano è più antico del
palazzo di Biagio Rossetti a Ferrara (detto dei “Diamanti”) e della dimora
bolognese dei Bevilacqua.
[156] Cfr. G. Ceci, Il Palazzo dei
Sanseverino, principi di Salerno, in «Napoli Nobilissima», VIII
(1989), pp. 81-5)
[157] Galiani ne attribuisc erroneamente il progetto a padre Pietro Provedo (Parere del M.se Galiani sui danni della
Trinità Maggiore, BSNSP ms. XXX. C. 6, inedito, d'ora in poi: PTM, f.
123r), e come lui molti altri autori contemporanei fra i quali addirittura
Francesco Milizia [cit. in Sasso 1856]. L’equivoco è dovuto al fatto che il
Valeriano portava avanti conemporaneamente un gran numero di lavori per i
confratelli gesuiti, ed era molto spesso assente dai suoi cantieri, cosicché i
sostituti ed i continuatori si permettevano talora di modificare i disegni,
passando per gli effettivi artefici di quelle fabbriche. Fra questo p. Provedo,
che entrò nella Compagnia nel 1600,
a quattro anni dalla morte do Valeriano, e al quale sono
state attribuiti i finestroni e le volute laterali della facciata; queste
ultime sono simili a quelle del Gesù vignolesco a Roma, ma si accartocciano
all’infuori, anziché in dentro (Montini 1965 passim e Sasso 1856 p. 155 ss.).
[158] La pianta è stata definita «geniale fusione in un rettangolo
perimetrale della michelangiolesca croce greca del San Pietro e della forma
basilicale del Gesù di Roma» (De Biase 1952, pp. 279-92). Si tratta infatti
di una croce greca, ma a bracci disuguali inscritta in un rettangolo, i
cui spazi angolari ospitano tre cappelle per lato, due prima e una dopo il più
breve braccio traverso; si veda la pianta in Montini 1956.
[159] De Biase 1952, p. 283.
[160] Giovanni Lanfranco nacque a Terenzo il 26 gennaio 1582, fra i Carracci
fu legato in particolare ad Annibale col quale lavorò a Roma; a Napoli arrivò
nel 1633-34 e vi rimase fino al 1646, lasciando alla città opere di singolare
grandiosità, quali quelli alla Certosa di San Martino. Tornato Roma, vi morì il 30 novembre 1647.
[161] Su questa primitiva cupola si veda Errichetti 1962, pp. 177, in particolare le note
4 e 6, nonché la minuta descrizione in Celano-Chiarini 1856, vol.III, pp.
350-352.
[162] O almeno vi contribuì notevolmente.
[163] La chiesa è a croce greca a bracci disuguali, in quanto la tribuna si
estende oltre la crociera per una lunghezza pari a quella della nave maggiore,
e la cappella di S. Ignazio ne
costituisce un braccio laterale.
[164] Celano-Chiarini 1856, vol. III, p. 351.
[165] Che corrisponde ad un braccio del transetto.
[166] Ove nel frattempo avevano officiato le loro funzioni.
[167] GALIANI, al pari dei suoi contemporanei, riteneva invece che in sei mesi
fosse stata ricostruita anche la cupola (PTM, f. 123).
[168] Errichetti 1962/63, pp. 177-8.
[169] Tanto da risultare più bassa della precedente.
[170] Il disegno originale dell’architetto Giuseppe Monzo, datato 1769, è
stato distrutto durante un incendio nel 1943, ma non è andato perduto essendo
già stato riprodotto in Sasso 1956, tav. 13.
[171] PTM, f. 100r.
[172] Errichetti 1962/63; si veda inoltre l’importante manoscritto: Riassunto
di tutte le relazioni fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore
(BSNSP, XXIX. A. 10, ff. 197-204), nel quale sono compendiate tutte le
relazioni presentate fino al maggio 1774 (segnalato in Ceci 1921, p. 92, n. 2).
[173] Che porta la data del 15 maggio: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1306.
[174] Ma Berardo GALIANI, più correttamente dirà «Euritimia»: B. GALIANI, PTM; passim,
e specialmente f. 109r, si veda anche quanto egli afferma nella «Idea
generale dell’Architettura, estratta da’ dieci Libri di M. Vitruvio Pollione»,
che precede la sua edizione dell’antico testo: « » (GALIANI 1758, p. XIV).
[175] Oggi anche i più assennati e pratici Architetti confondono l’effetto
dell’Euritmia con quello della Simmetria in modo, che avendo perduto fin anche
l’uso della voce Euritmia, chiamano tutto Simmetria
[176] della quale il Serlio ci ha tramandato anche un esempio grafico: Si
tratta di un disegno inerente il consolidamento di un porticato, da lui stesso
eseguito a Bologna (S. Serlio, I sette
libri dell'Architettura, Venezia 1584, libro VII, cap. LXIII, nona
propositione, p. 158).
[177] Del quale, peraltro Berardo GALIANI prende nota diligentemente nel suo Parere: Si vedano le misure appuntate al
foglio 98 recto e verso, alla luce di quanto viene detto
nel Capitolo II, intitolato appunto: Proporzioni
della Chiesa.
[178] Amministratrice dei beni espropriati ai Gesuiti.
[179] Errichetti 1962/63, p. 178.
[180] Che nel frattempo avevano preso il posto dei gesuiti.
[181] Era il novembre 1769 (Errichetti 1962/63, p. 1791).
[182] 10 giugno 1771.
[183] 5 gennaio 1772.
[184] Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[185] Parere di Vincenzo Lamberti e lettera di Luigi Vanvitelli: ASN, Casa Reale Antica, fascio 1336; minuta
di quest’ultima: BNN, ms, XV. A. 8-3.
[186] Guerra 1967, pp. 391-3; l’articolo contiene delle osservazioni molto
interessanti sulle teorie statiche che furono alla base dello scontro tra
Vanvitelli e Lamberti.
[187] B.F. Belidor, La science de
l’ingenieur dans la conduite des travaux de fortification et d'architecture
civile, 1729; L. Mascheroni, Nuove
ricerche sull'equilibrio delle volte, Bergamo 1785; L. Salimbeni, Degli archi e delle volte, Verona 1787;
tutti citati in Guerra 1967.
[188] De Fusco 1973, p. 30.
[189] Bottari 1754, passim.
[190] Sarebbe morto l’anno successivo, il 1773.
[191] «Vanvitelli non solo combatte a Napoli questo professionista locale, ma
tenta di impedirgli persino di realizzare qualsiasi opera altrove»(De Fusco
1973, p. 30); su Gioffredo si veda R. Pane, L'architettura
nell'età barocca in Napoli, Napoli 1939.
[192] «E quanto la contesa sia stata a cuore ai due difensori della integrità
del Tempio lo si vede dal fatto che, mentre il Lamberti dedicava quasi un
decennio della sua attività scientifica a problemi evidentemente maturati in
connessione con quello della cupola del Gesù Nuovo, il Gioffredo progettava e
contruiva la più imponente e più bella delle attuali cupole napoletane, cioè
quella dello Spirito Santo, cupola che, nel panorama di Napoli, ha preso, sia
pure un po’ in sordina, l’eminenza che aveva una volta quella del Tempio della
Casa Professa» (Guerra 1967, p. 393).
[193] Mario Gioffredo divenne Architetto di Corte nel 1783, solo due anni
prima della sua morte (Sasso 1856).
[194] Relazione degli ingegneri, con lunga lettera del Regio Consigliere
Gennaro Pallante a Tanucci: ASN, Casa
Reale Antica, fascio 1334 (segnalato in Errichetti 1962/63, p. 183, nota
24).
[195] Che la definì «scandalosa», (PTM, f. 96).
[196] Riassunto di tutte le Relazioni
fatte per il riparo della cupola della Trinità Maggiore, BSNSP ms.
XXIX. A. 10, ff. 197-204, segnalato in Ceci 1921, p. 92, nota 2.
[197] Parere del M. GALIANI sui danni
della Trinità Maggiore e sui ripari e rifazioni, ms.
XXX. C. 6, ff. 95r-123v; a causa di questa «M.» il manoscritto era stato
erroneamente attribuito (come risultava dal catalogo e dall’indice sommario del
volume rilegato che lo contiene) a monsignor Celestino GALIANI, zio ed
educatore di Berardo, il quale, però, oltre a non essersi mai interessato di
architettura, era già passato a miglior vita nel 1753, e non poteva quindi aver
apposto su quel manoscritto la data invece presente del 2 settembre 1773.
[198] PTM, f. 96v.
[199] Vale a dire di Ferdinando Fuga.
[200] PTM, f. 111r.
[201] Il nome deriva dall’Evangelista raffigurato nel soprastante pennacchio.
[202] «Ecco per li preposti lemmi come si vede fendersi l’interposto angolo
del pilone, separarsi, e scappar fuori diagonalmente verso libeccio», ossia
Sud-Ovest (PTM, f. 113r-v).
[203] con quel complesso di speroni e contrafforti atti a distribuire il peso
e le spinte delle coperture voltate.
[204] Sempre nel Parere.
[205] PTM, f. 104r, aggiunta a margine.
[206] PTM, f. 115r.
[207] l’attuale, non quella a cui si riferiva la trattatista rinascimentale.
[208] PTM, f. 106v.
[209] PTM, f. 101v.
[210] PTM. f. 122r.
[211] Accettando tutte le conseguenze che ne derivano.
[212] PTM, f. 121r.
[213] PTM, f. 121r-v.
[214] Celestino fece parte de «L’Archetto», il circolo culturale
formatosi intorno allo stesso Bottari, al cardinale Neri Corsini e a Gaspare
Cerati, nell’ambito del quale si cercava un punto d’incontro tra il Giansenismo
e l’ortodossia cattolica, «tra la cultura cartesiana e quella lockiana, tra
la fisica dei tourbillons e quella della gravitazione, tra l’erudizione e la
politica utilizzazione delle sorprendenti scoperte del passato etrusco, greco e
romano, tra la tecnica giuridica ed un nuovo senso storico del diritto»(F.
Venturi, Settecento riformatore,
Torino 1969, p. 22; cit. in : De Fusco 1973, p. 39, nota 11).
[215] A partire dal 1731.
[216] Monsignor GALIANI insegnò all’Università della Sapienza fino al 1728,
anno in cui fu eletto abate generale dell’Ordine Celestino; oltre che negli
anni degli studi ecclesiastici, fu a Roma dal 1737 al 1741, dovendosi occupare
del difficilissimo concordato fra la Santa Sede ed il Regno di Napoli (Nicolini 1951,
p. 107 e 109).
[217] «Attraverso i numerosi discepoli o estimatori di monsignor Celestino
GALIANI, e per i rami della principesca famiglia fiorentina, il giro delle
comuni amicizie si estendeva dalla Toscana fino alle terre del Regno (delle due
Sicilie), toccando le varie sfere della società notabile settecentesca:
l’aristocrazia, la classe politica, l’alto clero, l’élite intellettuale»
(Felici, 1972, p. 176).
[218] E tra i meno corrotti del De
Architettura.
[219] «La scelta però de’due citati (codici manoscritti) la debbo al purgato
giudizio di Mons. Assemanni e di mons. Bottari, Custodi della medesima, a’quali
non cesserò mai di professarne ìnfinite obbligazioni» (Felici, 1972, p. 176).
[220] Come si evince dal carteggio fra il prelato fiorentino e Ferdinando
GALIANI(Felici 1972 le lettere di Ferdinando datate 27 lug. e 3 ago. 1754,
nonché quelle di Bottari del 2 e 30 lug., 13 ago. 1754, 25 feb., 25 mag. e 1
giu. 1756).
[221] Strazzullo 1973, p. 269.
[222] Di Stefano1973, p. 221. Alludendo probabilmente anche a Ferdinando Fuga
che in quell’occasione si mostrò molto più acuto riguardo agli interventi di
consolidamento di quanto non fece poi a Napoli, aderendo al partito non
interventista del prelato.
[223] Cit. in Strazzullo 1973, p. 271, nota 20.
[224] Si tenga presente, però, che a Roma erano le lesioni lungo i meridiani
della cupola a destare le maggiori preoccupazioni, mentre invece nella chiesa
della Trinità Maggiore le crepe interessavano principalmente le sottostanti
strutture verticali. Ciò che si vuole sottolineare, invece, è l’atteggiamento
non interventista e rispettoso del manufatto originario, che era comune ai due
eruditi.
[225] Bottari aveva espresso esplicitamente le sue critiche nei confronti di
Maderno, colpevole di aver adoperato delle colonne, invece che pilastri, nella
nuova facciata (Bottari 1754, Dialogo II,
p. 122), ed aggiunge, per bocca di Carlo Maratta: «Voi non potreste credere,
quanto mi offenda ogni volta, che vado a S. Pietro, il vedere quel frontespizio
posto non in cima, ma poco più della metà di quell’enorme facciata, sul qual
frontespizio di poi posa un ordine attico, del quale taglia traverso nella più
sconcia guisa, che si possa mai vedere, le finestre» (Bottari 1754, Dialogo III, p. 251): Ma il vero motivo del
suo disappunto riguarda lo stesso principio di trasformare la pianta della
chiesa da croce greca a croce latina, pregiudicandone totalmente il meccanismo
proporzionale impostato da Bramante, e rispettato dai continuatori, dal quale
deriva l’armonia, e quindi la bellezza, della Basilica Vaticana (Bottari 1754,
Dialogo II, p. 96).
[226] «Risuscitò questa voce nel 1742, che tutta la cupola di S. Pietro
rovinava, e fu ascoltata così benignamente, che quantunque alcuni
disappassionati ed intendenti, altamente reclamassero, non furono ascoltati, e
bisognò più per la politica, che per fortificazione cerchiarla come una botte
con quattro cerchi con danno grave della Cupola, e con ispesa di molte dozzine
di migliaia di scudi, e con piacere, e utile degli Architetti. Veggasi la vita
del senator Nelli, stampata in Firenze nel 1753 e le scritture ad esse annesse,
fatte molti anni avanti a questi romori, le quali disapprovano con ottime prove
questi cerchi» (Bottari 1754, Dialogo II, nota a p. 82).
[227] Questa vasta raccolta di volumi, riguardanti le materie artistiche ed in
particolare l’architettura, alla morte di Berardo fu venduta da Ferdinando
GALIANI a Caterina II tramite l’intercessione di Friedrich Melchior von Grimm e
trasferita in Russia (cfr.: L’Abbé F. GALIANI, Correspondance avec Madame d'Epinay, Paris 1881, vol. II, pp. 457,
465, 504, 514; cit. in: AA. VV. 1975, P. 1138; L. Gambacorta, Ferdinando GALIANI e la Russia , in «Archivio
Storico per le Province Napoletane», vol. 106, 1988, pp. 335-345. In occasione di questa
alienazione fu stampato un Catalogo della
collezione di libri appartenenti alle belle arti, e all'agricoltura del fu
Marchese Berardo GALIANI accademico ercolanese, Napoli 1776, in 8° [Comolli
1788/92, vol. I, p.77] ben compilato e diviso in XIV classi. Inoltre presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli [S. C. Bib. Gen. B. 96. IV] è conservato un Catalogo di altri libri appartenenti alla libreria che non sono nella
collezione del fu Marchese Berardo GALIANI, s.l., s.d.; si tratta di 28
paginette a stampa ove si comunica che la vendita sarebbe avvenuta il 21 marzo
[presumibilmente del 1776] al primo piano della casa del defunto a Sant'Anna di
Palazzo).
[228] Che aveva nel frattempo sostituito Gioffredo, allontanatosi per le
discordanze con gli altri esperti.
[229] Ceci 1921, p. 92, nota in fondo.
[230] F. GALIANI, Notizie.
[231] Rispettivamente: relazioni del 3 feb. 1774 e del 15 giu. 1774 (cfr.
Errichetti 1974, p. 66).
[232] Era il 1786.
[233] Nel frattempo Ferdinando Fuga aveva proposto un, altro progetto, che
certo non gli fa onore, poiché, con lo scopo di finanziare i lavori di
restauro, comportava la riduzione della chiesa alla sola navata centrale, la
riconversione delle laterali ad abitazioni, e la vendita dei marmi e dei
dipinti rimossi (ASN, Casa Reale Antica,
fascio 1396, segnalato in Errichetti 1974, p. 68).
[234] Essa, dal 1778, aveva preso il posto della Giunta degli Abusi (che fino
ad allora si era interessata di tutti gli affari gesuitici) nella cura
dell’Azienda di Educazione; quest’ultima, dal 1773, si occupava delle proprietà
confiscate ai Gesuiti, e che infatti erano stateestinate all’erezione di
Istituti di Educazione, da cui il nome.
[235] Termine usato ancora oggi in area napoletana per indicare la volta a
botte.
[236] ASN, Casa Reale Antica, fascio
1418, segnalato in Errichetti 1962/3, p. 182.
[237] I tre documenti che seguono sono stati tratti da uno scritto di Giuseppe
Fiorelli - Il giornale degli scavi di
Pompei - il quale, a suo dire, ne aveva rinvenuto gli originali tra le
carte di Berardo GALIANI. Si tratta di una pubblicazione rarissima, infatti
l'unico esemplare noto all'architetto Tommaso Carrafiello è conservato presso la Biblioteca del Museo
Nazionale di Napoli (XXL. C. 16), che ha potuto constatare che le carte
galianee sul teatro ercolanese sono integralmente riportate anche in Fiorelli
1851, che ha consultato invece presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia
Patria (Misc. XVII. C. 4¹³). Lo stesso Fiorelli lascia intendere che Berardo
sia anche l'autore dei documenti da lui pubblicati (Fiorelli 1851, p. XLI), ma
Carrafiello ritiene che questa sua deduzione sia quasi completamente errata, in
quanto solo uno di essi può essere attribuito con assoluta certezza all’illustre
commentatore di Vitruvio, vale a dire quello intitolato Rappresentanza del Marchese GALIANI al Marchese Tanucci sulla relazione
e su i disegni del Teatro Ercolanese, che qui compare per primo. Per quanto
riguarda gli altri, invece, è molto probabile che GALIANI ne fosse solo il
possessore, come risulta abbastanza chiaro dalla loro lettura. Infatti di essi
uno è una richiesta formale fatta dall'Accademia Ercolanese affinché venissero
avviati quegli scavi proposti da Berardo (Scavi
richiesti dalla R. Accademia Ercolanese per la formazione della pianta), e
che quindi al massimo potrebbe essere stato redatto da questi dietro incarico
della Accademia stessa, sebbene non è da escludere che lo scritto fosse
arrivato nelle sue mani soltanto per conoscenza della comunicazione fatta
all’amministrazione reale; l'altro e ultimo scritto (Lavori eseguiti nel maggio e giugno 1765) l'architetto Carrafiello
ritiene sia quasi certamente un resoconto fatto pervenire a Berardo da
Francesco La Vega ,
vale a dire colui che aveva ricevuto l'incarico di eseguire i più volte
menzionati lavori. Nell'opuscolo di Fiorelli, figurava la trascrizione di un
quarto documento (Indicazione di una
pianta del teatro), anch'esso attribuito erroneamente a GALIANI, e formato
da due legende corredate di una breve Riflessione
; questi tre scritti nel loro complesso dovrebbero costituire proprio quella
«relazione» allegata alle tavole che furono consegnate nelle mani di Berardo,
come egli stesso afferma nella sopracitata Rappresentanza.Si
tratterebbe, quindi di scritti dovuti all'architetto svizzero Karl Weber, in
sostanza la stessa persona che aveva disegnato quella pianta e quel profilo del
Teatro Ercolanese che si aveva intenzione di pubblicare. Solamente l'analisi
dei manoscritti originali potrebbe permettere di far luce su tali dubbi nella
attribuzione, ma Fiorelli non indica ove questi siano conservati.
[238] Si tratta proprio del proscenio, in quanto nella descrizione degli scavi
richiesti dalla Reale Accademia Ercolanese (si veda il secondo documento
trascritto insieme al parascenio viene menzionato appunto il proscenio).
[239] Cioè a Pompei
[240] Il pensiero dei vari esperti d'architettura interpellati dagli
accademici olimpici, fu raccolto in una sorta di dossier curato dall'abate
Capperozzo - Memorie riguardanti la
copertura del palco del Teatro Olimpico, Vicenza (BBV, Mss. Gonzati 25. 10. 105-112, cm . 28,4x20) - che
contiene le trascrizioni di tutti i pareri pervenuti a Vicenza, compreso quello
di Berardo GALIANI datato 1764. La versione di quest'ultimo conservata a Padova
(BCP, mss. BP 2537, vol. VI, ff. 130r/147v) è una copia del citato manoscritto
vicentino, come confermato dalla frase apposta sull'ultima facciata: «Copia
fatta nel mese di Giugno 1810 essendo a prendere le acque di Recoaro». Lo
scritto che segue, invece, è la trascizione dell'autografo galianeo (fino ad
oggi sconosciuto) custodito nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia
Patria, alla segnatura XXXI. A. 8 (ff 271r/291v), e fa parte di un volume
rilegato di carte della famiglia GALIANI. Il Parere è preceduto da una breve introduzione, ed articolato nei tre
seguenti capitoli: I - Del Teatro antico;
II - Del Teatro Olimpico; III - Della Copertura del Pulpito, e Come questa
abbia ad essere. Nella trascrizione è stata quasi sempre rispettata la
punteggiatura originale, corregendola solamente ove tale intervento era
indispensabile ai fini della comprensione del testo. Nessuna alterazione,
invece, è stata operata per modificare il costante abuso di maiuscole, ne
tantomeno gli errori ortografici, in quanto spesso essi sono indistinguibili da
reali espressioni dell'epoca. Fra le
parentesi quadre sono indicati i riferimenti alla numerazione delle pagine. Le
parentesi inoltre, possono racchiudere dei brani aggiunti dall'autore in un
secondo tempo, o sue correzioni; in tal caso alcune notazioni differenziano le
aggiunte a margine: (M), quelle a fondo pagina: (F), e quelle nello spazio
bianco fra due righi: (R).
[241] È stato cancellato: «Perché io vi dicessi il mio debole parere».
[242] Tutti i corsivi di questa trascrizione erano sottolineature nel
manoscritto; i primi due «secundum»
erano poi evidenziati con una sottolineatura doppia.
[243] Questa voce intesa per dietro
non per accanto è stata la cagione
degli errori.
[244] Il brano che segue fra parentesi è un’addenda,che si trova al foglio
282r, alla quale rimanda l’autore stesso.
[245] Il foglio 279r è stato tutto cancellato, ma conteneva lo stesso testo a
cavallo dei fogli 282bis/r e 282bis/v. Il foglio 279v, invece, è un’aggiunta che va inserita al foglio 280r.
[246] Questo corsivo non è autografo.
[247] Questo corsivo non è autografo.
[248] A margine del foglio è stato appuntato il termine greco: σπηλαιον.
[249] Tutto il brano da questo punto fino alla fine del capitolo, è segnato
con una riga nera a margine; esso non è presente nella copia padovana, e
probabilmente è stato eliminato dalla stesura finale, inviata a Vicenza.
[250] L’autore si riferisce al rilievo del Teatro di Ercolano, eleborato da
Karl Weber, che stava in quegli anni rivedendo in vista della pubblicazione.
[251] Nel manoscritto napoletano manca l’indicazione della data, mentre invece
nella copia custodita a Padova, alla fine del testo si legge: «Napoli 20
Ottobre 1764»..
[252] Lo scritto del quale segue la trascrizione fa parte di un volume
rilegato di vari autografi galianei [vale a dire di Berardo, Ferdinando e
Celestino GALIANI] custodito presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia
Patria, alla segnatura XXX. C. 6, [ff. 95r-123v]. Esso, fino ad oggi sostanzialmente
ignorato, era stato erroneamente attribuito [come risulta dal catalogo generale
dei manoscritti posseduti dalla biblioteca, e dall’indice sommario del volume
stesso] allo zio di Berardo, monsignor Celestino GALIANI a causa di una «M.»
erroneamente interpretata [a proposito di tale questione si veda la nota 350 di
questo lavoro]. Nello stesso volume, e subito dopo il Parere galianeo, figurano altri due lavori sullo stesso argomento,
elaborati da autori diversi [uno dei quali l'architetto Tommaso Carrafiello
ritiene possa essere Ferdinando Fuga], e postillati da una serie di
osservazioni dovute certamente alla mano di Berardo GALIANI, come confermato
[oltre che dalla grafia] dalla frequente presenza del suo monogramma al margine
del foglio, proprio a fianco di esse; molto probabilmente Berardo, nella redazione
del suo scritto, utilizzò anche le informazioni contenute in questi resoconti.
La versione che viene qui presentata è il risultato di un ampio rimaneggiamento
operato dall'autore stesso alcuni anni dopo la prima stesura; tale intervento
ha comportato una serie di tagli, aggiunte, traslazioni di interi brani, che ne
avrebbero resa difficoltosa la lettura. È stato però possibile ricostruire il
testo nella sua veste finale seguendo le indicazioni del foglio 123, che reca
l’incipit del primo capitolo e la
concatenazione di quelli successivi. La trascrizione è avvenuta, quindi,
secondo questo nuovo ordine, aggiungendo tra le parentesi quadre i riferimenti
necessari che consentono al lettore di risalire alla collocazione originaria
dei brani nel maoscritto, e che corrisponde alla numerazione complessiva del
volume rilegato. Altre volte le parentesi racchiudono dei brani aggiunti
dall'autore in un secondo momento o sue correzioni; in tal caso alcune
notazioni differenziano le aggiunte a margine (M), quelle a fondo pagina (F),
ed infine quelle inserite nello spazio bianco tra due righi (R). Le parole
incerte, a causa del deterioramento della carta, della difficile
interpretazione, o per la sovrapposizione dell’inchiostro tra recto e verso, sono state fatte seguire da un punto interrogativo tra
parentesi quadre: [?]. Il Parere
risulta articolato nei seguenti capitoli: I
- Storia del Tempio del Gesù Nuovo, oggi Trinità Maggiore; II - Proporzioni della chiesa; III - Lesioni; IV - Sentimenti e progetti per la riparazione (del quale.fa parte
un brano che nella stesura originaria costituiva un capitolo a parte intitolato
Riflessioni sul progetto del Cav. Fuga);
V – Riflessioni sulle cagioni delle
lesioni; VI - Riparo (allafine di
questo capitolo vi è un'appendice intitolata Spesa). Dal testo originario del Parere, qui ipoteticamente ricostruito, sono rimasti esclusi alcuni
brani “volanti”, il cui contenuto è stato comunque riportato infondo. Non sono
stati invece trascritti altri passi che l'autore decise di eliminare dalla
stesura, in quanto essi oltre a non avere in essa una precisa collocazione, non
contengono elementi di particolare interesse, limitandosi ad esprimere in altra
forma concetti poi diversamente sviluppati nel testo definitivo. La
punteggiatura in qualche caso è stata adattata all’uso moderno per facilitare
la lettura e la comprensione del testo, mentre invece non è stato affatto
alterato l’abuso delle maiuscole (un mezzo grafico per attirare l'attenzione su
nomi o altre parole di particolare interesse nel contesto del discorso), né
tantomeno sono stati corretti quegli errori ortografici indistinguibili da
reali espressioni dell'epoca (ad esempio «proggetto, cuppola, tamburro» invece
che «progetto, cupola,tamburo.
[253] I primi due.fogli del Parere galianeo sono di formato più piccolo
rispetto a tutti gli altri, e non recano la numerazione autografa: si tratta di
una lettera di presentazione rivolta al ministro marchese Tanucci o allo stesso
Sovrano, stesa al momento di rendere pubblico lo scritto. Tutte le altre pagine
hanno una doppia numerazione: quella relativa a tutto il volume rilegato è
stata apposta in alto a destra, solo sul recto; quella autografa, invece, va da
1 a 45, ed
è presente a partire dal f 98r, fino al f 120r, su entrambe le facciate.
[254] Probabilmente Berardo GALIANI fa riferimento al fatto che i beni
sequestrati ai Gesuiti in seguito alla loro espulsione dal Regno avvenuta nel
1767, furono destinati a finanziare l’istruzione pubblica oltre che ad opere di
pietà e di beneficienza, mentre invece i possessi più grandi vennero divisi ed
affidati ai coloni poveri in cambio di un piccolo censo)
[255] Si tratta di padre Pietro Provedo.
[256] ...Non sono specificati i palmi, cfr. f. 98.
[257] Di quest’ultimo crollo non vi è affatto nortizia dei testi consultati,
probabilmente se ne era persa la memoria data la sua entità limitata rispetto
ai danni maggiori.
[258] In realtà solo il tamburo fu ricostruito in quei pochi giorni, cfr.
Errichetti 1974, pp. 50-51.
[259] La nuova cupola però era opera di
Arcangelo Guglielminelli, (Errichetti 1962/63, pp. 177/78); ad ogni modo il
personaggio a cui si riferisce Berardo potrebbe essere Andrea Pozzo (1642/3‑1709),
detto appunto: “Padre Pozzo”, un fratello laico dell’ordine dei Gesuiti di cui
era entrato a far parte nel 1665; questi lavorò nella chiesa del Gesù a Roma
negli anni 1697/8 trasferendosi poi a Vienna a partire dal 1703. Si vedano: N.
Carbonieri, Andrea Pozzo Architetto, Trento 1961; N. Carbonieri, L'Architettura
di A. Pozzo, Vicenza 1962; G. Romano, Notizie su Andrea Pozzo, in
«Prospettiva», nn. 57/60 aprile 1989, pp. 294-307 (scritti in memoria di
Giovanni Previstali); infine molto interessante è il saggio sul recente
convegno C. Pfeiffer, ANDREA Pozzo e il suo tempo, in «Civiltà Cattolica»
n’3445, (1 genn. 1994), pp. 55-62.
[260] Come confermato in Errichetti 1974, pp. 50-51
[261] Berardo si riferisce all’espulsione dei Gesuiti dal regno delle Due
Sicilie.
[262] Si tratta dei Francescani Riformati dei due conventi della Croce e della
Trinità di Palazzo, da cui il nome di Trinità Maggiore.
[263] Montini [1956, pp. 12 e 24] afferma più di una volta che questi
sottarchi, come pure gli altri simili oltre la crociera centrale, siano invece
dovuti all’intervento di consolidamento operato da Ferdinando Fuga: «[ ... ]
prevalse il parere di Fuga di rinforzare la struttura della chiesa con quei
contropilastri e quei sottarchi che si cominciarono a costruire nel 1771 e
tuttora esistono»; e più avanti :«peccato che la già ricordata iniziativa di
rafforzare gli archi estremi - i due primi vicino alì ingresso, e i due ultimi
nella tribuna, ridotti quindi a corretti - con sottarchi e contropilastri [...]
abbia gravemente alterato il giuoco delle proporzioni, impicciolendo i vani e
ingrossando fuor di misura le pilastrate». Secondo Ì Architetto Carrafiello, le
parol di GALIANI siano certo più credibili, avendo egli partecipato in prima
persona al dibattito sul progetto di restauro proposto da Fuga; allo stesso
modo anche il consolidamento delle arcate verso la tribuna è precedente agli
interventi settecenteschi, in quanto all’indomani del rovinoso incendio
avvenuto nel 1639 il bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678) «per rinforzare le
arcate estreme della navata, ne rimpiccolì la luce con sottarchi» (De Biase
1952, p. 287).
[264] Si tengano comunque presenti i rifacimenti operati all’indomani del
fatale terremoto del 1688, che avrebbero potuto alterare le proporzioni nella
zona della crociera centrale; Berardo GALIANI infatti descrive la seconda
cupola, quella realizzata da Arcangelo Guglielmini, in parte diversa
dall’originaria
[265] Cioè di sezione rettangolare.
[266] E stato cancellato: «300».
[267] È stato cancellato: in «quadro».
[268] È stato cancellato: «veggono».
[269] È stato cancellato: «le».
[270] Il foglio 122 è stato rilegato erroneamente prima del 123; poiché su
questi ultimi fogli manca la numerazione autografa, è possibile fare un
controllo diretto, ma dal contenuto emerge chiaramente la corretta
consequenzialità.
[271] Berardo GALIANI si riferisce, molto probabilmente, al parere di Mario
Gioffredo.
[272] Tutto il brano che segue fino a f. 110r era, nella versione originaria, un capitolo a parte con un suo
proprio titolo (Riflessioni sul progetto
del Cav. Fuga); successivamente Berardo GALIANI ha preferito inserirlo come
una parte di questo capitolo IV.
[273] È stato cancellato:«16».
[274] È stato cancellato: «ottupla».
[275] Tutta la rimanente parte del foglio 110r è cancellata e riscritta a margine.
[276] L’autore indica i due termini come alternativi.
[277] È stato cancellato: «naturali».
[278] È stato cancellato: «può».
[279] È stato cancellato: «momentanea».
[280] A partire da questo punto, e fino a quasi tutto il foglio 112v, il testo è segnato con una riga nera
a margine; si tratta di una ipotesi per la spiegazione meccanica delle lesioni.
Probabilmente esso fa riferimento ad una tavola che Berargo GALIANI avrebbe
avuto intenzione di disegnare, ma che non figura in questo manoscritto.
[281] È stato cancellato: «Le porzioni p m nello smuoversi faranno leva, e
sforzeranno anche la porzione a passare in parte opposta diagonalm.e nel sito
9.10.11.12.».
[282] In questo punto termina la parte segnata a margine con la riga nera.
[283] È stato cancellato: «pajono».
[284] È stato cancellato: «coadiuvare.
[285] Questi interventi sono sommariamente esemplificati con un sintetico
disegno a margine del foglio 115v.
[286] È stato cancellato: «altre».
[287] In quegli anni, infatti, Berardo era andato a vivere a Sant’Agnello,
presso Sorrento, ove era stato nominato rettore della scuola navale della
Coccumella.
[288] È stato cancellato: «32».
[289] È stata cancellata la «Conclusione», che occupa metà dei fogli 119r/v; il foglio 120v è tutto bianco.
[290] Non reca la numerazione dell’autore, e non c’è alcuna indicazione per
l’inserimento di questo brano all’interno del testo principale. Si tratta,
probabilmente, di una introduzione in forma di lettera gratulatoria che Berardo
stava redigendo per la pubblicazione del Parere,
ma che non è stata più portata a termine. Contiene una illuminante riflessione
sulla polemica di cui fu oggetto la Cupola Vaticana nel ‘700, nella quale egli
parteggia per i non interventisti.
[291] Probabilmente in questo punto andava inserito il nome del personaggio al
quale GALIANI indirizzava idealmente questa introduzione o dedica.
[292] Reca la numerazione dell’autore sul recto,
in alto a destra: «1», e sul verso,
in alto a sinistra: «2». Si tratta di una brevissima descrizione della chiesa e
corredata dall’annotazione delle sue misure principali espresse in palmi
napoletani, e corretta in un secondo tempo con l’intento di dimostrare che esse
si conformano alle proporzioni armoniche più elementari; probabilmente essa si
riferiva ad un rilievo che poteva essere nelle mani di Berardo, una sorta di
promemoria personale che non doveva necessariamente figurare nello scritto
finale.
[293] A margine è indicato : «Pianta», ma con una calligrafia diversa da
quella di Berardo.
[294] È stato cancellato: «245».
[295] Tutte le misure fra le parentesi quadre [ ] sono state aggiunte successivamente a
margine,
[296] È stato cancellato: «16½».
[297] L’autore fa riferimento alla nota a margine precedente, volendo sottolineare
che le misure sono sempre in proporzione doppia.
[298] A margine è stato appuntato: «Alzato», ma con una diversa calligrafia.
[299] È stato cancellato: «292».
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