sabato 12 luglio 2014

5° Prima parte - IL REGIO CASALE DI CASAPULLA E LA FAMIGLIA " de Natale Sifola Galiani" LA PIU' ANTICA DI DETTO CASALE

Curiosità della vita quotidiana del marchese Berardo GALIANI



Nelle lettere scritte
da Luigi Vanvitelli depositate presso la Biblioteca Palatina di Caserta 
Luigi Vanvitelli

l’architetto nella lettera 682 datata Napoli 6 novembre 1759 ed inserita nel Vol. II, si legge: «Il pittore Mengs 


Anton Raphael Mengs
pittore di corte

sta facendo il ritratto del giovane Re di Napoli; ne ho veduto l’abbozzo, il quale, senza complimento mi piace assai poco, ma vedremo in appresso. Egli è andato a vivere in casa del Marchese GALIANI, il quale gli presta un paio di camere del suo appartamento»,

«…Il marchese Berardo Galiani fece parte della Massoneria e vi partecipò quando Des Vignoles prova a ricostituire la Gran Loggia Provinciale; Gran Maestro il San Demetrio, deputato F. Everard, con il colonnello J. Rodriquez, il giudice L. Marchiante, il marchese Berardo GALIANI...». Una storia esemplare, che sarebbe sfociata il 23 agosto 1774 nella costituzione della Gran Loggia Nazionale LO ZELO; Gran Loggia Provinciale è la ZELE’E et SECRET...; ne dipendevano la SINGULIERE

Anche Giacomo Casanova 

nelle sue Memorie ebbe ad incontrarlo come ricorda:

 «….a cena intervennero alcuni letterati fra gli altri il marchese GALIANI, che allora commentava Vitruvio. Egli era fratello di un abate che venti anni dopo ebbi l’occasione di conoscere a Parigi segretario dell’ambasciata Napoletana...». Sempre nello stesso libro è raccontato l’aneddoto di quando Casanova ..«fù assalito dai briganti e si portò nella casa del Marchese Berardo GALIANI..» a Sessa Aurunca per essevi accolto.

Si legge in:
Massoneria e Illumunismo nell'Europa del '700di Giuseppe Giarrizzo, Marsilio Editore in Venezia Grafiche TPM srl Padova anno 1997:(Berardo GALIANI....).

Una abbondante biografia di Berardo GALIANI conserva la Nazionale di Napoli (X111, B, 66, F1).
Uno splendido ritratto satirico di Traiano Adazi è nel volume XXXD, 5, F, 66.
Lettere 14-65 Società Napolitana di Storia Patria "Lettere a GALIANI Berardo, Napoli, Porto Santo Stefano, Parigi e Coimpiegne, 1751, 1754, 1759, 1762-3, 1766-8 (XXXI, B, 17, FF, 203-75.
Lettere 578-81 Società Napolitana di Storia Patria "Lettere di Berardo GALIANI a suo fratello Ferdinando, Napoli, Roma, Sant’Agata di Sessa, 1752, 1755, 1761 (ivi 76, 9; XXXI, B, 19, FF. 12-3; XXXI, C, 13, FF, 95-6, 112).
I rilievi del teatro di Ercolano di: F. La Vega:
«Ma certo la documentazione grafica più precisa ed importante del teatro di Ercolano fu quella eseguita da F. La Vega, che ebbe l’incarico, dietro proposta del marchese B. GALIANI, l’accademico ercolanese che si occupava dello studio e di preparare la pubblicazione del monumento nell’ambito dell’opera delle Antichità di Ercolano; di migliorare e precisare, anche con piccoli nuovi saggi, gli insoddisfacenti disegni lasciati dal Weber»[1].

Fratello di Matteo, che fu padre di Berardo e dell’abate Ferdinando GALIANI, era il monaco Celestino GALIANI. Lo storico Fausto Nicolini ha scritto di lui, un abbondante biografia, che di seguito riporto, per carteggi pervenutigli e carte depositate presso varie biblioteche e fondazioni






CELESTINO GALIANI[2]
Procuratore dell'ordine dei Celestini nel 1723.
Abate generale dei Celestini dal 12 maggio 1728.
Arcivescovo di Taranto e Tessalonica nel 1731.
Cappellano Maggiore del Regno di Napoli dal 1732.
Consigliere di Stato
Consigliere e Gran Cancelliere dell'Ordine di San Carlo.
Grande Elemosiniere del Re
Arcivescovo Castrense nella guerra di Velletri 1744 contro gli austriaci.
Deputato per i lavori del Po, delle Chiane e del Tevere.
Istitutore a Napoli delle cattedre di Storia naturale, fisica sperimentale, astronomia, diritto patrio, metafisica ed etica.
Trattò con l'ambasciatore dell'imperatore Carlo VI per la restituzione della Sicilia.
Presidente generale dell'ordine dei Celestini.

Saggio biografico
Autore: Fausto Nicolini
Società Napoletana di Storia Patria
MCMXXXI
Cooperativa Tipografica Sanitaria  Via Sant'Aniello, 4 - NapoliI.
Corpo aitante e robusto; spalle quadrate che sessant'anni di tavolino non erano riusciti a incurvare; fronte spaziosa, su cui spiccavano pittorescamente due folte sopracciglia nere formanti quasi un arco solo; eloquio facile, abbondante, appulamente rotondo; salute di ferro; nervi d'acciaio; resistenza illimitata a qualsiasi lavoro: tale il ritratto fisico che di monsignor Celestino GALIANI hanno lasciato, col pennello o lo scritto, i contemporanei. E in stretta connessione con l'esterno era l'interno. Nel suo cuore, tanto aperto agli affetti familiari e all’amicizia, quanto inaccessibile non solo all'invidia, al livore e ad altri istinti, ma altresì a quella forma di egoismo che è il rifuggire da cariche ed onori per amore di quieto vivere e, insieme, a quella forma di vanità che è il porre cariche e onori quasi a scopo della vita, ardevano, più che altre, due passioni: una brama febbrile di operosità e la nobile ambizione di porre e codesta operosità e i tanti bei doni largitigli da Dio a bneneficio dei suoi simili. La coscienza, fervidamente religiosa, profondamente morale, quanto mai dominata dal senso del dovere, era, d'altra parte, immune da qualsiasi traccia di superstizione, di fanatismo, d'intolleranza, d'oscurantismo o, come si diceva di là dalle Alpi, di «oltremontanismo»; e regnava poi in essa tanto equilibrio che, mentr’egli, forse, ripugnava meno dal rigorismo giansenistico che dal lassismo gesuitico, seppe, in ogni congiuntura di vita, tenere nei giusti confini l'innata scrupolosità, in guisa che questa, pur servendogli sempre da ostacolo per l'azione cattiva, non gli fosse mai d'inceppo ogni qualvolta occorresse compierne, spregiudicatamente, una buona. Il suo spirito era semplice, adusato all'evangelico «est est, non non», aborrente pertanto da menzogne, furberie, ipocrisie; ma, ciò non ostante, largamente fornito di accorgimento «diplomatico», e quindi difficilmente raggirabile dalle male arti di furbi, bugiardi, e ipocriti. Calma, riflessione, serietà, riservatezza, dignità, misura, autodominio[3] erano le caratteristiche fondamentali del suo temperamento: il che non gl'impediva d'essere durevolmente e fattivarnente entusiasta, franco, aperto, leale, alla mano, non mai saccente, non mai pedante, non mai noioso, anzi ben lieto d'abbandonarsi, a tempo ed a luogo, a un'arguta e talora loquace festosità. E, quasi corona a tutto ciò, nella sua volontà coesistevano così potenziate chiaroveggenza e tenacia da fargli riuscire quasi un gioco proporsi fin dai suoi primi anni un preciso programma di vita far colti, più che potesse, se e gli altri e svolgerlo fino al compimento senza un minuto solo di titubanza, di distrazione, di debolezza, di stanchezza. Un uomo dotato così solidamente e fornito, inoltre, di tanto ottimistica fiducia nella Provvidenza da continuare fermamente a credere, dopo trent'anni di soggiorno nella scettica ed egoistica Roma papale, che sola strada per giungere a qualcosa nella vita fosse quella dello studio e dell'esatto adempimento dell'umile dovere quotidiano; un uomo che, pur tenendo il conto dovuto dei moventi utilitari e dei fini particolaristici, ebbe coscienza così viva di un fine universale che tutti li domina e supera, da voler ogni suo atto, e perfino i suoi studi prediletti, subordinati a quella ch'egli chiamava, con frase del suo secolo, «pubblica
felicità»; un uomo che, considerando il tempo come il più ricco dei patrimoni, ne seppe essere, dovunque e comunque, amministratore tanto sagace quanto ordinato; un uomo siffatto sarebbe stato, per ciò solo, un educatore modello, anche se a tanta elevatezza morale fosse stato impari l'ingegno. Ma non era. Non fosforescenza, non originalità e nemmeno profondità: tuttavia quanta solidezza! quanto ordine!, quanta riflessività! e, anche qui, quanto equilibrio! Un equilibrio così perfetto che nessuno più di lui, matematico di prim'ordine, odiò la gretta specializzazione e quel vivere quasi fuori del mondo, di cui, più che i filosofi pare si compiacciano i matematici. L'adagio del «purus mathematicus» non poteva essere applicato a lui, che non solo volse davvero il suo vasto sapere nella scienza dei numeri alla pubblica felicità, compiendo o tentando di compiere importanti lavori d'idraulica e di bonifica, ma pose altresì come direttive costanti alla sua onesta vita di studioso da un lato il non perdere mai di vista l'universale[4] e, dall'altro, il mantenersi sempre in contatto col particolare[5]. Ed è sintomatico a codesto proposito che, delle tante cose buone che condusse a termine, quella di cui più si compiacesse maggiormente nella vecchiaia fosse per l'appunto d'essere stato lui, monaco celestino, il primo a insegnare filosofia cartesiana nella scolastica Roma; giacché la sua modestia[6] non gli consentiva di ripetere l'elogio magnifico che ebbe a fare di lui Eustacchio Manfredi, allorché, riecheggiando una communis opinio, affermò che la disciplina meno conosciuta da monsignor GALIANI erano le matematiche, ma che intanto non vedeva in Italia un matematico che gli stesse a paro. Eppure un uomo così insigne, del quale, ancora a due secoli di distanza, non si riesce a discorrere se non con la reverente ammirazione ch'egli ispirava ai contemporanei, oggi s'è quasi del tutto spento il ricordo. Della sua infaticabile operosità, della sua straordinaria diottrina, delle sue cospicue benemerenze verso la cultura nazionale sarebbe vano cercare il ricordo in qualunque storia letteraria, ove, tutt'al più il suo nome è ricordato, quando sia, come quello dello zio e dell'educatore di Ferdinando GALIANI. Destino crudele, e tuttavia ineluttabile per chiunque, nei tempi moderni, manifesti la propria attività intellettuale soltanto con la parola parlata; destino a cui non si sarebbe sottratto nemmeno Francesco de Sanctis[7], se non si fosse risoluto, dopo i casi del 1848, a diventare scrittore oltre che maestro. E scrittore Celestino GALIANI non volle essere mai. Timidezza? Assenza d'ogni più piccola ambizione letteraria? Mancanza d'un poderoso pensiero proprio da far trionfare? Incapacità di dominare il ricchissimo materiale scientifico accumulato la lui? A dir vero, tutte codeste cose insieme; giacchè, se non c'è medaglia senza rovescio, codeste precisamente, erano le qualità negative del suo ingegno. La Provvidenza non aveva voluto che l'attività letteraria rendesse in lui men viva quella pedagogica; onde, mentre lo metteva in grado di riuscire un perfetto uomo di cultura e gli dava, dell'uomo di scienza, una qualità di requisiti versatilità, potenza assimilatrice, diligenza, perduranza, e, sopra tutti, culto religioso per la verità, gliene negò poi uno senza del quale non si raggiunge quell'alcunché di squisitamente creativo ch'è la scienza, vogliamo dire la facoltà inventiva. Ed egli che, per essersi tanto studiato, si conosceva alla perfezione e a cui l'innata serietà inibiva di fare ciò a cui non si sentiva chiamato, oppose sempre un rifiuto ostinato a quanti lo sollecitavano a metter fuori, una volta almeno, qualcosa di diverso da quelle tesi di scuola e relazioni che pubblicava di tanto in tanto per mero debito d'ufficio. La sua opera di educatore e diffonditore di cultura credé dovuta soltanto ai contemporanei, ai quali prodigò senza risparmìo i tesori del suo sapere nella scuola, nelle conversazioni orali o in quelle per iscritto[8]: superfluo, invece, e non da lui gli sembrava far giungere la sua voce ai posteri. Ai quali, piuttosto, reputò fosse per riuscire di qualche efficacia educativa il racconto della sua ritmica vita, che, non senza lacune e, al tempo stesso, esuberanze e in istile disadorno e prolisso, prese a scrivere negli ultimi suoi anni e che la morte non gli consentì di condurre oltre il 1736. Codesto racconto, quasi omaggio al suo tacito desiderio, l'autore di questo saggio ha voluto riscrivere, integrare e compiere, ponendo a profitto altresì il carteggio galianeo e altri documenti sincroni. Il lettore appassionato delle così dette "vite romanzate” e particolarmente di quelle conteste di aneddoti avventurosi o descriventi con colori più o meno futuristici un "anima in tempesta", può ben dispensarsi dal leggere queste modeste pagine: consiglio che non oseremmo dare a coloro pei quali la lettura non sia un modo come un altro di oziare senza esser vinti dalla noia. Giacché di uomini che riuniscano, nel grado eminente di Celestino GALIANI, rettitudine, dottrina e accorgimento pratico, ce n'è stati e ce n'è al mondo così pochi che, quando s'abbia la fortuna di poterne conoscere qualcuno da vicino, sarebbe poco saggio lasciarsela sfuggire.
II.
 Nato l'8 ottobre 1681 a San Giovanni Rotondo presso Foggia e chiamato Nicola Simone Agostino a causa d'un voto che i suoi genitori, privi fino allora di figliuoli, avevano fatto a San Nicola di Bari, era venuto al mondo con già saldi e sporgenti i due incisivi medi superiori: strano caso, sottoposto all'esame d'un cappuccino che si dava aria da veggente e che, tanto per non isbagliare, aveva sentenziato che il neonato sarebbe diventato un giorno o un grand'uomo o la feccia della canaglia. Il padre Domenico oriundo da un ramo dei GALIANI di Montoro (Avellino) emigrato a Foggia al principio del seicento e arricchitovisi col commercio della lana, era, dopo parecchi rovesci, morto nel 1688 poco più che trentenne, lasciando la famiglia, a cui s'era aggiunto nel 1684 un altro maschio chiamato Matteo, in condizioni disastrose: onde la madre, Gaetana Tortorelli[9], figlia a sua volta d'un ricco notaio di San Giovanni Rotondo, tutta intenta a salvare dal naufragio una parte almeno del suo patrimonio, che portò poi in dote a un secondo marito (1692), aveva serbato con sé soltanto il secondo figliuolo, mandando il primo a Foggia presso lo zio paterno, perché lo avviasse agli studi, pei quali il fanciullo mostrava il più grande amore. E, invero, aveva quasi appena posto piede nella scuola, e, come s'è detto, già nella sua volontà si veniva fissando, nella guisa e misura possibili in quell'età puerile, il proposito di farsi più che potesse colto. Proposito tanto facile a formolare in astratto quanto difficile ad attuare in concreto, chi pensi quale cibo dell’intelletto offrisse, alla fine del Seicento, l'allora barbarica Foggia, ove gli studiosi letterari non avevano migliore rappresentante d'un don Domenico Pancicco, ignorantissimo insegnante di latino, che poneva Orazio innanzi ai ragazzi ch'erano ancora alle declinazioni, e quelli filosofici si assommavano negli spropositi che pronunciava ex cathedra nel convento di San Francesco un fra Benedetto commentando le oscurissime Summulae logicales di Pietro Ispano o da Lisbona che si voglia dire[10] e non si sa quale manuale scolastico esponente la logica di Duns Scoto[11]. Né le cose ebbero a mutare in meglio quando il futuro monsignor GALIANI, indossato a sedici anni il saio celestino (24 Decembre 1697) e divenuto, per tal modo, da Nicola, Celestino, fu inviato prima nel monastero della Trinità di San Severo a compiere l'anno di noviziato e, dopo la sua professione solenne[12], in quello di Santa Croce di Lecce. Senza dubbio, don Celestino de Simeonibus, don Giuseppe Maria Amati, don Gregorio de Sanctis e don Celestino Pepe, che gli furono assegnati via via per maestri, erano, specie i primi tre, religiosi di costumi esemplari; ma, quanto a dottrina, segnatamente filosofica, non sarà un arrecare oltraggio alla memoria affermare che si sarebbero resi socialmente più utili consacrando la loro attività alla semina del frumento e alla tosatura delle pecore. Che dire poi del prete secolare don Lazzaro Greco, il quale, non ostante codesto suo cognome di buon augurio, non conosceva una parola di greco e, ciò non pertanto, lo insegnava, leggendo ai disgraziati che frequentavano la sua scuola una scellerata traduzione di poche scene del Pluto aristofaneo? Ma non per nulla nel GALIANI c’era la stoffa dell’autodidatta. E, studiando, com’egli dice, giorno e notte i pochi e non eletti libri della grama biblioteca conventuale, e aiutandosi alla meglio con un corso manoscritto di filosofia tomistica tenuto tempo addietro a Lecce, quando v’era semplice monaco domenicano, dal cardinal Tommaso Maria Ferrari[13], a vent’anni aveva conquistata già, nell’ambiente celestino, una così bella reputazione di latinista, grecista e filosofo, che il capitolo generale dell’ordine, radunato nel maggio del 1701 nella badia di Santo Spirito del Morrone, volle dargli un premio ch’egli non avrebbe osato nemmeno sperare: la nomina per un triennio a studente nel monastero di Sant’Eusebio di Roma.La gioia con cui il nostro Celestino salutò la città eterna[14] s’immagina. Non trovò di certo a Sant’Eusebio maestri troppo migliori di quelli lasciati a Lecce: anzi tutta la cultura di don Diego Grignani e di don Francesco Righi, suoi nuovi precettori, non andava di là da una conoscenza superficiale della teologia scolastica. Ma che cosa poteva importare codesto al GALIANI, che sapeva già fare così bene da sé e poteva ormai disporre d’una biblioteca che hai suoi occhi appariva ricca e ben fornita? Metodico e ordinato, provvide piuttosto a fissarsi un ferreo orario di lavoro, che per nulla al mondo si sarebbe indotto a violare. La mattinata, purtroppo, gli era tolta dalla scuola, dal coro e da altre pratiche religiose; onde non gli restavano se non le ore del dopopranzo e quelle che senza danno si sarebbero potute sottrarre al sonno. Ebbene: sarebbero state consacrate tutte allo studio della Summa theologica di San Tommaso, salvo una sola, da dedicare, come per isvaco, alla lettura dei classici latini e greci e di libri di varia erudizione. Tra questi gli capitò sott’occhio, nell’aprile del 1702, il trattato De sphaera mundi di Giovanni da Holywood o, all’italiana, da Sacrobosco, che, quantunque vecchio di mezzo millennio, ancora, nell’edizione commentata del gesuita Cristofaro Clau[15], faceva testo nelle scuole. E, pare impossibile, allora soltanto apprese l’esistenza degli Elementi di Euclide,di cui nessuno dei maestri gli aveva fatto nemmeno il nome. Incuriosito, cominciò a leggerli nell’edizione scolastica del ricordato Clau (1575); ed egli che non era andato mai oltre le quattro operazioni, si sentì ad un tratto matematico nato. La tentazione di gettarsi a corpo perduto su quei nuovi studi fu forte; ma mostrerebbe di non conoscerlo chi credesse che non gli riuscisse di vincerla. C’era da terminare lo studio di San Tommaso; ed egli avrebbe rinunziato alle matematiche per sempre piuttosto che non condurre a compimento un’impresa, la quale che fosse, a cui aveva dato principio. Anzi, gli parve che solo mezzo per potersi dedicare senza preoccupazioni alla geometria, fosse l’intensificare gli studi teologici, consacrando a Euclide semplicemente l’ora quotidiana di lettura, con l’impararne non più d’una proposizione al giorno. Trentadue giorni di lavoro indefesso bastarono al GALIANI per isbrigarsi definitivamente della Summa theologica, e trentadue furono le proposizioni euclidee che in quel tempo impresse nella memoria con caratteri indelebili. Ormai non c’erano più ostacoli e si poteva andare avanti di carriera. E sotto la guida d’un architetto francese, un monsieur Mony, che viveva a Roma dando lezioni private di matematica, il giovane Celestino, allora povero in canna e che dové privarsi di tutto per raggranellare le due piastre romane da dare ogni mese al maestro, si consacrò toto corde agli studi geometrici. In soli quaranta giorni i primi sei libri di Euclide non serbavano più misteri per lui, e non più di altri ottanta gliene occorsero per avere, anche nell’aritmetica ragionata, nella meccanica e nella trigonometria, qualcosa da insegnare al maestro. Il quale, nel congedarsi o, meglio, nell’essere congedato da lui, gli rese il miglior servigio che si possa immaginare; dirgli, egli pel primo, molto bene della filosofia cartesiana, della quale il GALIANI, appunto pel gran male che ne aveva sentito dai precedenti maestri, s’era tenuto fino allora scrupolosamente lontano. A questa indigestione geometrica seguì dunque la lettura della Diottrica di Cartesio. Fintanto si trattò dell’introduzione, le cose procederono lisce: anzi al GALIANI, adusato al gergo scolastico e alle qualità occulte dei peripatetici, la così limpida teoria cartesiana della luce fece, com’egli dice, la medesima impressione che a un condannato da lunghi anni a un oscuro carcere lo splendore vivificante del sole. Ma, quando poi, ancora digiuno, qual era, di geometria solida, passò all’altra teoria della rifrazione, la luce divenne così abbagliante da fargli veder buio[16]. Dové pertanto smettere e riprendere tra mano Euclide, del quale studiò gli ultimi sei libri, passando poi all’ostico trattato sulle sezioni coniche di Isacco Barrow[17], su cui sudò [18] per tre mesi nelle ore canicolari dell’estate del 1703, e, dopo un tentativo infruttuoso d’intendere almeno la Geometria cartesiana,al Traité de la grandeur en général dell'oratoriano cartesiano Bernardo Lamy[19], e poi ancora all'algebra e al calcolo integrale e differenziale, che allora appunto, tra vive opposizioni, cominciava a diffondersi in Italia e che, propugnato più tardi e difeso a spada tratta dallo stesso GALIANI, egli imparò primamente così sul De constructione aequationum calculi differentialis primi gradus, in quel tempo ancora inedito[20], come dalla viva voce dell'autore di quel libretto, cioè da Gabriele Manfredi[21], ospite a Roma del futuro cardinale Filippo Maria Monti da Bologna[22] e col quale il nostro Celestino si strinse in fraterna amicizia, estesa poi a tutta quell'insigne famiglia di letterati e di studiosi. E tornò (autunno del 1703) per la terza volta a Cartesio. La dolce commozione, da cui fu pervaso quando s'avvide che finalmente intendeva, e intendeva tutto, è di quelle che può comprendere a pieno soltanto chi, come lui, nutra per gli studi un affetto che abbia del culto religioso. Con ardore di neofita, lesse, rilesse e postillò tutte le opere del Descartes, la Geometria, la Diottrica, il Discours de la méthode, i Principi filosofici, le Méditations e, ultima, il De l'homme, che gli porse occasione di frequentare nel vicino ospedale di San Giovanni in Laterano un corso di anatomia umana. Ma ormai il triennio di studentato volgeva al termine. Che sarebbe avvenuto di lui? Avrebbe potuto continuare gli studi, diventati la ragione stessa della sua esistenza? Il suo abate[23] sarebbe riuscito ad ottenergli, come lo aveva vivamente pregato, la destinazione, senz'alcun incarico, a qualche piccolo convento di provincia, come per esempio a quello d'Aversa o all'altro di Barletta? Tali le domande che il nostro Celestino si rivolgeva con animo trepidante, mentre il capitolo generale dell'ordine, radunato quella volta[24], non, secondo l'uso, nella badia di Santo Spirito del Morrone, ma nello stesso convento romano di Sant'Eusebio, deliberava sulle nomine e residenze del futuro triennio. Ma quanto giubilo poi, allorché il Guicciardini gli annunciò essergli stato concesso più di quanto avesse chiesto, cioè la conferma per altri tre anni nel titolo di studente[25] nel medesimo convento di Sant'Eusebio, con la dispensa dal frequentare la scuola, ch'è quanto dire restando padrone di quasi tutto il suo tempo! Se fin d'allora lo avessero eletto generale dell'ordine, non sarebbe stato più felice. Giacché - cosa rara negli autodidatti, i cui studi hanno sempre qualcosa d'occasionale e lacunoso - egli ardeva dal desiderio di ritornare metodicamente sui propri passi per colmare pazientemente i vuoti che la rapidità stessa dell'andatura gli aveva fatti lasciare per istrada. Noi non lo seguiremo in codesto corso di autoperfezionamento, che per lui, ormai esperto nella difficile arte di studiare, fu tanto più fecondo in quanto, superato ben presto il cartesianesimo, poté, non senza un contatto col lockismo, ascendere, sopra tutto nel campo matematico, alle supreme vette del leibnizianismo e del newtonianismo. Diremo soltanto che a venticinque anni era annoverato già tra gli uomini più dotti di Roma, ove non c'era studioso di vaglia che non amasse entrare in relazione con lui. Amici, per esempio, gli furono fin da quel tempo, e restarono poi, Gianvincenzo Gravina[26], monsignor Francesco Bianchini[27] e Giusto Fontanini[28], allora semplice abate e bibliotecario del cardinal Renato Imperiali[29] che prese anch'egli a voler bene al GALIANI, e poco di poi, come del resto, più tardi, il cardinal Casoni [30] e, più tardi ancora, l'altro cardinale Giannantonio Davia[31], lo nominò suo teologo. Né gli fecero il viso dell'armi l'archeologo e abate napoletano Biagio Garofalo[32] e il servita fiorentino Gherardo Capassi, al quale una vivace polemica contro l'oratoriano e continuatore del Baronio, Giacomo Laderchi[33], a proposito d'una dissertazione di quest'ultimo su San Cresci e altri martiri (1707), veniva acquistando allora grande notorietà; il vecchio appulo Vitale Giordano[34], lettore nella Sapienza e matematico mediocre, ma persona degnissima; l'abate Domenico Passionei[35], poi (1738) cardinale e raccoglitore d’una ricca biblioteca, a cui anche Giacomo Casanova pretese un giorno di contribuire; il benedettino Giambattista de Miro[36], indi persona di fiducia di Vittorio Amedeo II di Savoia, poi abate del convento napoletano di San Severino e Sossio e, quantunque tale, fervido difensore di Pietro Giannone; e altri parecchi che sarebbe troppo lungo enumerare.
III.
Sopraggiungeva frattanto il maggio del 1707, e al GALIANI il modesto titolo di studente veniva convertito nell'altro, parimente triennale, di lettore di teologia morale[37] e Sacra Scrittura nel medesimo convento di Sant'Eusebio. Una consuetudine inveterata nell'ordine celestino faceva considerare codesta nomina meramente onorifica. Ma era troppo forte nel GALIANI il senso del dovere e troppo ardente il desiderio di comunicare agli altri con metodo facile e piano ciò che egli aveva imparato da sé con uno sforzo più o meno intenso, perché pensasse un momento solo a esimersi dall'onere delle lezioni. Se, ancora studente, soleva radunare nella sua celletta alcuni confratelli[38] per insegnare loro la filosofia cartesiana e fare alcune letture in comune[39], si può immaginare con quanto entusiasmo si consacrasse al l'insegnamento, ora che di esso, almeno nominalmente, gli era fatto debito. Alieno da sottigliezze teologiche e casistiche, preferì, tra i due corsi affidatigli, quello di Sacra Srittura, che svolse non col metodo esegetico e apologetico, allora in voga nelle scuole italiane, ma, per quanto i tempi consentissero, con criteri storico-filologici, imparando apposta l'ebraico e dandosi toto corde agli studi di cronologia ragionata del Vecchio Testamento. E già nel febbraio del 1708 la sua scuola aveva dato frutti così eccellenti che Giusto Fontanini gli proponeva di far sostenere da qualche discepolo le tre principali tesi svolte durante il suo insegnamento, e cioè: che, nel computo degli anni ab orbe condito all'era volgare, fossero preferibili il testo ebraico e la Volgata alla versione dei Settanta; che il Diluvio, anziché peculiare a qualche regione dell'oriente, fosse stato universale; che l'ipotesi dei preadamiti fosse, anche storicamente, insostenibile. Tesi che oggi fanno sorridere, ma che lungo un secolo furono argomento di accese dispute in tutto il mondo cristiano, cattolico e protestante, messo a rumore dai Praeadamitae (1655) del francese Isacco de la Peyrère[40], dalla violenta confutazione che, tra gli altri, ne aveva fatto, nel Diluvium Noachi universale, l'olandese Martino Schoock[41], da tutte le polemiche conseguenti e susseguenti e dalla partecipazione a queste di uomini come il Bossuet e, oggi meno famoso ma allora oracolo scientifico d'Europa, Giovanni Leclerc[42]. Basti dire che ancora nel 1730 e nel 1744, nella seconda e terza Scienza Nuova,Giambattista Vico, che sembra avesse aderito in gioventù (1692-3) alle ipotesi dei preadamiti e della parzialità del Diluvio, sentì il bisogno di farne esplicita confutazione. Superato il fiero pettegolezzo di convento, suscitato dal padre Francesco Righi, il quale non sapeva perdonare al suo antico discepolo d'essere divenuto tanto più dotto di lui, la disputa ebbe luogo con grande concorso di pubblico. Argomentatori, cioè contradittori, furono Monsignor Santini[43], l'abate Bencini[44] e, nientemeno, Francesco Bianchini, contro i quali il discepolo prediletto del GALIANI, don Bonifacio Pepe[45], difese con tanta valentia le tesi che il maestro aveva raccolte in un libricino dedicato al cardinal Imperiali, che i monaci di Sant'Eusebio, per mostrare la loro gratitudine al nostro Celestino, lo designarono (e il generale dell'ordine lo nominò) successore, nella cattedra di teologia dommatica, del Righi, che circa quel tempo era andato abate a Ravenna. Per tal modo, il GALIANI venne ad avere due insegnamenti, per dir così, ufficiali, a cui di sua iniziativa volle aggiungerne parecchi altri privati: di ebraico, di greco, di latino, di filosofia cartesiana e di matematiche. E tranne per un breve periodo (marzo-aprile 1708), durante il quale affari di famiglia lo chiamarono in Puglia e poi a Napoli - ove conobbe allora i due fieri anticurialisti Costantino Grimaldi[46] e Alessandro Riccardi (1660-1726) e il loro oppositore monsignor Carlo Maiello[47], l'archeologo Matteo Egizio[48] e i matematici Antonio Monforte[49] e Giacinto de Cristofaro[50], - tranne, dicevamo, per quei due mesi, la sua infaticabile attività d'insegnante lo assorbì quasi del tutto fino al maggio 1710. Quasi del tutto, giacché la scuola non gl'impediva né di continuare a tenersi al corrente con gli studi, né di cominciare, appunto dal 1708, a carteggiare con istudiosi d'ogni parte d'Europa, e nemmeno, specie la mattina, quando, dopo la messa sorbiva il cioccolatte, di ricevere nella sua cella qualche amico a lui più caro[51], e tenere con loro amene conversazioni, a cui partecipava talvolta qualche studioso straniero di passaggio per Roma[52]. Una nuova disputa pubblica ch'egli fece tenere ai suoi discepoli nel 1710 e un altro libretto di tesi che mise fuori in quella circostanza suscitarono nuovi pettegolezzi, non circoscritti quella volta nell'ambiente chiuso del monastero, ma dilagati per tutta Roma. E , sebbene il GALIANI, che conosceva la livida invidia degli altri insegnanti di dommatica e di morale, avesse prudentemente evitato di porgere il fianco all'accusa di giansenismo, escludendo da quelle tesi quanto toccasse anche da lontano un suo forse non troppo ortodosso corso sulla grazia, il servita Pietro Maria Pieri[53], poi (1734) cardinale, il padre Sant'Elia del Terz'Ordine, il padre Palermo dei Minori Osservanti e il già mentovato Laderchi non esitarono a denunziare alla Congregazione dell'Indice come ereticali cinque proposizioni galianee, e, più di tutte queste due, che nella genealogia di Cristo esibita da Luca la frase «qui fuit Cainan» fosse interpolata, e che il testo ebraico e la versione dei Settanta avessero in fondo lo stesso valore canonico della Vulgata, che non differisce da loro se non in particolari di scarsa importanza. Quell’accesa controversia durò tre anni interi[54], durante i quali il GALIANI - pur difendendosi con energia pari all'abilità, e battendo e ribattendo, in parecchie scritture presentate alla Congregazione e in un memoriale al papa, che l'interpolazione di qui fuit Cainan era affermata, tra altri padri della Chiesa, da Teofilo d'Antiochia, Eusebio, Origene, Epifanio e Beda, e, tra altri scrittori cattolici dei tempi moderni, da Agostino Steuco, dal Genebrand, da Cornelio a Lapide e dal gesuita Petau - non riposò al certo su d'un letto di rose. Comunque, radunatasi la Congregazione dei sette cardinali che la componevano - Ferdinando Dadda[55], Giambattista Gabrielli[56], Ranuccio Pallavicini[57], Fulvio Astalli[58], Carlo Agostino Fabroni[59] e i già ricordati Ferrari e Imperiali - i primi tre si dichiararono a priori fieramente ostili al GALIANI, seguiti in codesto atteggiamento prima dall'Astalli, poi, malgrado le sue esplicite promesse in contrario dal Fabroni. E, peggio, dopo una prima relazione, favorevole al GALIANI, del barnabita Gianmichele Teroni[60], poi (1713) vescovo di Venosa, che anzi né ritrattò una precedente contraria, e due altre, recisamente avverse, dal crocifero Mortier e del prete della Missione Castelli, proprio quando la Congregazione, secondo la domanda del medesimo GALIANI, si disponeva a nominare un quarto e definitivo relatore, il segretario e futuro cardinale (1724) padre Agostino Pipia[61], tanto malevolo contro l'accusato quanto benevolo verso gli accusatori, coi quali era in perfetto accordo, cavato di tasca un biglietto ch'egli stesso era riuscito a farsi dare da Clemente XI, lesse che il papa, annoiato dal gran rumore di quella faccenda, ordinava che le tesi galianee fossero poste senza ulteriore discussione[62] all'Indice.Per fortuna, in quei giorni il dotto e filogiansenista cardinal Davia era venuto dal suo vescovato di Rimini a Roma per ricevere il cappello Cardinalizio; e in un pubblico concistoro, egli, il Ferrari, e l'Imperialli mostrarono in modo così ovvio al papa la balorda ingiustizia di quella condanna,che l'ordine di proibizione fu senz'altro revocato. Ciò che invece non si riuscì a cancellare, quantunque di ciò non si fosse nemmeno discusso, fu l'opinione, diffusa in tutta Roma, che non solo il GALIANI, ma anche il Davia, che lo aveva tanto difeso, fossero fieri giansenisti. Anzi, del giansenismo di Celestino GALIANI si parlava ancora tanto dopo la sua morte, che nel 1777 suo nipote Ferdinando, rispondendo ad analoga domanda di monsignor Francesco Sanseverino[63], arcivescovo di Palermo, scriveva: «Mio zio non fu giansenista: avava troppo Newton in corpo. Contrastò la bell'anima da Dio donatagli col genere di vita a cui si votò, colla città dove abitò, col secolo in cui visse. Dio sa quali teorie o quali perplessità ne risultarono!».
IV.
Uscito da quella bega, il GALIANI continuava tranquillamente a Sant'Eusebio i suoi molteplici insegnamenti, allorché, nel 1775, una sua lettera in difesa del newtonianismo a Gregorio Calopreso da Scalea[64], ricosciuto dai cartesiani napoletani quasi loro naturale capo[65],richiamò su di lui l'attenzione dei principali matematici italiani, e particolarmente del camaldolese Guido Grandi da Cremona[66], allora professore nell'Università di Pisa, e di Eustacchio Manfredi[67], che, tra altri pubblici incarichi nella sua Bologna, aveva quello di soprintendere alle acque. Gli effetti di codesta notorietà non tardarono a vedersi. Qualche mese dopo (maggio 1716), l'abate gererale dei celestini gl'inviava, con parole molto onorevoli, la nomina ufficiale a insegnante di filosofia nel convento di Sant'Eusebio, con la facoltà «omnes et quascumque lectiones ad philosophiam pertinentes ac studentibus necessarias legendi atque docendi, necnon Sacras Scripturas et conscientiae casus explicandi». E, ch'è più, nello stesso anno il Manfredi, ottenuto finalmente che la Congregazione delle acque di Roma desse incarico a una commissione pontificia di studiare sul posto un disegno, in cui il medesimo Manfredi, riprendendone uno precedente, abbozzato fin dal 1693 dal ricordato cardinal Dadda e dall'altro cardinale Francesco Barberini[68], proponeva d'immettere il Reno nel Po nel luogo detto la Stellata, pose in moto cielo e terra, e vi riuscì, perché monsignor Domenico Riviera[69], poi cardinale (1733), presidente di quella commissione, conducesse con sé, quali tecnici, il mentovato padre Grandi e precisamente il nostro Celestino. Due mesi durò quell'ispezione[70], nei quali il GALIANI e il Grandi, ospiti sovente a Bologna in casa Manfredi, e molto festeggiati così da quella come dall'altra famiglia, tutta letterata, degli Zanotti, convertirono in cordiale amicizia la stima che li legava già ad Eustacchio. E poiché il Grandi, tornato a Pisa, cadde ammalato, toccò al solo GALIANI riassumere i risultati di quegli studi in una relazione a stampa, presentata il 3 decembre alla Congregazione delle acque, la quale adottò all'unanimità le proposte del relatore, favorevoli al disegno. Senonché i ferraresi, i quali si credevano lesi dal divisato deviamento del Reno[71], accusarono il disegno, in un libro a stampa del loro matematico Cena[72], di antiscientificità nella teoria e d'ineseguibilità nella pratica; indissero un referendum così presso matematici isolati di parecchie città d'Italia, tra cui sopra tutte Napoli, come presso parecchi corpi scientifici d'Europa; trovarono nel noto abate padovano Antonio Conti[73], allora a Parigi, chi patrocinò le loro ragioni presso quell'Accademia delle Scienze; costrinsero il GALIANI, vivamente interessato dal Manfredi, di avvalersi delle sue relazioni col ricordato Guglielmo Burnet[74], col già famoso, quantunque giovane, Guglielmo Giacobbe‘s Gravesande[75] e coi matematici napoletani per trarre dalla parte di Bologna questi ultimi, l'Accademia di Leida e la Società Reale di Londra; riuscirono, mercè accorte pratiche diplomatiche coi modenesi, coi veneziani e perfino con l'imperatore Carlo VI, in quanto sovrano della Lombardia, a diffondere il convincimento che il vantaggio dei bolognesi sarebbe stato conseguito con grave svantaggio di tutte le regioni circonvicine: breve, suscitarono tanto scalpore che la corte di Roma, spaventata, determinò, non tenendo conto del voto della Congregazione, di far riesaminare la questione da una commissione, non più pontificia, ma interitaliana. Non ancora libero da codesto incarico, il GALIANI partiva nel maggio 1717 per la Toscana insieme col medesimo monsignor Riviera e col colonnello Agostino Ceruti per tentare di risolvere una questione vertente tra la Santa Sede e il Granducato fin da quando, sulla falsa credenza che le periodiche inondazioni di Roma fossero dovute alla Chiana, quel fiumiciattolo, originariamente affluente del Tevere, era stato, con un deviamento, mandato a sboccare in Arno presso Arezzo, con danni incalcolabili alle città e alle campagne della Val di Chiana, afflitte, a causa di quella deviazione, dalla malaria e divenute oggi, appunto mediante la bonifica vagheggiata dal GALIANI, ma cominciata soltanto negli ultimi anni del primo Leopoldo, tanto fertili e fiorenti. Senonché, come a nulla erano servite pel passato le continue proteste dei toscani, una guerricciuola tra Urbano VIII e il granducato e una transazione stipulata al tempo di Alessandro VII e violata poi dalla curia papale nel modo più sfacciato; così a nulla condussero ora il fastidioso va e vieni del nostro Celestino tra Città della Pieve, Sarteano, Montepulciano, Arezzo, e Firenze, e le sue laboriose discussioni col senatore Giuseppe Ginori, col marchese Ciaccini, col matematico Benedetto Bresciani e con l'ingegnere Franchi, nominati da Cosimo III de’Medici suoi commissari. Giacché la corte romana, la quale, a quanto sembra, voleva semplicemente menar il can per l'aia, quando s'avvide che si faceva sul serio[76], e s'era per giungere a un equo accordo, che, pur salvando la dignità e gl'interessi di Roma, rendeva giustizia al buon diritto dei toscani, richiamò indietro, con insigne villania, i suoi delegati, suscitando in questi tanto rossore e in quelli fiorentini tanto sdegno che, malgrado il buon volere del GALIANI, non fu possibile, né allora né poi, rabberciare quell’affare. Solo compenso dato al nostro Celestino per tanti fastidi fu una cedola del cardinal camerlengo Giambattista Spinola[77], nella quale gli si conferiva a titolo gratuito la sopravvivenza della cattedra di matematica nella Sapienza romana, occupata allora da Domenico Quarteroni, con facoltà, di cui il GALIANI, per riguardo a quel vecchio insegnante, non si volle avvalere, di cominciare subito le sue pubbliche lezioni. Eppure la delicatezza di quel frate era tanta che un siffatto incarico, meramente onorifico, gli sembrò vincolo che lo legasse indissolubilmente a Roma così quando dall'ambasciatore veneto cavalier Morosini gli venne fatta, in nome della Serenissima, la proposta di scegliere, tra le cattedre di matematica e di storia della Chiesa nell'università di Padova, quella che meglio gli convenisse, come quando qualcosa di analogo, ma a condizioni ben altrimente vantaggiose, gli fu offerto dalla corte di Torino. Vittorio Amedeo II, che in quel tempo aveva riformato l'Università torinese, procurava di accaparrarsi, con l'allettamento di buoni stipendi, i più valenti studiosi d'Italia. Una parte non piccola dei dispacci inediti dei suoi ambasciatori straordinari a Napoli conte Solaro di Breglia e marchese di Lapérouse[78] è consacrata appunto nelle trattative, quasi sempre infruttuose, condotte da quei diplomatici coi letterati napoletani più in vista[79] perché si risolvessero a cangiare lo scirocco e il tepore partenopei col vento asciutto e il freddo torinesi. E analoga attività accaparratrice aveva già cominciato a svolgere a Roma nel 1717-8 l'ambasciatore conte de Gubernatis, validamente coadiuvato, talora a voce sul posto, talaltra da Torino per iscritto, da Francesco de Aguirre, abile avvocato siciliano[80], a cui i modi insinuanti avevano procurato l'amicizia di mezzo mondo e che, essendo vissuto parecchi anni a Roma, ove gli era stato maestro il Gravina, riusciva con non troppa difficoltà a inviare a Torino quanto la piazza offrisse di meglio. A lui, per esempio, l'Università torinese dové il già mentovato Bernardo Lama da Napoli, che aveva compiuto i suoi studi a Parigi, dov'era fuggito dal seminario del paese natio al solo scopo di conoscere di persona il Malebranche, e che rottosi poi nel 1727 anch'egli con la corte savoiarda, emigrò a Vienna, ove visse in grande dimestichezza con Pietro Giannone e donde, poco dopo il 1734, tornò definitivamente a Napoli ed ebbe subito dal GALIANI, allora Cappellano Maggiore, una cattedra all'Università. Il de Aguirre, del pari,era riuscito a corrompere tanto il padre Roma, francese, lettore molto reputato di Storia della Chiesa a Trinità dei Monti, donde un bel giorno era partito insalutato Hospite per Torino, quanto il prete Bencini, fuggito anch’egli a Torino dal collegio di Propaganda Fide, ove, come s'è visto, insegnava teologia polemica. E al de Aguirre, analogamente, l'Università torinese avrebbe dovuto il GALIANI, se - quando gli offrirono (15 marzo 1718), in nome del re Vittorio e del suo primo ministro marchese del Borgo, quattrocento scudi l'anno per la cattedra di matematica, con riserva al re di applicarlo alla fisica dottrinale o alla storia della chiesa, ma con piena facoltà a lui di opinare liberamente, di vivere non più in convento ma in una propria casa, e anche di trafugare da Roma per mezzo dell'ambasciata piemontese qualunque sorta di libri e scritture - il buon Celestino, spaventato all'idea che la sua partenza potesse avere anche lontanamente l'aspetto d'una fuga, non avesse posto come conditio sine qua non[81] l'esplicito consenso di Clemente XI. E, per quanto il De Gubernatis e anche il conte di Bausson ponessero tutta la loro abilità diplomatica per indurre il papa a dir di sì, la risposta, come facevano prevedere le sollecitazioni in senso contrario del cardinal Imperiali, dell'archiatro pontificio monsignore Giovanni Lancisi[82], di monsignor Riviera e di altri amici del GALIANI, i quali non volevano che Roma lo perdesse, fu recisamente e costantemente negativa. Per indorargli l'amara pillola[83], il cardinale Spinola gli offrì, in nome del papa, la nomina a relatore perpetuo presso due fra le quattro principali congregazioni che sedevano permanentemente a Roma[84] e, insieme, l'altra a coadiutore con futura successione del padre Luigi Maille, lettore ordinario di storia della Chiesa e controversie dommatiche alla Sapienza e allora a Parigi presso il cardinale Ludovico Antonio de Noailles[85]. Il primo incarico era lucroso e di poca fatica; ma, a dir vero, il divenire collega di quei frati ignoranti e mestatori che bazzicavano allora per le congregazioni non era proposta da fare a un onest'uomo di studi come il GALIANI, che, con un pretesto decoroso, la rifiutò. Miseramente compensata[86] era la coadiutoria della cattedra di Storia della Chiesa, e tutto ciò a cui il GALIANI sarebbe potuto giungere, quando ne fosse divenuto titolare, si riduceva a centoquaranta scudi, che soltanto negli ultimi anni del suo insegnamento furono portati a centosessanta. E poi insegnare quella disciplina doveva pure sembrare pericoloso a chi non solo aveva avuto da fare con la Congregazione dell'Indice e che, in fatto di storia della Chiesa, professava opinioni tutt'altro che conservatrici, ma ricordava assai bene ciò ch'era toccato precisamente al Maille, al quale neppure l'essere dovuto scappare dalla Francia per aver difesa la Sede apostolica contro Luigi XIV era valso a evitare le carceri dell'Inquisizione, ove l'aveva fatto rinchiudere l'accusa di giansenismo mossa al suo insegnamento dai gesuiti e donde soltanto le tenaci insistenze di monsignor Prospero Lambertini[87] erano riuscite, dopo cinque anni, a cavarlo. Ciò non pertanto, il GALIANI accettò. La cedola di nomina[88], quanto mai onorevole[89], gli fu recata al suo convento (luglio 1718) personalmente dal Lambertini, col quale il GALIANI si legò da allora in cordiale amicizia, non venuta meno neppure quando il futuro arcivescovo di Bologna ascese ai fastigi del papato. E il 2 novembre dello stesso anno il nostro Celestino leggeva la sua orazione inaugurale: De usu et necessitate ecclesiasticae historiae in studiis theologicis, seguita da undici corsi di lezioni (1718-1728), nei quali, messo da banda il Vecchio Testamento, oggetto del suo insegnamento a Sant'Eusebio, narrò via via ai discepoli d'ogni nazione, accorsi in numero sempre crescente ad ascoltarlo, la storia della Chiesa dalla nascita di Cristo a tutto il secolo nono.
V.
A codesto mutamento nella sua vita d'insegnante fu quasi coevo un mutamento nella sua vita di religioso. Giacché nello stesso anno 1718 il capitolo generale dell'ordine lo nominò abate del monastero celestino d'Aversa e, l'anno appresso, di quello di Sant'Angelo a Celano, con facoltà, chiesta per lui direttamente dal papa, di reggerli mediante vicari e di continuare a vivere a Roma, dove, per altro, passò da Sant'Eusebio all'altro convento celestino dell'Orso. E basta leggere le deliberazioni prese a codesto riguardo dall'anzidetto capitolo generale[90] per presentire non troppo lontano il giorno in cui il GALIANI sarebbe divenuto capo supremo dei suoi confratelli. Non solo doveva essere posta a sua disposizione la camera più bella del monastero, ma gli era anche concesso, in caso di piena del Tevere, di umidità o di checchessia potesse nuocere alla sua salute, di passare provvisoriamente a Sant'Eusebio, volendo il Capitolo generale «ut eidem patri abbati idoneae vitae cultusque subsidia praeberentur, quo commodius ac tranquillius Romae posset incolere" e accrescere sempre più la sua "doctrina, morum innocentiae ac suavitati sociata». E di dottrina, d'innocenza di costumi e di soavità di tratto il GALIANI die’ ampi saggi anche nel convento dell'Orso, ove, in compagnia del suo antico amico e confratello toscano Piergirolamo Bargellini e, ancora più, dei libri che veniva comprando coi proventi del suo gramo stipendio, trascorse 10 anni: i più belli della sua tranquilla vita di studioso, turbata solo di quando in quando da qualche incarico speciale, a cui mette conto di accennare. Politica costante della curia papale era stata quella di proibire severamente nello Stato della chiesa il giuoco del lotto, il quale, tra la fine del Seicento e i principi del Settecento, s'era introdotto di mano in mano a Genova[91] a Milano, a Torino, a Venezia e a Napoli. Conseguenza del divieto era stata che i romani, non potendo tentare la fortuna in patria, procurassero di propizziarsela fuori, favoriti in ciò dagli ambasciatori delle città anzidette, i quali, abusando delle immunità diplomatiche, avevano aperto nei loro palazzi botteghini di giuoco, ponendovi persone incaricate di ricevere le poste e pagare le vincite. Poteva bene il futuro cardinal Carlo Collicola[92], già da allora tesoriere della Camera apostolica, sospirare per la non indifferente quantità di denaro che in tal guisa usciva dallo Stato: Clemente XI teneva duro, e soltanto dopo lunghi anni di resistenza s'indusse, molto a malinquore, a consentire che la questione fosse esaminata dal punto di vista morale e politico da un'apposita congregazione, che, composta da incompetenti teologi e canonisti, divenne, coi suoi spropositi, il soggetto favorito dei motti di Pasquino. Di ciò, per l'appunto, si discorreva un giorno tra il GALIANI e monsignor Lancisi, il quale ebbe a cascare dalle nuvole quando l'amico gli offrì, sorridendo, un piccolo uovo di Colombo, consistente nell'ovvia osservazione che la questione, allora tanto dibattuta: - Se il lotto fosse cosa giusta - era di quelle che, perché poste male, non trovavano mai soddisfacente soluzione; ma che se a essa veniva sostituita all'altra: - Se la somma che s’assegnava comunemente per le vincite fosse in onesto rapporto con la posta e col rischio, - bastava saper maneggiare il calcolo delle probabilità per risolverla con esattezza matematica. Breve: il GALIANI fu invitato a partecipare alla congregazione, che lo nominò unanimamente relatore; fece tutti i calcoli e scrisse sull'argomento una mezza dozzina di pareri, che si serbano ancora tra le sue carte[93]; propose premi onesti, e quindi molto più alti di quelli stabiliti altrove; osservò che, così facendo Roma, lo stesso, per resistere a codesta concorrenza, avrebbero dovuto fare le altre città italiane, e il lotto sarebbe stato o dovunque moralizzato o dovunque, per essersi reso troppo tenue il guadagno dello Stato, abolito; a eccezione del solo monsignor Lambertini[94], che lo sostenne validamente, ebbe contrari tutti gli altri componenti la Congregazione, i quali, ora ch'erano stati messi per la strada, erano passati dal loro infecondo moralismo all'eccesso opposto e volevano premî bassissimi; poté, qualche anno dopo, sotto il pontificato d'Innocenzo XIII, far dare i lotti in appalto in tutto lo Stato romano; ricevé, nelle due prime estrazioni, molto favorevoli ai giuocatori, tante benedizioni dalla povera gente quante maledizioni dagli appaltatori, che, desiderosi di vedere modificate a loro vantaggio le tariffe, gli diedero, anche in iscritto, del "frate ignorante" e peggio; assisté impavido all'abolizione del lotto, compiuta da Benedetto XIII; di lui, già lontano da Roma, si parlò molto quando Clemente XII lo ripristinò: dopo di ché, di quell'affare, che per dieci anni aveva appassionato tanto l'opinione pubblica, si perdé in tal guisa il ricordo che nessuno oggi, fra i cultori della sublime scienza della cabala, sospetta d'avere avuto tra i suoi predecessori non soltanto Rutilio Benincasa, ma altresì un matematico della forza di Celestino GALIANI. Il quale, frattanto, nominato ancora una volta matematico pontificio[95], partiva, con monsignor Giovannì Rinuccini, presidente d'una nuova delegazione papale, e con l'abate Neri, per Firenze, e di là i tre, col padre Grandi, si recavano a Pavia: luogo di ritrovo dei commissari di tutte le città interessate per un più ampio studio della già ricordata immissione del Reno nel Po. Le spese di quella seconda costosa visita erano tutte a carico della città di Bologna, che l'aveva invocata; e se al GALIANI, ch'era l'uomo più discreto del mondo e non chiese nulla, venne assegnata la diaria, enorme per quei tempi, di due luigi d'oro[96], si può immaginare che cosa prendessero gli altri. Ciò non pertanto, il generale Lathermann, commissario austriaco e persona in cui la boria andava di pari passo con l'incompetenza, la scarsezza d'intelligenza e l'ignoranza della lingua italiana, quantunque vivamente sollecitato, non si degnava di partire da Mantova: tanto che il GALIANI, per non oziare, fece una gita a Milano, ove conobbe il matematico gesuita Tommaso Ceva[97], e l'altro matematico Zaccheria - del quale ultimo si narrava che riuscisse ad attendere simultaneamente a parecchie partite a scacchi - e coltivò l'amicizia dei due magistrati napoletani Vincenzo de Miro[98] e Giuseppe Cavalieri, l'uno presidente, l'altro consigliere della Giunta di censimento, e ai quali non parve vero d'avvalersi dei consigli del nostro Celestino a proposito d'un gran catasto del Milanese, che andavano preparando insieme col matematico Giangiacomo Marinoni da Udine[99] e che la guerra di successione polacca impedì di pubblicare. Come Dio volle, il 25 novembre, accompagnato appunto dal Marinoni, investito per la circostanza della carica di "matematico imperiale", giunse a Pavia il Lathermann; e, malgrado gl'inceppi posti proprio da lui, che, pur non comprendendo nulla, voleva essere informato di tutto, i lavori di scandaglio e di livello poterono per quattro mesi essere assidui e fruttiferi. Il Po fu studiato passo per passo, specie agli sbocchi della Trebbia, del Taro, dell'Adda e degli altri affluenti fino a Lagoscuro, a tre miglia da Ferrara; furono presi altresì rilievi minuti delle valli bolognesi: poi non si poté fare altro, perché i commissari veneti, che nell'ispezione da Lagoscuro al mare sarebbero dovuti essere presenti, non erano stati nominati ancora dalla Serenissima. La forzata interruzione fu messa a profitto dal GALIANI con una corsa a Bologna, ove gli furono fatte le accoglienze che erano da attendersi dai Manfredi e dagli Zanotti; un'altra a Ravenna, ove non mancò di suggerire quella diversione dei fiumi Ronco e Montone, che, eseguita una quindicina d'anni dopo dai cardinali legati Alberoni e Bartolomeo Massei[100] porse occasione a un'iscrizione del Vico; un'altra a Fano, ove per incarico del cardinale Imperiali dié, insieme con Eustacchio Manfredi, un'occhiata ai lavori di riattamento di quel porto; e un'altra finalmente a Rimini, ove, ospite del cardinal Davia, entrò in grande dimestichezza col medico e compagno indivisibile del Davia, e poi "medico segreto pontificio" Antonio Leprotti da Correggio[101] e con l'eruditissimo medico, e storico dei Lincei, Giovanni Bianchi[102]. Dopo di che, insofferente che i bolognesi gettassero così miseramente il danaro, si recò di sua iniziativa a Venezia per rendere conto del lavoro compiuto e sollecitare l'invio a Lagoscuro di Pier Capello, su cui proprio in quei giorni il governo veneto aveva fatto ricadere la sua scelta. Promesse ne ebbe anche troppe; ma con quanta sollecitudine venissero mantenute si può scorgere dal fatto che il GALIANI, partito per Venezia il 13 aprile 1720, ebbe l'agio di trattenervisi una dozzina di giorni; di recarsi a Padova (26 aprile), ove strinse amicizia con l'illustre Antonio Vallisnieri[103], col francescano messinese Alessandro Burgos (?-1725), allora lettore di metafisica in quello studio, e col dotto abate benedettino Benedetto Bacchini da Borgo San Donnino[104], fondatore a Modena di quel primo Giornale de’ letterati d'Italia[105], ripreso poi a Venezia con maggiore fortuna da Apostolo Zeno; di fermarsi, dopo un'altra breve apparizione a Bologna, per circa un mese a Firenze, ove, mentre tentava invano di riesumare il disgraziato affare di Chiana, aveva accoglienze liete e oneste da Cosimo III e dal principe Giangastone, nonché da Anton Maria Salvini[106] e dall'archeologo e senatore Filippo Buonarroti[107], ch'egli aveva conosciuto a Roma, quando v'era custode della vaticana; di tornare a Roma, di scrivere un mondo di rapporti, di risalire sulla cattedra e continuare le lezioni fino a tutto il febbraio del 1721 senza che né Pier Capello né il suo séguito avessero cominciato a fare le valigie.Soltanto il 16 marzo 1721 aveva luogo il sospirato convegno generale a Lagoscuro. L'annunzio dell'improvvisa morte di Clemente XI, accaduta il 19 di quel mese, e l'essere il GALIANI dovuto correre in tutta fretta a Roma, chiamato, sembra, dal cardinale Imperiali, che lo avrebbe voluto suo conclavista, fecero temere una nuova e più lunga interruzione dei lavori. Per fortuna, o che gingesse a Roma a conclave già cominciato o quale altra ne fosse la ragione, il GALIANI non tardava a tornare a Lagoscuro: onde scandagli e livelli venivano ripresi non solo con grande alacrità, ma, questa volta, anche con certa gaiezza. Il Lathermann, solo tedesco fra quei maliziosi e motteggianti italiani, aveva dovuto pure, smessa alquanto la burbanza, intonarsi in qualche modo all'ambiente; senza dire che a eccitare le attitudini canzonatorie di taluni commissari[108] provvedevano taluni lati ridicoli d'un nuovo "matematico imperiale", aggiunto, per suggerimento del GALIANI stesso, al Marinoni, ossia del napoletano Giacinto de Cristofaro, che s'è già avuto occasione d'incontrare: uomo degnissimo e sicuro del fatto suo; ma vecchio bizzarro e parecchio stizzoso, implacabile facitore di sonetti su qualsiasi argomento, marito comicamente geloso d'una ancora giovane e piacente moglie lasciata a Napoli, e attore ancora più comico in battibecchi d'ogni momento con un suo furbo servitore partenopeo che s'era condotto dietro e gliene faceva d'ogni colore. Senonché l'essersi trovati d'accordo su tutti i punti essenziali il GALIANI, il Grandi, il Marinoni e il De Cristofaro; l'avere fatte proposte ben concrete il primo alla corte pontificia, gli ultimi due a quella imperiale; l’essere il Marinoni, dopo aver accompagnato il GALIANI a Roma, partito a bella posta per Vienna[109]; l'essersi firmato un regolare compromesso tra il nuovo papa Innocenzo XIII e Carlo VI: tutte codeste cose a che giovarono mai, se, nel momento di convertire quel compromesso in una bolla pontificia[110] e in un decreto imperiale, i veneziani e i modenesi, nella peggiore fede del mondo, opposero il loro veto? Poveri Bolognesi! Dopo tanto danaro gettato via, doverono sborsarne dell'altro per liti e trattative diplomatiche, l'intricato corso delle quali si può seguire quasi settimana per settimana nelle lettere di Eustacchio Manfredi al GALIANi, al quale toccò anche escogitare a Roma tre o quattro transazioni, e sempre col risultato di non cavare un ragno dal buco. Anzi, morto troppo presto[111] l'ottimo Innocenzo XIII, animato dalle migliori intenzioni e che aveva grande stima del nostro Celestino fin da quando era semplicemente il cardinal Michelangelo Conti, bastò che i veneziani, pel tramite proprio di Pier Capello, dimentico degl'impegni presi coi suoi antichi colleghi di commissione, guadagnassero a suon di quattrini l'indegno favorito di Benedetto XIII, cioè il cardinal Coscia, perché venisse pubblicato un breve che poneva la proposta d'immettere il Reno nel Po tra le questioni di cui il solo discorrere fosse, per dir così, peccato mortale.
VI.
Grave iattura, del resto, per tutta la cristianità quell'inconsulta elevazione al pontificato[112] del vecchio cardinale arcivescovo di Benevento Vincenzo Maria Orsini[113]: uomo, per ripetere il severo giudizio del GALIANI, «di molta apparenza di virtù per le sue austerità, pel disprezzo del fasto e pel continovo esercizio delle funzioni ecclesiastiche negli occhi del volgo, ma di niuna soda virtù appresso de’ savi». E più grave iattura che il nuovo papa divenisse un giocattolo nelle rapaci mani del ricordato Nicola Coscia[114], il quale, nato da vilissimi genitori in un villaggetto presso Benevento[115] seppe essere ladro e malversatore così emerito da potere, nei soli sei anni che durò quel pontificato, comprare feudi nel Regno di Napoli per oltre un milione di ducati[116]. Con tal governo, si può immaginare quanta voglia avesse il nostro Celestino d'occuparsi di affari pubblici. E poi cui bono? Ebbe un bel combattere in una congregazione la volontà del papa di sopprimere il lotto: per tutta risposta gli si disse che, dal momento che il ricavato della lotteria, invece che le casse della Tesoreria apostolica, avrebbero impinguato la borsa privata del Coscia, non metteva conto di darsi tante brighe. Buon per lui che, nominato nel 1722 procuratore generale dei celestini presso la Santa Sede[117], riuscì a condurre in porto, prima della morte d’Innocenzo XIII, un affare che gli stava grandemente a cuore: la risoluzione a favore del suo ordine d'un annosa lite col vescovo di Sulmona intorno alla giurisdizione spirituale dell'abazia di Pratola. Non gli restava, dunque, se non continuare a studiare e insegnare con la consueta coscienza. Tanto più che promettenti discepoli nuovi erano successi a già illustri discepoli antichi, dei quali tutti qui appunto è il luogo d'indicare i principali. Il cavalier Prospero Sciarra-Colonna[118], che, maestro di Camera sotto Clemente XII, fu poi elevato alla porpora (1743) da Benedetto XIV; l'abate Valentino Gonzaga[119], cavaliere mantovano, che, dopo essere stato nunzio a Bruxelles e poi a Madrid, divenne nel 1738 cardinale e fu dal 1740 segretario di Stato di Benedetto XIV, e il solo che potesse contendere a Roma, per rettitudine, operosità, ingegno e spirito, con quell'ottimo tra i pontefici; l'abate Perlas, figlio dell'onnipotente primo ministro di Carlo VI; l'abate benedettino Fortunato Tamburini[120], nominato anch'egli cardinale (1743) da Benedetto XIV; l'abate napoletano Giuseppe Spinelli[121], poi nunzio all'Aia e nel 1735 arcivescovo di Napoli e cardinale; il cavalier genovese Gian Luca Pallavicino[122], poi feld-maresciallo austriaco e governatore di Milano, e che dal 1725 al 1728 fece di tutto, senza riuscirvi, per indurre il maestro a stabilirsi a Genova; l'abate Giovanni Ernesto (1748) e il cavalier Ferdinando d'Harrach, figliuolo del conte Luigi, poi viceré di Napoli, ai quali il GALIANI insegnava anche privatamente geometria, filosofia e diritto naturale[123], e che, restatigli sempre devoti, riuscirono, qualche anno dopo, a farlo nominare arcivescovo di Taranto e cappellano maggiore del Regno di Napoli. E l'elenco potrebbe continuare a lungo, e comprendere altresì già maturi studiosi stranieri o di passaggio per Roma o ivi dimoranti, tra cui, per citare soltanto qualche inglese, il cavalier Tommaso Dereham, valente cultore di scienze naturali, un Andrea Mitchell e uno Stevens, i quali, più tardi, esaltarono tanto i meriti del GALIANI presso l'archeologo e matematico Martino Folkes[124], pars magna della Società Reale di Londra e nell'estate del 1734 in viaggio di piacere a Roma, che a principio del 1735 giungeva al nostro Celestino, già da tre anni cappellano maggiore a Napoli, la nomina a socio corrispondente di quella Società. E a quale larghezza e modernità di vedute fosse ispirato il suo insegnamento, mostra l'aneddoto che, avendo egli chiuso tanto più volentieri un occhio su qualche libro proibito posseduto dal primo dei D'Harrach in quanto parecchi ne aveva acquistati, con la debita licenza, e ne acquistava egli stesso[125], non mancò chi andasse a denunziarlo al cardinale Alvaro Cienfuegos[126], ambasciatore cesareo a Roma, quale diffonditore di libri e teorie ereticali: donde furie di quel bollente porporato, che minacciò di mettere in moto, per tanto misfatto, la curia papale e la cancelleria imperiale, salvo poi a stendere la mano al GALIANI, presentatosi a lui per giustificarsi, allorché s'avvide d'avere innanzi un uomo tanto onesto quanto dotto, ch'egli fino allora aveva avuto il torto di non conoscere. Un volgare ambizioso - sia detto a guisa di digressione - avrebbe còlto a volo quell'occasione per divenire assiduo del salotto di quel l'onnipotente cardinale, e renderselo, per tal modo, anche nell'avvenire, più propizio o meno avverso. Ma, gesuita, spagnuolo, testardo, altezzoso e alquanto prepotente, il Cienfuegos non era l'uomo la cui compagnia potesse allettare il nostro Celestino, che, a ogni modo, si trovava più a suo agio frequentando altri cardinali, a lui più consoni per temperamento. Tale Giulio Alberoni, col quale, nel breve tempo del suo confino a Roma (1724), il GALIANI entrò in tanta dimestichezza da essere sovente invitato a pranzo da lui con le parole Die lunae, 19 huius, hora consueta in refectorio Angeli Custodis erit solita conferentia” ovvero "Martedì prossimo, all'Angelo Custode, si farà all'ora solita la disectione d'un gallinaccio", e altrettanti biglietti scherzosi. Tale ancora il cardinal Davia, che, rinunciato il vescovato di Rimini, s'era dal 1724 stabilito definitivamente a Roma[127], aprendo il suo salotto, molto ristretto, ai più insigni studiosi romani di filosofia e di scienze fisiche e naturali, tra cui si vedeva tanto più spesso il GALIANI, in quanto allora appunto il padron di casa lo aveva voluto suo teologo, non senza ammetterlo al così detto segreto del Santo Ufficio, della cui Congregazione il Davia era tra i più autorevoli componenti. Tale, per ultimo, l'ambasciatore francese cardinal Melchiorre di Polignac[128], che, uomo di spirito e letterato[129], concedeva ai suoi ospiti, specie se, come il GALIANI, uomini di spirito e letterati, una tale libertà di parola da rendere la sua conversazione, come si diceva allora, una delle più divertenti, oltre che istruttive, di Roma. E come in casa Davia il GALIANI rinsaldò la sua già antica amicizia col Leprotti, così in casa Polignac lo si vedeva gareggiare coi suoi diletti Cerati e Niccolini, quanto mai abili nel dar la baia a un alquanto ridicolo e seccatore abate Giuseppe Luigi Esperti da Barletta, che faceva allora la spola tra Napoli e Roma, e il cui nome è passato alla storia appunto perché tra la fine del 1725 e i principii del 1726 distribuì in casa Davia e in casa Polignac parecchi esemplari d'un libretto, il quale, salvo al GALIANI, che, destinatario altresì d'una deferente lettera dell'autore, lo prese sul serio, sembrò il parto d'una mente malata, ed era nientemeno la prima Sienza nuova di Giovan Battista Vico. Ma se - chiusa la breve digressione - il GALIANI fuggiva gli affari politici, questi venivano a ricercare lui: cosa, del resto, accaduta sempre alle persone disinteressate e capaci nei momenti difficili. E un momento molto difficile attraversavano l'Impero e la Chiesa a causa della secolare questione della Monarchia in Sicila, che, dopo dibattiti eterni, entrava, precisamente tra il 1725 e il 1728, nella fase risolutiva. La mole di carta scritta e stampata, accumulatasi fino ai principii del secolo decimottavo intorno a quella bolla d'Urbano II, quasi certamente apocrifa, che concedeva a Ruggiero II e ai successori la qualità di perpetui delegati apostolici e, con ciò, la suprema giurisdizione ecclesiastica sull'isola, era già tale da incutere terrore al più ardimentoso dei bibliografi. Soltanto a volere studiare a fondo gli scritti comparsi a proposito della famosa dissertazione del Baronio sull'argomento[130] c’era da invecchiare. E quella bibliografia s’era quasi raddoppiata dal giorno che Clemente XI, geloso delle prerogative della Santa Sede, aveva dichiarata falsa la bolla attribuita al suo lontano predecessore e, anche se genuina, tale da potere essere annullata da una bolla posteriore, ch'egli appunto pubblicava, al tempo stesso che vietava al così detto giudice della Monarchia, pena la scomunica, d'ingerirsi da allora in poi in qualunque affare di giurisdizione ecclesiastica. Che Clemente nutrisse così forte convincimento dell'onnipotenza papale da credere sul serio che bastasse un tratto di penna a distruggere, anche nel fatto, una consuetudine, la quale, genuino o apocrifo che ne fosse il titolo giuridico, contava già sei secoli di vita, è cosa che a nessuno è dato conoscere. Certo è che, consequenziario caparbio, non cedé d'un dito né alle ragioni giuridiche e teologiche che Vittorio Amedeo II di Savoia, nel breve tempo che fu re di Sicilia, gli aveva fatto esporre in un libro dal teologo e canonista parigino Lodovico Elia Dupin[131]; né alle minacce che un avversario molto più ternibile del Savoiardo, ossia l'imperatore Carlo VI, non gli risparmiò quando nel 1721 la Sicilia divenne dominio di casa d'Austria. D'altra parte la bolla clementina era, per contenuto e forma, così poco riguardosa che nessun sovrano avrebbe potuto sottostarvi: ragion per cui censure pontificie e atti d'ostentata autorità del giudice della Monarchia si vennero intrecciando sempre più aggrovigliatamente con grande scandalo della cristianità. Le opinioni dei tanti che, a Roma, a Vienna, a Napoli e in Sicilia, s'appassionavano a quel dibattito, sopito alquanto durante il breve pontificato d'Innocenzo XIII, ma divampato più ardente quando Benedetto XIII pose al dito l'anello del pescatore, oscillavano, con innumeri gradazioni, fra tre punti di vista, che si possono chiamare l'ultraimperialistico, l'ultracurialistico, e moderato. Il prirno partito - delle cui idee si fece espositore Pietro Giannone, allora esule a Vienna e a cui si deve il meglio che si scrivesse in quella circostanza - sosteneva che il tribunale della Monarchia, già fortificato da una prescrizione sei volte centenaria, avesse origine, non dalla controversa bolla d'Urbano, bensì dall'essere i re di Sicilia succeduti nel dominio dell'isola agl'imperatori bizantini, ai quali nessuno aveva negato mai il diritto d'ingerirsi nella «polizia esteriore» delle chiese dipendenti dal trono dì Costantinopoli: tèsi storicamente e giuridicamente giustissima, come hanno mostrato gli studi posteriori, ma politicamente infeconda, giacché, per farla valere, bisognava affrontare una compiuta rottura con Roma, che il Giannone desiderava ardentemente, ma che allora era interesse dell'impero evitare. In mancanza di buoni argomenti storici e giuridici, gli ultracurialisti avevano saccheggiato l'arsenale degli argomenti teologici per sostenere che alla bolla di Clemente non dovesse essere mutata una virgola: con che, come suole accadere ai partiti estrerni, giungevano sul terreno pratico, al medesimo risultato negativo dei loro aborriti avversari, vale a dire all'anzidetta rottura fra Impero e Chiesa, della quale la corte di Roma più ancora di quella di Vienna aveva grande paura. Tra queste due tendenze irrealizabili, era ovvio che avessero buon gioco i moderati, i quali, preoccupandosi poco delle ragioni storiche, giuridiche e teologiche, bramavano soltanto un'abile formola diplomatica, salvando il decoro di tutte due le parti, desse pace alla cristianità. Il merito di aver indotto il papa, o, meglio, i suoi favoriti Coscia, Fini e Santamaria, a imboccare la via della conciliazione, spetta tutto, secondo afferma il GALIANI, al napoletano Pietro Perrelli, il quale, per ciò solo, si rivela ben diverso dai due monsignori suoi discendenti[132], concorsi entrambi a far foggiare a Napoli in monsignor Perrelli il tipo del prelato balordo, e tutt'altro che meritevole degli atroci sarcasmi che l'odio di parte suggerì contro di lui all'esacerbato Giannone. L'affare fu affidato prima (1726) a monsignor Francesco Antonio Fini[133]; indi, insignito quest'ultimo della porpora[134], la curia papale conferì pieni poteri a mosignor Lambertini e, nel tempo stesso, officiò segretamente il cardinal Cienfuegos a nominare, per conto dell'imperatore, un negoziatore dotto, capace, moderato, discreto e che non desse troppo all'occhio al collegio dei cardinali, a cui, per la sfiducia che avevano del papa e dei suoi fidi, non si voleva far trapelare di quelle trattative. Un uomo dotto, capace, moderato, discreto e non troppo in vista: non significava designare quasi esplicitamente il nostro Celestino? Il quale restò assai turbato quando, un bel mattino, un gentiluomo del Cienfuegos, presentatosi al convento dell'Orso, lo invitò, con aria di mistero, a recarsi immediatamente presso il cardinale: come poi ebbe a cascare dalle nuvole quando, invece della ramanzina che s'attendeva per qualche faccenda simile a quella dei libri proibiti acquistati dal D'Harrach, gli venne consegnata una sterminata colluvie di carte e conferito ufficialmente l'incarico di trattare la questione in nome dell’imperatore d’Austria Carlo VI. La somma di lavoro, a cui per parecchi mesi si dové sobbarcare il GALIANI, è da lui medesimo, così resistente lavoratore, dichiarata enorme. Prima di tutto, relazioni su relazioni al Cienfuegos e a Vienna per fissare le richieste minime del cui accoglimento l'lmpero si potesse contentare; indi lunghe discussioni col Lambertini, che cominciavano durante la passeggiata mattutina che i due usavano fare da anni nella carrozza del futuro Benedetto XIV, e terminavano la sera nel quartierino del GALIANI all'Orso; e finalmente, dopo l'accordo su tutti i punti essenziali, la difficile stesura, scritta in collaborazione, della minuta definitiva della bolla, conosciuta poi, dalla prima parola, col nome «Fideli». Difficile, sopra tutto pel proemio, nel quale bisognava conciliare l'inconciliabile, vale a dire il punto di vista di Roma, che, non potendo sconfessare Clemente XI, voleva che la nuova bolla, anziché far menzione di quella di Urbano, apparisse come una nuova concessione, e il punto di vista di Vienna, che non voleva e poteva, per la più elementare coerenza, sentir parlare di nuova concessione, ma tutt'al più di conferma della secolare prerogativa. Circa la metà del 1727, codesta laboriosa minuta fu finita e affidata al Perrelli perché la portasse a Vienna. L'Imperatore, il primo ministro marchese di Rialp e il gran cancelliere conte di Sintzendorf la trovarono ottima; ma il Consiglio di Spagna[135], senza il cui parere non si poteva risolvere alcun affare italico, fosse effetto dell'eloquenza ultraimperialistica dei reggenti Roberto Almarz e Francesco Perlongo[136], fosse invece[137] ripicco per essere stato escluso dalle trattative, la respinse all'unanimità. E poiché non ebbe migliori risultati l'espediente di far riesaminare la faccenda a un giunta del medesimo consiglio, e cioè dal presidente conte di Montesano e dai reggenti Almarz, Perlongo, Positano e Bolaños, non restò altro ripiego che di convocare, quasi supremo tribunale d'appello, la Conferenza di Stato, composta a sua volta dal principe Eugenio di Savoia, dal marchese di Rialp, dal conte di Sintzendorf, dal conte di Starenberg e dal vicecancelliere Schonborn. La qual Conferenza, malgrado gli sforzi disperati del Giannone per fare andare per la terza volta ogni cosa a monte, ratificò la bolla, che il Perrelli, glorioso e trionfante, nonostante le forti punzecchiature degli sconfitti, s'affrettò a riportare a Roma. Non si descrivono neppure gli urli e le proteste del partito ultracurialistico quando - approvato da una congregazione di soli quattro cardinali e, pel reciso rifiuto del cardinal datario Pietro Marcellino Corradini[138], firmato dal sottodatario - il testo di essa fu reso di pubblica ragione. Né, dato il loro punto di vista, coloro che urlavano avevano tutti i torti: giacché, sia detto a onore dell'abilità diplomatica del GALIANI, chi usciva buon vincitore dalla lotta non era già la Chiesa, secondo la passione politica e la rabbia della sconfitta fecero affermare al Giannone, ma proprio l'Impero. E forse, più che contro il Lambertini - il quale, tuttavia, nominato in pectore - fin dal dicembre 1726, dové, appunto per l'affare della Monarchia, attendere fino al 1728 per essere preconizzato cardinale, e, "troppo stufò della malignità di Roma”, come scriveva all'amico GALIANI, fu lieto di andare arcivescovo ad Ancona - le ire clericali si scatenarono veementi contro il nostro Celestino: cosicché quell’onest'uomo, mentre era definito a Vienna dal Giannone e dagli ultraimperialisti "frate ignorante",bigotto superstizioso", servitore della corte di Roma e peggio, si sentì poi qualificato a Roma dagli ultracurialisti giansenista”, eretico”, scandalosamente ligio all'autorità temporale” e, anche qui, peggio, con non poco danno della sua futura carriera ecclesiastica. Pure, tra quella raffica d'ingiurie, il GALIANI restò immoto come torre; e a chi, troppo premuroso, veniva a dargli notizia di qualche nuova malignità o scioccheria diffusa a Roma sul suo conto, rispondeva che tutte codeste cose non potevano turbare chi, come lui, aveva semplicemente adempiuto al dovere elementare di "ubbidire a’superiori che Dio ci ha dati in cose di ben pubblico e conducenti a stabilire la pace tra 'l sacerdozio e l'imperio”.
VII.
Un Importante mutamento accadeva frattanto nella sua vita religiosa: Il capitolo generale della congregazione celestina, radunato, al solito, nel monastero di Santo Spirito del Morrone[139], lo eleggeva, a unanimità di suffraggi, generale dell'ordine per un triennio. Chi asserisse che l'alto onore lo facesse sussultare di gioia, mostrerebbe ancora una volta di non conoscerlo. Certo, anche gli era uomo e non angelo, e, malgrado la sua filosofia, di cui nelle loro lettere gli amici gli rimproveravano l'eccessività, qualche intima trafittura aveva dovuto pur dargli nel passato il vedere saliti molto in alto compagni di studi tanto inferiori a lui, mentr'egli restava sempre in basso loco. Ma, appunto, perché uomo nel significato vero della parola, non poteva, d'altra parte, non preoccuparsi dei gravi pesi che gli cascavano sulle spalle molto più che non s'allegrasse dei vantaggi che conseguiva. Sopra tutto lo accorava il dovere abbandonare quasi interamente gli studi e l'insegnamento, che fin allora gli avevano reso dolce e tranquilla la vita. Senza dubbio, sol che non avesse voluto muoversi da Roma, avrebbe potuto coltivare gli uni e l'altro: al che pareva lo incitasse tacitarnente la stessa corte di Roma quando lo pregò di rimanere, per quel triennio ancora, il titolare della cattedra di storia della Chiesa. Ma il GALIANI era sempre il GALIANI; e nessuna considerazione gli avrebbe fatto violare, a quarantasette anni, la legge ferrea, che s'era imposta, di compiere sempre col maggiore impegno qualunque cosa, grande o piccola, gli toccasse da fare. E già dal momento che pronunciava il fatale «mi sobbarco», aveva fissato nelle linee generali un programma tanto semplice quanto laborioso, consistente in una “visita” a tutti i conventi italiani dell'ordine: mercè la quale - pensava - si sarebbe procurata quella conoscenza diretta delle cose, che gli avrebbe consentito, da un lato, di dare sicuro riparo ai parecchi inconvenienti che si lamentavano fra i celestini - e il primo ch'egli , generale, denunziò al cardinale Anton Felice Zondadari[140], protettore dell'ordine, fu l'onnipotenza generalizia e il poco conto che, per un abuso secolare, si faceva del capitolo generale, - e, dall'altro, di provvedere al conferimento delle cariche in guisa che l'altra sua massima favorita - che il bene pubblico non fosse posposto mai all'interesse privato - non venisse violata da lui medesimo per non sicura competenza. Detto fatto, nominò suo supplente alla Sapienza il padre Federico del Giudice, e nel decembre del 1728 era già in viaggio per la Terra di Lavoro e la Puglia, prime “provincie” che si proponeva visitare. Nel fermarsi a Napoli, ove dimorò fino al febbraio del 1729 nel convento di San Pietro a Maiella, fu ricevuto con grande amabilità dal padre dei suoi discepoli prediletti, il viceré D'Harrach, col quale e col famoso Gaetano Argento[141], presidente del Sacro Real Consiglio e delegato della Real Giurisdizione, discorse non poche volte delle tante questioni giurisdizionali, che, già fonte di lotta perenne tra il Regno di Napoli e la curia pontificia, erano diventate molto più difficili a comporre da che il Giannone le aveva, al tempo stesso, popolarizzate e inasprite con la sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723) e le annesse e connesse polemiche. Il D'Harrach, nuovo al governo, assunto da lui appena nel novembre del 1728, e che serbava ancora le illusioni con cui era partito da Vienna, anelava verso un mondus vivendi che rendesse almeno non troppo tesi i rapporti fra le due potestà. Al quale scopo aveva lavorato già così bene[142] da giungere al risultato che Carlo VI e Benedetto XIII avevano commesso, l'uno all'Argento e al reggente del Consiglio Collaterale Peiry, l'altro a monsignor Paolo de Vilhana Perlas[143], fratello del marchese di Rialp e arcivescovo di Salerno, l'esame delle questioni più controverse, ch'è quanto dire quelle concernenti le tre immunità ecclesiastiche (la personale, la reale e la locale ), il regio exequatur, la consuetudine, sancita da un rito della Gran Corte della Vicaria, che i chierici in minoribus dovessero provare la loro qualità coram iudice laico, i capitoli del Regno intorno alla violenza fatta da chierici ad altri chierici o a laici, e finalmente i così detti "eccessi" del cappellano inaggiore, ossia quelle che Roma riteneva indebite inframmettenze di quel magistrato regio, e quindi, malgrado l'abito ecclesiastico, squisitarnente laico, nel foro ecclesiastìco. Senonché le cose, che erano procedute lisce fintanto s'era restati alle relazioni preliminari per iscritto, s'erano cominciate a imbrogliare non appena s'era passato alla discussione orale, da un canto perché l'Argento, rovinato da continui colpi apoplettici[144] e divenuto parecchio bigotto, non era più l’illuminato e battagliero anticurialista d'una volta; dall'altro, perché monsignor Perlas non s'era tardato a rivelare brav'uomo, si, ma tanto ignorante del diritto canonico e della teologia da incorrere molto spesso in ridicoli spropositi giuridici e in più ridicole proposizioni ereticali. Occorreva dunque rinforzare la commissione con qualcuno sicuro del fatto suo; e codesto qualcuno non parve vero al D'Harrach di rinvenire nel nostro Celestino: al quale, mentr'era a Lucera, giunse (aprile 1729) l'invito, in nome dell'imperatore e poi, a sua cauta richiesta[145], anche del papa, di recarsi nuovamente a Napoli per prendere parte a quelle conferenze. Un solo convegno ebbe la commissione intorno al letto di monsignor Perlas, abbastanza gravemente ammalato; e tutto si ridusse a verba generalia del medesimo Perlas, già catechizzato dal GALIANI, intorno alla bella virtù della concordia, e a un lungo per quanto inutile discorso dell'Argento[146], il quale, ripetendo il contenuto d'una sua consulta, già conosciuta dagli ascoltanti, propose l'istituzione d'un tribunale composto di giudici laici ed ecclesiastici, e perciò da chiamarsi misto, al quale si dovesse deferire, senza appello, qualsiasi causa desse luogo a controversie giurisdizionali. Dopo di che, l'arcivescovo di Salerno passò dalla chiesa militante a quella trionfante[147]; e, ch'è più, giunta a Roma notizia di quei negoziati, i cardinali di curia, furiosi di non essere stati consultati preliminarmente, approfittarono della temporanea dimora del papa a Benevento, per riunirsi, in oltre venti, in una tumultuosa congregazione, nella quale deliberarono l'invio d'una lettera d'impertinenenze al disgraziato Benedetto XIII[148] e rimproverarono severamente al GALIANI d'avere gravemente "disservito" la Sede apostolica. Anche di fronte a quella deplorazione e alle parecchie lettere d'ingiurie e di minacce che la seguirono, il nostro Celestino non perdé la calma. Pure, non seppe far di meno d'osservare con un sorriso canzonatorio che egli non aveva mai sentito dire che dare esecuzione a un preciso ordine non solo dell'imperatore ma anche del papa[149] significasse disservire la Sede apostolica. Che se poi - soggiungeva con un eufemismo - il papa non era dotato della necessaria saviezza, di chi la colpa se non proprio degli attuali deploratori, che lo avevano mandato quattr'anni prima sulla sedia di San Pietro? Liberato da quell’incarico, il GALIANI continuò la sua visita, girando per altri monasteri della provincia pugliese, per passare poi[150] in Abruzzo, ove trascorse l'estate e l'autunno tra i conventi di Santo Spirito del Morrone, dell'Aquila e della Maiella, e, finalmente, dopo un breve riposo a Roma[151], in quelli dell'Italia centrale e settentrionale. E quell'uomo, che sapeva trovare tempo a tutto e riuscire, quando occorresse, conversatore amabile e arguto, non si lasciò sfuggire quell'occasione per rivedere qua e là vecchi amici e conoscerne di nuovi. Ad Ancona, ov'era atteso a braccia aperte[152], fu ospite del suo Prospero Lambertini[153]. A firenze rivide e conobbe il giansenista o filogiansenista monsignor Giovanni Bottari[154], poi suo successore nella cattedra romana e custode della vaticana, nonché uno dei suoi più attivi corrispondenti; il marchese Carlo Rinuccini , fratello di quell'Alessandro[155], che, pochi anni dopo, a Napoli, doveva essere tra i suoi amici più cari e, insieme con l’altro fiorentino napoletanizzato Bartolomeo Intieri[156], iniziare l'abate Ferdinando GALIANI agli studi economici; e ancora il padre Gherardo Capassi, al cui cospetto il GALIANI non poté trattenere le lagrime, vedendolo ridotto, da quello scrittore battagliero ch'era stato ai bei tempi della polemica laderchiana, a un ottuagenario rimbecillito che riconosceva a stento gli amici. Così del pari a Livorno fu ricevuto dal barone Velluti, comandante quel presidio; a Pisa gli fecero festa il padre Grandi e gli altri professori dell'Università, tra cui, allora in fiera polemica col Grandi, Bernardo Tanucci[157], col quale poco di poi avrebbe dovuto tanto collaborare a Napoli; a Bologna non solo i Manfredi e gli Zanotti ma anche gli Aldrovandi gareggiarono a chi gli facesse maggiori onori; a Milano divise le sue visite tra le case ospitali del conte Archinto, di Giuseppe Cavalieri, del già ricordato Aguirre e anche della contessa Clelia Grilli Borromeo, che Alessandro Rinuccini in una sua lettera dipinge alquanto seccatrice, specie quando si desse aria di letterata e protettrice di letterati. Nel frattempo, moriva Benedetto XIII[158] e s'inizziava il lungo e tempestoso conclave per la successione. Se, come parve un momento, i voti si fossero concentrati sul Davia, la fortuna del GALIANI era fatta, nel senso che tutta Roma poneva un vincolo indissolubile tra l'elevamento del Davia alla tiara e quello del GALIANI alla porpora. Ma fu molto accanita la lotta che a quel dotto filogiansenista fecero i due Albani, e, più che Alessandro[159], il cardinal camerlengo Annibale[160]; quanto mai battagliero l'atteggiamento di altri cardinali antigiansenisti, tra cuì si distinse il francese Enrico Thiard de Bissy[161], che l'essere succeduto al Bossuet nel vescovato di Meaux (1704) rendeva ancora più ridicolo nella sua ignoranza perfino in grammatica latina[162]: tanto che, per finirla, si ricorse a una delle consuete transazioni, scegliendo, per consiglio dello stesso Davia, che seppe essere generoso verso uno dei suoi avversari, il vecchio cardinale Lorenzo Corsini[163], il quale, come si sa, assunse il nome di Clemente XII[164]. Personalmente, il nuovo papa - quantunque suo teologo e favorito fosse stato quel padre Pieri che aveva denunziato alla Congregazione dell'Indice le tesi galianee, e poi, appoggiato dal suo protettore, mosso cielo e terra per conseguire nel 1718 la cattedra di storia della Chiesa, conferita invece al nostro Celestino - non aveva nulla contro il GALIANI. Né lo vedeva di cattivo occhio il nuovo cardinal nepote Neri Corsini[165], il quale , l'anno dopo, gli fece scrivere apertis verbis da monsignor Valenti-Gonzaga che, per avere il cappello cardinalizio, sarebbe bastato al GALIANI, il quale non ne volle fare nulla, indurre il viceré di Napoli D'Harrach a un concordato vantaggioso per la Santa Sede. Anzi tra l'altro nipote del papa, il principe Bartolomeo[166], e il GALIANI correva un'amicizia da pari a pari, divenuta più stretta e cordiale quando, quattr'anni dopo (1734), esso principe si fissò stabilmente nell'Italia meridionale, quale cavallerizzo maggiore di Carlo di Borbone, poi viceré di Sicilia e finalmente somigliere del corpo. Senza dire, per ultimo, che amico affettuoso e deferente del nostro Celestino restò il Leprotti, anche dopo che, vestito l'abito talare e insignito del titolo di monsignore e della carica di medico segreto del papa (1730), divenne confidente sempre più ascoltato di Clemente XII, il quale, sebbene asserito dai cardinali anelanti alla successione perennemente moribondo, dové proprio alle cure di quel valente medico se poté reggere la Chiesa per un decennio. Ma, in generale, il sopravvento preso nel Sacro Collegio dai barbetti o barboni, secondo dai moderati erano detti scherzosamente i cardinali antigiansenisti e ultracurialisti, non rendeva il soggiorno di Roma troppo gradito a chi, come il GALIANI e i suoi amici, professasse opinioni, se non opposte, certo molto diverse. Il Cerati, già poco benvisto da Benedetto XIII per essersi nel conclave del 1724, in cui fu conclavista, maneggiato troppo apertamente pel Davia, s'andava preparando quella comoda nicchia di priore dei Cavalieri di Santo Stefano, che, pochi anni dopo, col titolo di monsignore, ebbe nella sua patria Pisa; il Niccolini anelava di tornare alla sua Firenze, ove, morto il suo maggior fratello, finì con lo stabilirsi per attendere all'educazione dei suoi orfani nipoti; e anche il GALIANI non sarebbe stato troppo scontento se, allo spirare del suo generalato, si fosse convertita in realtà la speranza, fattagli balenare dal D'Harrach, che Carlo VI lo designasse successore di monsignor Perlas nell'arcivescovato di Salerno, che, alla medesima guisa di quello di Taranto, era di collazione regia. Senonché intrighi viennesi fecero ricadere la scelta su Giuseppe Maria Positano, vescovo di Matera e fratello del già ricordato reggente del Consiglio di Spagna, e, alla morte di lui[167], su monsignor Fabrizio di Capua: sicché tutto ciò che poté fare il D'Harrach fu di collocare il GALIANI primo nella terna proposta a Vienna per ricoprire la sede di Taranto, lasciata vacante dal di Capua. Non mancò un’aspra lotta tra il vicerè e il cardinal Cienfuegos, che sosteneva a spada tratta il padre Matteo Parete-Basile[168], generale dei Minori Osservanti e divenuto nel settembre del 1731 arcivescovo di Palermo: tuttavia, quella volta la vittoria arrise al D’Harrach, che nel marzo del 1731 inviava all'amico la cedola di collazione firmata dall'imperatore. Conforme l'uso, l'arcivescovo designato, prima d'essere preconizzato, dové sottoporsi a un pubblico esame di teologia alla presenza del papa. La commissione esaminatrice fu la più ostile che gli potesse toccare: presidente il cardinal Cienfuegos, che non aveva digerito ancora la stizza per la recente sconfitta, e “argomentatori” il gesuita leccese Ignazio Guarini[169], dal 1721 insegnante di teoiogia polemica a Roma, poi (1739) trasferito in Germania, ove morì a Dresda, e il portoghese Giuseppe Maria de Fonseca Evora[170] dei Minori Osservanti[171], indi (1741) vescovo di Oporto. E quanto fosse perfida la tesi di esame, proposta appunto dal Guarini - Utrum gratia sufficiens detur omnibus - mostra il fatto che una risposta affermativa non poteva, senza contradizione sfacciatamente opportunistica, essere data dal GALIANI, che aveva pubblicamente insegnato l'opposto; e una risposta negativa avrebbe fatto montare in collera l'impetuoso Cienfuegos, il quale, come si conosceva da tutti, nutriva l’errato ma fermo convincimento che, dopo la condanna delle cinque proposizioni del Giansenio, non si potesse sostenere la possibilità dell'insufficienza della grazia senza incorrere in eresia. Ma il campione, con cui aveva da fare la commissione, era troppo valente e adusato a siffatte schermaglie teologiche da lasciarsi porre nel sacco. E fu tale la colluvie di testi di santi padri e teologi che il GALIANI addusse a sostegno dell'opinione che aveva sempre professata, tanta l'eloquenza e la sottile ironia con cui la ragionò, che il Guarini fu ben presto ridotto al silenzio, e il Cienfuegos, esasperato, oltre che, durante l'esame, contorcersi sulla poltrona, battere ogni tanto le mani e dare grandi colpi sul tavolino, annunciò poi che avrebbe scritto a Vienna in termini forti per impedire che l'arcivescovato di Taranto fosse conferito a un "giansenista" così acceso. Per prevenire il pericolo, il GALIANI si recò a visitarlo, e, avendolo trovato con una ventina di testi sulla scrivania, sostenenti che gratia datur omnibus, lo invitò a passare nella sua stessa biblioteca, ove gliene avrebbe mostrato per lo meno quaranta che affermavano l'opposto. Caparbio, il Cienfuegos non volle né tentare la prova né confessarsi vinto; ma dovette pure arrendersi all'evidenza quando, il giorno dopo , il papa, che s'era divertito un mondo a quella scena inconsueta in tal sorta di esami, gli fece recapitare alcune tesi a stampa, sostenute qualche anno a dietro in San Marco di Firenze da un discepolo dell'allora domenicano, poi cardinale Giuseppe Orsi[172], prima delle quali era precisamente che Gratia sufficiens non datur omnibus. Venne dunque la preconizzazione papale in pubblico concistoro; venne la bolla pontificia, costata al Guarini circa mille scudi romani, che fu costretto a prendere in prestito; venne la consacrazione, celebrata dal cardinal Zondadari; venne il giorno in cui a Santo Spirito del Morrone il nostro Celestino consegnò il governo dell'ordine nelle mani del suo successore[173]; e venne finalmente l'altro[174], in cui, dato addio, con le lagrime agli occhi, al bel quartierino all'Orso e alla città eterna, bisognò muovere verso Napoli insieme con l'abate Giovanni Ernesto d'Harrach, partito apposta di colà per condurre con sé l'antico maestro. Particolare notevole: la maggior parte del bagaglio del nuovo arcivescovo consisteva in grosse casse di libri, sola ricchezza ch'egli fosse riuscito ad accumulare nei trent'anni del suo operosissimo soggiorno romano.
VIII.
Le attribuzioni accentrate durante quattro o cinque secoli nelle mani del cappellano maggiore del Regno di Napoli erano divenute nel Settecento così numerose, delicate e importanti da rendere quell'ufficio quasi più complicato d'un odierno ministero. Prima d'ogni altro, il cappellano maggiore era non solo il grande elemosiniere del re[175] e, in quanto tale, capo della cappella palatina, ma a lui era deferita altresì la suprema giurisdizione ecclesiastica sulle cappelle regie, sui castelli, sulle fortezze, sulle galere, sulle milizie di terra e di mare, su quanti, insomma, in un modo o nell'altro, si trovassero al servigio diretto del re. Né a questa così ampia autorità spirituale era inferiore quella temporale. Vero e proprio magistrato giudicante, egli, assistito da un consultore o assessore laico, da un segretario e da un mastrodatti o cancelliere - ufficiali che formavano la sua curia - conosceva in nome del re, e quindi quale giudice laico, di parecchie e non mai bene determinate categorie di controversie relativa a ecclesiastici[176]; giudicava delle cause riferentisi ai diritti, privilegi e rendite delle chiese o cappelle regie e alla reddizione di conti dei regi economi; e finalmente sentenziava su qualsiasi competizione giudiziaria, civile o penale, dei chierici e cappellani regi. A lui inoltre spettava, da un lato, riferire d'ufficio, insieme col suo consultore, sulla concessione del regio exequatur alle bolle, brevi, motupropri e a qualunque provvisione venisse da Roma e su quella del regio assenso[177] alle regole delle congregazioni laicali; e, dall'altro, di dare pareri o consulte su affari politici e amministrativi della più varia indole, e particolarmente sui meriti o demeriti dei promovendi ai vescovati o ad altri benefici di collazione regia. E finalmente il cappellano maggiore era anche prefetto dei Regi Studi: ragion per cui gli erano devolute la suprema autorità amministrativa, disciplinare e, in tarda epoca, anche giudiziaria sui professori e studenti dell'Università di Napoli; la presidenza di tutte le commissioni di concorsi a cattedre universitarie; la nomina dei sostituti a quelle temporaneamente vacanti; l'iniziativa di qualunque riforma organica; e per ultimo, dal 1735 in poi, la censura preventiva della stampa, esercitata fino a quell'anno direttamente dall'allora abolito Consiglio Collaterale. Eppure una carica che, a prescindere dall'ingegno e dalla dottrina, richiedeva operosità ed energia affatto giovanili, era nel 1731 affidata ancora a monsignor Diego Vincenzo Vidania, nato a Huesca cento anni prima: circostanza che mostra da sola come quell'uomo, che aveva pur dato prova di onesta energia nell'ufficio di inquisitore, esercitato lungamente in Ispagna e in Sicilia, e di capacità e di sapere, particolarmente giuridico, nei primi decenni della sua cappellania maggiore, conferitagli nel 1698, ora non potesse fare altro che apporre una tremolante e per lo più inconscia firma a qualunque carta gli si presentasse. Gl'inconvenienti sarebbero stati meno gravi qualora avessero circondate il Vidania persone oneste e capaci. E. per mettergliene accanto almeno una, fin dal 1728 il cardinal Cienfuegos, allora in un momento di tenerezza verso il GALIANI, aveva proposto quest'ultimo a Carlo VI quale coadititore con futura successione del Vidania. Ma a Vienna, malgrado qualche lontano precedente, era parso pericoloso conferire una carica, il cui titolare doveva competere troppo spesso con la curia papale, a chi, come il GALIANI, aveva la duplice qualità negativa d'essere frate e suddito d'elezione, se non di nascita, del papa: sicché arbitri della cappellania maggiore erano restati, come prima, il prete spagnuolo Michele Lapegna e il curiale napoletano Antonio Montuori, l'uno segretario, l'altro mastrodatti del Vidania, i quali, approfittando della sempre più accentuata sua decadenza mentale, facevano con isfacciataggine sempre maggiore ciò che del resto si faceva molto più in grande a Vienna, ossia vendevano tutto all'incanto. I canoni, per esempio, prescrivevano che nessuno potesse ricevere gli ordini sacri se non dal proprio vescovo, il quale, come moralmente responsabile, era da presumere ponesse tutto l'accorgimento a impedire che persone indegne divenissero ministri del Signore? Ebbene, qualsiasi chierico, al quale ignoranza e dissolutezza facessero negare dal vescovo competente l'ordinazione, ricorreva al Lapegna e al Montuori, e a suon di quattrini riceveva una "dimissoria", cioè il permesso di farsi ordinare a quocumque. Ancora e peggio: gli stessi canoni stabilivano che nessun prete o chierico si potesse sottrarre alla giurisdizione, allora anche temporale, del legittimo ordinario? Ebbene, chiunque trovasse troppo molesta la giurisdizione vescovile sborsava a quei valentuomini dieci, venti, cinquanta e perfino cento ducati: dopo di che, gli veniva concessa una patente di chierico o cappellano regio "straordinario" e, con ciò, la facoltà di andare birboneggiando pel Regno, senza che nessun giudice né laico né ecclesiastico, salvo il cappellano maggiore[178], gli potesse torcere un capello. E codesti cappellani regi straordinari, tutti, quale più quale meno, fior di canaglia, secondo afferma il GALIANI, che ebbe a fare poi la loro non gradita conoscenza, erano saliti in pochi anni a seicento. Figurarsi se a quei due ladroni di strada maestra, intenti soltanto a far quattrini di tutto, anche della spedizione delle bolle di nomina a qualche beneficio[179], passasse pel capo d'occuparsi e preoccuparsi dell'Università di Napoli, ch'era allora in assoluto sfacelo. Le lezioni, fin dal 1701, quando, a causa di momentanee esigenze militari determinate dalla repressione della così detta congiura di Macchia[180] occorse sgombrare il magnifico palazzo degli Studi costruito dal secondo duca di Lemos[181], avevano luogo nel monastero di San Domenico Maggiore[182] Il che significava, da una parte, che una quindicina o meno di studenti bastava a riempire ciascuna di non più che quattro o cinque più celle che aule, mentre gli altri venivano tacitamente invitati a far chiasso nei chiostri; e, dall'altra, che il continuo squillare delle grosse campane della chiesa attigua e le frequenti processioni dei monaci togliessero a maestri e discenti la poca voglia che avessero d'insegnare e d'apprendere. Della solenne inaugurazione dell'anno scolastico (18 ottobre) e della prolusione di rito, da pronunziare, secondo la consuetudine, dall'insegnante di retorica - consuetudine a cui s'erano dovute dal 1699 al 1707 le così dette Orazioni inaugurali del Vico, e poi ancora, nel 1719, quella in cui egli annunziò per la prima volta al pubblico le grandi scoperte della futura Scienza Nuova - non si parlava, a quanto pare, precisamente dal 1719. Da anni altresì veniva trascurata la pubblicazione del calendario: onde era accaduto non solo che i professori facessero terminare l'anno scolastico con la settimana santa[183] e si esimessero dalle lezioni nelle innumeri feste e festicciuole civili e religiose del tempo, ma che si ritenesse proficuo l'anno in cui i giorni di scuola raggiungessero la sessantina. Con quanto zelo, poi, i professori, non più sorvegliati, compissero il loro dovere si può scorgere dal fatto che nella cattedra di anatomia non si facevano più esercitazioni pratiche: tanto che, come nel 1732 il GALIANI scriveva al marchese di Rialp, da quindici anni non si sezionava un cadavere e in tutto il Regno non v'era più un chirurgo capace di mettere a posto un osso. Che dire poi della pessima distribuzione delle cattedre, dell'iniqua sproporzione tra gli stipendi e delle stridenti ingiustizie che s'avveravano nei concorsi? C'era, per esempio, un'inutile cattedra di teologia scotistica per non far dispiacere ai francescani, che ne avevano il monopolio; ce n'erano due di filosofia tomistica, una delle quali, riconosciuta concordemente superflua, non s'aboliva per non far gridare i domenicani; e mancavano una cattedra di storia della Chiesa[184] e perfino un gabinetto di fisica. Si vedeva, inoltre, un professore di diritto civile della sera retribuito con lo stipendio, per quei tempi enorme, di mille e cento ducati l'anno[185], mentre al disgraziato titolare di rettorica o, per dirla alla moderna, di letteratura italiana, ch'era poi Giambattista Vico, si faceva appena l'elemosina di cento ducati, e ad altri a dirittura di ottanta e perfino di cinquanta[186]. Né infine le commissioni di concorso, quanto mai pletoriche talora dal coprirsi di gloria imperitura, come, per esempio, nel 1723 aveva fatto quella che, divenuta nella sua maggioranza docile strumento della prepotenza del viceré cardinal d'Althann, aveva con non poco scandalo conferita la cattedra dì diritto civile della mattina, compensata con seicento ducati[187], a un mero ciarlatore qual era un Domenico Gentile da Bari[188], rimandando indietro, neppur classificato, precisamente il Vico, da cui s'era ingenuamente creduto che venticinque anni di assiduo insegnamento e un'opera giuridica del valore del Diritto universale[189] fossero titoli sufficienti per ottenere nella propria università quella più vantaggiosa sistemazione economica che la lotta quasi quotidiana col bisogno lo aveva costretto a chiedere. Codeste lamentele divennero argomento favorito delle frequenti conversazioni tra parecchi napoletani e il nostro Celestino, dopo che, giunto a Napoli il 25 giugno 1731, dové trattenervisi nel convento dell'Ascenzione tutta l'estate, per provvedere, con mille ducati prestatigli da Alessandro Rinuccini, i mobili che mancavano affatto nel palazzo arcivescovile di Taranto, e poi, per quello ch'era chiamato allora il pericolo della mutazione dell'aria, anche l'autunno. Visitatori d'ogni condizione sociale, tra cui mette conto di ricordarne due. L'uno fu il Vico,

Giovan Battista Vico
           Filosofo

il quale allora donò al GALIANI un esemplare, gremito di postille autografe, della seconda Scienza nuova, pubblicata alla fine del 1730, e, nel dedicare, nel 1731, al primo dei giovani D'Harrach la traduzione italiana della Sifilide fracastoriana, compiuta dal medico Pietro Belli, ricordò così d'aver trovato accanto al GALIANI i due D'Harrach, come d'aver discorso con l'abate Giovanni Ernesto intorno al diritto naturale insegnatogli da monsignor Celestino e alla prima Scienza nuova, veduta dal discepolo presso il maestro. L'altro fu il padre stesso di quei giovani, ossia il Viceré D'Harrach, il quale, e in quelle visite e le non poche volte che il GALIANI fu suo convitato a Palazzo reale, divenne così insistente nel battere e ribattere sulla necessità che la cappellania maggiore fosse retta in tutt'altro modo, che al GALIANI sfuggì di bocca che nel 1728, quanta era stata la sua gioia nell'apprendere che il Cienfuegos si maneggiava per fargli avere la coadiutoria di quell'ufficio, altrettanto era restato dolente quando gli era conferita l'impossibilità della cosa, e che, anche ora, quantunque più che soddisfatto dell'arcivescovato tarantino, continuava forse a vedere in sé più la stoffa d'un prefetto degli studi che un pastore d'anime. Era una confidenza da amico ad amico: tuttavia bastò perché di lì a poco la vita del nostro Celestino ricevesse indirizzo del tutto diverso. Proprio allora la corte di Vienna, accogliendo la domanda presentata alcuni anni prima dal Vidania, s'era risoluta a collocarlo a riposo con interi i suoi molti e vari emolumenti. Per qualche giorno si disse che la successione sarebbe toccata all'abate Biagio Garofalo. Da che, testimoniate da una lettera del cardinal Neri Corsini al GALIANI , grandi apprensioni della corte di Roma, la quale ben conosceva che l'anticurialismo di cui il Garofalo aveva già dato saggi durante la sua dimora romana, s'era rinfocolato da quando, fissatosi quasi stabilmente a Vienna, s'era legato in grande amicizia con Pietro Giannone. Effettivamente, per altro , candidato favorito del Consiglio di Spagna, ma inviso al D'Harrach, era l'abate Positano, altro fratello dei due Positano precedentemente ricordati e che, protetto altresì dal principe Eugenio di Savoia, divenne occasione d'un vivo armeggiare tra Napoli e Vienna. La quale, col respingere in blocco, perché non includente il Positano, la terna di rito presentata dal viceré, lo indusse, nel l'irritazione, a interpretare a suo modo la confidenza fattagli dal GALIANI e a scrivere direttamente a Carlo VI[190] che, dal momento che nessuno dei tre proposti era ritenuto degno della carica, sola persona capace di rimettere in moto la barca sdrucita della cappellania maggiore era il nuovo arcivescovo di Taranto. L'impressione del nostro Celestino quando il decreto di nomina, giunto a Napoli il 10 decembre 1731, gli fu portato per istaffetta a Trani - ove, partito da Napoli per Taranto il 6 decembre, s'era fermato qualche giorno presso il suo minor fratello Matteo, allora titolare di quella "udienza" - fu non tanto di maraviglia[191], quanto di perplessità e scontento. Certamente, il suo sogno di due o tre anni addietro diveniva realtà. Ma a quel sogno, ormai, aveva rinunziato; e poi il dover prendere immediato possesso della carica faceva cadere in franturni tutto un programma di fervente operosità lungamente meditato e accarezzato durante l'intermezzo napoletano. Cosa tanto più dolorosa in quanto c'era non poco amore pel natio loco in tre suoi magnifici disegni: di creare, cioè, nell'allora ignorante Puglia un centro di studi mediante la trasformazione del seminario arcivescovile di Taranto in una piccola e ben regolata università, ov'egli, il già ricordato Giovanni Bianchi e altri amici d'ogni parte d’ltalia, coi quali era già in trattativa, avrebbero insegnato, a tutte spese della ricca mensa arcivescovile, storia della Chiesa, filosofia cartesiana, filologia classica, scienze matematiche, fisiche e naturali; di tentare, inoltre, di debellare l'altra piaga pugliese del pauperismo mercé l'istituzione d'un grande ospizio tarantino con annessa scuola di arti e mestieri; e di dare, infine, l'esempio più unico che raro d'un arcivescovo che dirigesse personalmente (e con quanta competenza!) i lavori di scavamento del porto di Taranto e la bonifica di quella fonte perenne di malaria ch’erano le paludi circostanti alla città. Per ultimo[192], se tre anni addietro la semplice coadiutoria della cappellania maggiore era per lui un bel salto, ora, per contrario, gli si chiedeva un sacrificio tutt'altro che lieve invitandolo a rinunziare a un arcivescovato non troppo esteso, tranquillo, facile a governare, non revocabile da alcuno e fornito d'una mensa che, amministrata come egli sapeva amministrare, poteva rendere[193] circa diecimila ducati l'anno (42.500 lire oro), per impegolarsi in un ufficio pieno di triboli e di spine, revocabile ad nutum dell'autorità politica, e i cui proventi, tra stipendi, benefici annessi e diritti, non superavano i tremila ducati[194]. Ma, d'altra parte, come dire di no alle insistenze che gli pervenivano via via non solo da Napoli e da Vienna, ma perfino da chi era molto vicino al papa, ossia dal cardinal Neri Corsini, a cui, per timore del peggio, non sembrava vero che la cappellania maggiore fosse conferita a chi, pur pencolando forse teoricamente verso l'anticurialismo, s'era per lo meno mostrato sempre nella pratica un "moderato d'animo retto e privo d'ambizioni personali? E, sopra tutto, come resistere a una voce interna, che gli diceva che le considerazioni ora esposte erano tutte egoistiche e utilitarie, e che il suo solo e preciso dovere consisteva appunto nel sacrificare pace, tranquillità, agiatezza e studi alla pubblica felicità, alla quale la Provvidenza, per ripetere ancora una volta una parola a lui molto cara, gl'imponeva oggi di collaborare, non nella misura relativamente esigua che avrebbe potuto a Taranto, ma nell'altra, tanto più ampia, che gli era riservata a Napoli? Con un sospiro di rimpianto si sobbarcò dunque al grave pondo. Pure, non volendo assumere il nuovo ufficio senza avere almeno conosciuto il gregge di cui non gli era più concesso d'essere pastore, si recò ugualmente a Taranto, ove, tutt'intento alle fatiche arcivescovili, dimorò dal 12 decembre 1731 al 22 gennaio 1732. Indi, tornato a Napoli[195], preso possesso della nuova carica (9 febbraio), rinunziato all’arcivescovato tarantino (31 marzo) e insignito poco di poi[196] di quello titolare di Tessalonica, volle, sopra tutto in quei primi tempi, non essere altro che cappellano maggiore. E cappellano maggiore dal pugno di ferro. All'Università, purtroppo, non si poteva provvedere se non in un secondo momento, e mediante un'elaborata riforma organica, ch'egli del resto cominciò immediatamente a preparare, contentandosi per ora di por rimedio a qualche abuso troppo scandaloso e tornare a qualche buona consuetudine intermessa per ignavia, come, per esempio, alla pubblicazione del calendario e dei ruoli dei professori ordinari e straordinari e al ripristino della solenne inaugurazione dell'anno scolastico: tanto che il 18 ottobre 1732 essa ebbe luogo con pompa ormai dimenticata, non senza che, per espresso invito del nuovo cappellano maggiore e alla presenza di lui e delle più alte autorità governative e cittadine, si rivedesse, come tanti anni a dietro, risalire sulla cattedra, per la prolusione di rito, Giambattista Vico, il quale compose per la circostanza il sublime De mente heroica, che il GALIANI, mentovato nell'esordio, fece stampare a spese pubbliche. Ciò che, per contrario, si poteva fare su due piedi era la riforma della stessa curia del cappellano maggiore. E fu fatta. Il Lapegna e il Montuori messi alla porta, e il secondo sostituito nella mastrodattia dall'onesto Antonio Pescarini; gli scandalosi diritti di cancelleria percepiti fino allora per le patenti dei cappellani regi, ridotti inesorabilmente alla misura regolamentare di soli cinque carlini[197]; cento cappellani straordinari, scelti tra i più facinorosi, destituiti e mandati a far penitenza sotto i vescovi rispettivi; altri cinquecento liquidati allo stesso modo nel corso di poco più che sei mesi: sembrava che il placido cielo napoletano fosse sconvolto da un ciclone, indispensabile, del resto, per rendere tersa quella stalla d'Augia ch'era divenuta la cappellania maggiore. S’Immaginino gli urli, le ingiurie, le minacce, le lettere anonime e la valanga di reclami da cui furono seppellite le cancellerie di Napoli e di Vienna. Il cappellano maggiore venne accusato perfino di trescare segretamente con Roma, che gli avrebbe dato l'incarico [198] di distruggere la “regia giurisdizione"; e ciò, al tempo stesso che alcuni "barbetti" romani, aizzati da delazioni da chi era intorno all'onesto ma vecchio e debole cardinal Francesco Pignatelli[199], arcivescovo di Napoli, e, in particolar modo, dal canonico Giulio Niccolò Torno[200], arbitro dell'arcivescovado napoletano, empivano le orecchie del papa e del cardinal Neri Corsini contro il GALIANI, che, appena giunto a Napoli, si sarebbe messo a fare il giansenista, l’eretico, l’ateo, anzi,peggio, il discepolo di Costantino Grimaldi, chiudendo tutti e due gli occhi su qualunque sorta di libri s'introducesse a Napoli dall'Inghilterra e dall'Olanda, e tollerando che i cervelli vulcanici napoletani trovassero pabolo in quel vaso di tutte le iniquità che sarebbe stato il Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke. E se quell'uomo di buon senso e brav'uomo di Clemente XII, malgrado il fondo di vero di queste ultime accuse, s'accontentò delle parole che in difesa del GALIANI andò a dirgli espressamente il cardinal Davia, e soggiunse anzi di conoscere troppo la rettitudine e religiosità del nuovo cappellano maggiore da non essere sicuro ch'egli sapesse conciliare sempre i doveri della sua carica con quelli di suddito spirituale di Santa Romana Chiesa; a Vienna, invece, già dimentichi di quanto il GALIANI aveva fatto per la questione della Monarchia, si credé sul serio che il cappellano maggiore si fosse messo a curialisteggiare, e il marchese di Rialp gli ordinò di presentare personalmente le sue giustificazioni al viceré. Ma il nostro Celestino, punto permaloso, prese la cosa a riso, e domandò, celiando, al D'Harrach se per caso la real giurisdizione s'identificasse nella concessione dell'impunità a una pretaglia ubbriacona, giocatrice e bordelliera, oppure nell’imposizione al cappellano maggiore di venir meno al proprio dovere. Parole a cui il viceré non poté rispondere se non col fare a quell'onest'uomo le più ampie scuse, col continuare a lasciargli la maggiore libertà d'azione e con l'esortarlo a condurre presto a compimento la riforma dell'Università, di cui ora appunto conviene discorrere.
IX.
Riformare radicalmente l'Università napoletana era tanto più necessario in quanto, anche a prescindere dagli inconvenienti dovuti a torti e debolezze di uomini, ce n'era, e di maggiori, cagionati da antiquatezza di ordinamenti. Giacché, avendo la reazione contro tutto ciò che s'era fatto a Napoli durante i sette anni di regno di Filippo V indotto nel 1707 il governo austriaco ad abrogare una già per se stessa insufficiente riforma compiuta dal Vidania nel 1703, s'era tornati nientemeno allo statuto organico che il secondo conte di Lemos aveva esemplato nel 1616 su quello dell'Università di Salamanca. I capisaldi delle due lunghe consulte sull'argomento preparate dal nostro Celestino lungo il 1732, e presentate alla fine di quell'anno all'approvazione del Consiglio Collaterale, si possono assommare nei capi che seguono:
1. Immediato ritorno dell'Università al Palazzo degli Studi;
2. Abolizione di alcune cattedre duplicate o inutili;
3. Istituzione, per converso, di nuove cattedre richieste dalle progredite condizioni della cultura, e cioè di Diritto municipale, di Diritto naturale, di Botanica e chimica, di Fisica sperimentale, di Storia della Chiesa e controversie dommatiche, di Lingua ebraica, di Astronomia, e sdoppiamento di quella di Anatomia e chirurgia;
4. Minore sproporzione fra gli stipendi, da conseguire, per altro, non con la diminuzione dei più alti, ma con l'elevazione, proporzionata all'importanza delle singole cattedre, dei più bassi;
5. Assegnazione di premi pecuniari annui ai professori più valenti ed operosi;
6.  Idoneo aumento dei 7000 ducati annui[201], ch'era ancora la miserrima dotazione dell'Università;
7. Avocazione a questa del conferimento delle lauree, largite, senza garanzie sufficienti, dai vari collegi di dottori di Napoli e di Salerno;
9. Riforma delle commissioni di concorso e della procedura relativa;
10. Abolizione di tutte le feste di non istretto precetto;
11. Prolungamento dell'anno scolastico[202] fino a tutto il 30 giugno.
 Un disegno, dati i tempi, magnifico e che, attuato integralmente[203], avrebbe, sotto la guida intelligente ed energica di chi lo aveva concepito, condotto l'Università napoletana al livello delle più celebrated’Europa. Ma, purtroppo, le opposizioni cominciarono nel seno stesso del Collaterale, spaventato dall'aumento, pur tenue, della spesa, dallo strepito che avrebbero fatto i frati per l'abolizione delle cattedre di loro pertinenza e, al tempo stesso, dalle altre brighe, oltre le parecchie che s'avevano già con Roma, qualora il titolare dell'istituenda cattedra di Storia della Chiesa avesse, come sarebbe stato suo dovere, discorso delle controversie giurisdizionali da un punto di vista laico. Erano tutte vane ombre: ma, tant'è, il viceré D'Harrach, come per legge, dové inviare a Vienna, insieme con le proposte del GALIANI, anche quella sorta di obiezioni. Il nostro Celestino, che conosceva bene in qual guisa si trattassero lassù gli affari italici, s'era già premunito, non solo con l'interessare vivamente i suoi amici Biagio Garofalo, Bernardo Lama e Pio Niccolò Garelli, molto influenti sul marchese di Rialp e sullo stesso imperatore[204], ma anche, dimentico delle insolenze dettegli dal Giannone durante le dispute per la Monarchia, col fargli scrivere caldamente dal comune amico e illustre medico e professore napoletano Niccolò Cirillo[205]. Precauzione non inutile, giacché, dopo che il Consiglio di Spagna, come si prevedeva, ebbe fatto scempio della riforma, l'esarne delle consulte del GALIANI, delle osservazioni del Collaterale e del voto del Consiglio stesso fu affidato dal Rialp al Garelli e al Lama, i quali, aggregatisi il Giannone, lo incaricarono di stendere un Parere[206] cui la riforma, pur qua e là criticata, ritoccata e talora guastata[207], restava per lo meno salva in taluni punti essenziali. Ma a che pro, se il Consiglio di Spagna, quando l'affare gli fu ripresentato per la risoluzione definitiva, non volle concedere altro che il ritorno dell'Università al Palazzo degli Studi? E si fosse almeno potuto far presto! Per contrario, il nuovo viceré G Visconti, latore del decreto imperiale relativo, non giunse a Napoli se non nel luglio del 1733, quando vi giunse, cadde così gravemente ammalato che il GALIANI, divenuto suo confessore, più che dell'Università, dové parlargli della vita d’oltretomba; quando, migliorato, dié gli ordini necessari, il colonnello del reggimento Marina, acquartierato nel Palazzo degli Studi, per non perdere i sessanta ducati mensili che gli rendeva una di quelle aule fittata a bettola, giurò e  spergiurò che mandar via i suoi soldati significava rendere l'intero rione più pericoloso del vallo di Bovino; quando il GALIANI chiese braccio forte, trovò in tutti gli ufficiali napoletani, a cominciare dal comandante in capo maresciallo Giovanni Carafa[208], altrettanti fervidi avvocati del suo avversario: breve, se non fosse scoppiata la guerra di successione polacca[209], se Carlo Borbone, alla testa delle truppe franco-ispane, non avesse marciato alla riconquista del Regno[210], e se, all'appressarsi dell'invasore, quasi tutte le truppe napoletane, compreso il reggimento Marina, non avessero evacuato la capitale per ritirarsi in Puglia, del Palazzo degli Studi il nostro Celestino non avrebbe visto nemmeno lo scalone. Il 3 aprile 1734, dunque, mentre il viceré, il Carafa e i soldati lasciavano Napoli con una celerità che sembrava fuga, il Cappellano Maggiore, circondato dalla sua curia, prendeva in forma solenne, possesso dell'edificio. Ma appena vi penetrò, ebbe a mettersi le mani nei capelli. Un tanfo, un lezzo, una lordura da produrre uno svenimento. E poi né una sedia, né una panca, né un tavolino: nient'altro che i muri grezzi, e anche questi mezzo infradiciati da trent'anni di piogge, giacché nel 1703, per risparmiare qualche migliaio di ducati nella nuova copertura d'una cavallerizza al Ponte della Maddalena, s'era tolto il tetto dell'attuale "gran salone". Dove mai trovare il denaro[211] per ridurre quel casale saccheggiato a università? Ma - disse vichianamente tra sé e sé il nostro Celestino - la Provvidenza, che per vie così insuete gli aveva fatto avere l'edificio avrebbe pensato al resto. E la Provvidenza, sotto le non belle sembianse del futuro re di Napoli, era già in cammino. Fin dal 10 aprile, infatti, Carlo di Borbone giungeva ad Aversa, ove stabiliva la sua corte, in attesa che la più che facile espugnazione dei castelli napoletani gli consentisse l'ingresso nella capitale. I soliti zelatori del bene pubblico, dei quali c'è tanta abbondanza in qualsiasi rivolgimento politico, s'affrettarono a divulgare che l’austriacante Cappellano Maggiore, anziché condurre in porto la riforma, avrebbe avuto un non cerimonioso benservito. Uno, anzi, più officioso degli altri[212], volle anche facilitare la cosa, correndo ad Aversa a denunziare il GALIANI di austriacantismo a un grave personaggio, che con molta probabilità era l'ex aio e alter ego del giovine principe, cioè don Emanuele Benavides conte di Santostefano. Il denunziatore, per altro, non aveva previsto che il nostro Celestino, recatosi con non troppa furia ad Aversa insieme col suo Bartolomeo Intieri, alla contestazione di quell'accusa avrebbe risposto, senza né timidezza né iattanza, che, come nel trent'ennio romano, così anche ora una cella, una scrivania, alcuni libri e pochi amici sarebbero bastati a rendergli lieta la vita. E che quella fosse la risposta buona e, insieme, che i suoi servigi fossero troppo necessari perché il nuovo governo pensasse a privarsene, mostra la circostanza che, fatto segno alla maggiore deferenza dal Santostefano, dal Montealegre, dal principe Bartolomeo Corsini e dal Tanucci, l'arcivescovo di Tessaionica fu senz'altro confermato nella carica. la quale, specie dopo l'ingresso di Carlo Borbone a Napoli[213] e la sua proclamazione a re autonomo[214], divenne un calvario. Funzioni sacre a non finire, durante le quali il cappellano maggiore non doveva scostarsi un palmo dal re per porgergli l'acqua santa e ritirare, secondo un complicato cerimoniale, la torcia; giuramento di fedeltà dei baroni,ai quali il cappellano maggiore, alla presenza del re, era tenuto a presentare singolarmente il Vangelo; quasi quotidiani pranzi di gala a corte, ai quali al cappellano maggiore toccava partecipare in cappa magna per recitare il Benedicite; interminabili questioni di precedenza tra la cappella palatina e il capitolo del Duomo, per le quali erano deferiti al cappellano maggiore spinosi e noiosi giudizi arbitrali; e, quasi tutto ciò non bastasse, e non bastassero le consulte da scrivere a tambur battente sui più vari oggetti[215], una continua assistenza al nuovo delegato della Real Giurisdizione, duca Giuseppe Borgia, mostratosi, all'atto pratico, così imperito nelle questioni giurisdizionali, che convenne porgli subito ai fianchi l'esperto cappellano maggiore e lo stesso ministro di giustizia Tanucci. Soltanto dopo la temporanea partenza del re Carlo per la Sicilia[216], il nostro Celestino, libero da quelle cerimonie ufficiali ch'erano il suo supplizio, poté consacrarsi toto corde alla riforma universitaria, della quale, fin dall'aprile del 1734, ad Aversa, aveva mostrato al Santostefano l'urgenza, non senza poi, in una nuova consulta del 31 ottobre 1734, accennare, tra l'altro, alla gloria ridondante al giovane sovrano, qualora l'avesse condotta a termine. Ma quante volte dové salire le altrui scale per ottenere che il 27 luglio 1735 si radunasse presso il segretario di Stato Montealegre una particolare Giunta, composta dal Tanucci[217], da esso GALIANI e dagli alti magistrati Antonio Maggiocco da Bagnoli Irpino[218], Carlo di Mauro da Buccino[219] e Domenico Caravita da Napoli[220]! E come gli sanguinò il cuore quando il Montealegre, manifestata la volontà del re di assumere, sì, a suo carico il restauro del Palazzo degli Studi, ma d'altro canto di non accrescere d'un ducato la dotazione dell'Università, affermò, precisamente come due anni prima Pietro Giannone, che, per elevare i molti stipendi troppo bassi, non c'era da fare altro che diminuire corrispondentemente i pochi alti! Ancora una quindicina d'anni dopo, discorrendo col suo Giovanni Paolino-Origlia da Polla[221], che, per consiglio e con l'aiuto di lui preparava la - Storia dello Studio napoletano[222], che il nostro Celestino non fece in tempo a vedere pubblicata, deplorava i danni che quella tirchieria fiscale aveva prodotti agli studi  Con stipendi, che da un minimo di centoventi ducati[223], salivano appena a un massimo di trecento (1275), dove andava a finire la decorosa carriera che nel suo disegno, era pure assicurata a ciascun lettore, il quale, mercé una serie di concorsi, poteva, nell'ambito del propria facoltà, salire via via a stipendi massimi almeno tre volte superiori? E come impedire che i professori universitari, anziché meri cultori degli studi, fossero anche e sopra tutto o frati o medici o “paglietti”? Ma, d’altro canto, se il cappellano maggiore s’ostinava a non ingoiare quel rospo, che cosa sarebbe accaduto del resto della riforma? Obtorto collo, egli scrisse in codesti sensi una nuova consulta, che, firmata altresì dai suoi colleghi di Giunta e presentata al Montealegre il 9 ottobre 1735, fu approvata dal re con dispaccio del 4 novembre. Non tutte le proposte ivi contenute ebbero esecuzione immediata e, per esempio, bisognò attendere alcuni anni non solo per l’istituzione d’un orto botanico, ma anche per l'elevazione, nel palazzo degli studi, della nuova ala destinata alla biblioteca pubblica[224], per la concentrazione in questa dei tanti libri farnesiani portati da Parma da Carlo di Borbone e per la nomina del primo bibliotecario[225], che, su proposta appunto dell'allora lontano GALIANI, fu l'archeologo Matteo Egizio[226]. Pure, fin dal novembre del 1735, le cattedre reputate inutili erano abolite; quelle di nuova creazione, coperte, anche su proposta del GALIANI, dai migliori studiosi napoletani nelle singole materie[227]; e, ch'è più, i restauri del Palazzo degli Studi, diretti dall'ingegnere maggiore del Regno Giovanni Antonio Medrano e dati in appalto al solito Angelo Carasale[228], procederono con tanta rapidità che il 30 ottobre 1736 Carlo Borbone, ricevuto dal cappellano maggiore, circondato da tutti i professori col loro caparrotto, visitava il trasformato edificio, ove il 3 novembre successivo, innanzi ai cardinali Luigi Belluga y Moncada[229] e Domenico Riviera[230] e a una folla variopinta pigiata nel gran salone, il titolare di Storia della Chiesa Giovanni Ruggiero[231] leggeva il discorso inaugurale del nuovo anno scolastico. Bel giorno, quello, nella vita del nostro Celestino! Ma più bello l'altro, anticipato già dalla sua fantasia meridionale, in cui avesse potuto vedere attuata una nuova e più compiuta riforma; fornita dei mezzi necessari un'Accademia delle Scienze, che, fondata privatamente da lui nel 1732 nel palazzo Gravina sul modello dell'Accadèmie des Sciences di Parigi e trasferita poi nel convento dei Santi Severino e Sossio, si proponeva tra l'altro di raccogliere tutti gli elementi per una piena descrizione di animali, piante, minerali e fossili del Regno; e compiutamente rieducati alle nuove esigenze della cultura e al più rigido senso del dovere i professori posti sotto la sua sorveglianza. La morte non gli consentì di elaborare la nuova riforma, alla quale, del resto, non si giunse se non negli ultimi decenni del secolo; e, analogamente, le sue lunghe assenze da Napoli per le trattative del concordato del 1741 fecero languire (1737) e poi morire (1744) l'Accademia, pur fiorente e fruttuosa fintanto era restata sotto la direzione sua e dei suoi solerti collaboratori: Nicola Cirillo[232], Giocchino Poeta[233], Agnello Tirelli, Francesco Serao[234] per le materie mediche e anatomiche; Nicola[235] e Pietro[236] de Martino per le discipline matematiche e astronomiche; un Lamberti, Michelangelo Ruberto e Domenico Sanseverìno per le scienze naturali. Ma, per lo meno, il livello scientifico e morale dei professori fu, nei limiti delle possibilità, elevato. L'Università, fino allora quasi estranea a qualsiasi movimento di cultura, cominciò a parteciparvi direttamente. Se un lettore, per meglio perfezionarsi nella sua disciplina, aveva bisogno di uscire da Napoli, trovava nel Cappellano Maggiore, non un ostacolo, ma un aiuto, come mostra l'esempio de- ricordato Pietro de Martino, inviato dal GALIANI stesso a Bologna con le più calde raccomandazioni a Estacchio Manfredi perché il giovane astronomo napoletano potesse, in quella specola famosa, far tesoro dell'esperienza dell'insigne astronomo bolognese. Se a qualche altro accadeva di far progredire comechessia gli studi in qualsiasi ramo del sapere, il Cappellano Maggiore era lieto d'avvalersi delle sue tante amicizie nel mondo scientifico italiano per fargli acquistare notorietà e fama, come mostra a sua volta l'esempio di Francesco Serao, che nel GALIANI appunto trovò chi fece conoscere anche di là dal Tronto e dal Liri i suoi studi sulla tarantola di Puglia (1742). E, tramontati per sempre i tempi dell'anno scolastico ridotto a quattro mesi, s'insegnava con impegno tanto maggiore in quanto il Cappellano Maggiore, se era a Napoli, giungeva di sorpresa al Palazzo degli Studi per accertarsi di persona quali professori fossero maggiormente degni degli istituiti premi d'operosità, o, quando fosse lontano , manteneva continui contatti epistolari con la maggior parte dei lettori per tenersi al corrente della loro attività scolastica e scientifica. Senonché, quanto era rigido nel recinto dell'Università, altrettanto fuori il nostro Celestino amava ridiventare niente altro che studioso fra studiosi, amico tra amici e, quando occorresse, dicitore di motti arguti fra dicitori di motti arguti[237]. E ben presto la sua casa a Sant'Anna di Palazzo, a simiglianza di quella del cardinale di Polignac a Roma, divenne non solo per un ventennio il più importante salotto letterario napoletano, ma, sebbene egli riunisse in sé la triplice qualità di frate, arcivescovo e alto magistrato regio, quella altresì in cui si godesse maggiore libertà da parola. Dire partitamente di coloro che la frequentavano - giuristi, archeologi, eruditi, matematici, naturalisti, filosofi, economisti, e via discorrendo, - delle discussioni che vi si sostenevano e delle cose, sempre molto sensate e sovente nuove e profonde, che vi si dicevano in fatto di scienza politica ed economia sopra tutto per iniziativa di Bartolomeo Intieri e Alessandro Rinuccini, significherebbe innestare in questo modesto saggio una compiuta storia della cultura napoletana dal 1732 al 1753. Tuttavia tre figure molto diverse - un vecchio, un giovane e un irrequieto adolescente, - ma, pur nella loro diversità, tutte e tre assai care a ogni napoletano, meritano almeno una fugace rievocazione. Il vecchio era Giambattista Vico, che a monsignor Celestino, primo e solo a prendere cura della sua desolata vecchiezza, dové la nomina a istoriografo regio (1735), il raddoppiamento del gramo stipendio universitario (1736), la dispensa dall'onere, per lui impossibile, delle lezioni (1737), la sostituzione del figlio Gennaro (1715-1806) nella cattedra (1741), e, che per lui era più, tali attestati pubblici di affetto, stima e venerazione da diventare tra i suoi colleghi oggetto, non più di commiserazione e talora dileggio, anzi quasi d'invidia. Il giovane era a sua volta Antonio Genovese[238], che monsignore, come era chiamato a Napoli per antonomasia il cappellano maggiore, volle professore di Metafisica (1742), poi di Etica e Politica (1744) nell'Università, e a cui si mostrò benefico anche dopo la morte, giacché proprio per suo consiglio l'Intieri fornì (1754) all'Ateneo napoletano i fondi per quella famosa cattedra di Commercio, ch'ebbe nel Genovese il primo e più acclamato titolare. E nell'adolescente irrequieto non è difficile riconoscere il futuro abatino Ferdinando GALIANI[239], che nel 1735 il nostro Celestino aveva fatto venire da Montefusco a Napoli, così come nel 1732, passando per Trani, aveva tolto con sé il maggiore fratello di Ferdinando, Berardo[240], prodigando a quei due figliuoli di suo fratello Matteo i tesori del suo animo paterno e ponendo, nell'educarli, la stessa cura meticolosa che l'artista nell'attendere al suo capolavoro.

Ulteriori informazioni su Celestino GALIANI

"Le lettere in Napoli dovevano molto al Galiani".  "Gli studi erano barbari prima di lui". Se a Napoli si iniziò ad insegnare e studiare storia naturale, fisica sperimentale, astronomia, se la metafisica e l'etica insegnate nell'Università, "da vecchio gergo", divennero veramente filosofia, "tutto questo si doveva al Galiani".
Celestino fu un personaggio chiave per il rilancio della cultura scientifica e filosofica nel Regno di Napoli nella prima metà del Settecento. Occupò posti di rilievo, che gli offrirono la possibilità di riformare il sistema agendo dall'interno. Fu promotore della riforma dell?Università di Napoli, sostenitore di sodalizzi accademici, fautore di una cultura cattolica aperta al dialogo col moderno pensiero filosofico e scientifico.
Ancor giovane monaco, nel collegio romano cercava tra gli enormi e polverosi scaffali della ricca biblioteca conventuale opere non lette. Oltre ai libri di teologia, lo attraevano i trattati di matematica e filosofia naturale.  Passò in breve tempo dai semplici elementi di geometria euclidea alle complesse nozioni del calcolo infinitesimale. Lesse le opere di Galileo Galilei(1564-1642), di PierreGassendi (1592-1655), Isaac Barrow (1630-1677), Bernard Lamy (1645-1714),  Gli piacque moltissimo René Descartes (1596-1650) per quel modo di "spiegare la luce". "Gli parve che uscendo da un oscuro carcere avesse cominciato a godere della luce del sole".
Si accostò poi allo studio delle opere dell'astronomo inglese Isaac Newton (1643-1727). Studiò prima l'Optice (ottica) nell'edizione latina curata da Samuel Clarkw (1675-1729), com'è testimoniato da due dotte memorie manoscritte, la Animadvérsiones nonnullae circa l'Opticem Isaaci Neutoni (Alcune osservazioni sull' Ottica di Isaac  Newton), e le Differenze tra le scoperte di Newton e l'ipotesi cartesiana. Poi i Principia mathematica (1687), un'opera introvabile sul mercato editoriale ufficiale dell'epoca che riuscì a procurarsi solo sfruttando gli opportuni canali diplomatici della Santa Sede.
Una sua accurata analisi delle questioni cosmologiche affrontate dall'inglese è esposta nelle Osservazioni sopra il libro di Newton, intitolato Principia mathematica.
Del 1714 circa è un altro manoscritto in cui mostrava di avere pienamente compreso i temi fondamentali della polemica cosmologica contro Cartesio (nome italianizzato di Descartes). Nella Epistola de gravitate et cartesianis vorticibus (lettera sulla gravità e i vortici cartesiani), Galiani sosteneva la validità del sistema Newtoniano e confutava quello cartesiano basato sul plenum  e sul moto dei vortici (secondo il filosofo francese il vuoto in natura non esiste, tutto lo spazio è occupato da materia, infinitamente divisibile; il moto, poiché tutto pieno, provoca uno spostamento di materia e crea dei  vortici; la posizione dei pianeti e il loro movimento nel cosmo sono determinati dai vortici nei quali i pianeti "galleggiano"). Nel 1731 il sovrano Carlo d'Asburgo lo nomina arcivescovo di Taranto ed il 14 luglio, dopo  trent'anni del suo operosissimo soggiorno romano, lasciò la città papale.
Appena giunto a Napoli pensò subito di realizzare tre progetti. "Creare nell'allora ignorante Puglia" un centro di studi sublimi, trasformando il seminario arcivescovile di Taranto in una piccola ma ben regolata università, nella quale "amici d'ogni parte di Italia con i quali era in trattative "avrebbero insegnato" a tutte spese della ricca mensa arcivescovile" storia della chiesa, filosofia cartesiana, filosofia classica, scienze matematiche, fisiche e naturali. Istituire un grande ospizio con annessa scuola di arte e mestieri al fine di debellare una delle più funeste piaghe che affliggevano la Puglia: la povertà. Dirigere lo scavo del porto di Taranto e promuovere la bonifica delle paludi circostanti la città, fonti perenni di malaria.
Non era ancora giunto a destinazione, che gli pervenne per staffetta il decreto di nomina a cappellano maggiore del REGNO DI napoli. Il suo arcivescovato tarantino durò poco più delle vacanze natalizie: dal 12 dicembre al 22 gennaio.
Quale gioia per il Galiani essere nominato cappellano maggiore: "aveva sempre aspirato" a quel posto. Dall' alto di questa carica avrebbe potuto"coordinare in prima persona le sorti della cultura napoletana mediante la direzione del Pubblico Studio ed il diretto controllo sulle scuole private".
Giunto a Napoli, strutturò un piano di riforma degli studi che prevedeva: l'stituzione di nuovi insegnamenti, come Botanica, Chimica, Fisica sperimentale, Astronomia, per favorire lo sviluppo di nuovi settori di ricerca; la chiusura di quelle cattedre che non avevano più motivo d' essere; l'aumento degli stipendi ai docenti; maggiore controllo sul conferimento delle lauree, "largite senza garanzie sufficienti".Il cambio di regime fermò la sua riforma. Riconfermato dal successivo governo, Celestino Galiani ripresentò lievemente modificato il piano al nuovo re, Carlo di Borbone. Le proposte contenute nel programma galianeo furono approvate, ma in realtà trovarono applicazione parziale: vennero aabolite le cattedre ritenute inutili e affidate ai "migliori ingegni" quelle di nuova istituzione, ma non furono istituite tutte quelle strutture a supporto della didattica, come laboratori, osservatori, gabinetti.
Instancabile studioso, animatore di dibattiti filosofico-scientifici, affabile comunicatore, amico e corrispondente dei maggiori personaggi di cultura e di politica del tempo, Celestino decise di non rendere pubbliche le sue idee per mezzo di opere a stampa. Le sue opinioni furono "rivelate" a pochi fidatissimi amici e non furono mai "esposte al volgo" per evitare la "censura di gente sì vulgare". Galiani scrisse delle opere, ma esse circolarono in "redazioni manoscritte anonime" con prudenza e solo tra gli esperti. Egli "evitò accuratamente che i suoi scritti avessero un'incontrollata diffusone a stampa". In questo modo si garantì una "notevole libertà di movimento" ed evitò ogni contrasto con l'inquisizione.
Celestino rilanciò la cultura scientifica nella capitale del regno. Negli stessi anni in cui si riorganizzava il piano di studi universitari, fondò con alcuni amici l'Accademia delle Scienze a Napoli. Non dimenticò la sua "amatissima" Puglia.
Appoggiò e sostenne l'apertura dell'Accademia degli Illuminati di Foggia nel 1733.
Contribuì in prima persons all'istituzione dell'Università degli Studi di Altamura nel 1747.
Grazie alla diplomatica e tenace condotta di Galiani, il Regno di Napoli vinse la sua prima lotta con la Santa Sede nel 1741 nel concordato siglato tra Roma e Napoli.

I COMPITI DEL CAPPELLANO MAGGIORE:

"Le attribuzioni accentrate durante quattro o cinque secoli nelle mani del cappellano maggiore del Regno di Napoli erano di venute nel settecento così numerose, delicate e importanti da rendere quell'ufficio quasi complicato d'un odierno ministero.
Prima d'ogni altro, il cappellano maggiore era non solo il grande elemosiniere del re ( o , in mancanza del viceré) e, in quanto tale, capo della cappella palatina, ma a lui era deferita altresì la suprema giurisdizione ecclesiastica sulle cappelle regie, sui castelli, sulle fortezze, sulle galere, sulle milizie di terra e di mare, su quanti insomma, in modo o nell'altro, si trovassero al servizio diretto del re. Né a questa così ampia autorità spirituale era inferiore quella temporale.
Vero e proprio magistrato giudicante, egli assistito da un consultore o assessore laico, da un segretario e da un mastrodatti o cancelliere conosceva in nome del re, e quindi quale giudice laico, di parecchie e mai ben determinate categorie di controversie relative a ecclesiastici ( donde continui conflitti di competenza col foro ecclesiastico ai quali s'era già accennato); giudicava delle cause riferentisi ai diritti, privilegi e rendite delle chiese e delle cappelle regie e alla reddizione dei conti dei regi economi; e finalmente sentenziava su qualsiasi competizione giudiziaria, civile e penale, dei chierici e cappellani regi.
A lui spettava , da un lato riferire d'ufficio, insieme al suo consultore , sulla concessione del regio exequatur alle bolle, brevi, motupropri  e qualunque provvisione venisse da Roma e su quella del regio assenso alle regole delle congregazioni laicali; e dall'altro, di dare pareri o consulte su affari politici e amministrativi della più varia indole, e particolarmente meriti o demeriti dei promovendi ai vescovadi o ad altri benefici di collazione regia.
E finalmente il cappellano maggiore era anche prefetto dei Regi Studi: ragion per cui gli erano devolute la suprema autorità amministrativa, disciplinare, e in tarda epoca, anche giudiziaria sui professori e studenti dell'Università di Napoli; la presidenza di tutte le commissioni di concorsi e cattedre universitarie; la nomina dei sostituti a quelle temporaneamente vacanti; l'iniziativa di qualunque riforma organica; e per ultimo, dal 1735, la censura preventiva della stampa.
(F. Nicolini, Monsignor Celestino Galiani, "Archivio Storico per le Province Napoletane", XIII (1931), pp. 248-358, segnatamente pp. 292-93.

[1] Riportato nella pubblicazione Cronache Ercolanesi di Mario Pagano “Il Teatro di Ercolano" 1993.
[2] Professava massime giansenistiche e decisamente anticurialistiche: tanto che, per mene gesuitiche, il suo amicissimo Benedetto XIV, pur avendolo
nominato cardinale in pectore, non s’indusse mai a render pubblica la nomina. Fu il primo ad insegnare filosofia cartesiana nella scolastica Roma. Fu grande sostenitore del calcolo integrale  e infinitesimale.Gli fu data la cattedra di matematica nella Sapienza di Roma già di Domenico Quarteroni. Fu socio corrispondente dal 1735 PARS MAGNA della Società Reale di Londra, quando già da tre anni era Cappellano Maggiore del regno di Napoli.

[3] Virtù indispensabile per dominare gli altri.
[4] Donde i suoi lunghi studi filosofici.
[5] Donde la sua provetta competenza nella storia della chiesa e nella filologia latina, greca ed ebraica.
[6] Anch'essa, per altro, frenata nei giusti limiti, e aborrente da quegli eccessi ostentati che la convertono in un'ipocrita e odiosa forma di vanità.
[7] Che, fatte le debite proporzioni dell'ingegno, somiglia tanto, per semplicità d'animo, vocazione ed attidudini, a monsignor Celestino.
[8] Donde il suo ricco carteggìo scientifico
[9] ? - 1735 c. (Montefusco).
[10] Un libro studiato circa quel tempo a Napoli dall'adolescente Giambattista Vico.
[11].Altro filosofo studiato allora a Ischitella dall'adolescente Pietro Giannone)
[12] 25 Decembre 1698.
[13] 1674-1716.
[14] 20 giugno 1701
[15] 1538-1612.
[16] Qualcosa di simile era accaduto una quindicina d’anni prima all’altro autodidatta Vico, quando, ancora nuovo agli studi filosofici, s’era messo a leggere di colpo le Summulae logicales di Paolo Nicoletti da Udine.
[17] 1630-77.
[18] E l’espressione non è metaforica.
[19] 1645-1715.
[20] Fu pubblicato soltanto nel 1707.
[21] 1681-1761.
[22] 1675-1754.
[24] Maggio 1703
[25] Il più basso della scala.
[26] 1664-1718.
[27] 1662-1729.
[28] 1666-1736.
[29] 1649-1737.
[30] 1644-1720.
[31] 1660-1740.
[32] 1677-1752.
[33] 1678c.-1738.
[34] 1633-1711.
[35] 1681-1761.
[36] ?-1731
[37] O casi di coscienza.
[38] don Celestino Deletto, don Alessandro Brocco e, più intelligente di tutti, don Carlo Cessi da Manfredonia, poi lettore a Santo Stefano di Bologna.
[39] l'Art de penser dell'Arnaud, il Monde mathématique dello Chaly, la Physique del Rohault, e via discorrendo.
[40] 1594-1675.
[41] 1614-68.
[42] 1657-1736.
[43] Poi nunzio in Polonia.
[44] Lettore di teologia polemica in Propaganda Fide.
[45] Poi abate di San Pietro a Maiella a Napoli.
[46] 1677-1750.
[47] 1655-1738.
[48] 1674-1745.
[49] 1644-1718.
[50] 1650-1725
[51] L'oratoriano, poi monsignore Gaspare Cerati da Pisa; il napoletano Bernardo Lama; l'abate, poi arcivescovo di Benevento e cardinale, Francesco Landi da Piacenza; l'abate fiorentino Antonio Nicolini e altri.
[52] Per esempio Guglielmo Burnet, che, figlio del celebre storico e arcivescovo protestante di Salisbury Gilberto e discepolo entusiastico del Newton, comunicò al GALIANI la sua passione pel matematico inglese.
[53] 1676-1743.
[54] 1710-13.
[55] 1649-1719.
[56] 1653-1711.
[57] 1632-1712.
[58] 1654-1721.
[59] 1651-1727.
[60] ?-1726.
[61] 1660-1730.
[62] ch'è quanto dire senza giudizio.
[63] ?-1793.
[64] 1650-1715.
[65] Lettera non data alle stampe, ma diffusa in parecchie copie manoscritte.
[66] 1661-1742.
[67] 1674-1739.
[68] 1662-1738.
[69] 1670-1752.
[70] 24 settembre-22 novembre 1716.
[71] Mentre molto se ne sarebbero giovati i bolognesi, che per tal modo si sarebbero liberati da periodiche inondazioni.
[72] Ribattuto poi, anche a stampa, dal Manfredi.
[73] 1677-1749.
[74] 1688-1730.
[75] 1688-1742.
[76] E col GALIANI, non si poteva non fare sul serio.
[77] 1646-1719.
[78] 1719-1720.
[79] Nicola Capasso, Matteo Egizio, Nicola Cirillo e, per un momento, anche Giambattista Vico.
[80] Poi, rottosi col Savoiardo, alto magistrato, sotto Carlo VI, a Milano.
[81] E le premure del de Aguirre, del Lama e dello stesso conte De Gubernatis non riuscirono a fargli mutare parere.
[82] 1664-1720.
[83] Giacché in quei tempi, per un professore universitario, quattrocento scudi, più quasi altrettanti fra aiuto di costa e altri diritti, erano un magnifico stipendio.
[84] Santo Ufficio, Indice, Sacri Riti e Indulgenze.
[85] 1651-1729.
[86] Cinquanta scudi l'anno, saliti poi a novanta.
[87] Il futuro Benedetto XIV.
[88] 25 aprile 1718.
[89] Gli concedevano, anche durante il periodo di supplenza, tutte le preminenze spettanti al titolare, e quindi anche il diritto di prendere posto subito dopo il lettore di Sacra Bibbia.
[90] 19 maggio 1719.
[91] Donde il nome primitivo di lotteria di Genova.
[92] 1681-1730.
[93] Presso la Società Napoletana di Storia Patria in Napoli c/o Maschio Angioino.
[94] Il futuro Papa Benedetto XIV.
[95] 14 ottobre 1719.
[96] Ed egli investì quasi tutto quel gruzzoletto in libri.
[97] 1648-1736.
[98] Fratello del ricordato padre Giambattista.
[99] 1676-1755.
[100] 1662-1745.
[101] 1685-1746.
[102] 1693 1775.
[103] 1661-1730.
[104] 1651-1721.
[105] 1686-1687.
[106] 1653-1729.
[107] 1661-1733.
[108] E in particolar modo, pare, di don Guido Grandi.
[109] Ove finì con lo stabilirsi.
[110] Preparata dallo stesso GALIANI.
[111] 7 marzo 1724.
[112] 29 maggio 1724.
[113] 1649-1730.
[114] 1682-1755.
[115] Pietradefusi.
[116] 4.250.000 lire-oro di quei tempi.
[117] Carica confermatagli nel 1725 per il secondo triennio, insieme con l'altra di abate del convento romano dell'Orso.
[118] 1707-1765.
[119] 1690-1756.
[120] 1683-1764.
[121] 1694-1763.
[122] 1697-1773.
[123] Non senza quando, a scopo d'istruzione, viaggiassero in lungo e in largo l'Europa, mantenersi in continuo contatto epistolare con essi e col loro precettore abate Marcy.
[124] 1690-1754.
[125] Servendosi , per lo più, della casa ginevrina Bousquet e compagni e del libraio-editore olandese Tommaso Johnson.
[126] 1657-1739.
[127] E poco mancò non fosse papa invece di Benedetto XIII.
[128] 1661-1742.
[129] Ricordare il suo Antilucrèce.
[130] Quella dissertazione che, pel veto della Spagna gli precluse il papato.
[131] 1657-1719.
[132] Filippo e Pietro Paolo.
[133] 1669-1743.
[134] 9 decembre 1726.
[135] Come si chiarnava allora l'antico Consiglio d'Italia della monarchia spagnola.
[136] Come afferma il Giannone, che aveva fornito loro tutti gli elementi.
[137] Secondo asserisce il GALIANI.
[138] 1658-1743.
[139] Maggio 1728.
[140] 1665-1737.
[141] 1660-1730.
[142] E pare che qualche consiglio gli avesse dato il GALIANI, con cui s’era visto segretamente presso Roma nel viaggio da Vienna a Napoli.
[143] ?-1729.
[144] Uno dei quali lo fulminò poco dipoi.
[145] Manifestata altresì in una sua lettera confidenziale al cardinal Zondadari.
[146] Gli avvocati sono sempre avvocati.
[147] 7 maggio 1729.
[148] Che non si seppe mai se e come rispondesse.
[149] Quanto era stato antiveggente a farselo dare anche da quest'ultimo!.
[150] Maggio 1729.
[151] Novembre 1729-febbraio 1730.
[152] Parole d'una lettera d'invito.
[153] Il futuro Papa Benedetto XIV.
[154] 1689-1775.
[155] 1686-1758.
[156] 1677-1757.
[157] 1698-1783.
[158] 28 febbraio 1730.
[159] 1692-1779.
[160] 1682-1751.
[161] 1656-1737.
[162] Cose tutte che dettero luogo a parecchie pasquinate, in cui ricorse anche il nome del nostro Celestino.
[163] 1652-1740.
[164] 12 luglio 1730.
[165] 1685-1770.
[166] ?-1752.
[167] 16 febbraio 1730.
[168] ?-1737.
[169] 1676-1748.
[170] ?-1752.
[171] Il continuatore degli Annales del Wadding.
[172] 1692-1761.
[173] L'abate Beda Fusari.
[174] 24 giugno 1731.
[175] O, in mancanza, del Viceré.
[176] Donde quei continui conflitti di competenza col foro ecclesiastico ai quali s'è già accennato.
[177] Quando occorresse.
[178] Ch'è quanto dire i ricordati Lapegna e Montuosi.
[179] Come a sue spese ebbe a sperimentare il GALIANI per quella che gli conferiva l'arcivescovato di Taranto.
[180] Carlo GALIANO parente di Celestino, divenne un personaggio storico, e fu tra le cause occasionali della congiura del principe di Macchia. Nel 1691, per un motivo che ci sfugge, egli e il suo concittadino Biagio Viesti ebbero la sventura d'incorrere nell'odio mortale del feudatario di Montoro, don Giambattista di Capua, principe della Riccia, uno dei tanti don Rodrighi che allora infestavano il mezzogiorno d'Italia. Spaventati dalle sue continue minacce, ricorsero al viceré, il quale ebbe, si, l'energia di far rinchiudere il loro persecutore in Castel San'Elmo, ma guastò poi tutto col farlo uscire poco dopo, sulla sua parola d'onore che non avrebbe negata alcuna molestia a quegli sventurati. E, per quanto costoro, che molto meglio conoscevan l'uomo, non si fidassero e procurassero di nascondersi a Napoli, la precauzione, almeno pel GALIANO, non servì a nulla. Una notte, infatti, mentre era immerso nel sonno, un bravo del principe gli penetrò in casa e, in men che non si dica, lo freddò con un'archibugiata. Inutile quasi aggiungere che le furie del viceré, l'ordine severissimo dato dalla Gran Corte della Vicaria d'istruire subito il processo, l'invio ad Altavilla del giudice Alarcon con gran treno di birri per l'arresto dello scellerato mandante, non cavaron un ragno dal buco. Il principe, infatti, ebbe tutto l'agio di rifugiarsi a Napoli nel monastero dei Crociferi a Porta San Gennaro, ove, in barba a Vicerè, giudici e birri, si diè spavaldamente a ricevere visite di amici e congiunti, accorsi a frotte a congratularsi con lui della prodezza commessa e a dir parole di fuoco contro un governo oppressore, che pretendeva d'intromettersi nelle faccende private di un feudatorio con un suo vassallo. E quella volta le chiacchiere non furon portate via dal vento, perché da esse appunto Tiberio Carafa, che era stato tra i visitatori, fu indotto poi a rimuginare tra sé e sé il disegno di quella congiura, della quale, nel 1701, egli fu l'anima e a cui era serbata fine così miseranda (Angelo Granito di Belmonte, Storia della congiura del principe di Macchia ,Napoli, 1861, pp.31 sg. Cfr. anche Colombo, p. 57).
[181] Oggi sede del Museo Nazionale.
[182] Sede odierna della Corte di assise.
[183] E quindi talora a mezzo marzo.
[184] Sola parte della storia medievale e moderna che allora s'insegnasse nelle Università.
[185] 4775 lire -oro di dugento anni fa.
[186] Meno di venti lire-oro al mese.
[187] 2550 lire-oro.
[188] ?-1739.
[189] Senza parlare del resto.
[190] E l'imperatore e lo stesso Consiglio di Spagna, questa volta, non poterono non essere d'accordo con lui.
[191] Giacché qualcosa gliene avevano scritto i figli del D'Harrach e lo stesso viceré, mentr’egli si congedava, gli aveva detto: Ella vuol lasciarci: ma chissà?.
[192] Dacché l'uomo è pur composto di anima e corpo.
[193] E rese infatti al suo successore.
[194] 12.750 lire-oro.
[195] 28 gennaio 1732.
[196] Non senza un battibecco epistolare col cardinal Cienfuegos.
[197] Poco più di due lire-oro.
[198] Proprio a lui!.
[199] 1651-1734.
[200] 1672-1756.
[201] 29.750 lire-oro.
[202] Da inaugurare non più il 18 ottobre ma il 3 novembre.
[203] Come non fu mai.
[204] Di cui il Garelli era medico e bibliotecario.
[205] 1671-1735.
[206] 23 aprile 1733.
[207] Il Giannone non era pratico di cose scolastiche e così poco abile all'insegnamento che egli stesso, due anni dopo, giustificò con questo motivo il suo rifiuto d'una cattedra giuridica offertagli nell’Università di Padova.
ì[208] ?-1743.
[209] Ottobre 1733.
[210] Febbraio-marzo 1734.
[211] Più di ventimila ducati.
[212] Forse perché aspirava alla successione.
[213] 10 maggio.
[214] 15 maggio.
[215] Anche sull'indice numerico da aggiungere al nome del nuovo re, che, dopo innumeri discussioni, finì col non assumerne alcuno.
[216] 3 gennaio 1735.
[217] Che assisté a tutte le sedute, facendosi sempre l'alleato dei GALIANI.
[218] 1673-1747.
[219] ?-1762.
[220] 1670-1770.
[221] 1718-?.
[222] 1753-4.
[223] 510 lire-oro.
[224] Prirno nucleo della Biblioteca Borbonica, poi Nazionale, trasferita ora a PalazzoReale.
[225] 1739.
[226] 1674-1745.
[227] Ferdinando d'Ambrosio pel Diritto Municipale, Agnello Tirelli per l'Anatomia, Francesco Porzio per la Botanica e Chimica, Giuseppe Orlando per la Fisica Sperimentale, Pietro de Martino per l'Astronomia, Giovanni Ruggiero per la Storia della Chiesa, Gennaro Sisto per l'Ebraico.
[228] ?-1742.
[229] 1662-1743.
[230] L’antico amico del GALIANI.
[231] 1698-1757.
[232] Di cui nessuno più di lui pianse nel 1735 la morte immatura e che, alla testa di tutti i professori universitari, volle accompagnare all'ultima dimora.
[233] ?-1754.
[234] 1702-1783.
[235] (1701-1769)
[236] 1707-1746.
[237] Tra i quali era ancora vivo ed implacabile il terribile Nicola Papasso.
[238] 1712-69.
[239] 1728-87.
[240] 1724-74.

1 commento:

  1. Best casinos in New Jersey - Mapyro
    Find the best 익산 출장샵 casinos in New Jersey with Mapyro - New Jersey's top 10 casinos, 전라북도 출장샵 제주도 출장샵 Borgata Hotel Casino & Spa (Atlantic 경산 출장안마 City). 과천 출장샵

    RispondiElimina